Testo di Chiara Giovetti |
Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.
Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.
Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.
Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.
La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.
A che punto siamo
Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.
Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.
Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.
Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.
Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.
D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.
Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.
L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.
In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.
Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.
È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.
Le spinte in senso contrario
Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.
Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.
Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.
Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.
Più sviluppo meno migrazione?
Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.
È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.
Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.
Chiara Giovetti