Testo di Angelo Fracchia
Gli Atti degli Apostoli si presentano, apparentemente, come una cronaca dei primi tempi di vita della comunità cristiana. Non appena li si legga in modo non ingenuo, però, ci accorgiamo che non si tratta di una vera e completa cronaca: Luca trascura moltissimi aspetti e luoghi geografici abitati dal primo cristianesimo. Per non fare che un esempio, dagli Atti non veniamo a sapere nulla sulla comunità cristiana dell’Egitto, paese vicinissimo alla Palestina che contava una forte presenza di ebrei (dalle cui fila provengono i primi cristiani, come è ovvio) e dove già all’inizio del II secolo sappiamo esistere una comunità cristiana molto numerosa e ben organizzata, che quindi evidentemente doveva essere nata decenni prima. Sembra facile spiegare che Luca abbia deciso di trascurarla perché, chiaramente, non sarebbe stato possibile raccontare tutto. L’autore seleziona ciò che ritiene utile per comprendere quello che per la prima generazione era stato importante. Non è, quindi, una cronaca, né un saggio su come dovesse essere la chiesa, ma qualcosa di intermedio, un racconto fondato su elementi storici con un forte taglio teologico.
Anche per questo, di tanto in tanto, Luca sembra fermarsi e contemplare dall’alto ciò che accade, quasi a fare il punto della situazione, come un riassunto che aiuti a capire meglio dove si sta andando. Da molto tempo i biblisti definiscono «sommari» queste soste contemplative. In essi, più ancora che altrove, l’autore ci mostra con trasparenza ciò che, a suo parere, doveva essere la chiesa ideale di Cristo.
Il grande sommario: la comunità (At 2,42-47)
Il primo di questi sommari è anche, probabilmente, il più importante. Qui Luca, che sa narrare bene, si ferma a contemplare dall’alto la Chiesa dilungandosi e strutturando il proprio racconto. Siccome è la prima volta che fa qualcosa del genere, vuole indicare in modo chiaro al lettore che si trova davanti a qualcosa di diverso da un semplice racconto cronologico. Quando in seguito inserirà altri sguardi dall’alto, sarà molto più facile per il lettore intuirne subito la natura e allora l’autore potrà procedere più spedito.
In questo primo sommario notiamo anche una costruzione più accurata rispetto ai due successivi. Molto spesso noi, quando guardiamo un film o ascoltiamo un brano musicale, magari senza essere degli specialisti di quel genere, cogliamo comunque che cosa è importante, capiamo anche su che cosa l’autore vuole suggerirci di fare più attenzione, ma magari non afferriamo bene come abbia fatto a ottenere questo risultato. Chi è esperto, d’altra parte, può anche riconoscere e indicare con chiarezza i «trucchi del mestiere». A volte, poi, ci sono anche delle semplici convenzioni, che con il tempo ci siamo però semplicemente abituati ad afferrare. In un film giallo, ad esempio, quando la telecamera si ferma su particolari apparentemente secondari, magari con una musica di sottofondo priva di una vera melodia, noi spettatori automaticamente facciamo più attenzione, perché siamo abituati a quel segnale che ci avverte che probabilmente quei dati secondari in seguito diventeranno molto importanti. Anche se non siamo «del mestiere», a forza di vedere film abbiamo imparato a conoscere quel tipo di linguaggio.
Anche gli scrittori antichi utilizzavano trucchi del genere. Alcuni di essi possono essere letti e risultare efficaci anche se ne siamo del tutto inconsapevoli. Per altri, più tipici di quel tempo, possiamo avere bisogno di qualcuno che ci aiuti a vederli e ci indichi come usarli bene, esattamente come in certi indizi dei film gialli. Noi, ad esempio, quando esponiamo un tema (ma anche quando raccontiamo una barzelletta…) siamo molto abituati a utilizzare la struttura della «scala»: ogni dato è più importante di quello precedente e ci aiuta a capire quello successivo. L’ultima è l’informazione più importante. Possiamo anche non esserne consapevoli, ma ormai siamo abituati a usarla. Gli scrittori biblici usano invece spesso la struttura dell’«incrocio»: accumulano delle informazioni in modo apparentemente casuale, ma, a ben guardare, le dispongono come in cerchi concentrici, dove la prima informazione rimanda all’ultima, la seconda alla penultima, e al centro c’è quella più importante. È la cosiddetta struttura a chiasmo usata da Luca in questo brano.
Intanto ripete due volte che quella descritta non è una forma di vita comunitaria occasionale: «perseveravano», «erano costanti».
Il livello più esterno (1) è quello più lasco, che da solo non ci farebbe intuire la struttura: ascoltavano l’insegnamento degli apostoli (è il punto di partenza: v. 42) e godevano della simpatia di tutto il popolo (è il punto di arrivo: v. 47). In mezzo, quasi come parentesi, Luca aggiunge che tutti provavano un timore religioso nei loro confronti (v. 43), come chi si accorge di assistere a qualcosa di speciale, non semplice frutto del lavoro umano.
Il secondo livello (2), più importante, parla dell’«unione fraterna, comunione» (v. 42) e del mangiare insieme in gioia e semplicità (v. 46), proprio ciò che accade in una fraternità autentica.
Poi, Luca parla, ancora più al centro (livello 3), dello «spezzare il pane» (vv. 42.46), che per le prime generazioni cristiane era la formula per indicare l’eucaristia. Possiamo stupirci allo scoprire che l’eucaristia non sia il centro del centro, l’elemento assolutamente più importante della vita cristiana: come accade spesso, Luca non ha paura di spiazzarci.
Avvicinandoci ancora di più al centro (livello 4), in questo sommario che parla della vita cristiana, sta la preghiera (alla fine del v. 42, e poi ancora nella frequentazione del tempio, al v. 46: al tempio si andava per pregare (ma su questo continuare a «fare gli ebrei» avremo occasione di parlare più approfonditamente più avanti).
Al centro di tutto (livello 5), ai vv. 44-45, c’è la condivisione totale, che peraltro riprende quella «comunione» spontanea e gioiosa che stava nel secondo cerchio.
Sembra che Luca ci suggerisca che la chiesa ideale impara dagli apostoli e va al mondo, ma più importante ancora è l’esperienza di una dimensione di comunione fraterna spontanea che ci aiuta a vivere l’ancora più fondamentale comunione con Gesù (nella frazione del pane) e quindi il dialogo con Dio (la preghiera), fino ad arrivare al punto più importante di tutti, la condivisione completa con gli altri, magari vissuta con meno spontaneità rispetto all’unione fraterna, ma intesa come decisione di fondo, anche quando fosse faticosa ed esigente. L’autore degli Atti sostiene che non siamo chiamati innanzi tutto a vivere una vita di liturgia e preghiera (che restano ottime, ma come strumenti per arrivare ad altro), bensì che la chiesa perfetta è quella che mette al centro gli altri, la comunità. Se possiamo confermare questa intuizione con uno sguardo fuori dall’opera lucana, il vangelo secondo Giovanni afferma che i cristiani saranno riconoscibili non perché celebrano messa o perché pregano bene, ma per come si amano (Gv 13,35).
Gli altri due sommari
Non è un caso che su questo tema, in una forma più limitata e concreta, si torni anche nel secondo dei grandi sommari. In Atti 4,32-35 si presenta quello che alcuni hanno etichettato come «comunismo cristiano». L’indicazione è semplice: «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune». Più che di abolizione della proprietà privata, sembra dal contesto che si tratti di abolizione dell’egoismo: chi ha bisogno, otterrà ciò che gli serve, perché gli viene messo a disposizione da coloro che non si limitano a chiamarsi fratelli, ma davvero si dimostrano tali. Luca sarà poi costretto a confessare che questo quadro ideale, nella comunità reale non era sempre vissuto in pienezza, ma resta l’ideale verso cui tendere.
Peraltro, questo ideale porta a compimento ciò che nell’Antico Testamento era stata una promessa di Dio: in Dt 15,4, all’interno delle norme sull’anno sabbatico (un anno in cui non si sarebbe dovuto coltivare la terra), Mosè dà voce a Dio nel promettere che non ci sarà da avere paura di non mangiare, in quell’anno, perché la terra avrebbe prodotto da sé quanto necessario all’uomo per vivere. «Del resto non vi sarà nessun bisognoso in mezzo a voi». A questa promessa fa eco l’affermazione di Luca: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34).
Nel terzo dei sommari (At 5,12-16) si insiste sul cammino della chiesa verso l’esterno. Tutti guardano con simpatia questo nuovo movimento, anche se magari se ne tengono a distanza (v. 13). Ma ad essere interessante è soprattutto il modo con cui i cristiani si muovono dentro la società da cui provengono. Non provano a distinguersi con la forza, non polemizzano con nemici (è purtroppo il modo più facile per farsi conoscere, e infatti è quello più utilizzato dai movimenti nascenti), ma si comportano in modo coerente con questa generosità che abbatte l’egoismo: non contestano, non provano a convincere, non cercano di difendersi, ma guariscono i malati (vv. 15-16).
Coloro che si affidano a Gesù vivono, insomma, per gli altri (che siano cristiani o no), abbattono le barriere di autodifesa che l’umanità sempre cerca di costruirsi e vivono nella confidenza e nella leggerezza. L’incontro con Gesù porta alla fiducia di fondo verso Dio e verso gli altri, e questo fa vivere meglio. Perché l’obiettivo ultimo di Dio non è di essere venerato, ma che gli uomini, che Lui ama, vivano bene.
Angelo Fracchia
(4. continua)