Cari missionari, lettere a MC


Messaggi alienanti?

Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.

Emiliano Errico
20/03/2019

Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.

I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.

Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.

Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.

Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.

Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.

Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.

Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.


Qualche riflessione

Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.

Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.

Migrazioni, Viaggio della speranza.

Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.

Come sempre, «avevano visto giusto».

© Mario Betrami

«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.

Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.

È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.

Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.

È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.

Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.

Mario Beltrami
19/03/2019


Populismo?

Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.

Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.

Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.

Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.

Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto

Carraro Francesco
08/03/2019

Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.

    • Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
    • Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
    • Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
    • Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
    • È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.

Non solo perdenti

Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.

Pino Cadiani
28/03/2019


Mozambico: Ricardo

Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.

Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».

Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.

Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso  in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.

Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.

Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.

Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.

In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua  e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.

Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete