Testo e foto di Paolo Moiola
Dagli Ashaninka alla metropoli di Manaus, finora il percorso di dom Sérgio Eduardo Castriani si è svolto tutto all’interno dell’Amazzonia. Un mondo affascinante al quale oggi l’arcivescovo guarda con crescente preoccupazione. Disboscamenti, incendi, offensiva contro i diritti dei popoli indigeni. Tutte le problematiche da tempo esistenti si sono aggravate dopo l’avvento di Bolsonaro alla presidenza del Brasile.
Manaus. Dom Sérgio Eduardo Castriani, oggi arcivescovo di Manaus, conosce bene l’Amazzonia. «Sono quarant’anni che vi abito», ricorda con orgoglio. Iniziò nel 1979 a Feijó, in Acre, stato brasiliano confinante con Perù e Bolivia, dove lavorò a lungo con gli Ashaninka (Kampas). Un periodo ricordato con nostalgia. Tanto che, durante il nostro incontro, dom Sérgio – classe 1954 – si alza per andare nel suo studio a prendere una vecchia foto in bianco e nero: «Eccomi vestito da indigeno», dice indicandomi un giovane ritratto con una tipica tunica ashaninka.
Dall’Acre egli fu destinato al Nord, municipio di Tefé, stato di Amazonas dove ebbe la possibilità di conoscere molte altre etnie: Mayorunas (Matsés), Miranhas, Cocamas, Kambebas, Kanamaris, Kulina, Katukinas, Tikuna. Nominato vescovo, rimase a Tefé fino al 2012 quando divenne arcivescovo.
La metropoli amazzonica oggi conta oltre due milioni di abitanti ed è in continua e rapida espansione. «Ma – precisa dom Sérgio – risulta sempre più invivibile. Perché la qualità della vita in certi quartieri è di volta in volta peggiore. La questione della sicurezza di fronte al dominio delle bande rende la vita difficile alle persone comuni. Per parte loro, i ricchi sono sempre più chiusi in strutture abitative (condominios fechados) per accedere alle quali si possono incontrare più difficoltà che per entrare in un paese straniero».
Su Bolsonaro e il suo governo
Monsignor Castriani, dopo i primi mesi di governo Bolsonaro, lei è più pessimista o più ottimista?
«Sono più realista, perché si sta confermando lo scenario peggiore. Il Brasile sta cambiando in peggio, ma nulla che non sia stato detto durante la campagna elettorale».
Come mai i brasiliani hanno premiato un personaggio pericoloso come Jair Bolsonaro?
«Con l’elezione di Bolsonaro il popolo brasiliano ha dato una risposta alla crisi economica, etica e morale del paese. Bolsonaro significa quello che è nuovo, anche se è sbagliato. La gente è stanca dei politici. Il Partito dei lavoratori (Partido dos trabalhadores, Pt) ha avuto le sue opportunità per fare qualcosa di diverso. Personalmente ho partecipato alle due elezioni di Lula. Allora c’era molta speranza. Però hanno fatto tutto quello che facevano gli altri, a cominciare dalla corruzione. Con il Pt le banche hanno guadagnato molto denaro. In tanti hanno detto di no. Poi, al secondo turno dello scorso ottobre, molti hanno comunque votato Pt perché non volevano Bolsonaro ma non perché volessero il Pt. Io ho votato Pt perché non potevo votare un tipo come Bolsonaro. Disgustoso. Parla con il linguaggio che si sente dai barbieri. Detto questo, bisogna anche ammettere che molta gente buona lo ha votato. Il mio medico per esempio ha votato per lui. Eppure è un uomo intelligente. Il suo argomento era la ricerca del nuovo, il fatto di non volere più il Pt al potere».
Rimanendo in tema di elezioni, le chiese neopentecostali si sono schierate per il nuovo presidente.
«Già quattro anni fa Bolsonaro ha cominciato la sua campagna con le chiese pentecostali. Si tratta di chiese che hanno molti seguaci fedelissimi che obbediscono al pastore. E che portano avanti questo discorso moralista contro le persone Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transgender, ndr) e omofobico. Bolsonaro si diceva cattolico, ma è stato battezzato nel Giordano dai neopentecostali (nel maggio 2016 in Israele dal pastore – oltre che politico e imprenditore – Dias Pereira detto Everaldo della chiesa Assembleia de Deus, ndr). In ogni caso, lui fa il gioco dei pentecostali, come d’altra parte lo fece Dilma. All’inaugurazione del suo secondo mandato invitò Macedo davanti al quale s’inchinò, mentre il nunzio apostolico (della Santa Sede) rimase in secondo piano».
C’è una spiegazione a questa scelta di campo delle chiese evangeliche?
«Il potere. E poi esse dispongono di uno strumento in più. Tutto il mondo vuole salute e denaro. Sempre più denaro. Le chiese evangeliche danno un supporto teologico attraverso la “teologia della prosperità”. Con essa si può giustificare tutto, anche ruberie e corruzione, perché la ricchezza è considerata una benedizione di Dio. Se i loro uomini andranno al potere, per il Brasile questo sarà un pericolo molto grave. Non dimentichiamo che il presidente ha la possibilità di nominare moltissime persone in posti di responsabilità».
Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) e la Commissione pastorale della terra (Cpt) sono due organismi della Chiesa cattolica brasiliana che fanno un lavoro straordinario. Adesso avranno più problemi?
«Senza alcun dubbio: il primo per il discorso delle terre indigene, il secondo per la questione della proprietà privata. D’altra parte, problemi ne avevano avuti anche con Dilma. Ricordo che un uomo pacifico come dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, subì una persecuzione giudiziaria nel Mato Grosso do Sul.
In ogni caso, Bolsonaro si è presentato dicendo che il Cimi e la Cnbb (la Commissione dei vescovi brasiliani, ndr) sono “la parte marcia della Chiesa cattolica”. Il problema è che, in questo momento storico, non abbiamo soltanto un presidente siffatto, ma anche un apparato giudiziale conservatore e un congreo conservatore dominato dallo schieramento Bbb».
Già, Bbb: Biblia, boi, bala («Bibbia, vacche, pallottole»). D’altra parte, anche lo slogan elettorale di Bolsonaro è stato Brasil acima de tudo, Deus acima de todos («il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti»). Non le pare un uso improprio della religione?
«Sì, è stato un utilizzo strumentale della fede per affermare che Dio sta con lui, con il presidente eletto. Dio gli ha dato il mandato. Un discorso neopentecostale. Pericolosissimo perché così si può giustificare tutto».
I governi del Pt
Torniamo a parlare di ambiente. L’Amazzonia come può essere salvata?
«La situazione dell’Amazzonia è urgente. Negli ultimi 40 anni ho visto cambiare tutto: dalla foresta al clima alle città. Tuttavia, il Brasile ha una buona legislazione ambientale. Se fosse applicata, ci sarebbero pochi problemi. Purtroppo, anche sotto il Pt – in particolare durante il secondo mandato di Dilma – è andata male perché ha distrutto l’Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis) e gli altri organi di controllo».
Monsignore, lei ha votato per Haddad, ma mi pare sia molto critico verso il Pt.
«Sì, è vero ho scelto Haddad, ma sono molto severo verso il Pt. Se lei va a leggere gli editoriali degli ultimi anni della rivista Porantin, edita dal Cimi, sono tutti critici verso quei governi. Ricordo che la Cnbb non è mai stata consultata o ricevuta da Dilma».
Durante i governi del Partito dei lavoratori è stato fatto qualcosa per l’Amazzonia e i suoi abitanti?
«Quando iniziò, io vidi che all’interno dell’Amazzonia per la prima volta ci furono famiglie che ebbero dei soldi. Fu una liberazione. Anche se si dice che il denaro è lo sterco del diavolo, tuttavia senza soldi non può esserci libertà. La bolsa familia è stata uno strumento importantissimo come lo è stata l’arrivo dell’elettricità. Queste sono state conquiste del governo di Lula nei suoi primi anni. Però dopo le cose sono cambiate perché è entrata la corruzione e, con il potere, il partito è diventato elitista. Il mio ideale è stato il Pt dei primi tempi».
Il Pt di Lula, dunque. Però ora lui è in prigione, condannato a una lunga pena detentiva. Se lo aspettava?
«Non me lo aspettavo. Un presidente deve essere giudicato dalla storia. Per il paese Lula ha fatto cose buone. Le accuse nei suoi confronti erano troppo poco per condannarlo. Io credo che lui non abbia fatto nulla di male. Il problema è il sistema che vige nel Brasile. Tutti i partiti fanno lo stesso e il Pt non è stato diverso».
«Sono diversi. Per fortuna»
Lasciando da parte il governo presente e quelli del passato, come descriverebbe la situazione dei popoli indigeni?
«Nel 1979, quando arrivai in Acre, un ministro dell’Interno disse che gli indigeni sarebbero spariti in 10 anni. Invece sono la popolazione che più è cresciuta nel paese. Io penso che i popoli indigeni siano i poveri più organizzati del Brasile e che, al tempo stesso, siano i più perseguitati proprio perché organizzati».
Monsignore, ha senso parlare d’integrazione?
«La cultura indigena è completamente diversa. Io ho conosciuto molti indigeni sia nell’entroterra che in città. Di solito, a un certo punto delle nostre conversazioni, io debbo ricordare loro: “Io non sono indio. Non lo sono”. Questo per spiegare che non arrivo a capire tutto ciò che mi dicono. Attenzione però, questa è una ricchezza per il Brasile: sarebbe terribile perdere questa diversità. Per fortuna, i popoli indigeni hanno una grande resistenza».
A proposito di cultura, risponde al vero che gli indigeni sono più rispettosi verso l’ambiente?
«Sì, in generale. E questo vale anche per ribeirinhos (comunità che vivono in prossimità dei fiumi, ndr) e caboclos (meticci nati dall’unione di un indio con un bianco, ndr). Ma tutto dipende da quanto sono entrati in contatto con noi bianchi».
Lei è passato da due piccole città – Feijó e Tefé – a una metropoli come Manaus. Qui come vivono i cosiddetti «indigeni urbani»?
«Con tutti i problemi di chi vive nelle periferie. In più essi non sono considerati indiani dal governo, ma c’è una grande resistenza culturale con un buon numero di organizzazioni indigene. Il pregiudizio è ancora grande tra la popolazione bianca. A volte, inoltre, anche coloro che discendono da indigeni tendono a non accettare le loro origini».
Bolsonaro e il Sinodo
È cosa nota che il governo Bolsonaro guardi con sospetto e timore al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Lei come se lo spiega?
«Il Sinodo è esattamente l’opposto di tutto quello che il governo Bolsonaro e i suoi pensano: partecipazione popolare, valorizzazione dei popoli originari, preservazione dell’ambiente. Si tratta di concetti la cui comprensione negli uni e negli altri è diametralmente contraria. Come la lettura che essi fanno dal momento della loro conquista del potere: la Chiesa cattolica sta cercando di riconquistare il potere perduto in favore delle chiese pentecostali e del mondo laico».
Nonostante tutte le difficoltà, lei pensa che il Sinodo sarà un successo?
«È già un successo nella misura in cui è iniziato un processo di riflessione che certamente avrà anche delle conseguenze pratiche».
Paolo Moiola
Riflessioni sull’etnoturismo
Un selfie con gli indigeni?
Due città amazzoniche importanti: Manaus in Brasile e Iquitos in Perù. Due comunità indigene – i Bora (originari della regione del Rio Putumayo) a Iquitos, i Desana (della regione del Rio Uaupés) a Manaus – che, indossando vestiti tradizionali e con i volti dipinti, accolgono nella maloca gruppi di turisti davanti ai quali si esibiscono in danze e canti.
I turisti si mostrano entusiasti dello spettacolo offerto, scatenati con le loro macchine fotografiche, le telecamere e soprattutto con gli immancabili smartphone.
Difficile dire se, per questi indigeni, sia giusto o sbagliato mostrarsi così. Difficile dire se sia una scelta volontaria o soltanto dettata da questioni di sopravvivenza. Difficile capire se, dopo queste visite, i turisti avranno una conoscenza più approfondita del mondo indigeno e una maggiore empatia con esso oppure soltanto una foto o un selfie da mettere su Facebook, Instagram o su altri social network. Alcune ricerche suggeriscono che scattare selfie faccia bene allo spirito di chi li fa. Sarebbe bello che facesse bene anche all’esistenza di chi – volente o nolente – li subisce.
Paolo Moiola