Libia 2011: l’anno del non ritorno

© PATRICK BAZ / AFP

Dossier scritto da Angela Lano e curato da Marco Bello


Indice

Introduzione: Intrico libico.
•  La voce del ricercatore.
•  L’insurrezione del 2011 e l’intervento della Nato: Primavera o inverno?.
•  Preparazione all’estero.
•  La rivolta della Cirenaica.
•  La risoluzione Onu e la Libia «liberata».

Cosa pensano i libici all’estero.
•  Chi ha iniziato la rivolta?
•  Italia – Libia, amici o nemici?
•  Come vediamo l’Italia.

Danni economici
Breve cronologia.

Il complotto dell’Occidente: Attacco alla Libia A chi ha giovato?
•  Francia principale mandante?
•  Le riserve auree di Gheddafi nel mirino.
•  Sostegno dei ribelli e protezione dei civili?

Dopo la guerra il caos: Il paese non paese.
•  Islamismo politico nella rivolta.
•  Jihadismo «infiltrato».

Nota redazionale.


Introduzione: Intrico libico

Tentare di ricostruire cause ed effetti, storici e attuali, del caos libico non è affatto facile né scontato: tanti sono gli attori e gli interessi in gioco, quante le linee di analisi e le prospettive di lettura. Dal 2015 a oggi, nell’ambito di una ricerca accademica che stiamo svolgendo sulla rivolta in Libia del 2011, abbiamo incontrato decine di libici sia in Tunisia sia in Europa (per ragioni di sicurezza non ci siamo recati in Libia). Ognuno di essi ci ha fornito versioni e spiegazioni diverse del dramma libico: dalla questione delle qabile (tribù o gruppi etnici tradizionali – ndr) e lotte interne, alle politiche del vecchio regime di Muammar Gheddafi, alle interferenze di agende esterne (occidentali e arabe), all’islamismo radicale.

Ci sono quelli che vedono in Gheddafi e nel suo quarantennale regime la responsabilità del disastro, e altri che puntano il dito contro i piani neocoloniali occidentali, quelli volti a cambiare regime per accaparrarsi le risorse e smontare i piani panafricani del Colonnello. C’è chi lo odia a morte e chi lo esalta. Chi ringrazia la Nato per l’aiuto alla rivolta (tramite i bombardamenti) e l’appoggio ai ribelli, e chi invece chiede l’apertura di un’inchiesta per crimini contro l’umanità nei confronti della stessa Nato, Usa, Francia, Gran Bretagna. C’è chi vede nelle (contraddittorie) politiche panafricane del Fratello Leader (sempre Gheddafi) e nei suoi progetti di dinaro d’oro africano le vere ragioni del rovesciamento del regime.

Dopo anni di letture, incontri, interviste e analisi di dati, siamo portati a credere a un insieme di cause, interne ed esterne, sulle quali hanno prevalso, tuttavia, le agende occidentali per il cambio di regime.

L’effetto evidente di tante e molteplici azioni è che il paese, da sviluppato e relativamente prospero nell’era gheddafiana, ora affonda sempre di più nella tirannide di milizie, gruppi criminali, qabile, partiti, formazioni islamiste dalle più violente alle «moderate», ciascuno con propri progetti e obiettivi che poco hanno a che fare con il bene comune
dell’ex jamahiriyya (Al-Jamāhīriyyah al-ʿArabiyyah al-Lībiyyah, una sorta di «repubblica delle masse»).

Alla fine, come molti degli intervistati hanno tristemente ammesso, pare di poter dire che «si stava meglio, quando si stava peggio», cioè quando c’era Gheddafi.

18/02/2011, Tripoli, sostenitori di Gheddafi. © MAHMUD TURKIA / AFP

La voce del ricercatore

Londra, febbraio 2019. Incontriamo Tarek Megerisi, ricercatore anglo-libico, presso il suo ufficio all’European council on foreign relations di Londra. È figlio di un libico e di una palestinese, e l’unica volta in cui ha potuto recarsi in Libia è stato nel 2011: «Non sono né pro governo di Tripoli né pro governo di Tobruk (i due governi che si contendono il paese, nda) – ci tiene a premettere -, ma entrambi mi considerano persona non gradita, quindi non posso più andarci. Gheddafi era un dittatore, ma vista la situazione attuale, la qualità della vita dei libici era migliore sotto il suo regime che oggi. Abbiamo sostituito un Gheddafi con altri dieci».

Questa amara constatazione non nasconde l’avversione per il regime di Gheddafi, nelle cui politiche Megerisi, come altri, vede la responsabilità della tragedia libica attuale, non salvando nulla: neanche lo sviluppo degli anni ’70, dovuto alle ingenti rimesse petrolifere.

Per il ricercatore, il Colonnello era una figura egocentrica che per 40 anni ha concentrato su di sé ogni potere, agendo come un padre padrone, usando la vecchia e collaudata tattica del divide et impera per tenere a bada le qabile e le varie tendenze eterogenee e centrifughe del paese. «Ha fatto solo danni – afferma Megerisi -, portando via proprietà e capitali alle classi medie e alte e distribuendole a quelle popolari ha imposto una sorta di socialismo dei beni di produzione e ha spazzato via l’iniziativa privata; ha creato problemi all’estero, in vari stati africani, imponendo le sue visioni e interferendo nella vita politica di vari governi. La gente non ne poteva più e ha colto l’occasione per ribellarsi, chiedendo l’aiuto militare alla Nato. Aiuto che è stato fondamentale per la liberazione dal regime».

Questa lettura senza sconti dei 40 anni di jamahiriyya è condivisa da diversi libici intervistati, scrittori e giornalisti, economisti, impresari, ex funzionari di ambasciata, islamisti, giuristi e così via. Ma è avversata da altri, che vedono le reali cause del caos attuale nelle decennali sanzioni Usa, che hanno portato le gravi crisi economiche, e quindi anche politico-sociali, del paese, nei piani economici e strategici franco-britannico-statunitensi, ma anche di Qatar e Emirati Arabi Uniti.

 Angela Lano

Bengasi, manifestazione contro Gheddafi in marzo 2011. © ROBERTO SCHMIDT / AFP

L’insurrezione del 2011 e l’intervento della Nato: Primavera o inverno?

La sollevazione popolare libica del 2011 fu diversa dalle altre Primavere arabe. Preparata all’estero da esuli. Le prime rivolte scoppiano a Bengasi, da sempre città ribelle al regime di Gheddafi. Per impedire il «bagno di sangue» l’Onu autorizza un intervento militare occidentale. Gheddafi viene catturato e ucciso dai rivoltosi. La motivazione della Nato è «proteggere i civili libici», vittime di massacri e stupri di massa.

In concomitanza con le «primavere arabe» in Tunisia, Egitto e altri paesi, anche la Libia del colonnello Muammar al-Gheddafi a febbraio del 2011 viene travolta dalla rivolta «popolare»: le proteste scoppiano a Bengasi e si diffondono in altre città, scatenando scontri tra le forze di sicurezza governative e gli insorti. A marzo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizza una no-fly zone sulla Libia e attacchi aerei per «proteggere i civili» di cui la Nato assume il comando, sotto lo slogan «responsibility to protect» (responsabilità per proteggere). A luglio, l’International contact group on Libya riconosce ufficialmente come governo legittimo il principale gruppo di opposizione, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), formatosi a febbraio 2011. Ad agosto, formazioni militari di rivoltosi addestrate da Francia, Gran Bretagna, Qatar e Usa, delle quali fanno parte membri di al Qaida, appoggiati dai bombardamenti della Nato, entrano a Tripoli dichiarandone la «liberazione».

Delle gesta di queste truppe, parla Sam Najjar, un combattente libico-irlandese, nel suo libro «Soldier for a summer». Con Najjar abbiamo dialogato sui social media, mentre abbiamo incontrato il fratello Yusuf, a Manchester, nell’agosto 2015, anche lui reduce dai combattimenti in Libia. La città britannica è uno stato dentro lo stato, rifugio e sede di varie attività dell’islamismo politico, dal più moderato al più pericoloso e aggressivo (cfr. MC ottobre 2017).

Le rivolte arabe non sono state tutte uguali, ognuna si è svolta con dinamiche ed esiti differenti: per quelle in Tunisia ed Egitto si è trattato di autentiche sollevazioni popolari di massa, per quelle libica e siriana è diverso, e gli effetti di quegli eventi saranno duraturi.

La tendenza, scrive la professoressa Michela Mercuri nel suo libro «Incognita Libia» è d’inserire «la rivolta libica nell’ambito delle cosiddette primavere arabe, i movimenti di protesta che, tra il 2010 e il 2011, hanno interessato molti stati del Nord Africa e del Vicino Oriente. Tuttavia, non è possibile assimilare tout court i rivolgimenti del 2011 a un unico grande movimento. […] Ogni rivolta ha avuto le sue cause, i suoi sconvolgimenti e i suoi esiti e per questo, oggi, i paesi che all’inizio avevamo indistintamente chiamato “Primavera araba” appaiono come un prisma mutevole in costante evoluzione. […] Da questo punto di vista sarebbe un errore interpretare gli eventi libici del 2011 come mere contingenze di quanto stava accadendo negli stati confinanti. Nell’ex jamahiriya le proteste hanno assunto una connotazione peculiare rispetto a quelle degli altri paesi interessati dal fenomeno e per questo la Libia rappresenta una sorta di “eccezione regionale” sia per il modo in cui le rivolte hanno avuto inizio sia per come si sono evolute sia, infine, per le loro conseguenze».

© MAHMUD TURKIA / AFP

Preparazione all’estero

In particolare, la rivolta libica è una sollevazione che, seppur partita da un diffuso malcontento generato da repressione, crisi economica, corruzione e da richieste di maggiori libertà, è stata preparata per anni all’estero – da esuli libici in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti -, e poi prontamente infiltrata da forze dell’islamismo radicale sia presenti sul campo sia arrivate da fuori, appoggiate militarmente e finanziariamente da Parigi, Londra, Washington, Abu Dhabi e Doha, così come molti mercenari. Una sorta di complotto organizzato con pazienza da varie forze e attori, libici e internazionali, che hanno aspettato il momento opportuno per agire.

Questo momento che si presenta il 15 febbraio 2011, con l’arresto da parte del regime dell’avvocato Fathi Tarbel, legale delle famiglie dei prigionieri massacrati nella prigione di Abu Salim il 26 giugno 19961. È il casus belli che scatena le rivolte a Bengasi caratterizzate da scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza che causano diversi morti. Le proteste coinvolgono anche El Bayda, nella Libia orientale, dove vengono uccisi due manifestanti, e Zintan, a Sud Ovest di Tripoli.

Le manifestazioni vengono organizzate via social network come in altri paesi arabi. Il loro obiettivo è chiedere riforme in campo economico, sociale, abitativo, lavorativo, e lottare contro la corruzione. La popolazione scesa nelle piazze non chiede un cambio di regime. Il 17 febbraio, il quinto anniversario delle manifestazioni a Bengasi contro le vignette anti islamiche pubblicate su un giornale danese2, viene dichiarato «Giorno della collera». Nel frattempo, però, lo slogan è diventato il regime change, progetto caro a vari gruppi di oppositori, e a Usa, Gran Bretagna e Francia.

Sulla scia delle rivolte nei paesi vicini, nel gennaio del 2011 Gheddafi ha avviato alcune riforme economiche: riduzione dei dazi, delle tasse sul cibo importato e su altri prodotti, con l’intento di evitare lo scatenarsi del malcontento, ma la mossa risulta infruttuosa.

I giornali occidentali e Al Jazeera parlano di «primavera libica», ma a sollevarsi contro il regime, più che i giovani o i lavoratori (che in Libia sono prevalentemente stranieri), come invece sta accadendo in Egitto e in Tunisia, sono le qabile, in particolare quelle della Libia orientale da sempre avverse al governo, gruppi progressisti e liberali, e islamisti. Ovvero i vecchi nemici di Gheddafi. Quando infatti la popolazione vede il degenerare degli eventi e le manovre occidentali, scende in piazza a sostenere il governo contro quella che pare a molti un’interferenza esterna.

Ajdabiya, ribelli sotto attacco delle forze di Gheddafi. © ARIS MESSINIS / AFP

La rivolta della Cirenaica

Bengasi, la «vecchia strega» anti jamahiriyya: le prime manifestazioni contro il regime partono da lì, dalla capitale della Cirenaica (Nord Est) e sono violente. Gheddafi chiamava Bengasi la «vecchia strega» in quanto ribelle e spina nel suo fianco: è infatti abitata da qabile che gli sono ostili e filo monarchiche3.

Alcuni tra i libici intervistati e che provengono da quell’area raccontano che il rais puniva questa regione tenendola in condizioni peggiori di altre e investendo meno nella ridistribuzione dei proventi del petrolio. Un alto tasso di disoccupazione e carenza di appartamenti aveva contribuito a creare una situazione pesante.

Nonostante la Rivoluzione del settembre 1969 nella quale giovani ufficiali guidati da Gheddafi presero il potere senza spargimento di sangue, deponendo Re Idris, e la successiva lotta contro il qabilismo, considerato una delle cause di arretratezza del paese, la Libia ha continuato a essere dominata da diverse e potenti famiglie in antagonismo e in conflitto tra di loro. Famiglie che il Fratello Leader riusciva a gestire con il metodo «del bastone e della carota» e con la politica del divite et impera.

Alcuni studiosi leggono, infatti, la Rivoluzione del 1969 come la rivolta di alcune qabile contro quelle della Cirenaica e dei Senussi, altri come un colpo di stato contro il potere del qabilismo in generale. La rivolta del 2011 sarebbe una «controrivoluzione» o ripresa del potere delle vecchie forze.

Di fatto il Colonnello, abbattuto il regime del Regno senussita alleato dell’Occidente, e il sistema di clientele, ne aveva creato uno nuovo che la Cirenaica, con le sue potenti e storiche famiglie, non aveva mai pienamente accettato. Anche il nuovo assetto, come affermano molti libici incontrati, si basava sul clientelismo e l’appartenenza a questo o a quel clan, e la distribuzione dei proventi del petrolio era vincolata all’aderenza e alla fedeltà alla Rivoluzione e a Gheddafi.

Dunque, la Cirenaica, penalizzata dal regime e piena di risentimento, dà vita alla rivolta, che poi si estende al resto del paese. Scrive Mercuri: «Nel sistema redistributivo troppo era stato preso dai fedeli del Colonnello; la sua tribù, assieme ad altre come quella dei Meqarha del compagno di rivoluzione Abdelsalam Jalloud, poi “allontanato” dal rais, avevano monopolizzato pressoché tutti i settori dell’economia al prezzo di sanguinose repressioni. Per tutti questi anni i poteri della Cirenaica marginalizzati e repressi nel risiko tribale, hanno covato la voglia di prendersi una storica rivincita sul colpo di stato, considerato dai fieri senussi un golpe dei libici occidentali».

La risoluzione Onu e la Libia «liberata»

La comunità internazionale risponde a quello che i media definiscono «bagno di sangue», repressione violenta da parte del regime contro i manifestanti, con la risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, il 26 febbraio 2011, che impone sanzioni a Gheddafi e chiede alla Corte di giustizia internazionale di indagare sulla repressione contro i cittadini. Poco dopo giustifica gli attacchi aerei e richiede l’immediato cessate il fuoco, imponendo anche il divieto dei voli sullo spazio aereo libico e ulteriori sanzioni.

La lega araba appoggia la risoluzione Onu e il Qatar e gli Emirati Arabi forniscono aeroplani di supporto alla Nato.

Il 20 ottobre successivo, Gheddafi viene catturato e ucciso brutalmente, nel frattempo, altri combattenti prendono Sirte, sua città natale. Il 23 ottobre, il Cnt dichiara la Libia ufficialmente «liberata» e annuncia i piani per indire democratiche elezioni entro otto mesi. Nel novembre 2011, con l’accusa, mai provata, di «crimini contro l’umanità», viene catturato e imprigionato Saif al-Islam, il figlio di Muammar, nonché intellettuale e riformista, che negli ultimi anni ha lavorato per un’apertura libica verso i diritti politici e civili e ha scarcerato numerosi oppositori dell’islamismo radicale imprigionati dal regime.

Ufficialmente, la fine della guerra contro il regime di Gheddafi avviene nell’ottobre del 2011, propagandata come una «vittoria» dal presidente francese Nicolas Sarkozy, dal primo ministro britannico David Cameron e dal segretario di stato Usa Hillary Clinton, di cui si ricorda il commento, accompagnato da risata: «Siamo venuti, abbiamo visto, è morto», in riferimento all’uccisione del Colonnello.

Secondo le loro dichiarazioni, l’intervento militare sotto l’egida della Nato era l’unica strada per «proteggere» la popolazione civile dai «massacri» del regime e dagli «stupri di massa» che le truppe di Gheddafi, alle quali sarebbe stato preventivamente fornito il viagra, avrebbero compiuto contro le donne libiche in città e villaggi. Questi orrori, mai effettivamente provati, sono stati la giustificazione ufficiale per la guerra.

 Angela Lano

Vicino a Bengasi il 21/03/2011 dopo un attacco aereo francese contro le forze di Gheddafi. © PATRICK BAZ / AFP

Cosa pensano i libici all’estero

La voce di tre libici che vivono all’estero. Il loro sentire sul perché della guerra civile e dell’appoggio esterno. La loro preoccupazione sulla situazione attuale.

Iran Sarah (il nome è di fantasia) è una libico italiana di 60 anni. Viaggia sovente in Libia dal 2002, per motivi familiari e di lavoro. Durante la guerra civile, nel 2014 ha perso un fratello.

«In Libia ora c’è guerra tra gruppi, milizie: mio fratello e mio nipote sono stati uccisi da bande, perché non volevano unirsi a loro. Il problema sono i due governi e la lotta tra di loro (la Libia ha oggi due uomini forti: Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar, ndr). Sono contraria a un governo a Tobruk o a Sirte o a Bengasi. Deve essere a Tripoli. Il governo di Tobruk è riconosciuto dall’Europa perché ci sono i loro amici, ma è Tripoli la capitale.

In Libia dove trivelli c’è petrolio. Sono circa sei milioni i libici e se Gheddafi avesse ridistribuito i proventi del petrolio, non gli avrebbero fatto guerra, ma lui privilegiava alcuni contro gli altri. Comunque, rispetto ad ora, sotto il regime si stava meglio, non c’era tutta questa violenza».

Esharef A. Mhagog, 45 anni, musicista libico di Tripoli, in Italia da 31 anni. «Nella guerra civile ho perso un fratello. In Libia c’è una brutta situazione. Siamo stati ingannati dall’Occidente. Prima ci credevo alla rivoluzione, sapevo cosa volesse dire il regime – avevo studiato la storia della Libia -, ma non pensavo che con questa scusa ci potessero ingannare. Sono tornato nel mio paese nell’ottobre 2012 e ho trovato una situazione familiare molto divisa: chi era pro chi era contro la rivoluzione.

Per me è stato un trauma. Io e papà eravamo a favore, tutto il resto pro Gheddafi. Nessuno di noi era mai stato perseguito dal regime, anzi, tutta la famiglia lavorava per il governo. I miei fratelli mi telefonavano in Italia per tranquillizzarmi: “In Libia va tutto bene”. Ma io cercavo notizie. Ho scoperto tutto andando là. Ho saputo dopo anche della morte di mio fratello: era un poliziotto ed era morto mentre faceva il suo turno in pattuglia. Faceva la guardia, a Tajura, il 20 agosto 2011, quando dei cecchini hanno aperto il fuoco contro la sua auto. Era sposato e aveva un figlio di sei mesi.

In Libia c’è una confusione, ci siamo liberati di un dittatore, è vero, ma si è creato un vuoto. Chi lo può riempire? Ci sono milioni di armi che circolano su una popolazione di sei milioni di persone. Passeggiavo con i miei cugini che giravano con il kalashnikov. Loro se la ridevano, ma io pensavo: “Guarda a che punto siamo arrivati”. Prima non era così, ora una rissa per banali motivi si trasformava in guerra di quartiere. Un caos. I mercenari, foreign fighters, sono arrivati da ovunque».

N.S.M., nato a Tripoli nel 1977, avvocato con un dottorato a Londra in diritto. Era in Libia durante la rivolta del 2011.

«Non fu una rivoluzione ma un conflitto interno. Il risultato è stato negativo se guardiamo la situazione attuale. Quando scoppiarono i disordini sapevo che sarebbe successa la stessa cosa che in Iraq. Dissi ai miei amici: “Ricordatevi dell’Iraq”. Non si tratta di diritti umani – che potrei capire – ma di coinvolgimento della Francia di Sarkozy, che aveva i suoi obiettivi e voleva il petrolio libico. Le potenze occidentali parlavano di “proteggere la popolazione”, ma ciò che è successo e quante persone sono morte dimostrano il contrario. Fu ed è solo un gioco politico».

Chi ha iniziato la rivolta?

Il cantante libico Esharef. © Angela Lano

Sarah: «Le prime a ribellarsi contro Gheddafi furono le qabile di Bengasi; seguirono quelle di Sirte, Sabha, poi Tripoli. Zu’ara, Jbal e varie altre aree e qabile odiavano Gheddafi perché al potere non erano loro.

Prima tutti avevano paura di Gheddafi, ora si spaventano tra di loro, se non sono d’accordo gli uni con gli altri. In ogni città c’è uno che vuole comandare. C’è diffusione di armi tra tutti, anche tra i giovani. Nei mercati, tra frutta e verdura, trovi banchi con armi.

Gheddafi non era amato in Occidente, perché non lasciava spazio a Usa e Israele. Non aveva amici nei paesi del Golfo. A molti libici, invece, piaceva».

Esharef: «La Nato e i francesi hanno armato la parte orientale della Libia, che ha poi ringraziato Sarkozy. Se non avessero iniziato a bombardare, il 19 marzo 2011, Gheddafi avrebbe raso al suolo Bengasi: ha sempre detestato l’Est del paese. Lui fu vittima di un attentato, negli anni ‘90, in quell’area e promise vendetta: tagliò la corrente, i viveri. Era un dittatore e giocava sulle divisioni. Tutti sapevano che lui odiava la parte orientale e che dunque la rivolta doveva iniziare da lì. Nella parte occidentale non potevano fare niente perché era controllata dall’esercito. I libici orientali sono stati armati dagli egiziani, dai francesi e dai Fratelli Musulmani (gruppo islamista), altre vittime della persecuzione di Gheddafi per tanti anni.

Adesso non si capisce più niente. Ci sono due eserciti. Nel 2014 Haftar ha creato un esercito ed eseguito l’Operazione Dignity. Tutti aderirono, tranne quelli di Misurata, che decisero di prendere il potere, bombardando l’aeroporto. Ci siamo così trovati ad avere due governi diversi: uno illegale a Tripoli e l’altro legale a Tobruk. Nel giugno 2014 si sono fatte le elezioni, e hanno vinto i moderati. I Fratelli Musulmani di Misurata-Tripoli non hanno riconosciuto l’esito elettorale e hanno cacciato via gli eletti, che si sono rifugiati a Tobruk. I Fratelli hanno preso il potere a Tripoli, non accettando la sconfitta».

N.S.M.: «Nel periodo di Gheddafi non si stava male: molte persone volevano solo più diritti ed educazione. Ma qualcuno dentro e fuori della Libia ha manipolato e usato tali richieste, e da una protesta popolare per il raggiungimento di qualche diritto civile si è arrivati a distruggere il paese con la partecipazione di forze interne – soprattutto islamisti legati ai Fratelli Musulmani – e mercenari, criminali comuni, tutti finanziati dal Qatar e aiutati e organizzati da Usa, Francia e Gran Bretagna, che volevano un cambio di regime».

Angela Lano

Italia – Libia, amici o nemici?

Riportiamo la testimonianza di A.Q., giovane avvocato di Tripoli che ci ha richiesto l’anonimato. Il suo testo si concentra sui rapporti tra Italia e Libia.

«Gheddafi per l’Italia era un grande sostegno economico: i primi investimenti libici in Italia furono nel 1972. Poi dal ‘75 aiutò la Fiat, l’Eni, l’Unicredit e altre banche, anche per il finanziamento alle imprese. Invece l’Italia tradì tutto questo, lasciandosi coinvolgere nella distruzione della Libia. E perché? Perché la politica estera italiana non è autonoma al 100%. È un paese sconfitto nella
II guerra mondiale, fa parte della Nato, è sottomessa direttamente e indirettamente agli Usa, ha 113 basi Usa e Nato sul suo suolo. Non può sottrarsi alle guerre volute dalla “comunità internazionale”.

Il 30 agosto 2008 fu firmato il trattato di amicizia tra Italia e Libia nel quale venne sancita la non ingerenza interna tra i due paesi e il divieto di usare la forza, o gli spazi territoriali, contro l’altro. Tuttavia, tutto ciò è stato totalmente violato dall’Italia.

La propaganda affermava che la Nato è intervenuta per “proteggere” il popolo libico, ma secondo me è falso. Perché eliminare le istituzioni statali, le forze militari… A chi interessava?

La vera motivazione dell’intervento della Nato è stata quella di creare il disastro, l’instabilità. Un paese sottomesso, nel caos, per permettere meglio la spartizione.

Sirte, Gheddafi e Silvio Berlusconi, allora primo ministro, il 10/02/2004. © POOL / AFP

Come vediamo l’Italia

Da una parte noi libici continuiamo a vedere l’Italia come simbolo di fratellanza, amicizia, il più vicino al mondo arabo; dall’altra la vediamo come parte di un passato molto doloroso, che non è facile dimenticare. I fascisti costruirono i primi campi di concentramento in Libia. Massacrarono 300.000 persone tra il 1929 e il 1931, nell’Est della Libia, intorno a Bengasi.

Con l’accordo sopra citato molti dei libici pensarono a un punto di svolta con l’Italia: le scuse dell’allora presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che baciava la mano anche al figlio di Omar al-Mukhtar (guerrigliero libico che guidò la resistenza al colonialismo, ndr), simbolo dell’anti-italianismo. Il gesto italiano fu considerato una grande vittoria morale libica.

Tuttavia, dopo il 2011 si sentirono traditi, a pochi anni dall’accordo.

Ora è forte il sentimento anti italiano. Il governo di el-Serraj è considerato filo italiano, grazie allo sforzo dell’Italia è riuscito a insediarsi a Tripoli. Ma non è riconosciuto dal popolo libico. Non ha una vera efficacia sul territorio. Non riesce neanche a controllare un quartiere di Tripoli.

Ci sono i gruppi militari e le milizie che hanno il vero potere e controllano tutto. La Libia, che ha perso la propria sovranità, senza esercito, senza un servizio di intelligence, senza unità nazionale, non si può certo governare. Tantomeno dall’esterno.

Perché da 100 anni riceviamo solo danni dall’Italia? Tutte le azioni militari sono partite per colpire Tripoli dall’Italia.

Danni economici

Gli imprenditori italiani hanno perso un sacco di soldi. L’interscambio tra Libia e Italia, nel 2008, è arrivato a 20 miliardi di euro: il nostro paese è sempre stato importante per l’Italia.

Inoltre, 11.000 italiani lavorano in Libia. Tra le esportazioni italiane nel mondo arabo, la Libia era al primo posto.

Il 2 marzo 2009 Gheddafi aveva dichiarato di voler privilegiare l’Italia negli affari commerciali e negli appalti interni. Invece l’Italia ha partecipato alla sua distruzione. Più che fare gli interessi economici libici, Gheddafi aveva offerto benefici all’Italia.

Inoltre, fino al 2010, la Libia riusciva a controllare tutta la costa e l’emigrazione clandestina. Nel 2014 sono arrivati in Italia 140mila migranti, prevalentemente dalla Libia.

Se dal punto di vista economico la relazione Italia-Libia è stata positiva, il rapporto politico, sociale e mediatico è stato ben diverso. I media italiani hanno sempre denigrato Gheddafi, hanno accusato la Libia di inviare jihadisti, immigrati, ecc.

C’è troppa disinformazione, rifiuto di sapere, ignoranza voluta, eppure i prodotti italiani sono presenti in Libia, così come ristoranti e altri locali».

a cura di Angela Lano


Breve cronologia

© ROBERTO SCHMIDT / AFP)

1951, 24 dicembre – Proclamazione dell’indipendenza della Libia.

1969, 1 settembre – Un colpo di stato rovescia il re Idris. Muammar al-Gheddafi prende il potere.

1970, gennaio – Sono nazionalizzate le banche, le compagnie petrolifere e le proprietà dei coloni.

1973, gennaio – Lanciata la rivoluzione culturale islamica. Occupata la banda di Aozou, nel Nord del Ciad.

1977, 2 marzo – Instaurazione dello stato delle masse, al Jamahiriyya araba, popolare e socialista.

1982, marzo – Inizia l’embargo commerciale degli Stati Uniti.

1984, aprile – Rottura delle relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna.

1988, 21 dicembre – Attentato contro aereo della Pan Am nei cieli di Lockerbie, in Scozia (270 morti).

2002, marzo – Inizio della costruzione del gasdotto Libia-Europa.

2009, 2 febbraio – Elezione di Gheddafi alla testa dell’Unione africana per un anno.

2011, 15-16 febbraio – Manifestazioni nella città di Bengasi. Il 17 febbraio i manifestanti reclamano le dimissioni di Gheddafi e sono repressi nel sangue.

2011, 21 febbraio – Bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione libica.

2011, 17 marzo – Risoluzione 1973 dell’Onu che autorizza il ricorso della forza per proteggere i civili libici, crea la no fly zone e aumenta l’embargo sulle armi. Il 19 marzo iniziano i bombardamenti degli occidentali contro Gheddafi. Il comando sarà della Nato.

2011, 21-22 agosto – Caduta di Tripoli, i ribelli del Cnt prendono la città.

2011, 15 settembre – 20 ottobre – Battaglia di Sirte. Il 20 ottobre Gheddafi è catturato e giustiziato sommariamente.

2011, 31 ottobre – Fine dell’operazione militare Nato.

2012, 6 marzo – La Cirenaica (Bengasi) dichiara la sua autonomia. Inizia il «caos libico».

2019, 27 febbraio – Sotto l’egida dell’Onu, al-Serraj e Haftar firmano un accordo di principo per organizzare nuove elezioni.

Hillary Clinton, segretaria di stato degli Usa con combattenti del concilio Nazionale di Transizione a Tripoli, 18/10/2011. © KEVIN LAMARQUE / POOL / AFP

Il complotto dell’Occidente: Attacco alla Libia. A chi ha giovato?

La diffusione delle mail di Hillary Clinton rivelano al mondo i retroscena della geopolitica Usa e Francese. L’intervento militare «a protezione dei civili libici» nascondeva l’avversione dei due paesi occidentali alle idee di politica monetaria di Gheddafi. Dal loro punto di vista, un progetto del rais di una moneta unica africana, sebbene assai improbabile, avrebbe messo a rischio la finanza mondiale.

Subito dopo la diffusione delle 3.000 mail sottratte dal server personale dell’allora segretario di stato Usa Hillary Clinton, nel dicembre del 2015, fu resa di pubblico dominio la ragione per la quale la Francia e gli Stati Uniti mossero guerra alla Libia: le riserve auree del paese e la salvaguardia del Franco Cfa.

Ma vediamo una di queste mail che data 2 aprile 2011, inviata a Clinton dal suo consigliere Sidney Blumenthal: «Il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento. Questo oro è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e doveva essere utilizzato per stabilire una moneta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (Cfa)».

Si tratta di una mail «declassified», cioè desecretata, che continua riportando il colloquio che Blumenthal aveva avuto con ufficiali dell’intelligence francese: «Secondo esperti questa quantità di oro e argento è valutata a oltre 7 miliardi di dollari. I servizi segreti francesi hanno scoperto questo piano poco dopo l’inizio dell’attuale ribellione, e questo è stato uno dei fattori che ha influenzato la decisione del presidente Nicolas Sarkozy di impegnare la Francia nell’attacco alla Libia. Secondo questi individui i piani di Sarkozy sono guidati dalle seguenti questioni: 1. il desiderio di ottenere una maggiore quota della produzione petrolifera della Libia; 2. aumentare l’influenza francese in Nord Africa; 3. migliorare la sua situazione politica interna in Francia; 4. fornire all’esercito francese l’opportunità di riaffermare la sua posizione nel mondo; 5. affrontare la preoccupazione dei suoi consiglieri sui piani a lungo termine di Gheddafi di soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa francofona4».

Inoltre, in una precedente mail del 27 marzo 2011, Blumenthal parlava degli interessi francesi nel conflitto e citava «esperti» che avrebbero affermato che Sarkozy «sta facendo pressioni affinché la Francia emerga dalla crisi come principale alleato di qualsiasi nuovo governo che prenda il potere».

Francia principale mandante?

Di queste mail parla anche un’inchiesta della House of Commons britannica5 ripubblicando tali motivazioni, segnalando violazioni e chiedendo al governo spiegazioni. «La Francia guidò la comunità internazionale a portare avanti il caso dell’intervento militare contro la Libia nel febbraio e marzo 2011. La politica britannica seguì la decisione presa dalla Francia. […] Gli Usa erano piuttosto reticenti sul coinvolgimento militare […]. Gran Bretagna e Francia influenzarono gli Usa a sostenere la risoluzione 1973». E qualche riga più in là, il rapporto aggiunge che mancavano «dati e informazioni reali sulla situazione in Libia, sulla sua storia, struttura tribale e complessità regionale, e sui motivi per cui la rivolta era scoppiata a Bengasi e non a Tripoli», sottolineando che «su sei milioni di libici, i ribelli erano soltanto 30.000, e non tutta la popolazione», come millantato dai media internazionali e dai signori della guerra.

L’inchiesta evidenzia, inoltre, come Bengasi fosse la roccaforte dell’Islam radicale, rappresentato da forze qaediste coinvolte nella ribellione e dal Lifg (Libyan fighting group, una formazione jihadista, nella black list statunitense, britannica e libica da anni).

Il rapporto britannico mette in dubbio anche che Gheddafi abbia veramente minacciato il proprio popolo.

Dunque, le tanto propagandate «ragioni umanitarie» e di aiuto alla popolazione libica «massacrata», o in procinto di esserlo, erano solo menzogne per giustificare un intervento che aveva ragioni economiche, petrolifere e geopolitiche. E il regime change. Emergono altre conferme in altre mail raccolte in un articolo da Robert Parry, giornalista investigativo6, nel quale si parla dei crimini di guerra commessi dai ribelli e di attività di addestramento in Libia dall’inizio delle proteste (di queste operazioni parla anche uno dei combattenti, Sam Najjar, nel già citato «Soldier for a summer»), e di jihadisti di al Qaida embedded con le truppe ribelli appoggiate dagli Usa e dalla Nato. A tal riguardo vi è, inoltre, un’abbondanza di video che i jihadisti stessi registravano e diffondevano per celebrare le loro gesta.

Parry sostiene, non diversamente da altri7, che le informazioni su «massacri», «stupri», e viagra usato da parte delle truppe regolari libiche contro questa o quella città o popolazione erano soltanto «voci» o mera propaganda che secondo il giornalista sarebbero potute provenire dallo stesso Blumenthal.

Quando Najjar parla di queste cose nel suo libro, non fornisce mai una testimonianza, seppur indiretta, ma cita dei «sentito dire». Le accuse di genocidio sono propaganda usata dagli addestratori militari di quei giovani giunti in Libia da mezzo mondo arabo e occidentale.

Citando tale propaganda o rumors, Parry chiede retoricamente ai lettori: «Quindi pensate che sarebbe stato più facile per l’amministrazione Obama mobilitare il sostegno americano dietro questo “cambio di regime” spiegando come i francesi volevano rubare la ricchezza della Libia e mantenere l’influenza francese neocoloniale sull’Africa, oppure che gli americani avrebbero risposto meglio ai temi della propaganda su Gheddafi che distribuiva il viagra alle sue truppe in modo da poter stuprare più donne mentre i suoi cecchini bersagliavano bambini innocenti?». Purtroppo, un mese dopo, le voci, fatte circolare dagli ambienti del dipartimento di stato Usa, e mai veramente confermate, degli stupri e dei cecchini diventarono materiale accreditato per una presentazione all’Onu dell’allora ambasciatrice Usa Susan Rice, e da lì, probabilmente, ritornarono come «sentito dire» tra i ribelli in Libia.

In realtà, l’offensiva militare di Gheddafi era rivolta verso i gruppi dell’islamismo radicale, ma i propagandisti dell’amministrazione Obama trasformarono la questione in «Gheddafi che massacra il popolo della Libia orientale», giustificando così l’operazione «Responsibility to protect» guidata dagli Stati Uniti.

Insomma, come in tutti gli altri precedenti conflitti di rapina contro Africa e Medio Oriente, bisognava creare il mostro per poterlo poi distruggere, non differentemente da ciò che è avvenuto con l’Afghanistan, l’Iraq e da ciò che ancora accade con la Siria. Come spiega bene Enrica Perrucchietti nel suo interessante libro «False Flag», le notizie per il casus belli di turno sono spesso inventate, o da giornalisti, o da politici o dalle varie intelligence.

Tripoli, 19/03/2011, proteste contro le decisioni contro Gheddafi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. © MAHMUD TURKIA / AFP

Le riserve auree di Gheddafi nel mirino

Qual era la vera minaccia rappresentata da Gheddafi? Tale minaccia non aveva a che fare con le politiche anticoloniali libiche? E con il tentativo di estromettere il nostro paese dal business petrolifero, e non solo, in Libia? D’altronde, Italia, Francia e Gran Bretagna sono in antagonismo sullo sfruttamento della Libia da ben oltre un secolo.

Da anni Gheddafi tentava di stabilire una moneta africana indipendente e alternativa al franco Cfa – adottato da 14 stati africani (di cui due non francofoni: Guinea Equatoriale e Guinea Bissau) su proposta della Francia (Cfr. MC marzo 2019) – e al dollaro, svincolata dall’ingerenza e dagli interessi della finanza globale. Dalle mail citate, trapela che la Francia di Sarkozy riteneva il Colonnello e il suo regime una minaccia per la sicurezza finanziaria del mondo8.

Scrive Ellen Brown sul sito «Counterpunch»9, il 14 marzo 2016: «Dopo il 1944, il dollaro Usa veniva scambiato in modo intercambiabile con l’oro come valuta di riserva globale. Quando gli Stati Uniti non furono più in grado di assicurare riserve d’oro per il dollaro, negli anni ‘70 stipularono un accordo con l’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) per “sostenere” il dollaro con il petrolio, creando il “petro-dollaro”. Il petrolio sarebbe stato venduto solo in dollari Usa, che sarebbero stati depositati a Wall Street e in altre banche internazionali. Nel 2001, insoddisfatto della contrazione del valore dei dollari che l’Opec stava ottenendo per il suo petrolio, l’iracheno Saddam Hussein ruppe il patto e vendette il petrolio in euro. Il cambio di regime seguì rapidamente, accompagnato da una distruzione diffusa del paese. Anche in Libia, Gheddafi ruppe il patto; ma fece molto di più che vendere il suo petrolio in un’altra valuta».

Sostegno dei ribelli e protezione dei civili?

Molti studiosi e analisti di geopolitica e storia della Libia si chiedono se l’intervento Nato fu fatto per proteggere i civili. Megerisi, Najjar e altri libici intervistati sostengono di sì e ringraziano l’Alleanza atlantica per la «liberazione» del paese.

Tuttavia, come evidenza, tra gli altri, il professor Maximilian Forte nel suo libro Slouching towards Sirte: Nato’s war on Libya and Africa, «l’obiettivo dell’intervento militare statunitense era quello di interrompere un modello emergente di indipendenza e una rete di collaborazione in Africa che facilitasse l’aumento dell’autosufficienza africana. Ciò contrastava con le ambizioni economiche, geostrategiche e politiche delle potenze europee extra continentali, in particolare negli Stati Uniti».

A suscitare ulteriori interrogativi sull’operazione militare occidentale contro la Libia, vi è la creazione, da parte dei «ribelli», di una «banca centrale» in sostituzione di quelle statali del regime. La decisione venne presa a marzo, un mese dopo l’avvio della rivolta e della guerra civile: in un incontro avvenuto il 19 di quel mese, il Consiglio di Transizione ne diede l’annuncio, insieme a quello della creazione di una nuova compagnia petrolifera. Inoltre, designò la Banca centrale di Bengasi come «autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia», nominandone anche il governatore.

Dunque, da quanto riportato qui sopra l’aggressione alla Libia non aveva come principale obiettivo la sicurezza della popolazione, ma quella delle banche e della finanza globale, del denaro e del petrolio.

Angela Lano

Ribelle anti Gheddafi. © MARCO LONGARI / AFP

Dopo la guerra il caos: Il paese non paese

Al contrario di un paese pacificato, la Libia vive oggi profonde divisioni. Il territorio è controllato da milizie e bande criminali che vivono di traffici vari. I fronti dei nemici di Gheddafi, dagli islamisti politici neoliberali ai comunisti ai jihadisti infiltrati, finita la guerra hanno iniziato a combattersi tra loro perché mancava un progetto politico comune. E nonostante le intelligence occidentali temessero l’ascesa dell’islamismo radicale, non esitarono a finanziare i jihadisti.

La Libia è tutt’altro che un paese unito e «democratizzato», come s’affannavano a descriverla tra la fine del 2011 e il 2014 i governi e i media occidentali: con la fine della jamahiriyya e l’assenza di un governo centrale riconosciuto da tutti, il paese si è trasformato in un rompicapo di regioni, qabile, città, gruppi, fazioni, tanti stati nello stato, mini sistemi feudali di potere e alleanze, tutti armati e con proprie milizie. Il paese è ostaggio di uomini armati, famiglie, partiti, islamisti, bande criminali. L’antica e mai sopita rivalità tra Tripolitania e Cirenaica, e tra le decine di qabile o gruppi etnici di cui si compone in gran parte la Libia fin dai tempi antichi, è riesplosa in modo devastante, aggravata dalla continua ingerenza politica ed economica delle potenze occidentali. Un paese frammentato e sofferente di cui non si può prevedere un futuro né prossimo né lontano.

Nelle città e nelle regioni di confine gli scontri hanno sovente come obiettivo il controllo di traffici illeciti: droga, petrolio, migranti. Intere aree della Libia, al Nord come al Sud, vivono della tratta degli immigrati provenienti dalle regioni subsahariane (Cfr. MC marzo e aprile 2018). Si tratta di una economia criminale emersa durante gli anni di guerra civile e che si radica sempre di più.

Islamismo politico nella rivolta

Le agende occidentali anti Gheddafi e i suoi progetti contro il neocolonialismo in Africa hanno trovato pronti e validi alleati in tutti quei, nemici che il Colonnello si era creato nei 40 anni di potere, tutti appartenenti, sostanzialmente, alle classi medio alte che le politiche di nazionalizzazione portate avanti avevano profondamente danneggiato: progressisti, conservatori neoliberisti, islamisti aderenti a movimenti dell’islam politico conservatore e neoliberista. Per gli islamisti e i comunisti c’era l’aggravante delle persecuzioni politiche a cui erano stati sottoposti per decenni. Tutti questi fronti si sono inizialmente coalizzati nella sollevazione contro il regime, per poi dividersi e trasformarsi in rivali a guerra Nato terminata. A questo si sono aggiunte le già citate antiche conflittualità tra le qabile.

L’islamismo politico, conservatore e vicino alle dottrine economiche neoliberiste, dal punto di vista religioso ha sempre considerato Gheddafi una sorta di innovatore miscredente. I partiti islamisti che hanno preso parte alle «primavere arabe» in Nord Africa e nel Medio Oriente, non sono «rivoluzionari», a livello economico, ma sostenitori della dottrina capitalista neoliberista (Cfr. MC gennaio 2013). Lo stesso capo del Lifg (Libyan Fighting Group), Abdelhakim Belhaj, che ad agosto del 2011 guidò la presa di Tripoli, di cui poi si nominò governatore, nel giro di poco tempo, da jihadista è diventato un businessman milionario con aereo privato.

Patrick Haimzadeh, ex diplomatico francese a Tripoli, scrive su «Le Monde Diplomatique» (ottobre 2012): «I principali partiti non islamisti sono descritti come “liberali”, ma tutte le parti sono accanite sostenitrici del sistema economico neoliberale. La più nota tra queste è la National forces alliance (Tahalouf al-quwwa al-wataniyya) guidata da Mahmoud Jibril. Questo ricco uomo d’affari ha lavorato a stretto contatto con il figlio minore del dittatore, Saif al-Islam Gheddafi, e ha aiutato a liberalizzare l’economia libica nei primi anni 2000, è stato un membro fondatore del Ntc insieme a Mustafa Abdel Jalil, ed è stato in contatto regolare durante la guerra civile con Sarkozy e Bernard-Henri Lévy (lo scrittore francese che ha richiesto l’intervento occidentale). Altro partito, nella regione orientale, è il National front party (Hizb al-jabha al-wataniyya), un tempo noto come Fronte nazionale per la salvezza della Libia, fondato da Muhammad Yousef Megharief nel 1981, quando era in esilio nel Regno Unito».

Jihadismo «infiltrato»

L’islamismo jihadista ha infiltrato la rivolta fin dai primi giorni, trasformandola in «cambio di regime». Nello scambio di mail tra Hillary Clinton e Blumenthal viene spiegata qual è la realtà, svuotata dalla propaganda: i ribelli, presunti innocenti, nella Libia orientale comprendono elementi jihadisti, come il Lifg e al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi), infiltrate nel consiglio nazionale di transizione. Dalle mail emerge che Sarkozy era molto preoccupato per questi aspetti e voleva anche capire «il ruolo dei Fratelli Musulmani nella leadership ribelle». Blumenthal spiega poi che le intelligence europee temevano che il nuovo governo potesse autorizzare l’Aqmi o altri gruppi islamisti a «creare piccole entità locali semi autonome o “Califfati” nelle regioni produttrici di petrolio e gas della Libia sudorientale»: nel marzo del 2011, erano tutti, politici e intelligence, coscienti del grave rischio rappresentato dalla presenza dell’islamismo radicale e dal terrorismo, pronti a sfruttare il vuoto di potere che la guerra occidentale stava creando in Libia. Tuttavia questa consapevolezza non li ha fatti arretrare, anzi. Milizie jihadiste sono state rifornite di ogni mezzo militare possibile.

Angela Lano

Note

(1) Ne scrive Hisham Matar nel romanzo «Il Ritorno».
(2) Pubblicate il 15 febbraio 2006 su un quotidiano danese.
(3) Regno di Libia, post indipendenza, 1951.
(4) US Department of State, H: France’s client and Q’s gold. Sid, 2 April 2011, C05779612.
(5) House of Commons, Foreign Affairs Committee, Libya: examination of intervention and collapse and UK’s future policy options, third report of Session 2016-17.
(6) Sito Common dreams (www.commondreams.org) «What Hillary new about Lybia», 13 gennaio 2016.
(7) Sito Counterpunch (www.couterpunch.org), Ellen Brown, Exposing the libyan agenda: a closer look at Hillary’s emails, 14 marzo 2016. Inoltre: Foreign Policy Journal (www.foreignpolicyjournal.com), Brad Hoff, Hillary emails reveal true motive for Lybia intervention, 6 gennaio 2016.
(8) Sito The new american, www.thenewamerican.com.
(9) Ellen Brown, ibidem.


Nota redazionale

Come scrive l’autrice nell’introduzione a questo dossier, tentare di ricostruire le cause e gli effetti del caso libico è tutt’altro che scontato. Per questo motivo il dossier approfondisce solo alcuni aspetti del processo che ha portato prima alla ribellione e poi all’intervento della Nato. Le questioni delle riserve petrolifere (tra le più grandi in Africa), del gas naturale (terzo stock sul continente), e dell’importanza geostrategica del paese come centro di snodo del traffico di migranti verso l’Europa, sono qui appena accennate. Come non sono trattati in queste pagine i fatti di attualità e le ripercussioni internazionali della situazione presente.

Ci riserviamo dunque di ritornare su questi temi in futuri approfondimenti.

Hanno firmato questo dossier:

  • Angela Lano – Giornalista professionista e ricercatrice presso l’Università Federale di Bahia-Salvador e la Soas (School of Oriental and African Studies), University of London. Collabora da molti anni con MC.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.

Archivio MC: Arturo Varvelli, Libia: caos post Gheddafi, novembre 2012.

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