Una boccata d’aria fresca

a cura di Sergio Frassetto |


Una boccata d’aria fresca che allarga cuore e polmoni in questa primavera abitata dalla «notizia» della risurrezione del Signore; notizia quasi incredibile che ridona speranza ai nostri giorni, spesso intaccati dalla «paralisi della normalità» (papa Francesco).

Una «boccata d’aria fresca», così è stato definito il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», firmato il 4 febbraio scorso da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, il grande iman di Al-Azhar. E non si fa fatica a definirlo un documento storico, perché è la prima volta che viene enunciata e sottoscritta da personaggi così importanti (leader delle due più consistenti religioni mondiali), una verità quasi ovvia: «Siamo cittadini dell’umanità, credenti appartenenti a diverse tradizioni religiose o anche persone di buona volontà», che s’impegnano a «costruire insieme la solidarietà umana per guarire le ferite dell’umanità». O, più semplicemente, riconoscendo che siamo tutti fratelli e sorelle, a intraprendere un cammino nuovo nel quale, superati antichi pregiudizi e moderne paure, riscoprire i valori della giustizia, del bene e della pace come «ancore di salvezza per tutti».

Parole forse scontate, ma che non lo sono affatto se guardiamo al contesto in cui sono state solennemente proclamate, firmate e proposte come road map per i credenti del mondo intero. Aria di primavera, aria di missione per chi, come noi, è fermamente convinto che l’annuncio e la testimonianza del Vangelo, a tutti e senza muri, sono la strada più sicura per costruire, a piccoli passi, in questo nostro mondo ferito, la fraternità e la solidarietà tra i popoli.

E come non rallegrarci, ricordando che il nostro beato fondatore volle che i suoi missionari scegliessero la mansuetudine come strumento di trasformazione, «la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo». L’aria dura, il senso di superiorità, la verità in tasca, le parole violente e offensive… non appartengono ai missionari dell’Allamano. Perché, come dice ancora il documento di Abu Dhabi, solo «il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza contribuiranno a ridurre molti problemi che assediano ancora gran parte del genere umano».

Ci voleva proprio questa boccata d’aria fresca!

padre Giacomo Mazzotti


L’Allamano rettore

L’Allamano accettò la nomina di rettore del santuario della Consolata, nel 1880, quando aveva appena 29 anni, solo per obbedienza al suo arcivescovo. L’incarico includeva pure quello di rettore del convitto ecclesiastico per la formazione morale e pastorale dei giovani sacerdoti. Ecco alcune testimonianze che si riferiscono a questo doppio servizio che durò tutta la sua vita.

Rettore del santuario

Con l’aiuto del can. Giacomo Camisassa, suo principale collaboratore, l’Allamano ben presto pose mano al restauro del santuario della Consolata che era piuttosto malridotto. Era sicuro che la ripresa della vita cristiana in quel centro mariano doveva iniziare dal decoro del tempio stesso. I restauri, affidati ai migliori architetti del tempo, furono molto costosi. Confessò ad un missionario: «Per la Consolata ho sperperato tutto». Qualcuno gli fece notare il grande costo dei lavori. Senza scomporsi rispose: «Se non basta uno, ne spenderemo due milioni di lire, ed anche di più, purché la Madonna abbia in Torino un Santuario degno di Lei». Era convinto che la Provvidenza non lo avrebbe abbandonato in questa impresa: «State tranquilli, che la Madonna provvederà».

Sicuramente la cura principale dell’Allamano era per l’aspetto spirituale. Iniziò subito, scegliendo collaboratori giovani e in sintonia con il suo spirito. Con lui il santuario divenne il centro spirituale della diocesi e non solo. Il decoro delle celebrazioni, anche nei dettagli, era il criterio che lo guidava. Per esempio, esigeva che le ostie fossero sempre fresche: «Voglio che Nostro Signore si rispetti anche in questo!». Un giorno, gli sfuggì questo lamento riguardo le celebrazioni liturgiche: «Come sta male vedere quel correre da una parte o dall’altra a prendere questa o quella cosa, o ricercare il turibolo e la stola, o un cingolo, o un manipolo, che mancano all’ultimo momento! Tutto si prepari per tempo, e chi è incaricato di questo lasci il resto».

Il modo decoroso di comportarsi in chiesa doveva iniziare dalla sacrestia. Anche su questo punto l’Allamano espresse chiaro il proprio pensiero riferendosi in particolare ai sacerdoti: «Il parlare forte in sacrestia dimostra poco rispetto per la chiesa annessa, e il pubblico ne è poco bene impressionato, e quasi scambia la sacrestia con la piazza; se invece, chi sta in sacrestia si comporta con decoro e con rispetto, invita, col suo contegno, al raccoglimento e prepara alla confidenza molte persone, che a volte vengono nella sacrestia per un consiglio, o per narrare casi dolorosi di famiglia; così più facilmente se ne vanno edificati e confortati».

Per la pulizia e l’ordine nel santuario seguiva un principio semplice e concreto che lui stesso manifestò: «Le cose grandi saltano agli occhi; le piccole no. Invece la cura minuta, quotidiana, insistente è quella che dimostra ordine, amore all’altare e rispetto per il decoro della Casa di Dio». Sono indicative queste parole udite da una suora: «Alla Consolata credo che trovi più carta io per terra che non tutti i domestici insieme».

Al sacerdote Elia Lardi diede questo suggerimento: «Vogliamo che il popolo pratichi la religione? Teniamo il tempio pulito e decorosamente ornato; procuriamo, sì, la brevità delle funzioni, ma fatte con spirito di fede, convinti di quanto facciamo».

Rettore del convitto ecclesiastico

L’Allamano fu un apprezzato educatore di sacerdoti. Non solo convinse l’arcivescovo Lorenzo Gastaldi a fare ritornare i giovani sacerdoti convittori nei locali dell’ex monastero cistercense adiacente il santuario della Consolata, ma ne assunse la cura per più di 40 anni. Nei primi tre anni dovette addirittura assumersi l’insegnamento della morale, condizione assoluta posta dall’arcivescovo: «O tu prendi l’insegnamento, o non si fa nulla». L’Allamano ubbidì, ma non adottò i trattati che aveva composto l’arcivescovo, perché li riteneva troppo rigidi. Anzi, al riguardo avrebbe detto al segretario: «La più bella cosa che potreste fare… è di bruciare quei trattati».

Quando accoglieva i nuovi convittori diceva loro parole che, forse, attingeva dallo zio Giuseppe Cafasso: «Siete sacerdoti, ricordatevi sempre di essere sacerdoti. Facciamo in convitto una famiglia cristiana sacerdotale». Aggiungeva anche un suo consiglio, che dice molto del suo senso pratico: «Mi raccomando di avere tanta carità coi domestici. A proposito di questo: essi vi porteranno in camera i bauli e materassi; date loro qualche mancia; è un lavoro di più che fanno; siate generosi; ricordatevi che nella vita avrete bisogno di piccoli servizi; la vostra generosità, ben inteso proporzionata, vi renderà facile anche l’adempimento dei doveri del vostro ministero. Ricordatevi, che da noi sacerdoti quelli che rendono qualche servizio aspettano…».

Aveva un’attenzione particolare per i convittori provenienti da famiglie povere. Confortò il giovane Sansalvadore che non poteva pagare la retta: «Coraggio, studia volentieri; il convitto non solo rinunzia nei tuoi riguardi a quel poco che dovresti versare oltre la Santa Messa, ma io ti darò mensilmente lire dieci (un aiuto per quel tempo!, ndr) da mandare alla mamma».

Finita la guerra, quando tutti i convittori furono tornati, l’Allamano riprese le consuete conferenze del giovedì. Da come ne parlò con un missionario che era andato a trovarlo nel suo ufficio, si nota lo spirito con cui svolgeva il suo servizio di rettore: «Voglio che si persuadano – e lo dico loro – che non sono in convitto solo per studiare un po’ di morale, ma che sono per formarsi alla pietà e allo spirito ecclesiastico». Facendogli vedere il quaderno delle conferenze ai convittori, cucito alla buona: «Può stare così, serve solo a me. Tutto ciò che dico, lo dico alla buona, ma mi preparo sempre, perché voglio che siano cose sode».

Quando comunicò al convittore A. Vaudagnotti che era stato nominato assistente e professore in seminario, lo incoraggiò confidandogli la propria esperienza: «Il seminario è la più bella parrocchia della diocesi. Lo diceva a me mons. Gastaldi nel nominarmi direttore del seminario, mentre io vagheggiavo la vita più varia del vicecurato. E lo ripeto a lei».

Termino con questo aneddoto. Un convittore, risentito per un diniego ricevuto, disse: «Lei crede di essere un santo, ma non lo è mica». L’Allamano non si scompose, ma rispose calmo: «Preghi per me, perché lo diventi, e quando sia santo ne guadagnerà anche lei». Fu il sacerdote interessato a raccontare questo episodio, dimostrandosi felice di avere avuto come rettore davvero un santo.

padre Francesco Pavese

20 giugno 2018, veduta del santuario della Consolata © Gigi Anataloni /AfMC


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