Editoriale su Pazienza e missione di Gigi Anataloni, direttore di MC |
All’inizio di maggio, il 4, parlando a braccio a «frati e suore» riuniti in un convegno internazionale di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, Francesco, nostro amato papa, ha condiviso con loro la logica delle «tre p»: «Queste sono colonne che rimangono, che sono permanenti nella vita consacrata. La preghiera, la povertà e la pazienza».
Il nostro superiore ha invitato i miei confratelli e me a leggere e meditare quel discorso soprattutto perché tra fine maggio e inizio giugno ci incontriamo per una settimana allo scopo di decidere il nostro piano d’azione per i prossimi anni qui in Italia. Un’impresa non facile tenendo conto delle nostre forze, della nostra età e di questo nostro tempo tutt’altro che entusiasticamente cristiano.
Non entro nel merito della «p come preghiera», anche se è la chiave di volta di tutto (è il «prima santi» del nostro beato Allamano). Sulla «p come povertà» noto che la «povertà» che pesa di più è l’invecchiamento generale del nostro istituto in Italia e la mancanza di ricambio generazionale. Vedersi invecchiare senza avere qualcuno a cui passare il testimone è la cosa che pesa di più e sconvolge. Tutti noi, tanti anni fa, siamo partiti da una Chiesa italiana vibrante e piena di vitalità per andare ai quattro angoli del mondo dove abbiamo sperimentato la gioia dell’annuncio del Vangelo, affascinati e meravigliati dall’incredibile azione dello Spirito nei posti più remoti e improbabili. Siamo rientrati in Italia, spesso perché acciaccati, e abbiamo trovato seminari chiusi, parrocchie accorpate e chiese vuote in un paese dove edifici e opere cristiane diventano reperti da Ministero dei Beni culturali e l’essere e il pensare cristiani tendono a essere sempre più relegati nel più stretto ambito privato e le tradizioni cristiane sono o fagocitate dalla logica del mercato (vedi Natale) o addirittura impedite nella loro manifestazione pubblica in nome del pluralismo. Uno shock tremendo, da indurre a chiedere a noi stessi: «Ma abbiamo sbagliato tutto»? Se non fosse che il sistema sanitario italiano – a dispetto delle molte critiche che si fanno – è tra i migliori, la tentazione sarebbe quella di abbandonare il paese e andare a morire là dove abbiamo lasciato il nostro cuore e ci sono tanti giovani missionari che hanno voglia di partire verso le frontiere più remote del mondo.
Un passaggio del discorso di Francesco mi ha colpito: quello del «p come pazienza», soprattutto laddove il papa sottolinea che la pazienza va mano nella mano con la speranza. Tutt’altro che rassegnazione e tristezza, quindi. Tutt’altro che arrendersi all’ineluttabile. La pazienza, alimentata dalla speranza, è forza per costruire il futuro. Non solo, è soprattutto capacità di vedere che il futuro si sta costruendo nonostante le nostre debolezze e contraddizioni, perché c’è Qualcuno che lo crea in modo imprevedibile e sorprendente.
In sé, il papa non ha detto niente di nuovo. Questo tipo di pazienza è radicato nella tradizione cristiana. Noi preti e missionari dovremmo saperlo bene. Eppure, almeno per me, le parole di Francesco hanno avuto un sapore nuovo e quanto mai attuale. Suonano come un campanello d’allarme e una provocazione per noi missionari italiani tentati dalla rassegnazione e paghi di prepararsi a morire bene e nel modo più dignitoso possibile. Non abbiamo bisogno del «sopportare pazientemente le avversità» ma della vera pazienza che ci fa vivere guardando in avanti, sapendo che «sia che dormiamo, sia che vegliamo» il seme cresce da solo e porta frutto, e che Dio dà agli «Abramo e Sara» di ieri, di oggi e di sempre il figlio atteso anche se ormai vecchi, sterili e anche increduli.
Per noi missionari italiani – mi permetto di generalizzare perché la realtà dell’invecchiamento e della mancanza di giovani italiani tra i nostri ranghi è un fatto che riguarda un po’ tutti gli istituti maschili e femminili – vivere questo tipo di «pazienza che è speranza» è l’ultima frontiera della missione. È un dovere di fedeltà e riconoscenza verso Colui che ci ha mandato e verso tutte le persone che abbiamo amato e continuiamo ad amare anche «ai confini» della terra. È un atto di amore e fedeltà nei confronti di tutti quelli che hanno dato e danno la loro vita per un mondo più giusto e più bello come monsignor Oscar Romero, suor Leonella Sgorbati, abbé Albert Tongiumale-Baba in Centrafrica, don Juan Miguel Contreras Garcia in Messico, don Mark Ventura nelle Filippine, Asia Bibi prigioniera in Pakistan, i migranti affogati nel Mediterrano.
La pazienza, poi, è un modo di essere di cui siamo debitori soprattutto a chi ha perso la speranza, ingannato dalle false promesse di un mondo edonista e materialista che copre i suoi fallimenti con fake dreams e fake news. E agli anziani abbandonati alla solitudine, ai giovani senza lavoro, ai nuovi poveri, alle famiglie disgregate, a chi è abortito. Vivere con pazienza, in forza della debolezza, fragilità e povertà vissute sulla propria pelle, diventa davvero un proclamare la «buona notizia» che la Vita è più forte della morte, l’Amore vince tutto e la Bellezza non tramonta mai. È continuare a essere testimoni della Pasqua del Signore, oggi.
Gigi Anataloni
Cari Missionari. Grazie ai lettori di MC
Lettere di Grazie ai lettori |
Mi chiamo Ludovico
Sono un missionario della Consolata di 33 anni di Mesagne, una cittadina in provincia di Brindisi nella regione Puglia. Desidero condividere la mia esperienza di missione riassumendo il cammino che ho fatto finora.
Due le mie esperienze forti: una in Argentina, a Martin Coronado (Buenos Aires) dove ho fatto il noviziato, e l’altra in Kenya, a Nairobi, dove mi trovo in questo momento a studiare teologia.
Argentina e Kenya, come potrete benissimo immaginare, sono due realtà molto diverse. L’esperienza in America Latina ha cambiato la mia fede e scalzato tutto ciò in cui avevo posto le mie certezze, mettendomi davanti agli occhi la realtà della vita e facendomi capire che il mondo è molto diverso da come lo immaginiamo e non è solo quello che viviamo ogni giorno nelle nostre comodità. La missione però non ti presenta solo difficoltà, ti regala anche tante emozioni, poiché la condivisione con la gente è il primo fine di noi missionari; non costruire chiese, scuole! Anche questo è ovvio, ma prima di tutto viene la persona, l’ascolto.
Potrete ben immaginare come abbia sofferto il fatto di dover lasciare l’Argentina, una terra fantastica, una gente super accogliente…
Dopo il noviziato i miei superiori mi hanno detto che sarei dovuto venire qui in Africa. Non è stato facile. Per niente. Cultura, cibo, abitudini, modo di pensare e di affrontare i problemi, tutto è diverso. È tutto un altro mondo. Ho dovuto rivedere (e sto ancora rivedendo) la mia fede. Una fede che non trova pace poiché qui si sperimenta facilmente «l’abbandono di Dio».
Già, non mi vergogno a dirlo. A volte con Lui faccio a cazzotti. Ci sono situazioni qui che non sono facilmente giustificabili solo dicendo: «Dio è con noi». No. Qui c’è veramente da affrontare la realtà, ogni giorno, rimboccandosi le maniche e dando il massimo, a volte anche andando oltre le tue forze.
Però l’Africa è bellissima. Essa mi ha insegnato a non essere ansioso, ad affrontare i problemi con serenità, che i fallimenti fanno parte della vita ma non sono essi a determinarla o ad avere l’ultima parola.
Ho vissuto la mia seconda Pasqua qui in Kenya, quest’anno con tanta nostalgia della mia terra. Ma essere missionari porta a delle rinunce, a lasciare la famiglia, gli affetti più cari, seguendo quella voce da cui senti che dovrai prima o poi davvero lasciarti guidare.
Forse non sono esaustivo con queste parole, ma non è facile raccontare «la missione». Bisogna viverla. Quindi il mio è un invito affinché ognuno di voi coltivi prima in se stesso, e poi seminandole intorno, la gioia e la bellezza della missione. È tempo di andare, di uscire da se stessi. È tempo di incontrare. È tempo di amare.
Un abbraccio a tutti e grazie ancora per questa opportunità! Dio vi benedica!
Ludovico Tenore,
Nairobi 06/05/2018
Grazie e ancora Grazie
Dalla Costa d’Avorio
Mi chiamo Philippe. Nel 2002 mi avevano preso per un corso di formazione nel complesso di zuccherifici di Borotou-Koro, qui in Costa d’Avorio. Era la mia possibilità di essere poi assunto in pianta stabile. Ma lo scoppio della guerra nel settembre 2002 ha bloccato tutte queste speranze. Sono tornato allora a lavorare nei campi per nutrire mia madre, mia sorella e il mio fratellino. In quel periodo non ero ancora sposato e non avevo figli. Sono stati tempi duri. Poi la mia vita è cambiata. Nel 2007 i missionari di Dianra mi hanno mandato a studiare a Korhogo, nel Nord del paese, come ausiliario nella sanità, e ho lasciato mia sorella e mio fratello – ormai cresciuti – a occuparsi dei campi. Il corso è durato tre anni e sono stato promosso a pieni voti, il primo del mio gruppo. A Dianra avevano appena inaugurato il centro sanitario Joseph Allamano e con Alice e Suzanne sono stato il primo a lavorarvi. È un servizio che mi riempie di gioia e soddisfazione perché aiutiamo la gente del nostro villaggio e posso mantenere bene la mia famiglia con i miei tre bambini.
Grazie ai missionari e ai loro amici per quanto hanno fatto per me e per la gente di Dianra.
Philippe da Dianra
Mi chiamo Suzanne Soro Gnimin. Nell’anno scolastico 2006-2007, mentre mi stavo preparando per l’esame di licenza media, i missionari della Consolata mi hanno offerto di fare un corso di formazione sanitaria perché stavano progettando di costruire un centro di salute. Ho accettato la loro proposta e nel settembre 2007 sono andata a Korhogo in un centro di formazione professionale dove ho studiato per 3 anni. Nel 2010 ho preso il Diploma Cap (Certificat d’Aptitude Professionnelle). I missionari della Consolata mi hanno assunto nel loro nuovo centro sanitario dove lavoro ancora oggi. Al momento sono felice perché, grazie a questo lavoro, posso prendermi cura di me stessa, dei miei figli e della mia famiglia. Dico un grande grazie e mi sento molto grata per tutto ciò che ho ricevuto grazie al loro sostegno. Prego che il Signore, che li ha scelti per la sua missione, li protegga e dia loro sempre coraggio e saggezza per aiutare altri come me.
Suzanne da Dianra
Grazie dall’Argentina
Buon giorno a tutti i fratelli. Sono Juan de Dios López, cacique della comunità Territori Originari Wichi. Ringrazio lo sforzo di tutta la Chiesa, nella persona del fratello José (padre Giuseppe Auletta, ndr), che ha potuto condividere con noi la sua vita, dato che è difficile capire persone come noi. Ci siamo rivolti alla Chiesa, e la Chiesa, provvedendo i materiali, ha collaborato con il nostro progetto di allacciamento alla conduttura dell’acqua. Noi abbiamo messo il nostro lavoro scavando un fossato di quasi tre chilometri. Il lavoro, durato parecchio tempo, ha prodotto un miglioramento notevole del benessere della comunità. Questa è molto contenta e soddisfatta, dato che la Chiesa è stata l’unico attore presente nella nostra difficile situazione. La comunità, poco a poco, ha migliorato le sue condizioni riguardo alla semina, alla riforestazione e all’orticoltura. La comunità finalmente ha l’acqua, risultato anche di un impegno comune.
[Prima, per soddisfare il bisogno di acqua,] dovevamo camminare circa tre chilometri, fare tanto sacrificio e, inoltre, dovevamo trattare con i vicini che ci limitavano l’acqua, e la cosa si rendeva molto pesante. Tuttavia, grazie al fratello José e al nostro sforzo ora abbiamo l’acqua, possiamo lavorare e migliorare.
Ci siamo organizzati nella comunità per lo scavo del fossato e abbiamo dovuto tralasciare le nostre attività abituali per poter avere l’accesso all’acqua e allacciare i tubi di irrigazione alla rete principale. Con questo sforzo la comunità ha potuto recuperare la vita degli alberi. Consideriamo importante non sprecare l’acqua, così come l’ombra che ci danno gli alberi. La comunità può recuperare specie originali come il quebracho, il lapacho, il palo amarillo, il yuchán, l’algarrobo e tutto ciò che ha a che vedere con il rimboschimento ancestrale. Abbiamo avuto formazione adeguata al riguardo. Perciò siamo veramente grati alla Chiesa, attraverso il fratello José e quanti stanno collaborando alla questione indigena. Senz’altro, la comunità continuerà con la propria organizzazione e miglioramento, con la fedeltà alle nostre usanze ancestrali, chiedendo che i fratelli comprendano che abbiamo bisogno di molte cose, mentre noi ci sforziamo di far tutto con spirito comunitario, per migliorare ed essere parte del mondo che ci circonda.
In nome di tutta la comunità desideriamo far arrivare un abbraccio a quanti hanno collaborato al nostro progetto.
Cacique Juan de Dios López
Tartagal, Salta, Argentina
Grazie dalla Colombia: «Un ranchito para mi gente»
Nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù de La Tagua sul rio Putumayo in Colombia opera un gruppo Caritas che, tra i vari progetti, ha anche quello di costruire delle casette per persone povere. Con questo progetto, «un ranchito para mi gente», finora siamo riusciti a costruire due casette di legno: una a Raquel Cerityama, un’anziana di 75 anni, e un’altra per Emerita Zafirakudo, una madre con 7 figli. Il gruppo Caritas ha aiutato anche a completare le case di un’anziana di 81 anni e di una famiglia con 10 figli. Per realizzare questi «ranchitos» la comunità integra gli aiuti che arrivano tramite amici e benefattori, anche dall’Italia, con una serie di iniziative locali per stimolare la solidarietà con offerte di materiale o di cibo. Facciamo anche delle piccole lotterie (niente di super: qualche pollo e un po’ di bibite in premio!). Per la costruzione si fa poi una «minga» (lavoro comunitario), che si conclude naturalmente con un bel pranzo tutti insieme. Da Raquel ed Emerita e i suoi 7 figli, il grazie più sincero anche a nome degli altri poveri di La Tagua.
Padre Gabriel Armando,
La Tagua, Putumayo, Colombia
Angola: Verso una nuova missione ad gentes
Testo sull’Angola di Marco Bello, foto di Diamantino Antunes |
Angola. Dalle grandi città in cui svettano i grattacieli e brulicano le baraccopoli, alle savane sperdute e spopolate. In Africa le sfide per la missione ci sono tutte. Così i missionari della Consolata iniziano un nuovo servizio. In una zona lontana e (quasi) abbandonata da 50 anni. Portando la loro esperienza e lo stile che li caratterizza.
È l’11 settembre del 2010 la data sulla prima lettera spedita da monsignor Jesus Tirso Blanco al superiore dei missionari della Consolata, all’epoca padre Aquileio Fiorentini. In essa il vescovo di Luena lo invita a mandare un’équipe missionaria nella sua diocesi. Siamo nell’Angola profonda, nella provincia di Moxito, al confine con Repubblica Democratica del Congo e Zambia. Il cuore dell’Africa.
Monsignor Tirso Blanco è argentino e salesiano. Ha passato una vita in Angola e dal 2008 è vescovo di questa diocesi, tra le più vaste dell’Africa subsahariana. Conosce il valore e lo stile dei missionari della Consolata, in particolare per il loro lavoro in Mozambico, paese lusofono, che ha similitudini storiche e culturali con l’Angola.
Ci racconta padre Diamantino Antunes, superiore dei missionari della Consolata in Mozambico e incaricato di seguire l’Angola: «Da quando è stato ordinato vescovo, mons. Tirso Blanco ha cercato per la sua diocesi quello di cui aveva, e tuttora ha, più bisogno: missionari. Non avendo clero locale e pochi religiosi missionari, è alla ricerca di équipe missionarie per far rivivere le antiche missioni che sono abbandonate da 50 anni, da quando è iniziata la guerra coloniale. Si rivolge sia in Angola sia all’estero. Lui conosce la nostra esperienza in Africa e, in particolare, nella missione ad gentes. Conosce il lavoro che facciamo in Mozambico dove siamo in aree difficili, di prima evangelizzazione. E apprezza il nostro approccio nella formazione di catechisti, dei laici come membri attivi della chiesa. Ha cercato quindi missionari qualificati per la sua diocesi, che potessero portare un valore aggiunto. Occorre essere disposti a lavorare in zone distanti e difficili, con metodologia nuova, anche se già sperimentata altrove».
Padre Diamantino è stato nella diocesi di Luena e in particolare nella cittadina di Luacano, lo scorso dicembre. È qui che il vescovo ha chiesto ai missionari della Consolata di riaprire una missione, e lo ha fatto tramite una seconda lettera, nel febbraio 2015, scritta a padre Stefano Camerlengo, eletto nel frattempo superiore dell’Istituto.
Una provincia isolata
Area molto vasta e sotto popolata, la provincia di Moxico è stata particolarmente toccata dal conflitto. Prima la guerra di liberazione dai coloni portoghesi (iniziata nel 1961) e poi, dal ‘75, la guerra civile tra Mpla (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) e Unita (Unione per l’indipendenza totale dell’Angola). «La guerra ha colpito duro qui. Dall’inizio è stata zona di influenza di Unita, che l’ha controllata fino alla fine, nel 2002. Sono stati usati bombardamenti aerei che hanno distrutto le poche costruzioni permanenti, tra cui le chiese». Proprio qui è stato ucciso Jonas Savimbi, il leader storico dell’Unita, evento che ha portato alla fine delle ostilità.
A causa della guerra la provincia si è quindi ulteriormente spopolata. Molti sfollati sono fuggiti nei paesi confinanti e numerose sono state le vittime.
Oggi assistiamo a un impegno del governo per ricostruire le infrastrutture. Ricorda padre Diamantino: «Le cose stanno migliorando dal punto di vista della comunicazione. È stata ripristinata la ferrovia che collega la costa con Luena e i paesi confinanti. Il treno passa anche da Luacano. Questo è importante per rompere l’isolamento della zona, sia verso la capitale, sia verso gli altri stati. È una regione fertile per cui il governo sta cercando di svilupparla».
Il governo, in origine di ispirazione marxista leninista, è molto collaborativo con la diocesi, e vede bene l’insediamento di nuovi missionari in zone sperdute. Ci spiega padre Diamantino: «Passati gli anni della rivoluzione e dell’antagonismo, oggi il governo è interessato a collaborare con la chiesa cattolica. È infatti la chiesa maggioritaria nel paese e ha avuto molta influenza sull’educazione e la formazione. Le autorità vedono come un grande aiuto la sua presenza, soprattutto in questi posti più isolati».
E continua: «Forse anche perché la crisi economica sta attraversando il paese. In ogni caso la chiesa cattolica è vista come un’istituzione che può fare la differenza. In particolare, il vescovo salesiano ha una preoccupazione sociale molto forte. Lavora per attivare progetti per alfabetizzazione, scuola, sviluppo. E il suo lavoro è molto apprezzato».
Un altro paese africano
Ma perché i missionari della Consolata, già presenti in nove paesi del continente, hanno deciso di affrontare una nuova sfida, proprio nel gigante angolano? Lo abbiamo chiesto a padre Fredy Alberto Gómez Pérez, che è stato tra i primi tre ad arrivare nel paese, il primo agosto 2014.
«Già nel capitolo generale di São Paulo del 2005 (riunione di tutti i delegati dell’Istituto nella quale si elegge il consiglio e il superiore generale, ndr) si era parlato di una nuova apertura missionaria e in particolare nell’Africa lusofona. Questo perché tra i paesi di lingua portoghese l’Istituto è presente solo in Mozambico. L’idea è stata ripresa sei anni più tardi con più forza ed è iniziata una ricerca per definire il paese», ci racconta padre Fredy.
«La scelta è caduta sull’Angola e le motivazioni erano due: il bisogno nel paese di missionari ad gentes, in terra di prima evangelizzazione, e una richiesta da parte di diocesi con bisogno di clero, per appoggiare il lavoro nella pastorale urbana». Padre Francisco Lerma Martínez, all’epoca superiore dei missionari della Consolata in Mozambico, oggi vescovo di Gurué, intraprese un viaggio in Angola, dove visitò tutte le diocesi e si confrontò con i diversi vescovi.
Era il 2011 ed esisteva già una richiesta pendente: quella di monsignor Tirso Blanco della diocesi di Luena. «I superiori si confrontarono con diverse congregazioni e vescovi e fu loro sconsigliato di iniziare con una missione in una zona come quella, lontana e complessa, un luogo di frontiera». La scelta quindi è andata alla diocesi di Viana, creata nel 2008 da uno smembramento dell’arcidiocesi di Luanda (la capitale). Qui il contesto è quello della periferia urbana della capitale, con alta densità di popolazione e il continuo arrivo di gente dalle province. I cattolici in quest’area sono il 40% della popolazione e la problematica principale è la mancanza di sacerdoti.
I primi tempi
Oltre a padre Fredy, gli altri missionari della Consolata a stabilirsi in Angola sono stati padre Dani Antonio Romero Gonzales, venezuelano, e padre Sylvester Oluoch Ogutu, keniano. Una squadra piuttosto giovane: tutti sotto i 40 anni e freschi di ordinazione. Solo Fredy aveva un’esperienza precedente in Repubblica Democratica del Congo.
«Ci accolsero i missionari Xaveriani di Yarumal, una congregazione colombiana. Ci ospitarono presso di loro alcuni mesi. La collaborazione fu ottima e lo è tuttora. La parrocchia che avremmo dovuto gestire, sant’Agostinho a Kapalanga, era stata ritagliata da un’altra molto più vasta. In un’area di 27 km2 vivono 17.000 persone. Ci sono otto cappelle intorno alle quali si riuniscono altrettante comunità. I molti fedeli avevano grosse difficoltà a recarsi nella sede parrocchiale piuttosto distante e la presenza dei sacerdoti era temporanea».
Ricorda padre Fredy: «Nei primi incontri con la comunità abbiamo sentito una sete profonda di presenza dei padri, e dell’ascolto della parola di Dio. Un sentimento e una necessità di tutti. Siamo stati accolti con molto calore». Le prime difficoltà sono state invece di tipo logistico. La parrocchia possedeva solo due terreni, su cui edificare la chiesa e la casa. «Essendo appena arrivati cominciavamo da zero: non avevamo casa, né mezzi di trasporto. Si è subito creata un’iniziativa di grande cooperazione missionaria, per cui gli altri paesi africani in cui i missionari della Consolata sono presenti, ma anche europei e sudamericani, in particolare il Brasile, hanno raccolto fondi per la nuova presenza in Angola».
I tre missionari sono stati per alcuni mesi dagli Xaveriani, per poi, grazie all’appoggio della comunità di Kapalanga, affittare un alloggio nei pressi della parrocchia, dove abitano tuttora. Racconta ancora padre Fredy: «Grazie alle offerte locali riuscimmo a costruire un salone, che funge oggi da chiesa parrocchiale temporanea, oppure da salone per le riunioni. Un altro problema pratico è stato il trasporto. Chiedevamo auto in prestito o andavamo con i mezzi pubblici e i mototaxi. Finalmente abbiamo acquistato un’auto e una moto».
L’accoglienza è stata dunque molto calorosa e, ricorda padre Fredy, difficoltà logistiche a parte: «Era necessario investire tempo nella formazione della comunità, non solo nelle infrastrutture, affinché assumesse una coscienza di vera famiglia. I fedeli ci accolsero molto bene e si diedero subito molto da fare per aiutarci, non solo per l’integrazione. Anche per trovare soluzioni ai problemi pratici».
Secondo (e terzo) atto
Dopo il primo anno si è iniziato a parlare di una seconda missione da aprire. Restava pendente la richiesta di monsignor Tirso Blanco per Luacano. Ricorda padre Fredy: «Le opzioni sul tavolo erano due: Luacano in Luena, oppure Caxito, capitale della provincia di Bengo. Una diocesi nuova come quella di Viana e non lontana. Si optò per quest’ultima. Questo perché, essendo una seconda missione, era preferibile fosse vicina alla prima, per comodità logistica. Per condividere le esperienze e rafforzare la presenza dell’Istituto in Luanda nella pastorale della periferia urbana, molto popolata e carente di sacerdoti».
Non si poteva però restare sordi alla richiesta dell’Angola profonda, così «si decise che la terza apertura sarebbe stata in Luena, in tempi non troppo lunghi».
Sono arrivati in Angola tre nuovi missionari molto giovani, tutti sotto i 35 anni: Luis Antonio de Brito, brasiliano, e due tanzaniani: Heradius Germanus Mbeyela e Marcos Mwasatila Mapinduzi Simbeye. E nel 2016 è iniziato il lavoro nella parrocchia di Funda, diocesi di Caxito.
Questione di stile
Adesso i tempi sono maturi anche per Luacano e, dopo diverse visite, i missionari si apprestano a iniziare questa nuova avventura, entro la fine dell’anno.
Padre Diamantino: «Come missionari è una grande sfida. Anche se abbiamo l’esperienza e siamo ad gentes, siamo da poco in questo paese e le nostre due presenze vicino a Luanda sono molto diverse. Si tratta di zone urbane o periurbane, con buona presenza cattolica. Il lavoro è più facile da organizzare, da portare avanti. Lì stiamo portando un po’ del nostro stile. A Luacano, il contesto è molto diverso. I cattolici sono solo l’8-9% e il territorio è vasto e spopolato. Inoltre, oggi l’Istituto non ha a disposizione gli stessi fondi che aveva in passato e tutto diventa più difficile. Tuttavia, il gruppo di missionari che abbiamo in Angola è giovane e motivato. La scelta non è stata imposta dall’alto, ma sentita. Perciò sono disponibili ad andare, anche se la situazione è molto più difficile di dove siamo adesso. A Kapalanga e Funda c’è molto lavoro, ma anche molte soddisfazioni. Dove andremo a Luena si dovrà cominciare tutto da capo, occorrerà molto spirito missionario, per andare a cercare le persone, ricostruire le comunità. Sapendo che tante cose mancheranno: la tecnologia, le vie di comunicazione. Ma abbiamo uno spirito missionario da pionieri. Anche in Angola il nostro stile di presenza è marcato: con pochi mezzi, una presenza di contatto con la gente, e questo porta a una grande collaborazione da parte della popolazione».
Gente molto religiosa
Un’altra sfida nell’area di Luacano è la penetrazione di quelle che padre Diamantino chiama «sette cristiane e chiese indipendenti africane», che hanno preso lo spazio lasciato libero dalla chiesa cattolica.
Le prime sono costituite da gruppi che hanno origini esterne e si stanno diffondendo. Le chiese indipendenti africane, invece, sono un fenomeno in crescita nel continente. «Fondate da africani, in Africa, per gli africani, non sono legate a nessuna chiesa storica. Alcuni fondatori si considerano veri profeti. Queste chiese hanno qualcosa del cristianesimo, come l’uso del Vangelo, ma anche molti aspetti delle religioni tradizionali africane». In particolare, padre Diamantino si riferisce anche a riti più legati alla sfera della stregoneria che della religione.
«In generale questo popolo con cui andremo a lavorare è rimasto un po’ indietro, perché è molto isolato, questo anche nelle aree confinanti degli altri due paesi. Perciò non si sono lasciati molto penetrare dalla colonizzazione, né dall’evangelizzazione, rimanendo molto legati alla tradizione. Nei confronti dei popoli vicini hanno delle caratteristiche proprie. Praticano molto religioni tradizionali ma anche stregoneria».
E continua: «Quello che ho sentito è che si tratta di un popolo un po’ passivo. Nonostante la terra sia fertile, è poco sfruttata. Si dedicano in prevalenza alla pesca (c’è abbondanza di pesce nel lago Diolo, il più grande del paese, ndr) e alla caccia. Si limitano a poche colture, come la manioca. Anche dal punto di vista dello sviluppo umano sono indietro rispetto ad altri popoli. Hanno ricevuto meno educazione, e hanno meno intraprendenza di altri popoli. Penso che dipenda anche dall’isolamento e da un certo atavismo culturale». Fa quindi un parallelismo con una zona di missione simile in Mozambico: «È una zona simile dal punto di vista religioso e culturale a quella di Fingué, nella diocesi di Tete, in Mozambico (Cfr. MC maggio 2015). La differenza è che lì sono confinanti con paesi più sviluppati e questo fornisce influsso positivo.
A Fingué, nonostante le difficoltà c’è da parte della gente curiosità e apertura. Abbiamo lavorato per creare una base affinché la comunità possa svilupparsi, ovvero formato laici, catechisti, in grado di fare essi stessi la chiesa. L’esperienza in Mozambico può insegnarci molto per Luacano».
L’avventura continua
A fine giugno 2018 padre Fredy Gómez e padre Luiz Antonio de Brito si recheranno a Luacano con l’obiettivo di incontrare tutte le comunità. In particolare, quelle intorno al lago Diolo, che è l’area dove si concentra la popolazione. Qui si riesce ad andare solo quando non è stagione delle piogge. Il programma prevede che tre missionari della Consolata vi si stabiliscano a settembre.
Ci spiega padre Fredy: «Dobbiamo incontrare i leader locali e la gente attiva nella pastorale, come i catechisti e i laici impegnati. Sono coloro che sono riusciti a mantenere la presenza cristiana e cattolica in quelle zone durante gli ultimi 50 anni».
Marco Bello
Vita e speranze a Moria,
l’hotspot di Lesbo
Testo e foto su Lesbo di VALENTINA TAMBORRA |
L’isola greca di Lesbo è a pochi chilometri dalle coste turche. È diventata passaggio naturale della rotta balcanica dei migranti. Primo lembo di terra dell’Unione europea verso il Medio Oriente. Qui è stato creato un centro di identificazione, il «campo» di Moria, dentro e fuori il quale i profughi cercano di sopravvivere. Siamo andati a raccogliere alcune delle loro storie.
Lesbo. «This is not Europe» è la frase che si sente ripetere incessantemente a Moria. Solo 8,6 km separano il campo di Moria dal resto dell’Europa. E il resto dell’Europa, sull’isola di Lesbo, inizia a Mytilini. È da qui, infatti, che partono i traghetti che collegano l’isola al continente, ad Atene.
Il porto di Mytilini è il fulcro commerciale del luogo. Negozi di souvenir, ristoranti, bar alla moda, musica ad alto volume sparata tutto il giorno dagli altoparlanti sul lungomare. Uno scenario che difficilmente riesci a spiegarti: due mondi paralleli sono divisi da un muro invisibile, quello fra il campo (ufficialmente hotspot) di Moria e il resto dell’isola. È qualcosa che si fa fatica a comprendere, a tollerare.
Moria, centro di accoglienza e identificazione, luogo adatto a ospitare non più di 2.000 persone, ad oggi, marzo 2018, ne contiene o, sarebbe meglio dire, ne trattiene quasi 6.000. Afghanistan, Siria, Iraq sono i luoghi di origine per la maggior parte degli ospiti.
L’attesa per essere ricollocati o rimpatriati può durare mesi, a volte anni.
Una vita al limite
Qui le condizioni di vita sono disperate: mancano servizi igienici adeguati, acqua calda, abiti, generi di prima necessità. Le donne indossano pannolini per non essere costrette a recarsi alle latrine dove manca la luce e dove spesso, purtroppo, si verificano aggressioni sessuali.
Mancano inoltre alloggi adeguati, migliaia di persone vivono accampate in piccole tende nel campo o subito all’esterno, nell’uliveto denominato Olive Grove che è diventato, a tutti gli effetti, un’estensione del campo profughi. Sulla nuda terra vengono piantate tende instabili e traballanti, inadatte alla pioggia, al vento e al clima rigido dell’inverno. Nel 2016 sono morte cinque persone per via del freddo. L’elettricità viene fornita con cavi da interno, che passano sul terreno mettendo così a rischio l’incolumità delle persone. Camminando nell’accampamento non è raro vedere i bambini (che qui sono quasi il 40% dei migranti) giocare con tutto ciò che trovano a terra, vetro, cocci, spazzatura e, appunto, cavi elettrici.
Per scaldarsi si brucia quello che si trova, plastica compresa.
E ancora, non esiste un servizio medico adeguato, né un supporto psicologico, e neppure mediatori culturali a sufficienza.
La tigre Tamil
Ed è proprio per questo motivo che Parathi, la prima persona di cui ho raccolto la testimonianza, è bloccato sull’isola da 23 mesi. Per mancanza di persone che possano occuparsi di raccogliere la sua storia, di comunicare la sua richiesta d’asilo al governo greco.
Parathi viene dallo Sri Lanka, è una «tigre Tamil», ovvero un uomo che ha combattuto per 13 anni per la liberazione della propria terra. Fuggito perché perseguitato, si trova bloccato a Moria senza un interprete. Parathi, chiamato da tutti «Maradona» (per la sua abilità nel gioco del calcio, una delle poche attività ludiche previste per dare sostegno ai migranti), non parla infatti un buon inglese. Avrebbe bisogno di un traduttore tamil ma a Moria non se ne vedono. L’unico in grado di tradurre la testimonianza è un Tamil residente nel Nord Europa. L’Easo (Ufficio Europeo di Sostegno per la richiesta d’asilo) deve avere evidentemente dei problemi nel reperirlo, in quanto in 23 mesi Parathi è riuscito a parlarci una sola volta e la sua domanda d’asilo è stata poi rigettata: si ritiene infatti, a livello internazionale, che in Sri Lanka non esistano più discriminazioni razziali o conflitti interni.
Ma basta fare una semplice ricerca per capire che ciò non corrisponde a verità: il Nord Est dello Sri Lanka è ancora militarizzato e come da dichiarazione dell’arcivescovo di Mannar, monsignor Emmanuel Fernando, dal 2009 mancano 146.679 persone all’appello. Scomparsi, uccisi forse, in quello che è un vero e proprio genocidio di cui non si parla.
Parathi sorride, nonostante tutto. Con il poco cibo che gli viene dato da chi gestisce il campo, mi offre il pranzo. Siamo seduti su una panca in legno tutta traballante: l’ha costruita lui, con la legna trovata nell’Olive Grove. Mi prepara un piatto di riso, pollo e pomodoro, qualcosa che, dice: «Mi ricorda casa».
Casa, dove ha lasciato due figlie, Supidisha, 7 anni, e Karshika, 5. Mi mostra la foto sul cellulare: è orgoglioso delle sue bambine, come ogni papà. È in quel momento che mi dice «sono 23 mesi che non le vedo». La mano trema un po’. Gli occhi si fanno lucidi.
Insieme a lui, nel grande tendone posto al centro dell’Olive Grove, altri quattro Tamil: Hari, Yoga, Danesh e Kayu. Anche loro aspettano una risposta, sono qui da meno tempo di Parathi, ma comunque da più di un anno. L’unico spazio «privato» per loro, è un letto a castello con delle coperte vecchie e logore appese a fare da separé. Nel tendone infatti, ci sono più di 200 persone.
Quando li saluto, mi sorridono «We miss you, write us mam», e da allora, da quando ci siamo salutati il 1 gennaio del 2018, non passa giorno che Parathi non mi mandi con un WhatsApp la buonanotte e il buongiorno.
Il vecchio e il nipote
Il nonno ha 70 anni. Per dirmelo me lo indica con le mani, come quando, da bambini, iniziamo a contare. «Doctor, doctor», ha imparato questa parola perché è ciò di cui ha più bisogno. Seduto sul ciglio di una piccola tenda canadese, mi chiama così, pensando di aver trovato ciò che più gli serve.
Mohamed è arrivato dall’Afghanistan insieme a suo nipote adolescente. È un «caso vulnerabile»: alla sua età non potrebbe essere altrimenti. La sua condizione è scritta, in greco e in inglese, sul certificato che mi mostra. Lui non capisce né l’una né l’altra lingua ma sa, in qualche modo, cosa significa quel timbro.
Sa che gli darebbe diritto a cure mediche, a un giaciglio asciutto e caldo, a cibo che possa masticare, senza che le mascelle gli dolgano, senza far fatica. Quando mi avvicino si toglie il cappellino di lana vecchia, infeltrita. Mi mostra delle cicatrici, mi prende una mano e me la porta alla sua testa, vuole che le tocchi, cerca di farmi capire dove sente dolore.
Gli mostro la mia macchina fotografica, mimo il gesto di scattare una foto. Non c’è nessun mediatore culturale con me in quel momento, non so spiegarglielo chi sono, non so dirgli che non posso fare niente per lui. Prima di andare, gli mostro ancora la macchina fotografica, lo indico, mi indico. Questa volta sì, gli sto chiedendo il permesso. Lui mi guarda, si raddrizza sostenendosi con un bastone ricavato da un ramo d’albero, si porta la mano al cuore e annuisce: scatto una foto, due, tre mentre mi allontano.
Lo guardo, fermo così, una mano sul bastone, un sorriso appena accennato, mi saluta a suo modo. Spero abbia capito. Spero, soprattutto, sia servito a qualcosa.
Sarà un altro uomo, afghano anche lui, a raccontarmi del vecchio Mohamed e di suo nipote. A dirmi di come quel ragazzo si prende cura ogni giorno del nonno: la coda per il cibo, tre volte al giorno, può durare anche due ore. È solo per quello che suo nipote si allontana, per il resto è sempre con suo nonno. L’unica famiglia che gli è rimasta.
Una nuova lingua
Khder ha 60 anni e sta imparando una nuova lingua. Le prime parole che mi dice sono queste: coperta, freddo. Non «Ciao, come stai? come ti chiami? quanti anni hai?». E a seguire: malato, scarpe.
Perché qui, a Moria, a nessuno importa di come ti chiami, da dove vieni, da cosa scappi. A Moria conta l’essenziale, a quello si deve badare e devi saperlo chiedere o potrebbe non arrivare mai.
Khder è il più anziano di una famiglia «allargata»: in tutto, divisi in tre tende canadesi, ci sono dodici persone. Rahema sua moglie, la loro bambina di nove anni, Bahar, la sorella più grande, Barham. E poi ancora Jasm, Kherea, Sema, Soma, Adonea, Aland, Mhabad e Kazm. Sono curdi, vengono dal Kurdistan iracheno.
Kazm, per la sua patria, ha combattuto: era un peshmerga, e la battaglia gli è costata quasi una gamba. Ha poco più di quaranta anni e per muoversi deve sostenersi con un bastone. Zoppica vistosamente: anche lui, come il «nonno» afghano, è un caso vulnerabile. E poi ci sono i bambini, la più grande ha nove anni, la più piccola poco più di uno. Nessuno di loro parla inglese, ed è per questo che passiamo un pomeriggio e una sera raggomitolati in una delle tende, a cercare di insegnare loro qualche parola. Il vecchio Khder ha trovato un quaderno con la copertina verde, consunta, le pagine ingiallite. Deve essere un rimasuglio, magari una donazione, chissà. Lì sopra scriviamo tutte le parole che possono essergli utili. Coperta, freddo, malato, scarpe. Imparare tutto da capo a sessant’anni, non comprendere nulla di tutto ciò che ti sta intorno. Un alfabeto diverso, incomprensibile, un luogo dove sembra che a nessuno importi della tua sorte. Perché poi per i curdi è anche peggio che per tutti gli altri: iracheni e afghani e siriani con loro non parlano. Un ragazzo, quando gli chiedo di aiutarmi con quella famiglia, dicendogli che ho bisogno di qualcuno che traduca, mi risponde: «Curdi?» e sputa per terra, indicandomi il fango. Fuggire da casa propria, dove sei odiato, e piombare in un altro inferno, dove ugualmente sei messo da parte, ghettizzato o in alternativa, ignorato.
È solo grazie a un mediatore culturale della clinica mobile di Medici senza frontiere che riesco a trovare il modo di aiutare questa famiglia: Mayhar, diciannove anni, rifugiato afghano, arrivato su un gommone due anni fa, oggi è un membro dello staff dell’Ong internazionale. È lui che ci fa da tramite. Riusciamo così a portare i bimbi alla clinica mobile, scopriamo che Soma è affetta da anemia. Se ne prenderanno cura qui.
La clinica ogni sera va smontata e portata via, perché provare a dare una mano assume a volte contorni inquietanti. I proprietari delle terre adiacenti infatti, per lo più contadini che qui hanno i loro uliveti, temevano che la struttura potesse trasformarsi in un altro accampamento. Non è vero, ovviamente, la clinica funziona solo di giorno e il grande tendone centrale, accanto ai camion che contengono gli studi medici, serve solo come sala d’aspetto. Alcune panchine, una saletta appartata per le donne che allattano e dei giochi, per intrattenere i bambini. Medici senza frontiere per poter continuare a operare, ha preso accordi con i proprietari delle terre limitrofe. Così ogni sera e ogni mattina, in poco più di mezz’ora, la clinica viene allestita e poi smontata.
Un hammam miraggio
A Moria la solidarietà pare non esistere. Almeno, non da parte di chi dovrebbe garantirla. Sono piuttosto le persone comuni, o alcune Ong, che lavorano fuori dal campo. Non appoggiando le politiche adottate dal governo greco, che cercano di tamponare come e dove possono.
Barham, la sorella della piccola Bahar, mi mostra le sue foto di quando viveva in Kurdistan. Ventitré anni, gli occhi grandi e i capelli neri, folti: è bella questa ragazza, bellissima. «Moria no good», questo sa dirmi in inglese, e gli occhi le si velano. A gesti mi fa capire che non riesce a lavarsi da settimane. Procuro loro delle salviette umidificate e dello shampoo secco.
Facendo domande, scopro però che a Mytilini una donna, una spagnola che lavora per Sao Association, una Ong tedesca, ha tentato una grossa impresa: ha messo in piedi un hammam gratuito per le donne che vivono a Moria. Si chiama «Bashira» e offre la possibilità alle donne di avere un bagno tutto per sé per trenta minuti.
Ogni giorno la coda fuori da Bashira è lunghissima: si snoda lungo la stretta via che dal mare porta a questo vicolo incuneato fra le vecchie case del porto di Mytilini. Un vociare allegro, mariti che tengono per mano i bimbi in attesa che la loro moglie possa concedersi un attimo di pace. Per poterselo permettere però, devono prenotarsi perché nel campo di Moria la voce si è sparsa e le donne continuano ad affluire numerose. Così capita, magari, che a Bashira ci si riesca a andare una volta al mese, o due se sei fortunata. Non è cattiva volontà, anzi: questa Ong è nata proprio per garantire una piccola oasi di normalità alle donne. Non è facile resistere, ma per ora l’hammam resta in piedi. Difficile garantire un posto a tutte, servirebbero più spazio e più bagni, ma il progetto Bashira a oggi è l’unica realtà che consente un po’ di intimità, uno spazio sicuro alle donne che vivono fra tende e container.
Progetto di speranza
Incontro i coniugi Kempson con il loro progetto «The Hope Project». Sono marito, moglie e una figlia ventenne ritirati a Lesbo per vivere lontano da Londra, da una metropoli dura e difficile. Il primo sbarco se lo ricordano bene: hanno sentito urlare dalla spiaggia davanti casa. Sono usciti e hanno fatto quello che chiunque dovrebbe fare. Hanno aiutato. Hanno preso per mano donne, vecchi, uomini, bambini e li hanno asciugati, rincuorati.
«The Hope Project» nasce per far fronte alle esigenze più basilari dei profughi: abiti, scarpe, pannolini per bimbi, assorbenti per le donne, sapone, shampoo. I coniugi Kempson, grazie alle donazioni ricevute da privati, sono riusciti a creare dei magazzini non lontano da Moria. Ogni giorno distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità. Il flusso di uomini, donne e bambini dai magazzini è incessante.
Dalla Siria, bloccati a Lesbo
La solidarietà, a Moria, arriva dalle piccole realtà. Il governo greco infatti, che ha preso ufficialmente in mano la gestione dell’hotspot, pare non sia in grado di garantire una situazione almeno dignitosa a queste seimila persone che vivono in attesa di una risposta alla richiesta d’asilo. Certo non deve essere una questione di danaro: l’Unione europea non ha mai smesso di sovvenzionare il governo greco. Il problema, come sempre, è capire dove finiscono queste sovvenzioni. Perché se fossero correttamente utilizzate, non si avrebbe bisogno di Ong che garantiscano assistenza medica e psicologica a persone che, in alternativa, sarebbero abbandonate.
«Assad ci ammazzava con il gas, voi con il freddo». Mohamed, 36 anni. Siriano. A casa ha lasciato moglie e figlia. È fuggito da solo, pensando di trovare una casa e un luogo sicuro dove farsi raggiungere. Ma l’intervista per la richiesta d’asilo gli è stata fissata per l’ottobre del 2019.
Mohamed mi mostra le foto di quella che era la casa del fratello, completamente distrutta dai bombardamenti. Distrutte anche le vite della sua famiglia: il nipote, il fratello, la cognata sono morti così, fra le macerie di casa.
«So che non si dice davanti a una donna, ma se sento un rumore forte di notte, mi faccio la pipì addosso». Mi racconta anche che ogni notte piange nel sonno, ha incubi, e mentre me lo dice, non riesce a trattenere le lacrime. Moglie e figlia cerca di sentirle ogni giorno, sperando che la data del colloquio venga rivista, non ce la fa, mi dice, non può aspettare un anno: «E se la mia bimba non dovesse più riconoscermi?».
Mohamed condivide la tenda con Abd: anche lui siriano. Entrambi musulmani, ma la moglie di Abd, che è ancora in Siria, è cattolica. Abd mi mostra la piccola Bibbia che tiene accanto al Corano: «È sempre Dio no? Ha solo un nome diverso».
Mi mostra il braccialetto che porta al polso: una fila di grani neri e una croce. È di sua moglie, vuole che lo prenda io: «Così ti ricordi di me».
Scritte
Mentre mi allontano da Moria noto una scritta su un muro. È quasi sbiadita ma riconosco i versi iniziali di una famosa poesia: «No one leaves home, unless home is the mouth of a shark», nessuno lascia la propria casa a meno che casa sua non siano la bocca di uno squalo. Sono i versi di Warsan Shire (scrittrice britannica di origini keniane-somale, ndr). Parole bellissime, piene di significato ma che qui, scritte sul muro, sembrano quasi una presa in giro.
Moria è un limbo, non un rifugio. Sono molto più reali le parole scritte sopra un altro muro, quello sormontato dal filo spinato, proprio all’ingresso del campo «Welcome to prison», benvenuti in prigione.
Chi lascia le fauci di uno squalo non dovrebbe finire nel ventre di una balena.
Una realtà da nascondere
C’è una frase che mi torna prepotentemente alla memoria ogni volta che penso a Moria, sono parole di Martin Luther King: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». Di questo luogo infatti, è difficile parlare. Eppure, siamo in Europa, a pochi chilometri dall’Italia, un’isola conosciuta in tutto il mondo non solo per la sua bellezza ma anche per aver dato i natali a Saffo, poetessa del sesto secolo a.C. Siamo in Grecia, culla della cultura, luogo che è sinonimo di democrazia, perché è qui che nasce questa forma di governo, creata per far sì che ogni singolo individuo abbia la possibilità di esprimersi, di far valere i propri diritti.
Nei giorni trascorsi a Lesbo però, questi diritti non mi sono parsi così scontati: fotografi e giornalisti se ne vedono, ma all’interno del campo è proibito loro di entrare, e fuori dal campo non è comunque così agevole muoversi. La polizia vigila, non solo sui migranti. Moria è una realtà scomoda, meglio dunque che non venga raccontata.
Valentina Tamborra
Classe 1983, milanese. Si occupa di reportage e ritratto e nel suo lavoro mescola narrazione e immagine. Ha collaborato con alcune Ong come Amref, Medici senza frontiere e Albero della vita. I suoi progetti sono stati oggetto di mostre a Milano, Roma e Napoli, in luoghi come il Teatro Franco Parenti (Milano) e il Maxxi (Roma). Ha fatto numerose pubblicazioni sui media nazionali. Il suo lavoro «Doppia Luce» è stato oggetto di un ciclo di conferenze in Nuova accademia di belle arti.
Coinvolto in una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela vive una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggio, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni peggiorano ogni giorno mettendo a rischio molte vite. Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà. Questa situazione di crisi ha causato enormi migrazioni verso i paesi vicini, in particolare la Colombia e il Brasile (Roraima).
Anche molti indigeni warao dello stato venezuelano di Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare le loro terre per stabilirsi inizialmente a Pacaraima, località brasiliana al confine, per dirigersi poi verso le periferie di città come Boa Vista e Manaus, dove attualmente sono accampati.
La crisi venezuelana
Il paese, pur con una quantità enorme di risorse naturali, sta attraversando una delle crisi più profonde della sua storia. Nel 1999 l’arrivo al potere dell’oggi scomparso Hugo Chávez Fria, con i suoi discorsi a favore dei poveri e la promessa di una nuova nazione ispirata da ideali socialisti – sostenuto dal patrocinio politico di Fidel Castro -, aveva aperto una nuova pagina, quella della Quarta Repubblica, nella storia del paese.
Approfittando dell’alto prezzo del petrolio sul mercato internazionale, Chávez aveva dato il via a una serie di programmi sociali che tendevano a favorire i poveri a discapito dei ricchi, della proprietà privata e di tutto ciò che sapesse di capitalismo. Si erano create missioni socialiste di ogni tipo, distribuendo denaro con facilità. Le conseguenze di tale politica non tardarono ad arrivare. Con l’esproprio delle proprietà private e la loro nazionalizzazione, la produzione agricola era diminuita rapidamente e il paese si era trovato a dover importare prodotti di prima necessità come riso e farina e altri alimenti.
La morte di Chávez e l’ascesa al potere dell’attuale presidente Nicholas Maduro erano coincise con la crisi economica globale e la caduta del prezzo del petrolio, ma il governo non aveva fatto nessun passo indietro. La crisi era diventata totale, non solamente economica, ma anche istituzionale, politica e sociale.
Ufficialmente il paese vive oggi in uno stato di iperinflazione. I prezzi continuano a crescere e sembra che non ci sia modo di frenarli (vedi box). La risposta del governo di Maduro e dei suoi è sempre quella di incolpare «la guerra economica» che sarebbe fatta dalla destra venezuelana e dagli Stati Uniti.
Si sono tentate molte strade per fermare l’inflazione, ma nessuna funziona: i buoni, il controllo del cambio, l’aumento frequente dei salari, e, ultimamente, il lancio della criptomoneta chiamata Petrodolar.
Il salario minimo (che è quello che la maggioranza dei venezuelani guadagna) è aumentato fino a due milioni e 500mila bolivares (inclusivi del bonus alimentare), però – come dicono gli stessi venezuelani – questo non ha risolto niente. A parte le produzioni sussidiate dal governo e vendute attraverso i Clap (Comité Locales de Abastecimiento y Producción) e che, di quando in quando, arrivano alle famiglie, i prezzi di tutte le cose necessarie sono astronomici. Così un salario minimo non basta a vivere per una settimana. Il futuro continua ad essere molto incerto.
Le conseguenze
La situazione di crisi generale porta con sé alcune consequenze macroscopiche. La prima e la delinquenza. Benché il governo insista nel dire che l’indice di delinquenza è diminuito, la realtà è un’altra. Tutti i giorni ci sono notizie di attacchi, furti e gente ammazzata durante rapine. Si dice che almeno otto persone su dieci abbiano subito atti delittuosi.
Altra conseguenza è l’aumento del contrabbando. La mancanza di prodotti essenziali, i prezzi elevati e la disoccupazione hanno fatto fiorire il contrabbando in quasi tutto il paese, soprattutto nelle città di frontiera o nelle zone ricche di risorse naturali (oro, diamanti o altri prodotti minerari). Cibo e medicine sono i prodotti più ricercati.
Terza conseguenza più evidente della crisi è la massiccia migrazione dei venezuelani verso i paesi limitrofi. I principali punti di partenza verso l’esterno sono San Antonio de Táchira, Santa Elena de Uairén con destinazione Colombia, Brasile, Perù, Cile, Ecuador e Argentina. Via mare molti vanno a Trinidad e Tobago, Curaçao e Aruba. Ovviamente chi ha soldi emigra in aereo verso l’Europa e gli Stati Uniti.
È una triste realtà. Si stima che ci siano più di 4 milioni di venezuelani che hanno lasciato il paese negli ultimi due anni.
La migrazione degli indigeni warao
La popolazione indigena warao vive tradizionalmente nello stato del Delta Amacuro, nel Sud-Est del Venezuela, attraversato dal fiume Orinoco che sfocia nell’Oceano Atlantico. La capitale è Tucupita. Essa, fino al 1964, era su un’isola. Con la chiusura di un braccio del fiume, il Caño Manamo, è ora su una penisola. (Questo è avvenuto nel 1966, quando fu attuato un grande progetto di bonifica che attraverso la costruzione di dighe doveva mettere sotto controllo le periodiche inondazioni del delta e favorire le grandi coltivazioni di grano e altri prodotti per un’agricoltura di tipo industriale. Il risultato è invece stato l’opposto, un vero disastro ecologico che ha destabilizzato l’habitat naturale dell’estuario. Vedi il video in spagnolo qui segnalato.)
Numericamente, i Warao sono il secondo più grande gruppo indigeno dopo i Wayúu di Zulia, e sono gli abitanti originari di questa regione del paese. Nel 2011 – secondo il censimento – erano 45.000, concentrati nel loro territorio ancestrale nei comuni di Antonio Días e Pedernales.
Tradizionalmente, i Warao sono soprattutto pescatori e, in misura minore, cacciatori e raccoglitori di miele e frutti selvatici. Per il loro consumo di energia dipendevano nel passato dai derivati della palma di moriche (mauritia flexuosa) che ha un ciclo annuale. Per questo, dai tempi antichi, i Warao si spostavano tra le coste e l’interno delle isole per soddisfare le loro esigenze alimentari.
Con l’introduzione della coltura della colocasia (colocasia antiquorum, chiamata anche taro, «pianta erbacea con foglie di grandi dimensioni – anche 80 cm di lunghezza -, di forma ovale o tondeggiante e margini ondulati, sostenute da grossi gambi carnosi e rigidi che si sviluppano da rizomi sotterranei») a opera di missionari dalla Guyana britannica 80 anni fa, i Warao sono diventati anche un po’ agricoltori.
È poi arrivata la scuola e diverse comunità sono diventate stabili abbandonando il seminomadismo. La vita tradizionale è stata così trasformata e sono nate nuove esigenze che hanno dato origine a un continuo movimento verso i centri urbani in cerca di migliori condizioni di vita e di quei servizi che non si trovano nelle comunità tradizionali.
La situazione attuale
Si stima che già dal 2001 circa 10.000 Warao siano emigrati fuori dal territorio ancestrale, la maggior parte in Tucupita, gli altri nelle altre città vicine: Barrancas de Orinoco, Uracoa, Barrancos de Fassi, Maturin nello stato Monagas e Ciudad Guayana nello stato di Ciudad Bolívar. Altri si sono trasferiti a Caracas o in altre grandi città. Molti di essi mendicavano lungo le strade e quando avevano raccolto abbastanza tornavano alle loro comunità.
Oggi però il numero di coloro che lasciano il proprio territorio è molto più alto ed è reso evidente dal moltiplicarsi delle colonie indigene attorno a Tucupita.
I Warao sono situati negli strati più bassi della società venezuelana con alti livelli di povertà e già prima della crisi attuale erano considerati tra le persone più povere e più svantaggiate del paese. È naturale, quindi, che siano tra i più colpiti dalle conseguenze dell’attuale crisi economica e siano costretti a lasciare la loro terra in cerca di migliori condizioni di vita.
All’inizio del 2017 sono stati segnalati i primi casi di Warao trasferiti in Brasile, prima a Pacaraima, la città di frontiera, e poi a Boa Vista e Manaus e fino Belém nel Pará.
Nel rifugio di Pacaraima
In Pacaraima la Chiesa cattolica, rappresentata da padre Jesús, parroco del Sacro cuore di Gesù, l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), l’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), e altre Chiese e persone di buona volontà, hanno creato un centro di accoglienza (detto refugio) per i Warao.
Nel mese di febbraio di quest’anno, quando l’autore di questo articolo in compagnia di monsignor Felipe González – vicario apostolico di Caroní, che confina con Roraima -, padre Aquileo Fiorentini – superiore dei missionari del Consolata in Brasile – e padre Peter Makau, superiore dei missionari in Venezuela, abbiamo visitato questo refugio, c’erano circa 700 persone tra adulti e bambini. Vivono grazie alle razioni che ricevono due volte alla settimana e che cucinano nel cortile, mentre ogni giorno fanno colazione nel salone parrocchiale.
All’interno del refugio, per una migliore coesistenza, sono stati creati dei gruppi di servizio incaricati a turno della pulizia generale. Mentre gli uomini escono per cercare lavoro, le donne si dedicano a preparare il cibo, altre si dedicano a prodotti artigianali che cercano di vendere per le strade di Pacaraima o andando anche a Boa Vista, che dista meno di tre ore di viaggio. Si è anche formato un gruppo di volontari che gestisce le diverse attività per bambini e giovani. La grande domanda è: «Fino a quando si riuscirà a mantenerli?». Perché una cosa è certa, se c’è il cibo, un Warao non va da nessun’altra parte.
In realtà, la migrazione continuerà fino a quando la crisi attuale del Venezuela non sarà risolta. Molti hanno già detto chiaramente che non torneranno alle loro case perché là «si muore di fame». Gli unici a rientrare sono quelli che tornano a portare cibo ai famigliari che non sono stati in grado di viaggiare.
Che fanno i missionari della Consolata?
Per i missionari, soprattutto per coloro che lavorano nel Delta con le comunità indigene, tutto questo è motivo di grande preoccupazione. Tutti i Warao che sono emigrati sono membri conosciuti delle nostre comunità che ora si sono svuotate. Per esempio, nella comunità di Yakariyene in Tucupita, sono rimaste meno della metà delle 78 famiglie che la componevano. Dal Vicariato di Caroní, monsignor Felipe, che ha trascorso più di 40 anni nel Delta, di cui 28 come vicario apostolico di Tucupita, segue da vicino questa situazione. In collaborazione con il parroco di Pacaraima e le suore scalabriniane, sta fornendo loro accompagnamento religioso e ascolto per aiutarli nel loro adattamento a una nuova realtà senza perdere la loro identità umana e spirituale.
Ma ci sono molti altri aspetti su cui i missionari, in collaborazione con gli agenti pastorali indigeni del vicariato apostolico di Tucupita, si interrogano e che richiedono un impegno preciso.
Primo tra tutti è l’educazione: una dimensione che non è stata affrontata dalle istituzioni brasiliane e che può essere attuata solo attraverso un approccio multiculturale e multilingue.
Un secondo aspetto è quello di una vita sana. Occorre un intervento integrale che tenga conto di tutti gli aspetti della vita: dal mantenere il legame con il loro luogo di origine e la loro cultura, alla prevenzione e cura delle malattie, all’alimentazione di bambine e ragazzi al fine di evitare episodi di malnutrizione infantile.
Per questo nella loro assemblea continentale di Bogotà i missionari della Consolata hanno deciso l’invio di una équipe che lavori insieme con gli agenti pastorali di Pacaraima e si sono fatti carico di un programma di assistenza medica e alimentare nel refugio (sostenuto anche dagli aiuti finanziari forniti da Missioni Consolata Onlus).
Cominciare da Tucupita
Non basta però l’intervento di emergenza fuori del paese. Occorre affrontare la situazione partendo da Tucupita per offrire alle famiglie mezzi alternativi di sopravvivenza, senza che abbiano la necessità di migrare.
Per questo si stanno mobilitando forze per fornire alle famiglie che non vogliono migrare dalle terre tradizionali, ma non hanno abbastanza risorse, gli strumenti necessari per lavorare e diventare autosufficienti.
In Venezuela si dice che la speranza è l’ultima a morire, ma vista la situazione, per molti non c’è speranza e non ci sono segnali di miglioramento.
Come missionari non ci vogliano arrendere e continuiamo nel nostro impegno a stare vicini sia a coloro che sono stati costretti a migrare come a quelli che ostinatamente vogliono rimanere nella loro terra.
Zachariah Kariuki missionario a Tucupita
Qualche cifra al 1° maggio 2018
1 dollaro = 69.564 bolivares al cambio ufficiale / +o- 700mila bs al mercato parallelo (o nella calle), con grandi variazioni tra contanti, carta di credito e trasferimento bancario.
Salario minimo: 1 milione
Bonus alimentare mensile: 1.555.000
1 l benzina regolare = 1 bs.
1 l benzina premium = 6 bs.
1 kg farina di mais = 180 (uff.) / ca. 1.000 (par.)
1 kg di farina di grano = 30mila (uff.) / in contanti: 360mila; carta di credito: 690mila; via banca: 900mila
1 uovo= 53.000
1 kg carne = 1.700.000 a Caracas / 1.200.000 in campagna
1 kg pollo = 1.400.000 a Caracas / 1.300.000 in campagna
1 kg riso = 900.000
1 kg formaggio = 1.500.000
L’esodo dei Warao. Breve storia
1880-1915: periodo di lavoro forzato o volontario nelle piantagioni di gomma (caucciù).
1964: chiusura del Caño Manamo per dare accesso, via terra, alla città di Tucupita. Conseguenze: l’allagamento di vaste aree in riva al fiume e la salinizzazione dell’acqua (non più alimentata dal fiume ma dall’oceano). Effetti negativi su pesca e coltivazioni.
1965-1979: intere famiglie si trasferiscono alla periferia di Tucupita; il governo costruisce la «casa degli indigeni» e pian piano l’insediamento provvisorio diventa una colonia semipermanente.
1973: una leader warao, Maria Antonia, organizza gruppi di donne per andare a Caracas a chiedere aiuto al governo di Rafael Caldera. Non avendo risorse per il viaggio, cominciano a chiedere l’elemosina per la strada. Arrivate a Caracas, siccome il presidente non le riceve immediatamente, continuano a vivere mendicando. Il successo di questo modo di far soldi diventa un modello da seguire, e così, per i Warao, l’accattonaggio diventa un «lavoro».
1992: epidemia di colera nel Delta inferiore, in territorio indigeno, con conseguente nuovo esodo verso la città.
2000: aumento del fenomeno migratorio, soprattutto per gli studi. Famiglie intere si spostano stabilendosi temporaneamente alla periferia della città, mantenendo lingua, usi e costumi. Invece altri, soprattutto professionisti (insegnanti, infermieri, impiegati governativi, commercianti), prendono fissa dimora nei quartieri bene e si mescolano con la popolazione creola (creoli = non indigeni) assumendone lingua e modi di vivere.
2017: diventa consistente l’esodo dei Warao verso il Brasile.
Dall’appello dei Missionari della Consolata a favore dei migranti venezuelani a Roraima
«In questi tempi di angustia le persone possono chiedersi: “Dov’è Dio?”. Che la presenza dei missionari della Consolata sia balsamo e riflesso dell’amore misericordioso. Dio accompagna sempre coloro che incontra nel cammino, come chiesa desideriamo assicurare loro che non sono soli, ma stanno con Dio e sotto il dolce sguardo della nostra Signora di Coromoto.
Gesù si identifica sempre con la persona sfollata perché visse questa situazione nella sua propria carne. Egli ci incoraggia a mantenere vive la fede e la speranza in un futuro migliore, sapendo che più oscura è la notte, più vicina la luce di un nuovo giorno che già albeggia.
Impegniamo il nostro cuore, la nostra mente e le nostre mani nella missione a favore dei più vulnerabili e chiediamo alla nostra Vergine Santissima, la Vergine Consolata, che dia consolazione in questo doloroso momento presente, e ai nostri protettori, il beato Giuseppe Allamano e san Oscar Romero, che infondano coraggio per sognare un avvenire dove la fraternità e l’attenzione verso l’altro siano segni di convivenza civile e solidale».
La Direzione generale (Bogotà, 27/03/2018)
Brasile: L’ex presidente Lula è in carcere
Testo su Lula e Brasile di GianfrancoGraziola |
Un paese che esautora una presidente – Dilma Rousseff – per sostituirla con Michel Temer, inviso ai più e coinvolto in gravi scandali. Un paese dove una giovane politica – Marielle Franco – è assassinata dalla polizia. Un paese dove un prete – padre José Amaro – è arrestato per ordine dei latifondisti. Un paese dove un ex presidente, in testa a tutti i sondaggi per le elezioni di ottobre 2018, è condannato a 12 anni senza prove. Un paese siffatto è una democrazia alla deriva.
In questi ultimi mesi il sistema dei media – le televisioni Globo, Sbt, Record, Band e le riviste come Veja, Epoca o Isto é – ha costruito e dato in pasto al popolo brasiliano il caso Lula. Attorno a lui ha tessuto una trama gigantesca che in realtà ha prodotto l’effetto contrario a quello sperato: l’ex presidente ha visto aumentare la propria popolarità e le intenzioni di voto in suo favore per le elezioni previste a ottobre 2018. Per capire bene la situazione, occorre partire dal 2016 con il colpo di stato orchestrato dal parlamento brasiliano (con la connivenza del potere giudiziario), che ha destituito la presidente Dilma (del PT, lo stesso partito di Lula, ndr) democraticamente eletta per sostituirla con Michel Temer, un fantoccio gradito e approvato dal mercato economico e capace di restituire il gigante brasiliano al controllo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
La conferma del complotto sta nel fatto che alla presidente destituita lo stesso potere giudiziario, attraverso l’azione del presidente della suprema corte Ricardo Lewandowski, non ha cancellato né i diritti civili né quelli politici, tanto che Dilma Rousseff è candidata al senato per lo stato di Mina Gerais, un tempo roccaforte del senatore Aécio Neves, candidato sconfitto alle elezioni presidenziali del 2014 dalla stessa Rousseff.
Governo e parlamento BBB
Il governo Temer è sostenuto da un parlamento, la cui composizione riflette e esprime alcune tendenze fondamentaliste: sia in campo religioso, col gruppo chiamato della Bibbia (bancada da bíblia o evangelica), composto da evangelici e neopentecostali, sia in campo economico, col gruppo dei latifondisti e della monocoltura (bancada do boi o ruralista), che a sua volta si appoggia al gruppo militarista, chiamato bancada da bala, che vorrebbe risolvere tutte le questioni con la forza e gli interventi militari.
Le azioni concrete del governo Temer passano attraverso il suo piano di pseudo riforme, prima fra tutte quella del lavoro, seguita da quella – fortunatamente fallita – della previdenza e accompagnate dal discorso populista della modernizzazione del paese e della lotta all’inflazione.
Contemporaneamente all’azione governativa si sviluppa e prende sempre più corpo quella mediatica che fa dell’operazione lava jato (autolavaggio) del potere giudiziario la vetrina che esalta e incorona una immagine di giustizia al di sopra delle parti, etica e medicina contro la corruzione. In realtà ancora una volta, la poderosa macchina dei media, ormai consacrata nel ruolo di quarto potere, illude il popolo brasiliano esaltando una falsa immagine della giustizia che apparentemente è uguale per tutti, mentre in realtà non lo è affatto.
La giustizia brasiliana è responsabile di un sistema penitenziario sempre più sovraffollato e caotico e del dilagare della violenza, assieme all’impunità, agli abusi di potere delle forze dell’ordine, alla tortura, ai massacri e «genocidi» della gioventù che si susseguono giornalmente e di cui nessuno ha memoria. Non possiamo e dobbiamo avere dubbi: siamo davanti a un sistema giudiziario che ha fatto a pezzi la Costituzione e si è sostituito ad essa nel governo del paese.
L’esempio eclatante che conferma questa realtà è proprio quello dell’ex presidente Lula, in cui la giustizia, trasformata in show mediatico, ha avuto il compito di demolire, con la complicità del giudice Sérgio Moro, la sua immagine e soprattutto di toglierlo dalla corsa alla presidenza. Naturalmente questo sarebbe il secondo atto del colpo di stato, dato che tutti i sondaggi già davano Lula nuovamente presidente senza rivale alcuno. Sta di fatto che, accecato da una sete legalista e irrazionale, lo stesso potere giudiziario ha finito per dimostrare ancora una volta la sua reale impotenza e fragilità trasformando quello che doveva essere la sua consacrazione in una sconfitta: l’esecuzione della carcerazione ha, infatti, trasformato un ex presidente e apparentemente comune carcerato in un eroe nazionale consacrandolo per sempre nella memoria e nell’immaginario simbolico del popolo.
Ma vi è un ulteriore elemento inquietante: la mancanza di prove concrete che possano mantenere in carcere sia Luis Inacio da Silva Lula come tanti altri personaggi (Antonio Palocci, Eduardo Cunha, Nestor Cerverô, etc.) dello spettacolo messo in scena a Curitiba (dove lavora il giudice Moro, ndr). Qualsiasi giurista serio sa bene che la cosiddetta delação premiada (confessione incentivata), copiosamente usata nella strategia anticorruzione, pur risplendendo di notorietà, ha però fondamenta fragili e inconsistenti.
Lula è stato condannato in due gradi di giudizio su quattro. Gli ultimi gradi spettano al Tribunale superiore di giustizia (Superior Tribunal de Justiça) e al Supremo tribunale federale (Supremo Tribunal Federal). Due anni fa la stessa corte stabilì che, dopo il secondo giudizio, il giudice può far eseguire l’eventuale ordine di carcerazione. Una decisione molto controversa e da vari giuristi considerata incostituzionale. Il problema si è riproposto oggi con Lula, arrestato subito dopo il secondo giudizio.
Per questo vi è chi oggi afferma, e lo stesso Lula lo ha denunciato pubblicamente, che il mandato di carcerazione per l’ex presidente sarebbe in realtà originato dalla Tv Globo, capitanata dalla famiglia Marinho, indispettita dalla sua forte popolarità che neppure i mezzi più moderni sono riusciti a scalfire. Prova di tale popolarità sono le manifestazioni che ancora oggi continuano in tutto il paese e si susseguono notte e giorno davanti alla sede della polizia federale a Curitiba dove Lula è carcerato. Vedremo cosa succederà quando – tra luglio e agosto – si deciderà sulla sua partecipazione o esclusione alle elezioni di ottobre.
Da Marielle Franco a padre José Amaro
Oltre alla questione di Lula vi è una serie di altre questioni che hanno reso esplosiva la situazione e che fanno temere un possibile ritorno dei militari al potere. Come dimostra la situazione nello stato di Rio de Janeiro. Il governo federale ha mandato l’esercito e messo un generale come responsabile della sicurezza, esautorando di fatto il governo locale. Lo stato è diventato una trincea, un campo di battaglia, con una moltiplicazione folle della violenza. Una violenza che nasce dal braccio di ferro tra le mafie della droga e le stesse forze di sicurezza, anch’esse coinvolte nel gigantesco sistema corruttivo. A questo si aggiunge, come si dice da più parti, l’esecuzione (14 marzo 2018) ad opera della polizia della consigliera comunale e attivista Marielle Franco e del suo autista.
E ancora gli interventi, in più parti del paese, da Nord a Sud, da Est a Ovest, della Guardia Nacional – braccio forte dell’esercito noto per la sua violenza – a reprimere i popoli indigeni e tradizionali, a massacrare i piccoli proprietari di terra e i sem terra e a imprigionare i loro difensori. Come è accaduto a Altamira, prelazia di Xingu, stato del Pará, a padre José Amaro, compagno e continuatore dell’azione di Dorothy Stang (missionaria brasiliana di origine statunitense assassinata nel Pará da sicari dei latifondisti nel febbraio 2005, ndr).
E allora ritorna nuovamente la domanda: quale futuro aspetta il popolo brasiliano? Nessuno si azzarda a fare previsioni, ma il timore è grande anche perché vari generali dell’esercito (da Eduardo Villas Bôas a Luiz Gonzaga Schroeder), tra cui alcuni in pensione, hanno alzato la testa e fatto sentire la loro voce minacciando, senza mezze misure, una possibile sostituzione di Temer, presidente fantoccio, con uno di loro.
È un peccato che il presunto grande obiettivo dell’attuale governo e dello stesso potere giudiziario di sconfiggere e debellare la corruzione si realizzerà – forse – in un’altra era. Per ora ci si accontenta di essere al servizio del mercato e di controllare una società che continua a registrare forti e insostenibili diseguaglianze, vera causa della crescente violenza e insicurezza.
Gianfranco Graziola
L’autore: Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, vive a San Paolo e è vice coordinatore nazionale della Pastorale carceraria che conta circa 6 mila agenti volontari (sacerdoti, religiosi, religiose, laici di tutte le età) che settimanalmente visitano le carceri in tutti gli stati del paese.
La strategia: un golpe tira l’altro
Dietro gli attuali avvenimenti politici ci sono le trame del complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico. L’esplicita lettura di due prestigiose istituzioni della Chiesa cattolica brasiliana: il Consiglio indigenista (Cimi) e la Pastorale della terra (Cpt).
È la strategia «dei grandi conglomerati impresariali, del capitale nazionale e internazionale, che cercano di dare continuità al processo neocolonialista di rapina dei diritti del popolo brasiliano e dei beni naturali del nostro paese». Non ha usato termini edulcorati il comunicato del Consiglio indigenista missionario (Cimi) per commentare l’arresto di Lula.
Il Cimi accusa parte del sistema giudiziario di essersi piegato agli interessi privati delle élite nascondendosi dietro uno «pseudo discorso anticorruzione». L’organismo della Chiesa cattolica brasiliana parla di violenza politica, nonché di persecuzione, criminalizzazione e repressione verso i leader e i movimenti di resistenza.
Egualmente netta, anche se con qualche puntualizzazione, è stata la difesa della Commissione pastorale della terra (Cpt). Questa ha ricordato di avere criticato i governi Lula soprattutto per le sue politiche agrarie, agricole e ambientali. Tuttavia, è innegabile che quei governi avessero ridotto le diseguaglianze sociali attraverso politiche di redistribuzione del reddito e di inclusione sociale.
Identicamente al Cimi anche la Cpt individua chiaramente i colpevoli, interessati a impedire il ritorno di Lula con ogni mezzo possibile, compresa «una falsa e ipocrita lotta alla corruzione sistemica» che – guarda caso – dimentica i leader di altri partiti, colpevoli di note attività criminali.
«Mettendo da parte gli interessi popolari, ciò che questo complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico fa, con l’appoggio militare velato o esplicito, è nutrire – strategicamente – l’odio, l’intolleranza e il pregiudizio, espressioni del fascismo sociale, in cui solo l’individuo vale con i suoi interessi privati, non più la società e la condivisione collettiva di beni comuni e pubblici. L’avanzata della violenza impunita nelle campagne e nelle città è la sua faccia più crudele».
Anche dopo la sua carcerazione Lula, pur penalizzato nei numeri, ha continuato a guidare i sondaggi elettorali per le presidenziali di ottobre 2018: tutti i suoi possibili avversari – tra cui l’indomita Marina Silva e gli ultraconservatori Aécio Neves e Jair Bolsonaro – sono nettamente distanziati. Ma si tratta di esercizi teorici dato che, stando così le cose, molto difficilmente Lula potrà candidarsi.
Paolo Moiola
Preghiera 15. Pregare:
desiderio di respirare in Dio
Testo su la preghiera di Paolo Farinella, prete |
Nel numero precedente abbiamo tentato di pregare con il brano del Vangelo di Mt 14,22-33 dando alcune indicazioni versetto per versetto.
Da questo testo, che descrive il modo di pregare di Gesù, possiamo dedurre alcuni atteggiamenti o, se vogliamo, regole, per semplificazione, sapendo che la preghiera e la vita spirituale non possono essere irrigidite dentro strutture immobili. Da un lato perché «lo spirito soffia dove vuole» e, possiamo anche aggiungere, «quando vuole» (Gv 3,8); dall’altro perché la preghiera è strettamente legata alla psicologia e alle condizioni del momento: euforia, depressione, gioiosità, preoccupazione, stanchezza, entusiasmo, delusione, serenità, attivismo, tensione, solitudine, paura, voglia di sole e vita, bisogno di starsene soli e rintanati, protesi verso gli altri, chiusi in se stessi… tutto ciò che è umano ci appartiene e non possiamo dismetterlo né nella vita né nella preghiera, altrimenti trasformiamo quest’ultima in alienazione, o nel migliore – o peggiore? – dei casi in abitudine che inevitabilmente scade nell’anonimato della routine.
Osservando intimamente il modo di essere e di agire di Gesù, possiamo imparare da lui nel tentativo di imitarlo, dal momento che il vangelo è stato scritto proprio per questo: farci vedere lui per convertirci noi, in forza del principio spirituale fondamentale: «Imparate da me» (Mt 11,29). Paolo di Tarso è intriso di questo principio fino al punto da diventare, a sua volta, lui stesso modello trasparente di Cristo: se in 1Cor 1,16 («Siate miei imitatori»), osa proporsi come modello, rischiando di apparire presuntuoso, appena dieci capitoli dopo, non ha dubbi e rafforza il suo atteggiamento, fondandolo sulla sua identità con il Signore: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Tutto questo è la traduzione lineare del motivo che Dio stesso dà come fondamento dell’agire umano: «Siate santi perché Io-Sono Santo» (Lv 11,44-45; 19,2; 20,7.26; 1Pt 1,16).
Il fondamento è Dio stesso, non un premio (paradiso), non un beneficio, ma la persona stessa di Dio perché se si è immagine sua non si può non mettersi a fuoco con lui fino a diventare una cosa sola, una sola identità. Gesù lo dice nel suo discorso costituente e programmatico: quello della montagna (cfr. Mt 5-7) dove propone non come un ordine, ma con una prospettiva e un processo di crescita: «Voi sarete perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). In greco il verbo è al futuro «sarete» e l’aggettivo «perfetti – tèleioi» contiene il senso di maturità e di completezza nel divenire. Non «siete» che metterebbe in evidenza un impegno volontaristico di stampo morale: bisogna obbedire; ma «sarete» che si apre al divenire, all’evoluzione, alla crescita verso la maturità e la pienezza, avendo come modello il Padre, sperimentabile nella persona di Gesù (1Gv 1,1-4).
La preghiera è il processo di crescita di tutta la vita, non momenti staccati e separati, quasi occasionali. Essa non deve riempire nulla, non deve ottenere nulla, non deve nemmeno chiedere nulla, perché «il Padre vostro celeste sa» il vostro bisogno (Mt 6,32). Si prega per imparare a diventare uccelli del cielo e gigli del campo che senza affanno e preoccupazioni si lasciano nutrire e vestire da Dio con la gloria della sua bellezza (cfr. Mt 6,25-32). Pregare è desiderio di respirare in e con Dio.
Di seguito presentiamo alcuni atteggiamenti o regole dedotti da Mt 14,22-22.
1ª regola della preghiera
Per pregare bisogna creare le condizioni ambientali che non si possono improvvisare «sul momento», del tipo «adesso vado in chiesa a recitare il breviario, il rosario (o quello che si vuole) così mi tolgo il pensiero». Dietro questo modo di «orazionare» c’è la paura (e solo quella) di venire meno a un obbligo; se non ci fosse l’obbligo, forse, quasi certamente, non vi sarebbe la preoccupazione di «togliersi il pensiero». Quando dobbiamo incontrare una persona importante o comunque non abituale, «ci prepariamo» e predisponiamo anche il luogo dell’incontro. Gli innamorati poi sono straordinari: prima dell’appuntamento si preparano meticolosamente: si lavano, si profumano, si vestono adeguatamente e vivono l’ansia dell’attesa che li predispone alla gioia della vista e dell’abbraccio. Tutto è proteso verso l’altro, il quale, anche da assente abita la vita di chi attende.
Nella 2ª puntata (marzo/2017), scrivemmo:
«Il Talmùd (trattato Berachòt/Benedizioni 30b) insegna che bisogna stare davanti a Dio in una condizione o stato di bellezza, cioè davanti a Dio bisogna presentarsi anche vestiti come si conviene e non a casaccio come capita. Nessuno si presenta in casa di ospiti vestito di stracci o in tuta da lavoro, ma si mette il vestito bello per rispetto. Se facciamo questo per gli appuntamenti mondani, o per un colloquio importante, o per galateo, come non vestirsi di bellezza nel presentarsi alla Maestà e alla Gloria della Shekinàh/Presenza, sapendo che è Dio stesso che vuole stare alla nostra presenza?».
Non basta essere protesi verso l’altro, è indispensabile essere disposti «a perdere tempo per Dio». Solo così la preghiera diventa un dono donato di sé senza calcoli, un abbandono senza riserve in cui trova riposo la vita vissuta prima del momento specifico della preghiera che a sua volta diventa fondamento della vita che segue. Anche se uno o una sono soli, la preghiera è sempre comunitaria perché per sua natura è ekklesiale. Pregando, infatti, si passa dallo stato di massa amorfa allo stato di persona cosciente che sa di appartenere a una comunità. Ci sembra che questo sia il senso della «costrizione» con cui Gesù obbliga i discepoli ad allontanarsi dal pericolo di essere coinvolti in una massificazione senza volto e nome. La folla è anonima, il popolo è sempre cosciente.
2ª regola della preghiera
Per pregare occorre «salire», mai scendere, perché pregare è alzarsi di tono, di stile, di vita, salire di senso. È andare in alto, non come estraniazione, ma come processo di allargamento dell’orizzonte. Essa «illimpidisce lo sguardo» e insegna a «vedere» con gli occhi di Dio, il quale, quando comunica, convoca sempre «in alto» e mai in pianura o negli anfratti nascosti. Israele è stato costituito popolo ai piedi del Sinai (Es 19,1-15) e la «Parola» scritta e orale scese dall’alto per consacrare l’alleanza (Es 32,15-16). Gesù attira tutti a sé non sdraiato per terra o dondolandosi su un’amaca prendendo il sole, ma dall’alto della croce, essendo «innalzato da terra» (Gv 12,32). I Padri della Chiesa definivano la preghiera come «elevatio mentis in Deum», dove la «mens» latina ha il senso di «energia mentale, comprensione, spirito dotato di ragione, coscienza» e quindi cuore, anima, temperamento, volontà e passione. Gli Ebrei quando pregano «si dondolano», avanti e indietro, perché nella preghiera anche il corpo deve partecipare, fondendo così un solo afflato, coscienza e corporeità. In una parola è la totalità della persona che «sale» a Dio: è la preghiera interiore, il fulcro e il punto di arrivo dello spirito e del corpo che si fondono in un’unica realtà espressa con sentimenti umani.
Nota etimologica.
«Salire» dalla radice «sal-, sar-» che si riscontra nel sànscrito, nell’antico (e moderno) francese «saillir» significa «zampillare» (dal basso in alto, quindi uscire), mentre nelle lingue slave si è sviluppato il senso derivato di «inviare/inviato/legato»: chi è inviato è letteralmente «mandato fuori» (idea di movimento finalizzato).
Applicando questi significati, per altro abbastanza uniformi, alla preghiera, possiamo dedurre che pregare voglia dire «zampillare» come una sorgente dal profondo verso l’alto, costruire, innalzare, in altre parole educarsi ad affacciarsi sulla soglia della vita di Dio e permettere a Dio di varcare la soglia della nostra vita. Paradossalmente, nella vita spirituale per salire bisogna avere coscienza del proprio «profondo», cioè della propria identità. Se si vuole, assumendo il significato che si è affermato nelle lingue slave, è anche bello immaginare che la preghiera sia un «atto diplomatico» dell’orante che porta a Dio le credenziali dell’umanità, facendosi garante con la vita e le parole di quello che porta. Qui possiamo intravedere un aspetto «mediatore» dell’orante che fa propria la vita della comunità/umanità e non si estrania, ma si confonde, diventando una cosa sola, legando il proprio destino al destino del mondo, come fa il grande profeta Mosè (Es 24,12-18; 34,2-4).
Nota patristica sull’«elevatio mentis» e bibliografia essenziale.
Scrive sant’Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime” (Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cfr. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (sant’Agostino, Lettera a Proba 130, 9,18–10,20; CSEI 44, GO 63).
Per approfondire
Cfr. ad es., sant’Agostino, Sermo 9,3; Giovanni Damasceno (676-749), De fide orthodoxa 3,24; Evagrio Pontico, De oratione, 3; cfr. anche san Tommaso D’Aquino, Summa, IIa-IIae q. 83, art 1, in La Somma Teologica, edizione bilingue, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014,788-789, dove cita e spiega Giovanni Damasceno.
Per un approccio semplice, non specialistico, e facilmente reperibile:
Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella Chiesa, Edizioni Dehoniane, Bologna 2012.
Paolo Squizzato, Ancor meglio tacendo. La preghiera cristiana [sintesi a mo’ di slogan della tradizione], Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2016.
Monica Cornali, Le mie lotte con l’angelo. Elevazioni spirituali [la vita di ogni giorno immersa in Dio], Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2017.
Per un prontuario di preghiere del primo millennio, dalla Bibbia al sec. XI, testi greci e latini con traduzione a fronte, cfr. Salvatore Pricocco – Manlio Simonetti, La preghiera dei cristiani, Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore, Roma 2000.
3ª regola della preghiera
Non basta «salire», bisogna salire «sul Monte» perché Dio non sta mai in pianura, ma si manifesta sempre su un monte. Quando si prega è necessario, anzi indispensabile sapere dove si è, come si è, verso dove si va ed eventualmente anche che cosa si chiede. Sant’Ignazio di Loyola insegna che chi prega deve sapere quello che chiede. Pregare non è dire parole o sentimenti a caso, ma avere le idee chiare e cuore intenso sulla propria condizione, sulle proprie necessità, sulle proprie richieste. Dio non è una chiavetta dove ciascuno apre il file che vuole e quando vuole. Come abbiamo appena detto sopra, nella 2a regola, più alto è il monte più largo è l’orizzonte, più ampia la visione e la capacità di «vedere». Quello che a valle è striminzito, dalla cima del monte appare come è: un orizzonte mozzafiato, a perdita d’occhio che impone alla vista un contesto e un’armonia maggiori. Succede spesso che nella preghiera bisogni, necessità, progetti, prospettive, dolore, paura, sentimenti, cuore, limiti e sconfitte acquistano una nuova dimensione, cambiano perché il cuore e l’anima s’illuminano e vedono in modo nuovo, dopo avere sperimentato «collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (Ap 13,18).
4ª regola della preghiera
Non basta salire sul monte, occorre anche «starci»; non si tratta infatti di una gita in montagna che si esaurisce con la fatica della salita e un breve spuntino in cima, godendo il panorama di straordinaria bellezza per ridiscendere anche in fretta al piano, magari per timore di piogge o valanghe. Qui si tratta di uno «stato» permanente di frequentazione. La montagna è la parabola che deve animare ogni nostro agire e progetto: tutto deve convergere verso l’alto, cioè verso la pienezza della propria realizzazione che può attuarsi solo stando con Dio e assaporandone la Shekinàh/Dimora/Presenza. Bisogna avere la coscienza di essere «sacramento» dei popoli che aspirano a salire il monte del Signore (Is 2,1-5). Nel «luogo» dove è Dio, bisogna andarci da «soli» e restarci a lungo: «Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (Mt 14,23b), immerso nel rapporto personale col Padre, nel silenzio dell’Assenza di Dio, nell’aridità del deserto circostante. Stare «da solo» per Gesù non significa essere isolato o peggio ancora solitario. Egli non ha abbandonato i discepoli, ma li ha messi al sicuro dalla folla improvvisata e senza identità. Sperimentato il fallimento delle folle, Gesù prende coscienza che deve lasciare una strada e intraprenderne una nuova. Davanti a un bivio sa perfettamente che i discepoli, facili all’entusiasmo del successo, possono impedirgli l’immersione nella verità di sé. A volte per realizzare la comunione, può essere necessario, distaccarsi. Egli purifica la propria coscienza e i criteri di valutazione per scoprire se stesso e capire il suo futuro.
Pregare – ormai lo ripetiamo come un ritornello responsoriale – è illimpidirsi lo sguardo per vedere dove gli altri sanno solo gettare distrattamente uno sguardo superficiale. «Starci» ha un solo significato – anche questo lo abbiamo detto e ridetto – è perdere tempo per e con la persona amata: Gesù ne perde tanto di tempo con il Padre. Non agisce per dovere o per bisogno, solo l’amore lo guida, lo nutre, lo brucia e lo consuma come una candela che si lascia ardere, come il roveto della Presenza del Sinai (Es 3,2). Se non fosse così, potrebbe forse dire «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)? Non potrebbe, non oserebbe. Gesù fa sua la fatica di Mosè e il suo anelito di pastore e guida e ne rivive la missione. Mosè sta sempre davanti a Dio fino a diventare così raggiante da doversi coprire il volto (cfr. Es 34,29-35). Egli, infatti, sale sempre «verso il monte del Signore» (Es 19,3; 24,18,34,4) per porsi come intermediario.
Per andare a Gerusalemme Gesù sosterà al monte della trasfigurazione, dove avrà come testimoni qualificati Mosè ed Elìa: il Lògos che è dal principio (cfr. Gv 1,1; cfr. Pr 8,22-31) è garantito da tutta la Toràh (Mosè) e da tutti i Profeti (Elia), cioè da tutta la Scrittura del popolo eletto. Pregare per Mosè e per Gesù è essere strabici: un occhio al cielo e uno alla terra. Davanti a Dio implorare il perdono per il popolo e davanti al popolo spronandolo a salire sempre più in alto. Da una parte sprona il popolo, dall’altra «costringe» Dio a essere Dio, cioè perdono (Es 32,30-31).
5ª regola della preghiera
Dopo la preghiera personale, Gesù ritorna alla vita dei discepoli che è agitata da un vento contrario (cfr. Mt 14,24) e in piena notte. La preghiera non è alienazione e astrazione dalla vita, perché sarebbe astrazione dall’umano, l’unico ambito dove possiamo incontrare Dio. La preghiera è una cattedra per imparare a trasformare la vita in dono orante, vivendola fino in fondo affrontandone anche gli aspetti negativi e pericolosi. Chi non sa pregare da solo, non sa pregare in comunità e chi non sa pregare ekklesialmente non è capace di pregare da solo, perché i due aspetti sono complementari ed essenziali.
6ª regola della preghiera
Dopo la preghiera, Gesù si manifesta ai suoi presentandosi come il Dio d’Israele che domina le acque. La preghiera ci rende partecipi della natura di Dio e ci fa assomigliare a lui anche nel compiere miracoli (cfr. At 3,2-16). Chi prega può camminare sulle acque e dominare il male che esso rappresenta perché non agisce in forza di strani poteri magici, ma in comunione con il Dio che ha creato il cielo e la terra e con il Figlio che ha redento il mondo e con lo Spirito Santo che lo santifica. Stare nel mondo assumendo la natura di Dio: è questo il compito supremo della preghiera cristiana. Non è un caso che noi iniziamo l’Eucaristia con la preghiera, databile sec. IV, che dice coralmente: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa» che è il cuore dell’atteggiamento orante. Cinque azioni o identità per un solo scopo: la gloria di Dio, che non significa l’onore e il rispetto della divinità onnipotente, ma solo innestarsi nella gloria ebraica, la «Kabòd – peso» di Dio, cioè la sua natura, la sua consistenza, la sua stabilità, in una parola, la sua Persona.
Bisognerebbe aggiungere la 7ª regola della preghiera, cui altre volte abbiamo accennato e descritta molto bene dal Targùm al Cantico dei Cantici dove il giovane amante cerca di vedere il volto dell’innamorata: «Colomba mia! Nelle spaccature della roccia, nel nascondiglio del dirupo, fammi vedere il tuo volto, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave, e bello il tuo volto» (Ct 2,14). Il Targùm proclamato in sinagoga al tempo di Gesù commenta questo testo del Cantico:
«Subito, allora, essa [l’Assemblea d’Israele] aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce (cfr. Esodo Rabba XXI, 5 e Cantico Rabba II, 30). Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Mekilta Es 14,13).
Al desiderio dell’innamorato di vedere il volto della sposa, il Targùm con un’arditezza straordinaria fa rispondere Dio che esprime un desiderio struggente: è lui stesso, che vuole contemplare il volto di chi prega, ribaltando i ruoli. Non è più l’orante che desidera vedere Dio, ora è Dio che vuole contemplare – ha bisogno di contemplare – il volto della sposa/assemblea d’Israele/Chiesa quando prega. Nella preghiera si consuma la sola conoscenza sperimentale possibile, pura estasi e contemplazione: l’amore, perché quando noi preghiamo è Dio che contempla noi e arde del desiderio di vedere il nostro volto. Sul contenuto di essa ci siamo soffermati ampiamente in MC giugno 2017, in cui descriviamo anche come, secondo la tradizione giudaica, Dio si presenta a Mosè sul monte Sinai, vestito con il mantello della preghiera (tallìt) per insegnare meglio a lui e agli Israeliti le regole della preghiera.
Da quanto abbiamo esposto, per quello che concerne la preghiera, dobbiamo cambiare radicalmente e capovolgere la nostra prospettiva e mentalità. Crescere vuol dire anche cambiare passo e direzione, con umiltà e desiderio di «crescere in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Se questa fu la regola cui si sottopose il Signore, se vogliamo imitarlo, deve essere la regola minima anche per la nostra vita. In fondo, a noi importa solo sprofondare sempre più nell’intimità con lui per la durata e la lunghezza di tutta la nostra vita e anche oltre.
Paolo Farinella, prete [La Preghiera, continua-15]
Dall’esperienza mongola una riflessione sul vangelo in Asia: Essere prima che fare
Essere cristiani in Asia significa fare i conti con un contesto nel quale si è minoranza. Chiamati a comunicare il Vangelo, lo si fa più con un sussurro discreto all’orecchio che con un annuncio gridato dai tetti delle case. È lo stile del seme che cade nella terra affidandosi e fidandosi.
È il più grande mosaico di culture, popoli e tradizioni religiose. L’Asia è il continente meno cristiano del mondo, ed è, per questo, un campo d’azione naturale per la missione ad gentes. È la sfida che i missionari della Consolata hanno raccolto 30 anni fa aprendo le loro presenze nel 1988 in Corea del Sud, poi in Mongolia nel 2003 e a Taiwan nel 2014.
Da allora la sfida asiatica regala prospettive nuove alla missione dell’Imc, tanto da spingere i missionari a scrivere a chiare lettere nel loro «progetto Asia» presentato e approvato un anno fa al loro XIII Capitolo Generale tenutosi a Roma: «L’Asia, con la ricchezza del suo bagaglio storico e culturale, potrà forse non sentire il bisogno dell’Imc, ma l’Imc ha bisogno oggi dell’Asia per rinnovarsi ed esplorare orizzonti nuovi della missione».
Il continente e gli orizzonti nuovi che esso regala alla missione ce li racconta padre Giorgio Marengo, torinese di 44 anni, arrivato quindici anni fa nella capitale della Mongolia, Ulaanbaatar, con il primissimo gruppo di missionari e missionarie della Consolata, e ora parroco ad Arvaiheer, un piccolo centro nel cuore della steppa dove i cattolici sono 37.
Profondità, prossimità, essenzialità
Prendendo a riferimento un’espressione dell’arcivescovo emerito di Guwahati, India, Thomas Menamparampil, padre Giorgio ci introduce alla missione in Asia descrivendola come un «sussurrare il Vangelo al cuore» del continente. Sussurrare, cioè comunicare con discrezione qualcosa di intimo e di profondo in una condizione di vicinanza fisica e di fiducia, in una relazione personale che rispetta i tempi lunghi della maturazione, quando avviene.
Prossimità, amicizia, umiltà, rispetto, profondità. La missione della Chiesa in una situazione di minoranza, a volte di discriminazione o di persecuzione, spesso di irrilevanza, è interpretata da padre Marengo come una grazia. Essere minoranza dona maggiore libertà, conduce all’essenzialità, restituisce il missionario alla centralità dell’azione di Dio, più che alla sua, essendo la sua caratterizzata da povertà di mezzi e di efficacia. Il missionario in Asia si riscopre fragile, piccolo. E così ha la possibilità di assomigliare di più al seme che cade in terra e muore, dando (forse) poco frutto dal punto di vista umano, molto frutto dal punto di vista del Regno.
Con lo stile della Consolata
I missionari della Consolata a giugno ricordano e celebrano la loro fondatrice, Maria Consolata. In Asia, sussurrare il Vangelo significa sussurrarlo con lei, per tramite suo, nel suo stile. Anche la Consolata sussurra al cuore. Sta vicina come una madre che consola indicando il senso e il centro della vita di ciascuno: suo figlio Gesù.
Luca Lorussso
Uno sguardo a volo d’uccello sul continente più grande:
Asia, culla delle grandi religioni
È il continente più grande del mondo. Ospita il 60% della popolazione mondiale. È anche quello più bisognoso dell’annuncio del Vangelo. Tentare una sua descrizione in poche pagine è impossibile. Ma qualche carattere asiatico, forse, possiamo scovarlo. I missionari partono da lì.
Presentare uno qualsiasi dei cinque continenti è un compito difficile, tanto più se si tratta dell’Asia1, continente che occupa il 30% delle terre emerse con i suoi 49 paesi e nel quale risiede il 60% della popolazione mondiale. In Asia convivono, in un affascinante intreccio, le tradizioni più antiche e le società più avanzate. È il continente di nascita delle principali religioni mondiali (Induismo, Buddhismo, Ebraismo, Cristianesimo, Islam) e di molte altre. Di fronte a una realtà così ampia e complessa, qualsiasi tentativo di renderne un’immagine sintetica ha il difetto dell’approssimazione e della generalizzazione. Tuttavia, ci vogliamo provare.
Territori e lingue
Data la vastità del suo territorio, le Nazioni unite suddividono l’Asia in cinque macroregioni (più una): Asia occidentale, centrale, meridionale, orientale e Sud Est asiatico, a cui si aggiunge la parte asiatica della Federazione Russa, la Siberia.
Nel continente si contano ben undici famiglie linguistiche delle quali fanno parte centinaia di idiomi. Le ricche ed elaborate lingue asiatiche (e le rispettive scritture) testimoniano uno «spessore» culturale davvero impressionante, che non si può trascurare. E ne sanno qualcosa i missionari non asiatici che si trovano nel continente.
Mosaico religioso
Per entrare in empatia con i popoli che abitano l’Asia è necessario, innanzitutto, provare a individuare le tendenze di pensiero che li attraversano, spesso intrecciandosi tra loro.
Tra le fonti autorevoli c’è l’Ecclesia in Asia, l’esortazione apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1999, che ci autorizza a spingerci in questa direzione: «I popoli dell’Asia sono fieri dei propri valori religiosi e culturali tipici, come ad esempio l’amore per il silenzio e la contemplazione, la semplicità, l’armonia, il distacco, la non violenza, lo spirito di duro lavoro, di disciplina, di vita frugale, la sete di conoscenza e di ricerca filosofica. Essi hanno cari i valori del rispetto per la vita, della compassione per ogni essere vivente, della vicinanza alla natura, del filiale rispetto per i genitori, per gli anziani e per gli antenati, ed un senso della comunità altamente sviluppato. In modo tutto particolare, considerano la famiglia come una sorgente vitale di forza, come una comunità strettamente intrecciata, che possiede un forte senso della solidarietà. I popoli dell’Asia sono conosciuti per il loro spirito di tolleranza religiosa e di coesistenza pacifica». Più avanti il testo chiama in causa «un innato intuito spirituale e una saggezza morale tipica dell’animo asiatico, che costituisce il nucleo attorno al quale si edifica una crescente coscienza di “essere abitante dell’Asia”».
Entrare in questo «intuito spirituale» è di fondamentale importanza per noi missionari. Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India), asiatico ed esperto del settore, con una visione d’insieme ampia e allo stesso tempo dettagliata della vita religiosa del suo continente, ne propone quattro caratteristiche peculiari: il senso del sacro; l’intensità della ricerca di Dio e del divino; la semplicità di vita; l’aspirazione a propagare gli insegnamenti religiosi.
Il senso del sacro
Il sacro e il divino fanno parte essenziale della psicologia collettiva asiatica. In molte parti del continente, i ritmi del vivere comune sono ancora oggi scanditi dalle pratiche religiose di svariate tradizioni (Induismo, Buddhismo, Islam, Giainismo, Taoismo, Shintornismo e altre ancora), senza che questo rappresenti in sé una stravaganza o una minaccia alla società regolata dai governi statali.
In alcuni paesi, anzi, sono tutt’ora in vigore forme di governo intimamente associate al potere religioso. In ogni caso, il sacro è qualcosa che non si discute neanche, perché appartiene all’evidenza del vissuto.
Altrove l’impatto con la modernità di stampo occidentale ha cambiato radicalmente l’atmosfera, imponendo stili e ritmi più secolari e apparentemente neutrali rispetto al dato religioso. Ma anche in tali contesti il riferimento religioso fondamentale resta un dato indiscusso, magari più relegato alla sfera privata, ma mai dimenticato o trascurabile. In Asia di solito non ci s’imbatte nell’affermazione «Dio è morto», bensì nella domanda «Quale Dio seguire?».
Intensa ricerca di Dio e del divino
C’è un’aspettativa nel cuore di chi appartiene alle tradizioni religiose dell’Asia: il maestro, a qualunque gruppo appartenga, deve essere capace di indicare Dio, di parlare di lui e del suo piano per il bene del suo popolo. Questa è l’area in cui le persone religiose sono chiamate a essere competenti.
Il misticismo non è la scelta di una élite, ma una dimensione della vita che, se non tutti possono praticare (in molte tradizioni è riservata ai monaci), appartiene comunque all’immaginario collettivo come ideale da raggiungere.
Un’altra parola chiave della religiosità orientale è profondità. Una proposta spirituale che mancasse di questo carattere, apparirebbe inaffidabile, ingannevole. Profondo è ciò su cui si può costruire, ciò che sostiene anche se non si vede, è ciò che resta quando finiscono le parole; ciò che s’intuisce durante una cerimonia sacra o nell’armonia dell’arte religiosa; ciò che dura nel tempo, perché ha già attraversato tante generazioni e si è sedimentato in una letteratura, in testi sacri da maneggiare con rispetto.
Il passo dalla profondità alla preghiera è molto breve, anzi spontaneo. Preghiera e devozione sono un altro aspetto della medesima ricerca di Dio e del divino che in Asia ha prodotto esperienze tra le più ricche. La dimensione della preghiera, del culto e dei riti non si è mai offuscata (come invece è successo in Occidente), ha conosciuto un percorso storico in cui è rimasta viva e articolata. Pregare è la norma, non l’eccezione. Non va giustificata la preghiera, semmai va spiegata la sua originalità che la distingue da quella praticata in un’altra religione. In ogni caso l’esperienza di preghiera appartiene al cuore del cammino spirituale e costituisce il contesto più adatto alla comprensione e diffusione del messaggio religioso. Un aspetto strettamente collegato alla dimensione orante della vita è la ricerca di solitudine, di raccoglimento. In tutte le forme religiose sviluppatesi in Asia esiste un anelito all’intimità con il divino che solo una certa dose di isolamento e silenzio sembrano favorire. L’esercizio delle pratiche ascetiche richiede un contatto con se stessi che esige attenzione all’interiorità e distacco, almeno temporaneo.
Semplicità di vita
Un altro aspetto della religiosità asiatica è il convergere di tante fedi sulla necessità e sul valore di uno stile di vita sobrio. La semplicità riflette un’attitudine molto apprezzata nella persona religiosa in Asia: il giusto distacco dalla materialità delle cose.
Semplicità e sobrietà favoriscono una vita centrata sull’essenziale, identificato quasi sempre con la ricerca spirituale. Una vita che si lasci sommergere da preoccupazioni mondane di ricchezza, accumulo e competizione tiene il praticante lontano dal raggiungimento dei suoi ideali.
Propagazione degli insegnamenti religiosi
Il concetto di «missione» è maturato in ambito cristiano e dunque gode di una sua originalità che l’Occidente postmoderno fa fatica a comprendere e accettare. In Asia invece la tendenza di una dottrina religiosa a diffondersi e quella dei suoi fedeli a propagarla è un dato pacificamente accettato, anzi ne testimonia la validità. Mentre in Occidente si manifesta resistenza (sensi di colpa storici, timore d’ingerenza nella libertà altrui, ecc.) nel panorama religioso asiatico non desta stupore il fatto che una dottrina o una via di sapienza cerchi di diffondersi.
Cristiani esigua minoranza
In questa terra vasta e complessa, trova il suo spazio anche la fede cristiana, benché sia praticata per lo più in condizioni di minoranza e talvolta di discriminazione (o di aperta persecuzione; cfr Cristian Nani, Una fede pericolosa, MC maggio 2018). Negli ambienti missionari si parla di ad gentes per indicare lo specifico della missione in contesti in cui essa rappresenta per gli interlocutori il venire in contatto per la prima volta con il Vangelo e la persona di Gesù Cristo, dal momento che altre tradizioni religiose e culturali hanno plasmato quelle società. Ebbene, in Asia l’ad gentes è una realtà evidente. Non v’è dubbio che i non cristiani sono gli interlocutori principali della Chiesa in Asia. Per questo motivo il magistero missionario del postconcilio ha più volte richiamato l’attenzione proprio sul continente asiatico descrivendolo come il più bisognoso di evangelizzazione2.
A questo riguardo Ecclesia in Asia, al n.1 dice: «Dato che Gesù è nato, vissuto, morto e risorto in Terra Santa, questa piccola porzione dell’Asia occidentale è diventata terra di promessa e di speranza per tutto il genere umano. Gesù conobbe ed amò quella terra, facendo sue la storia, le sofferenze e le speranze di quel popolo; ne ebbe cara la gente». Soffermiamoci su queste ultime parole: anche noi siamo chiamati a entrare in questo movimento di amore per i popoli dell’Asia. È la legge dell’incarnazione che ci spinge a entrare in profonda sintonia con le persone a cui siamo mandati, e quindi con le loro culture, la loro storia, le loro tradizioni religiose e filosofiche, la loro sapienza, la loro psicologia.
Giorgio Marengo
Note:
1 M. De Giorgi, Missione e culture in Asia. Tra passato e presente, in «Quaderni del Centro Studi Asiatico», 11 (2016). 2 Giovanni Paolo II indicava il continente asiatico come quello «verso cui dovrebbe orientarsi principalmente la missione ad gentes» (Redemptoris Missio, 37).
Il cristianesimo in Asia
Il Cristianesimo ha conosciuto una sua diffusione in Asia già dai primi secoli. C’è un dato storico che a molti sfugge: all’indomani della Pentecoste, la prima generazione di credenti si spinse in due direzioni, nel bacino del Mediterraneo, giungendo fino al cuore dell’Impero romano, e in direzione Est, verso l’Asia appunto.
I cristiani d’Oriente avevano centri di eccellenza teologica, monasteri e biblioteche nella zona dell’attuale Turchia e Iran. Questa cristianità assunse ben presto dei tratti peculiari, arrivando anche a dissentire su questioni teologiche ai concili ecumenici, come testimoniato dal caso del patriarca di Costantinopoli Nestorio a Calcedonia (451).
Fu proprio grazie ai credenti delle prime generazioni, soprattutto attraverso le vie del commercio che già attraversavano il continente (come la via della seta), che il Vangelo giunse alle popolazioni asiatiche.
La storiografia tende a identificare questi cristiani con l’appellativo di Nestoriani. Occorrerebbe precisare questo titolo e il suo significato; in ogni caso, accettando convenzionalmente la dicitura, dobbiamo riconoscere che già intorno al VII secolo la fede cristiana era attestata in Cina e quasi contemporaneamente nelle zone centrali del continente. Per non parlare dell’India, con la sua tradizione sull’apostolo Tommaso.
Furono poi gli ordini mendicanti del XIII secolo a prendere il testimone dell’evangelizzazione del continente, dopo l’avanzata dell’Islam e il consolidarsi del Buddhismo in gran parte dei territori.
Quando i Gesuiti arrivarono in Cina e Giappone nel XVI secolo iniziò una nuova fase. Il dato è che, per vari fattori storico culturali, a quel tempo il Cristianesimo era rimasto ai margini delle società in cui era penetrato e, in alcuni casi, del tutto perduto.
Eventi storici non favorevoli? Errori di strategia missionaria? Mancanze e debolezze dei missionari stessi? Incidenti diplomatici?
Tutto va certamente analizzato, però a me piace pensare che la situazione di minoranza in cui versa la fede cristiana anche oggi in Asia non sia da ascriversi solamente a una congiuntura storico sociale, e che ci riveli qualcosa di profondo e, in qualche modo, di provvidenziale: non necessariamente il cristianesimo è destinato a diventare cristianità, a plasmare cioè società intere, al punto di diventare la religione principale (e dominante).
Se in occidente questa è stata l’evoluzione, non è detto che essa sia l’unica possibile e neanche la più auspicabile. È importante rendersi conto che non esiste solo il modello Europeo, come se le società dovessero in qualche modo attestarsi tutte in modo naturale sulle stesse posizioni.
Il nostro punto di riferimento deve sempre rimanere il Vangelo, la logica del Regno di Dio che Gesù ha sempre descritto in termini di piccolezza, sproporzione, inferiorità, seme che cade in terra e muore, lievito nella pasta, lume di una candela che illumina la stanza.
Il primo Asian Mission Congress, tenutosi in Thailandia nel 2006, tirava queste conclusioni, guardando alla storia del Cristianesimo nel continente: la Chiesa Cattolica in Asia ha dato il più alto numero di martiri. Dovunque ci sono missionari o cristiani locali che sopportano fatiche per la loro fede, facendo della loro vita un dono per gli altri, la Chiesa cresce. La testimonianza vivente di molti cristiani in Asia è un miracolo degno di essere celebrato.
G.M.
Una missione fatta di forza interiore e discrezione:
Comunicare prossimità
Prendendo in prestito l’espressione di un arcivescovo indiano cara alla riflessione missionaria del continente asiatico, «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia», possiamo introdurci nel mistero di una missione fatta di forza e fragilità, profondità, fiducia e prossimità. Completamente nelle mani di Dio.
Il parlare cristiano di Dio è percepito nell’Occidente postmoderno come qualcosa di «antipatico». Forse è per questo che viene spontaneo concentrarsi più sui mezzi per farlo che sui contenuti. Come se dovessimo ottenere un lasciapassare, un’autorizzazione che ci verrebbe concessa, appunto, per il semplice fatto di usare tecniche comunemente riconosciute.
Se questo fosse vero, il rischio grave sarebbe quello di perdere l’originalità del messaggio cristiano che sta proprio nel suo essere scandaloso. Parla, infatti, dell’irruzione nel mondo di Dio fattosi carne, di Dio che abita la nostra umanità allargandola al cielo.
Il dire cristiano su Dio e la missione, stanno in questo paradosso: del Dio ineffabile non si può parlare e, allo stesso tempo, non si può tacere.
Sussurrare il Vangelo
La missione sta nel mettere in comunicazione il «cuore» con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia», prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un «paradigma» missionario.
Quest’espressione sta avendo, con sorpresa dello stesso Menamparampil, un grande impatto nella riflessione missiologica del continente. Egli la usa come una sorta di bilancio dei suoi 80 anni spesi ad annunciare il Vangelo nel mondo indiano e nelle tante parti d’Asia nelle quali la Provvidenza lo ha chiamato. Allo stesso tempo ritiene che sia in qualche modo la «formula» per il futuro del lavoro missionario nel suo continente. E, io aggiungerei, anche negli altri.
Prossimità, fiducia, profondità
Il verbo «sussurrare» allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.
Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto.
Da quando mons. Menamparampil ha usato quest’espressione, essa è rimasta impressa in molti. Alcuni gli hanno fatto notare che suonava come una posizione troppo timida, quasi in contrasto con il coraggio che proprio in quegli anni Giovanni Paolo II chiedeva alla chiesa missionaria. In realtà l’espressione non invita al timore o al calcolo («se sussurriamo forse evitiamo conflitti»), ma alla necessità di mettere al centro dello stile missionario prossimità, fiducia e profondità.
Non sono forse questi gli strumenti con cui il Signore introdusse progressivamente i suoi amici al mistero della sua persona? Vengono in mente le scene dell’incontro di Gesù con la samaritana, con Nicodemo e, soprattutto, con i discepoli al cenacolo. Gesù si consegna ai suoi, versa il suo cuore proprio nel contesto di un incontro intimo, che anticipa il suo sacrificio.
Dire a voce bassa in modo personale
Il verbo «sussurrare» è evocativo già nella sua pronuncia: è musicale, produce un suono leggero e gradevole per l’orecchio. Ha il significato di «dire a voce bassa e sommessa, perché senta solo chi è vicino, o la persona a cui ci si rivolge»3. Esso indica, quindi, una modalità di comunicazione personale, che avviene nell’ambito di una relazione di amicizia, confidenzialità e sintonia, in un clima di empatia, discrezione e pacatezza. Torna alla mente l’immagine del servo del Signore che «non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce» (Is 42,2), scelta da Gesù per descrivere il suo ministero (cfr. Mt 12).
In Asia ci sono insegnamenti sacri nelle sue numerose tradizioni religiose che vanno trasmessi in confidenzialità: i sutra, ad esempio, ma anche i mantra, parole sacre recitate spesso sottovoce.
Così la Parola evangelica: per la sua qualità di essere allo stesso tempo rivelata e ineffabile, perché appartenente a Dio Altissimo, rifugge i toni chiassosi e gli slogan. Pensiamo a colui che è padre di noi missionari della Consolata nella sequela e nella missione, il beato Giuseppe Allamano, e alla sua attenzione alla persona, alla sua riservatezza, al suo stile discreto. La consegna della Parola sembra più adeguata quando a sussurrarla sono persone diventate segno di quel mistero che essa significa e a cui rimanda.
L’Asia dona la preghiera alla missione
La missione in Asia ci spinge oggi a riaprirci a dimensioni che forse non eravamo più abituati a considerare come specifiche della nostra vocazione. Una di esse è la preghiera. Normalmente, infatti, si associa alla missione prima di tutto l’idea della promozione umana, della lotta alla povertà, all’ingiustizia. C’è stato un tempo in cui lo slancio per le grandi cause dell’umanità ci aveva quasi fatto mettere da parte la preghiera, considerata una caratteristica adatta più ai contemplativi che a noi. «Noi – si diceva – siamo missionari, quindi…». Quindi? Pensiamo veramente che la missione sia esclusivamente un «fare»? E cos’è che davvero qualifica il nostro fare? La preghiera è solo una sorta di dovere da adempiere per essere dei bravi missionari, ma che «accadrebbe» separatamente dalla missione? Prima o dopo, ma non contemporaneamente? Devo a tutti i costi «fare qualcosa» per sentirmi missionario o posso prendermi del tempo per capire quali siano le «cose» più richieste dalla realtà in cui vivo?
Non esiste un solo modo di essere missionari; è invece importante che le nostre scelte siano in piena sintonia con il carisma del Beato Allamano.
Non si tratta di rinunciare all’azione per ritirarsi in una contemplazione staccata dalla realtà, ma di cogliere la sfida che l’Asia ci lancia per (ri)scoprire tutta la fecondità della dimensione contemplativa della missione.
Sembra, infatti, che nei nostri ambienti si faccia ancora fatica a comprendere che facciamo missione nell’atto stesso del nostro darci a Dio nella preghiera. Nonostante l’esempio di alcuni grandi missionari degli ultimi decenni: Charles de Foucauld, i monaci martiri dell’Algeria, madre Teresa di Calcutta, per non parlare del nostro Fondatore.
Mons. Menamparampil lo dice così: «La necessità di penetrare il mondo interiore di una società e di capire il suo funzionamento e la conformazione dei suoi ritmi emozionali è estremamente importante quando si tratta di condividere la propria fede. Più la si condivide in maniera casuale, più essa rimane superficiale. L’aspetto della profondità è importante come la qualità dell’intimità. Gli Asiatici stimano la profondità al di là di quale sia la fede a cui uno appartiene. Essa indica anche l’intimità che la persona ha con il suo “sé” reale. Nella spiritualità indiana, la ricerca del “sé” è uno degli obiettivi più alti. Se il comunicatore è vicino al suo “sé superficiale”, anche il contenuto e lo stile della sua comunicazione lo rifletteranno. Ma se egli è spesso con il suo “sé più profondo”, quando comunica un messaggio attrae l’attenzione»4. Oggi, anche grazie all’esperienza della missione in Asia, siamo più consapevoli che la preghiera è essa stessa via di evangelizzazione.
Una Parola ospitale, nel rischio del rifiuto
Tornando all’immagine del «sussurrare», è importante sottolineare che è il Vangelo a essere sussurrato e nient’altro, tanto meno qualcosa che appartenga solo all’evangelizzatore. Ad accogliere (o rifiutare) il Vangelo, poi, è niente meno che il cuore dell’altro, quel luogo nel quale risiede il suo mondo, la sua cultura, il suo orizzonte.
«Parlare di Dio non può essere come far calare una cappa di piombo sulle cose – scrive Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo francese -. Prima di tutto è un’alba che sorge. […] Ecco l’ineffabile: sta di casa sotto le parole di tutti i giorni. […] Non possiamo parlarne come si parla di una cosa fra le tante, ma non possiamo neppure parlare delle cose della vita se taciamo di Lui che è il loro principio e il loro fine. Portare il suo Nome non vuol dire farlo cadere dall’alto, ma lasciarlo salire dal fondo di ogni realtà. In questo modo la domanda “come parlare di Dio?”, rinvia non tanto a un argomento di conversazione, ma a una modalità ospitale di uso della parola»5.
Il carattere «ospitale» è proprio quello che vorrei descrivere per la missione in Asia: un’ospitalità evangelica restituita a chi ha accolto a casa sua i missionari del Vangelo. E quanto impegno devono profondere i missionari per farsi accogliere davvero dai popoli asiatici. Spesso è forte la sensazione di essere appena tollerati. In questo impegno di empatia, ascolto, studio, inculturazione, non dobbiamo mai perdere di vista il carattere scandaloso del Vangelo: infatti non è raro che la libertà altrui, rispettata e fattivamente accolta, comporti il rifiuto. Scrive ancora Hadjadj: «L’efficacia della proclamazione genera sempre la possibilità di un rifiuto ancora più violento di quello prodotto da una proclamazione meno efficace. […] Sarebbe un errore credere che, se perfetta, la comunicazione evangelica otterrebbe un consenso necessario»6.
Amicizia, parola, sacramento
Tra le varie figure di spicco che nel secolo scorso hanno saputo andare in profondità nell’esplorare (e vivere) la missione e che ci pare utile citare, c’è Catherine Doherty (1896 – 1985). Ispirandosi a uno scritto di Jacques Loew, l’attivista russa emigrata in America riassumeva l’attività missionaria in tre fasi: un tempo di amicizia, un tempo della Parola e un tempo del sacramento. La prima fase, quella dell’amicizia, è per lei fondamentale: non è semplicemente una preparazione, destinata a scomparire in uno stadio successivo, ma la costante che accompagna sempre la vita missionaria. È da seguire con pazienza, senza fretta. Questo tempo di amicizia è il tempo più lungo, la dimensione principale che caratterizza l’azione missionaria. Nella vita dell’evangelizzatore è il risvolto esistenziale, pratico, dell’incarnazione di Dio: assumere la condizione umana, entrare nella trama del tempo e dello spazio e, dunque, della cultura, della storia, della terra così come si presenta nel luogo specifico nel quale ci si trova.
C’è poi la seconda fase, quella della parola. Essa si realizza solo quando l’amicizia ha messo radici profonde. Solo allora si è in grado di esternare la «notizia bella» che si è stati inviati ad annunciare.
Anche qui l’insistenza di Catherine Doherty è sulla delicatezza, la prudenza: «Lo facciamo lentamente, con gentilezza, cambiando la fraseologia e la semantica, in modo che siano adatte ad ogni persona e ad ogni contesto».
È in questo momento che si fa esperienza di tutta l’inadeguatezza strutturale che ci si porta addosso. Per gli evangelizzatori che hanno abbandonato la loro terra per inserirsi in un’altra, questa è l’esperienza più radicale: lingua, riferimenti socio-culturali, storia, tradizioni, religioni sono altri rispetto ai propri, e ci si rende conto che questo incide non poco sulla comunicazione e l’annuncio. È allora che si diventa veri strumenti di chi invia, perché si apre la bocca «in suo nome», non confidando nelle proprie strategie e risorse. S’impara a riconoscere chi si è veramente: un seme che deve morire se vuol portare frutto. In questa impotenza consegnata si apre il solco perché la Parola venga sussurrata, cada e porti frutto.
La terza fase infine è quella del sacramento. È il passaggio cruciale, anzi cruciforme. È il vivere in prima persona la Pasqua, il passaggio dal predominio del proprio io a quello della Grazia. Questo rende liberi, come lo era san Paolo al termine del suo pellegrinaggio terreno. Non si dipende più dalla realizzazione di un qualche proposito o dal giudizio altrui (positivo o negativo che sia), ma unicamente dallo Spirito che cristifica, che porta l’immagine alla somiglianza.
Conformarsi a Cristo crocifisso
Una riflessione missionaria che non tenga conto di questo mistero di conformazione al Cristo crocifisso e risorto si ferma sulla soglia. Le tre fasi descritte dalla Doherty non sono altro che gli stadi attraversati da Cristo stesso. E la proporzione tra di essi dice qualcosa d’importante al modo di concepire e vivere la missione: trent’anni spesi nel tempo dell’amicizia, tre anni di Parola (il suo ministero pubblico) e pochi giorni nel compimento del mistero pasquale.
Raccontare il Vangelo, anzi, sussurrarlo, trasmette la fede – o, meglio, genera alla fede – solo dentro una particolare vicinanza, quella che si crea in relazioni di prossimità discreta che possono diventare autentica fraternità.
Far fiorire è il mestiere di Dio. All’evangelizzatore è riservato il lavoro sul terreno.
Giorgio Marengo
Note:
3 Cfr. la voce «sussurrare» in Treccani 2014 – Dizionario della Lingua Italiana, Giunti Scuola, Firenze 2013. 4 Citazione da un testo inedito di T. Menamparampil, condivisomi di recente da lui stesso. 5 F. Hadjadj, Come parlare di Dio oggi? Antimanuale di evangelizzazione, Edizioni Messaggero, Padova 2013, 56-57. 6Come parlare di Dio oggi?, cit., 101.
Sussurrare la Consolata
Siamo nel mese del quale celebriamo la Consolata. In tutto il mondo, decine di comunità la ricordano e festeggiano. Cosa succederebbe se sostituissimo la parola «Vangelo» con il nome di Maria nell’espressione di mons. Menamparampil, «Sussurrare la Consolata al cuore dell’Asia»?
Sarebbe forse suggestivo, ci dice padre Giorgio Marengo, autore di questo dossier, ma si arriverebbe allo stesso punto. Perché sussurrare la Consolata all’orecchio di qualcuno vorrebbe comunque dire indicare Maria che, a sua volta, indica suo Figlio.
«Penso che “sussurrare la Consolata” si possa dire nel senso di aiutare le persone a riferirsi a lei in una maniera esperienziale, confidenziale. Cosa che tra l’altro in qualche modo gli asiatici già fanno.
Se noi sussurriamo Gesù, dentro quel sussurro c’è anche lei. Ogni volta che invitiamo qualcuno ad aprirsi al Signore, in questa dinamica c’è la presenza di Maria. Viceversa, più si sta con lei, più si va verso Gesù».
Nel processo di sussurrare il Vangelo, la Madonna è quella dalla quale i missionari imparano, perché la vicinanza, la discrezione, l’ascolto, la profondità sono tutte caratteristiche di Maria che, con la sua presenza discreta che non attira a sé ma a suo figlio, indica lo stile giusto. «Sussurriamo suo figlio e allo stesso tempo imitiamo lei, che è schiva ma anche presente».
Oltre alla figura di Maria Consolata, anche il tema della consolazione è in sintonia con lo stile del sussurro. «L’aspetto della Consolazione credo che sia una delle nostre caratteristiche che meglio si sposa con l’Asia, con alcune delle componenti della sua spiritualità. Ad esempio uno dei pilastri forti della spiritualità buddhista è la compassione», ci conferma padre Ugo Pozzoli, fino a un anno fa membro del consiglio Generale dell’Imc con l’incarico speciale di seguire l’Europa e l’Asia. «Per dire consolazione in mongolo – aggiunge padre Giorgio – ci sono almeno tre espressioni: la prima si riferisce all’azione di calmare un dolore fisico. Si trova ad esempio nei bugiardini delle medicine: sollievo da una pena. Poi c’è una seconda espressione che ha un significato più ampio, simile a quello che intendiamo noi per consolare. Infine la terza espressione può essere tradotta letteralmente con “aggiustare il cuore”, nel senso di riparare, sistemare, come fa un meccanico con un motore. Effettivamente Maria aggiusta il nostro cuore, lo sintonizza con il cuore di Dio. Lo purifica, lo cura».
Sussurrare il Vangelo con la Consolata, quindi, sapendo che il contenuto del sussurro rimane Gesù.
Luca Lorusso
L’IMC in Asia
Il sogno asiatico dell’Istituto è antico. Un primo tentativo di «sbarcare» in Asia avviene tra il 1928 e il ‘29, quando quattro missionari della Consolata giungonoi in India, nella provincia del Madhia Pradesh. L’esperienza dura solo tre mesi, interrotta dalle decisioni della Visita Apostolica che l’Istituto subisce in quegli anni.
Quando si apre la prima stabile presenza Imc in Corea del Sud nel 1988, si realizza un desiderio che è appartenuto già al beato Giuseppe Allamano: «Io non vedrò, ma un giorno andrete in Cina, India, Giappone, Tibet…». Nel gennaio di quell’anno arrivano nel paese asiatico i primi quattro missionari della Consolata. Le altre due aperture avvengono nel 2003 in Mongolia e nel 2014 a Taiwan. In Mongolia, i primi missionari, arrivati assieme alle missionarie della Consolata, entrano nell’estate del 2003, si stabiliscono nella capitale, Ulaanbaatar, con l’intento di «fare missione insieme, in comunione». A Taiwan si inizia nel settembre 2014.
Il mandato dell’ultimo Capitolo Generale è quello di rafforzare le presenze attuali in modo da consolidarle e dare all’Imc in Asia una prospettiva concreta di permanenza e sviluppo.
Luca Lorusso
L’ad gentes in Asia: Con lo stile del seme
Poca visibilità e, molto spesso, pura insignificanza. La condizione di minoranza della Chiesa in Asia potrebbe essere letta come un ostacolo insormontabile, oppure come una posizione privilegiata per purificare la missione e rimanere ancorati all’essenziale.
L’ambiente umano in cui la Chiesa si trova a vivere e testimoniare la propria fede in Asia è per lo più di vero ad gentes, nel senso che trova i propri riferimenti e identità al di fuori del Cristianesimo.
Questo dato è di notevole importanza, perché indica che la presenza e l’operato della Chiesa si confrontano quotidianamente con la poca visibilità e, molto spesso, la pura insignificanza. Siamo lontani da realtà in cui la Chiesa rappresenta una forza trainante della società e un’istituzione riconosciuta e stimata (o criticata).
Il confronto storico forse più pregnante è quello con le prime comunità cristiane diffusesi a Est del fiume Eufrate nell’età postapostolica. Esse dovettero misurarsi da subito con culture e tradizioni religiose preesistenti e con i più diversi sistemi politici, quasi sempre non benevoli nei loro confronti.
La libertà dell’essenziale
Proprio questo carattere minoritario, defilato, quasi nascosto è, però, altamente significativo e può rappresentare una grande risorsa. La Chiesa è più simile al seme caduto in terra. Cresce nel nascondimento e può dedicarsi più liberamente all’essenziale. Si regge sull’oblatività dei suoi membri ed è scevra da protagonismi e tentazioni mediatiche. Niente a che vedere con una mentalità da ghetto o da rifugio esclusivista, al contrario, la povertà di immagine e di influenza sociale permette una maggiore trasparenza al messaggio evangelico.
Questa condizione di minoritarietà può allora diventare scelta consapevole di un’evangelizzazione portata avanti con la testimonianza personale, i contatti fraterni, l’impegno non rumoroso per una società più giusta e accogliente.
Stupore, incomprensione, testimonianza
È interessante constatare come anche nell’Occidente postmoderno questa dimensione della testimonianza sembra aprire spazi di luce sul tema della missione. «L’annuncio si trasforma in testimonianza vissuta; testimonianza che, appunto, presuppone una mancanza di dimostrazione e di evidenza, ma che unica può trasformare il linguaggio verbale in un linguaggio pratico ed etico. In questa maniera la missionarietà non indirizza le sue energie nel raccapezzare un senso ormai disperso, ma tenta di evangelizzare il frammento diventando in sé stessa richiamo agapico. […] La testimonianza lascia spazio alla meraviglia, allo stupore, all’incomprensione, cioè a quegli atteggiamenti che trasportano il soggetto postmoderno “al di fuori di sé” nell’attimo di un incontro»7.
La fede chiamata a ricomprendersi
L’Ecclesia in Asia lo ha detto chiaramente al n. 23: «Un fuoco non può essere acceso che mediante qualcosa che sia esso stesso infiammato». Non sentiamo qui riecheggiare le parole del nostro fondatore il beato Giuseppe Allamano? Dovremmo forse fermarci a considerare più a lungo il suo insegnamento: la sua è una vera e propria «mistica dell’annuncio missionario», come l’ha sviscerata e portata in luce il troppo poco conosciuto studio del domenicano padre Ceslao Pera8.
L’originalità di una missione veramente ad gentes è anche questa: il missionario vive in un ambiente privo di riferimenti (almeno espliciti) al Cristianesimo. L’impegno per comprendere e decifrare tale ambiente apporta conoscenze nuove, fa scoprire modi altri di vedere la vita e la relazione con il divino e, dunque, provoca la fede a una ricomprensione radicale di se stessa.
Il dialogo diventa allora una scuola di studio e di riflessione che, oltre ad arricchire il missionario di conoscenze su altre tradizioni, l’aiuta a dischiudere la profondità del mistero cristiano in un modo forse più determinante di quanto non avvenga all’interno di una società «cristiana».
Paura, presunzione, evasione
L’aveva capito molto bene san Francesco Saverio nel XVI secolo: nelle sue lettere rivolte a chi lo avrebbe seguito in India e in Giappone egli insisteva molto sulla virtù apostolica dell’umiltà interiore. In una lettera del 1549 da Kagoshima (Giappone) avvisava i candidati alla missione asiatica che avrebbero dovuto affrontare una triplice tentazione: il pericolo della paura, il rischio della presunzione e la possibilità di evasione dal reale.
L’impatto con culture, religioni, società, situazioni ambientali e umane così altre mette paura, provoca un inaspettato contatto con la parte più fragile di noi stessi. Ecco allora il primo grande vantaggio: dalle ceneri del nostro io andato in frantumi può nascere una nuova fiducia in Dio: «Vi scongiuro pertanto, in tutte le vostre cose fondatevi totalmente in Dio, senza confidare nel vostro potere o sapere od opinione umana»9.
La seconda tentazione è quella della presunzione: a volte, il missionario è tentato di giudicare le cose non a partire dal Vangelo, ma dai propri riferimenti culturali, rasentando il complesso di superiorità. Il contatto con le ricche tradizioni asiatiche può stemperare questo rischio: «Credetemi, voi che verrete in questo paese, avrete l’occasione di provare quanto valete. Per quanta diligenza voi mettiate per guadagnare ed ottenere molte virtù, siate certi che non ne avrete mai abbastanza»10. Anche questa è una grazia.
Ma c’è una terza prova a cui i missionari sono sottoposti in Asia: il rischio di evadere continuamente dalle sfide del quotidiano rifugiandosi in una realtà creata da loro stessi. Oggi, con l’aiuto di social network e nuove tecnologie, rischiamo di essere fisicamente in un posto e col cuore in un altro: «Stanno nelle Indie, ma vivono col desiderio in Portogallo»11. Anche in questo caso l’unica medicina è l’umiltà di affidarsi a Dio in quel presente che magari vorremmo diverso, ma che è l’unico orizzonte in cui possiamo davvero incontrare il Signore.
Missionari come «paralitici guariti»
Mettendo in guardia i suoi confratelli gesuiti, san Francesco li conduce al cuore dell’esperienza apostolica. Lo stesso fa papa Francesco quando ci dice che siamo testimoni del Risorto in mezzo ai popoli proprio perché abbiamo toccato con mano la nostra povertà e l’abbiamo consegnata a Lui, confidando nella sua misericordia. Siamo «paralitici guariti». Questa fiducia ci abilita a chinarci sulle ferite del prossimo per versarvi l’olio della consolazione. È questa l’esperienza fontale dell’apostolo, e noi in Asia siamo chiamati a viverla ogni giorno, accompagnando persone che, con il loro cammino di fede, ci aiutano a fare verità in noi stessi e a percorrere insieme a loro lo stesso sentiero di rinascita12.
La resistenza delle tenebre
Da san Francesco Saverio impariamo poi un aspetto della prima evangelizzazione che talvolta viene taciuto o mal interpretato. Il grande missionario ritorna spesso a considerare come il male si opponga all’avanzata del Regno di Dio. La missione ad gentes deve trovarci attenti a questo scontro, quello che san Giovanni nel suo Vangelo descrive come la resistenza delle tenebre ad accettare la luce. Con questo non si vuol dire che il mondo non ancora raggiunto dall’annuncio evangelico sia in sé compromesso dal male, anzi, con il libro della Sapienza, noi crediamo che «le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra» (Sap 1,14), ma allo stesso tempo crediamo anche che forze nemiche alla luce di Cristo operino per contrastarla. A cominciare dal nostro io, spesso diviso, e dai tanti interessi mondani che spesso opprimono la coscienza di interi gruppi umani.
Queste forze negative sono un motivo in più per prendere sul serio la dimensione orante della missione. Per poter stare in piedi, dobbiamo saper stare in ginocchio.
Nulla da dimostrare, solo Gesù da mostrare
Prima e al di là di qualsiasi atto pratico (il progetto, l’iniziativa di sviluppo, ecc.), la missione è manifestazione umana, relazionale, della misericordia divina che Gesù ha incarnato. L’esperienza missionaria in Asia ci insegna molto, aiutandoci ad andare all’essenziale: un annuncio che si fa sussurro confidenziale, condivisione sincera, umile servizio offerto senza aspettarsi nulla in cambio. Non abbiamo nulla da dimostrare, ma «solo» Gesù da mostrare con la vita e, se necessario, con la parola.
Padre Gabriele Ferrari, già padre generale dei missionari Saveriani, parla addirittura di «esposizione di Gesù», che «sarà tanto più efficace quanto più semplice, povero e disarmato sarà lo stile di missione»13. L’esposizione del Santissimo Sacramento sui nostri altari diventi allora la sua esposizione in vite trasfigurate dalla sua bellezza: la notizia non è solo «buona», ma principalmente «bella». Il bello sconvolgente dell’amore crocifisso di Gesù attirerà le persone in mezzo alle quali noi viviamo in semplicità, non in case piene di regole, porte e strutture, ma in umili dimore accoglienti, povere e belle, dove l’armonia esteriore sarà un richiamo al fatto che un altro mondo è possibile, la vita non è solo miseria e stenti, la vita in Cristo è luminosa e vale la pena di essere vissuta.
Giorgio Marengo
Note:
7 T. Tosolini, Dire Dio nel tramonto. Per una teologia della missione nel postmoderno, Emi, Bologna 1999, 15. 8 Ceslao Pera O.P., La spiritualità missionaria nel pensiero del Servo di Dio Giuseppe Allamano, Edizioni Missioni Consolata, Torino, 1973. 9 F. X. Léon-Dufour, Francesco Saverio. Vita avventurosa e dimensione mistica dell’apostolo delle Indie, primo missionario gesuita, Piemme, Casale Monferrato 1995. 10 Id, 83. 11 Id, 88. 12 Da più di un anno seguiamo ad Arvaiheer un gruppo di Alcolisti Anonimi; il primo dei 12 passi che costituiscono il loro percorso di guarigione è riconoscere di averne bisogno. Mi sembra il punto di partenza di ogni vera conversione. 13 G. Ferrari, È proprio impossibile uscirne?, in «Testimoni», 2/2017, 12-16.
Incontro con i Kukama nella capitale amazzonica peruviana
Non è più tempo di nascondersi o di subire passivamente. Come tanti altri popoli, anche i Kukama hanno scelto di uscire allo scoperto per difendere con orgoglio il loro essere indigeni con le proprie consuetudini di vita e credenze. Come testimonia la storia di Rusbell Casternoque, apu (cacique) di una piccola comunità kukama nei pressi di Iquitos che ha lottato lungamente per ottenere il riconoscimento giuridico da parte dello stato peruviano.
Iquitos. Nell’angusto ufficio del Caaap – Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica – non ci sono finestre e fa un caldo soffocante. Dobbiamo accendere il ventilatore anche se il rumore delle pale disturba la conversazione.
L’interlocutore è l’apu (cacique) di Tarapacá, piccola comunità kukama sul fiume Amazonas, vicino a Iquitos. Si chiama Rusbell Casternoque Torres e ha un volto segnato dal sole, folti capelli neri, baffetti appena accennati e un bel sorriso.
Si presenta: «Appartengo a un popolo che risiede in tutta l’Amazzonia di Loreto. Un popolo al quale piace vivere in tranquillità. Avere cibo tutti i giorni. Cerchiamo di essere in armonia con gli esseri spirituali che vivono vicino a noi, nell’acqua e nel bosco. Parliamo con loro attraverso i nostri sabios e curanderos ogni volta che ce ne sia la necessità. Per esempio, quando si tratta di curare una persona».
Rusbell non parla esplicitamente di sumak kawasy, il «buon vivere» indigeno, ma il concetto è quello.
I Kukama sono tra i popoli indigeni più numerosi della regione di Loreto. Si parla di almeno 20mila persone. Abitano principalmente lungo il fiume Marañón. A parte qualche eccezione come quella rappresentata dalla comunità guidata da Rusbell.
La lotta per il riconoscimento
La storia di quest’uomo di 61 anni è a suo modo esemplare. Rusbell e gli abitanti di Tarapacá – 60 in tutto – hanno lottato a lungo perché volevano essere riconosciuti come indigeni e come kukama, un popolo cacciato – alla pari di tantissimi altri – dalle proprie terre ancestrali, per fare spazio alle compagnie petrolifere, del legno o turistiche. Dopo secoli di sottomissione o anonimato, da alcuni decenni i Kukama hanno riscoperto la propria identità e l’orgoglio dell’appartenza.
Oggi Tarapacá è riconosciuta dalla legge peruviana come Comunidad nativa kukama-kukamiria, ma è stato un processo lungo e pieno di ostacoli. «Ci dicevano che siamo troppo vicini a Iquitos, che non parliamo la lingua indigena, che siamo meticci».
La Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata anche dal Perù, nel secondo comma dell’articolo 1 prevede che un criterio fondamentale per essere riconosciuti come indigeni sia il «sentimento di appartenenza», vale a dire l’autoriconoscimento. Nonostante questo fondamento giuridico, Rusbell e la sua comunità – affiancati dagli esperti del Caap – hanno dovuto affrontare vari gradi di giudizio prima di vedere accolta la propria istanza.
Il riconoscimento legale – che spetta al ministero peruviano dell’Agricoltura – ha una conseguenza pratica rilevante: l’ottenimento della «personalità giuridica» da parte della comunità indigena. A partire da questa è possibile chiedere allo stato molte cose: la costruzione di una scuola o di un centro di salute, la fornitura di acqua adatta al consumo e, soprattutto, la titolazione delle terre ancestrali come previsto dall’articolo 89 della Costituzione peruviana.
La proprietà delle loro terre è imprescrittibile, afferma la norma. La realtà mostra però situazioni diverse. L’esempio più clamoroso viene dalla Riserva nazionale Pacaya Samiria (dal nome dei due fiumi che la attraversano).
Sulla loro terra
Inaugurata nel 1982, Pacaya Samiria ha un’estensione di quasi 21.000 chilometri quadrati (come la metà della Svizzera). Situata alla confluenza dei fiumi Huallaga, Marañón e Ucayali, all’interno della cosiddetta depressione Ucamara (Ucayali-Marañón), la riserva è un gioiello di biodiversità. La gran parte dei turisti che la visitano – sono circa 12.000 all’anno, di cui la metà stranieri – non sa però che la riserva si fonda su una serie di ingiustizie. Essa infatti è situata sul territorio ancestrale dei Kukama, ma questi – a parte alcune comunità che hanno resistito – non lo abitano più da quando ne furono espulsi. «Hanno presentato la riserva mostrando gli animali, ma dimenticando gli uomini», commenta Rusbell con una triste sintesi.
All’ingiustizia perpetrata ai danni degli indigeni lo stato peruviano ha aggiunto anche la beffa di permettere l’estrazione petrolifera all’interno della riserva (dal lotto 8X, che dispone di vari pozzi). E, come ampiamente prevedibile, l’attività ha prodotto inquinamento. Come accaduto, fuori dalla riserva, con il lotto petrolifero 192 (gestito dalla canadese Frontera Energy, che ha sostituito l’argentina Pluspetrol Norte) e con l’oleodotto Nor Peruano di Petroperú.
Nell’affrontare l’argomento Rusbell si scalda. Parla con passione. Nelle parole e nei gesti.
«Tutto ciò che viene chiamato investimento in terra indigena è impattante – spiega -. Imprese del legno, imprese turistiche, compagnie petrolifere. Queste ultime sono entrate da più di 40 anni e che hanno fatto? Dicevano che avrebbero portato sviluppo, ma non c’è stato. Anzi, cosa c’è ora nei luoghi dove esse hanno operato? Ecco, qui sta la disgrazia, la disgrazia (lo ripete due volte, ndr). Lo dico chiaramente, con rabbia e collera. Hanno lasciato terre e acque inquinate. Dove andrà la gente a seminare e a pescare?».
I Kukama sono uno dei popoli indigeni che mangia più pesce. L’inquinamento delle acque dei fiumi è per loro un colpo mortale.
«Ci sono – spiega l’apu – molte persone con metalli pesanti nel sangue che stanno morendo lentamente. Per non dire quelli infettati dal virus dell’epatite B. C’è qualcuno del governo che prende posizione per noi? Siamo dei dimenticati».
Rusbell ricorda che la stessa mancanza di consulta previa (consultazione preventiva) con le comunità indigene – prevista dall’articolo 6 della Convenzione 169 (e dalla legge peruviana n. 29785 del 2011) – stava per accadere per il megaprogetto cinoperuviano noto come Hidrovía Amazónica, che mira a realizzare una via navigabile di oltre 2.500 chilometri usando i corsi dei fiumi Marañón, Huallaga, Ucayali e Amazonas. Questa volta non è andata così: la consultazione è avvenuta. Tanto che, a luglio 2017, il governo peruviano ha annunciato di aver sottoscritto 70 accordi con 14 popoli indigeni. Occorrerà però aspettare per dare un giudizio definitivo perché le organizzazioni indigene sono tante e spesso in contrasto tra loro.
E?poi non c’è soltanto questo. Come per altre tematiche, anche per la Hidrovía Amazónica non è soltanto una questione di impatto ambientale e pareri preventivi, ma anche di cosmovisione o, per dirla meglio, di cosmologia amazzonica.
«Ridono di noi»
Quando si entra nel campo della cosmologia amazzonica, non è facile seguire i discorsi di Rusbell. Che abbia una mentalità laica o religiosa, nell’ascoltatore non indigeno prevalgono pensieri dettati dalla razionalità e dalla logica. Tuttavia, la conoscenza della cosmovisione è indispensabile per avvicinarsi alla comprensione del mondo indigeno.
Per i Kukama esistono vari mondi (di norma 5: terra, acqua, sotto l’acqua, cielo, sopra il cielo), abitati da esseri che influenzano – nel bene e nel male – la vita delle persone. Così c’è il mondo in cui viviamo, abitato da gente, animali, piante, spiriti buoni e spiriti cattivi. E c’è il mondo che sta sotto l’acqua, dove vivono sirene, yakurunas (gente dell’acqua) e la yakumama (la madre delle acque rappresentata da un enorme serpente). Così, ad esempio, quando le persone muoiono affogate e non se ne ritrovano i corpi, si dice che sono andate a vivere nel mondo sotto l’acqua. E le famiglie coltivano la speranza di rimanere in contatto con loro tramite gli sciamani. Per tutto questo i Kukama hanno un forte vincolo e un grande rispetto per i fiumi e per l’acqua.
«Altro tema è la nostra credenza: noi crediamo che dentro l’acqua ci siano esseri viventi. Hanno mandato scienziati con apparecchiature sofisticate per cercarli, ma hanno visto soltanto terra. È che vivono in maniera sotterranea: lì stanno. Escono quando i nostri curanderos ne hanno bisogno. Per aiutare a curare. Quanti bambini kukama sono stati rubati dalle sirene e, dopo anni, sono tornati per dire: “Mamita, sono vivo. Non preoccuparti. Là dove vivo mi sono fatto una famiglia”. Siamo orgogliosi di poter dire che noi abbiamo nostre famiglie che vivono sotto l’acqua. Questa è una realtà. Nella mia comunità c’è un vecchietto di 75 anni. Egli parla direttamente con la sirena. Questa esce dall’acqua e conversa con lui in persona. Noi ci crediamo, ma, se lo diciamo ad altri, questi ridono e dicono che siamo matti».
Rusbell parla con convinzione davanti a un interlocutore non sufficientemente preparato in materia. Riesco solamente a domandare se Tarapacá abbia uno sciamano. «Sì, abbiamo uno sciamano che è anche curandero». Poi, per riportare la discussione su livelli più comprensibili alla mentalità occidentale, chiedo a Rusbell come sia diventato apu.
«Si chiama la comunità all’assemblea. Si propongono i candidati. E poi si discute finché ne rimane soltanto uno. Così sono stato eletto anch’io. Sono apu dal 2011. Nel 2019 si riconvocherà l’assemblea che può rieleggermi o cambiare. L’apu è il rappresentante della comunità, la sua massima autorità. Egli però agisce secondo le direttive dettate dalla collettività. Sono aiutato da una giunta comunitaria composta da quattro persone».
La lingua perduta
L’identità culturale di un popolo passa anche attraverso la propria lingua. Chiedo a Rusbell quale sia la sua.
«Parlo kukama e castigliano. Quest’ultima è la lingua più parlata perché il nostro popolo è stato quello più sottoposto alla “castiglianizzazione” da parte dei meticci. La verità è che stavamo perdendo la nostra lingua, ma ora stiamo recuperandola. Stiamo imparandola di nuovo. Per fortuna, sono rimasti alcuni vecchietti che parlano il kukama, ma non lo usavano più per vergogna. E poi ci sono alcuni insegnanti bilingue che stanno insegnando ai nostri bambini».
Lo metto in difficoltà quando gli domando una conclusione in lingua kukama. Ride. «No, no, non sono in grado. Sto ancora imparando».
Rusbell Casternoque, apu di Tarapacá, non parla (per ora) la lingua madre, ma non per questo è un meticcio. È un kukama e lo rivendica con orgoglio.
Paolo Moiola
La responsabile del Caaap di Loreto
Dimenticati e inquinati
Dimenticati dallo stato, i popoli indigeni si trovano ad affrontare le conseguenze
dell’inquinamento di fiumi e territori. Anche per questo molti di loro emigrano verso le città dove però trovano discriminazione e altre difficoltà. Conversazione con l’avvocata Nancy Veronica Shibuya, che con il Caaap combatte al loro fianco.
Iquitos. Nel 1974 nove vescovi cattolici dell’Amazzonia peruviana crearono il «Centro amazzonico di antropologia e di applicazione pratica» (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica, Caaap), un’associazione civile che aveva l’obiettivo di servire le popolazioni emarginate, in particolare i popoli indigeni.
Nancy Veronica Shibuya è una giovane avvocata di 36 anni che dal 2012 lavora con il Caaap come responsabile della regione di Loreto. Quando la incontro nell’ufficio di Iquitos mostra un atteggiamento molto professionale, ma già dalle sue prime risposte traspare la passione per quello che fa, per i diritti che ogni giorno cerca di difendere o conquistare.
Veronica, quali sono i problemi principali dei popoli indigeni?
«Sono tanti. A iniziare da quelli che debbono affrontare nei loro territori a causa di attività estrattive, deforestazione, inquinamento da petrolio. Quest’ultimo è tremendo perché colpisce in maniera diretta attraverso l’acqua, la terra, l’aria.
Oltre ai problemi ambientali che sono quelli più urgenti, ci sono quelli dovuti al mancato rispetto dei diritti alla salute e all’educazione come per tutti gli esseri umani. E ancora quelli sociali: alcolismo, prostituzione, tratta di persone».
Tratta di persone?
«Certo. Ci sono giovani donne indigene che sono state rapite e portate in altre zone del paese o fuori del paese. La regione di Loreto è nota anche per questo».
Si dice che un indigeno abbia verso la natura una sensibilità molto superiore a quella di un non indigeno. È una realtà o un mito?
«È così: esiste una differenza di sensibilità molto marcata. Un cittadino vede il taglio degli alberi come una necessità per avere legno. Al contrario, un indigeno ha molte difficoltà a tagliare un albero perché questo può avere un significato particolare o naturalistico o spirituale. Lo stesso vale quando s’inquina una laguna dato che per gli indigeni l’acqua significa vita, alimento, continuità. Il cittadino comune lo vede semplicemente come un reato e nulla più.
È difficile riuscire a comprendere la mentalità indigena che vede gli essere umani connessi con l’ambiente, le piante e gli animali. Nel momento in cui riusciremo a comprendere questo, riusciremo a comprendere anche il rapporto tra gli indigeni e l’Amazzonia».
L’Amazzonia è veramente in pericolo?
«Chiaro che è in pericolo. Un pericolo costante dovuto alla depredazione e alle minacce derivanti da megaprogetti, attività estrattive, indifferenza dello Stato. E parlo non soltanto dell’Amazzonia peruviana, ma dell’intera Amazzonia. Non sappiamo se, da qui a qualche anno, un ambiente come questo esisterà ancora».
Quando non vince l’indifferenza, prevalgono frustrazione e impotenza. Che si può fare?
«Finché non sensibilizziamo ogni persona a rispettare l’ambiente circostante, poco o nulla possiamo fare. Certo, non dipende soltanto dal singolo individuo, ma dalla collettività nel suo insieme. E poi è necessario che lo stato assuma il suo ruolo a difesa dell’Amazzonia, delle risorse, dei popoli che vi vivono, esseri umani che meritano lo stesso rispetto che noi esigiamo».
Che tipo di lavoro svolge il Caaap?
«Il nostro lavoro con le comunità indigene è multidisciplinare. Significa che esse ricevano non solo un’assistenza tecnica e legale, ma anche formativa».
Esempi concreti di assistenza quali possono essere?
«L’assistenza legale può riguardare i rapporti giuridici con le istituzioni dello stato, ad esempio sulle questioni legate alla terra. Quella tecnica per spiegare come funziona qualcosa, ad esempio – per rimanere sull’attualità – il progetto di idrovia amazzonica. La formazione, infine, avviene con incontri e assemblee sulle tematiche più varie».
Come scegliete le comunità presso cui operare?
«Passando attraverso le organizzazioni indigene. Come Acodecospat (Asociación cocama de desarrollo y conservación san Pablo de Tipishca) di cui fanno parte 63 comunità kukama. O come Acimuna (Asociación civil de mujeres de Nauta) che raggruppa donne kukama discriminate o maltrattate. O ancora come Oepiap (Organización de estudiantes de pueblos indígenas de la amazonía peruana) in cui confluiscono studenti indigeni di varie etnie. Recentemente abbiamo iniziato a lavorare affiancando il Vicariato San José del Amazonas con le popolazioni indigene della conca del Putumayo. Ci sono Ocaina, Kichwa del Napo, Yaguas e Huitoto».
Veronica, non esiste un pericolo di neocolonialismo?
«Io credo che sia un problema sempre latente. Finché tutti i popoli indigeni non saranno consapevoli dei loro diritti esisterà questo pericolo».
Come Caaap lavorate molto con i Kukama.
«Sì, perché qui è l’etnia più diffusa. Negli anni hanno perso la propria lingua, rimasta viva soltanto negli anziani. Oggi però lottiamo al loro fianco per un’educazione bilingue. Il Kukama vive in stretta connessione con il fiume. Il suo alimento principale è il pesce. Oggi però il Marañón, il fiume lungo il quale vive la maggior parte dei Kukama, è così inquinato che le autorità statali hanno dichiarato che la sua acqua non è adatta al consumo umano e di conseguenza i pesci che in essa vivono.
Dato che il Kukama è un grande consumatore di pesce, le conseguenze dell’inquinamento sono molto pesanti. Tra l’altro, in quanto uomini di pesca, le loro attività agricole sono sempre state limitate. Hanno piccoli appezzamenti di terreno coltivati a riso, juca e platano».
Da tempo si assiste a una migrazione dalle comunità indigene sparse nella foresta amazzonica verso le città come Iquitos. Come lo spiega?
«La migrazione dei popoli indigeni verso la città è dovuta all’abbandono da parte dello stato. Ci sono carenze molto gravi. Pensiamo al diritto alla salute. Le comunità indigene non hanno centri di salute. Non ci sono opportunità di lavoro per gli adulti e d’istruzione per i figli. Le persone emigrano per cercare di soddisfare necessità fondamentali».
Chi emigra in città trova un’esistenza diversa e soprattutto altri problemi.
«Chiaro che c’è differenza tra gli indigeni che vivono nelle comunità e quelli che sono venuti a vivere in città. Nelle comunità c’è una totale di libertà di espressione, in città non è così. Nelle comunità un indigeno sta in contatto permanente con la natura e le sue risorse. È circondato dalla famiglia e ci sono vincoli stretti tra gli uni e gli altri. Venendo in città, la maggior parte degli indigeni si lascia influenzare dalla cultura occidentale. Si ritrova in balia di situazioni che spingono gli indigeni a negare la propria identità culturale. La negano per l’obiettivo di essere accettati in determinati ambiti sociali. La realtà racconta però che la maggioranza degli abitanti è indigena. Se poi glielo chiedi, ti risponderanno: “No, io sono della città”, “No, io vivo a Iquitos”, “No, io sono di Iquitos”».
Mi ha detto che voi lavorate anche con un’organizzazione di studenti indigeni. Per quale motivo?
«Nelle comunità i giovani indigeni non hanno la possibilità di avere un’educazione superiore. Quando alcuni di loro vengono in città ed entrano in un istituto superiore, per essere accettati, negano da dove vengono o chi sono. Anche se l’aspetto fisico o il nome dicono molto, loro continuano a negare.
È una lotta costante contro la discriminazione. Noi come associazione li sosteniamo per rafforzare il loro lato identitario, perché non perdano il senso della loro provenienza e il loro essere. Un esempio. Al contrario dei Kukama, gli Awajún (o Aguaruna della famiglia linguistica jíbaro, ndr) continuano a sviluppare la propria lingua. Eppure, in ambito scolastico o lavorativo anch’essi in generale negano la loro identità».
Voi siete un’istituzione della Chiesa cattolica. In più occasioni papa Francesco ha chiesto perdono per gli errori commessi nei confronti dei popoli indigeni.
«Storicamente, nel processo di evangelizzazione la Chiesa ha commesso molti errori. Ha avuto un atteggiamento impositivo che ha causato molti danni. È stato chiesto perdono. Oggi il volto della Chiesa è cambiato: è una chiesa itinerante, più vicina ai popoli e ai deboli. E il Caaap ne è un esempio concreto».
Paolo Moiola
Siria: Una guerra interminabile, cruenta e pericolosa
Testimonianza su la Siria di Mtanious Hadad |
Dopo sette anni, la guerra siriana non trova ancora una soluzione, divenendo sempre più estesa e pericolosa. In questo suo appassionato intervento mons. Mtanious Hadad, siriano di Yabroud (Damasco), archimandrita della Chiesa melchita in Roma, spiega la situazione in maniera diversa dal consueto.
La speranza suggerisce che un giorno i cristiani del Medio Oriente – dalla Siria all’Egitto – avranno la possibilità di vivere con dignità ognuno a casa propria. Per ora non è così. Tanto che siamo costretti a parlare di guerra, di missili (veri) e attacchi chimici (presunti). Lo scorso aprile il signor Trump, supportato dalla Gran Bretagna e dalla Francia, ha inviato sulla Siria, la mia amata patria, un centinaio di missili, che io ho soprannominato «caramelle della resurrezione».
Armi chimiche?
Io mi chiedo: se il governo siriano ha usato le armi chimiche a Douma facendo vittime, secondo quale moralità e quale legge nazionale o internazionale questi paesi possono bombardare i luoghi e le fabbriche di queste (presunte) armi chimiche? Non avevano timore che esse potessero fare altre vittime? Meglio sarebbe parlare di messa in scena. Mi spiace tornare a usare questa terminologia, ma era da mesi che si parlava di questo. Il nostro ministro degli affari esteri aveva avvertito il mondo intero: «State attenti, i ribelli stanno preparando un attacco chimico per dare la colpa a noi».
Un paio di anni fa si era detto che la Siria era stata ripulita dalle armi chimiche. Adesso invece si dice che ancora le ha e le usa. Qual è la verità?
Ogni volta che il governo fa un passo verso la pace e la riunificazione del popolo siriano, noi veniamo sorpresi da un nuovo attacco chimico. Prima a Shaykhun, poi a Douma e vedremo quale sarà il terzo, dato che ora ribelli e terroristi si sono diretti verso il Nord del paese. Dove sarà la prossima linea rossa fissata dai governi di Gran Bretagna e Francia?
Perché sono stati lanciati i missili? Alcuni pensano per intimidazione. Non credo che sia per questo. L’erede al trono in Arabia Saudita – Mohammed bin Salman – è andato in America, Gran Bretagna e in Francia (tra marzo e aprile 2018, ndr). Cosa ci è andato a fare? È andato in vacanza? No, è andato a pagare! Quei missili erano prepagati dall’Arabia Saudita e l’America doveva lanciarli e bombardare qualcosa. Hanno sparato 110 missili dei quali 10-20 sono andati a buon fine. Quale lo scopo? Quale il risultato per la conclamata libertà della Siria?
Perché aggiungere altra disperazione a un popolo che ha già sopportato sette anni di sofferenze? Non è forse giunto il tempo di ricostruire moralmente, socialmente e materialmente?
Russia e Iran
Mi viene spesso chiesto cosa ci facciano la Russia e l’Iran in Siria. Io non vorrei difendere o giustificare alcuno. Andiamo a vedere i fatti, nella consapevolezza che niente è gratis. La Russia è stata chiamata dal governo siriano e fino ad ora ha dato appoggio morale, economico ed anche militare. Senza l’aiuto dei russi, saremmo stati come l’Iraq o come la Libia, divisi in tante regioni e avremo altri milioni di sfollati e rifugiati, parcheggiati alle porte della Turchia o umiliati nei campi profughi del Libano e della Giordania. La Russia ha fatto bene a venire e la sua base di Hmeimim non è soltanto per uso militare ma è diventato un luogo di riconciliazione tra siriani. È un merito della Russia aver convinto le fazioni islamiste a lasciare la capitale, che – lo ricordo – è abitata da musulmani e cristiani. Gente bombardata che non ha visto tornare più da scuola i propri bambini. I nostri ospedali si sono riempiti di musulmani e cristiani. Qualcuno ne ha parlato?
Tutto il mondo ha accusato che l’esercito governativo ha bombardato o usato il gas a Douma. Questa è una vergogna. Il mondo condanna tutte le azioni del governo, ma non parla mai dei nostri bambini.
Si obietta: e l’Iran sciita? È vero l’Iran può anche avere i suoi interessi, ma non è soltanto una lotta tra sciiti e sunniti.
L’Iran viene per sostenere l’unità di uno stato sovrano al cui apice c’è un presidente alauita (un ramo dell’islam sciita, ndr), che però non governa per la sua confessione religiosa essendo stato eletto dal popolo siriano a grande maggioranza. Un popolo in cui i sunniti sono il 65% del totale.
Guardiamo ai cristiani. In Iraq erano un milione e mezzo al tempo del dittatore. Quando il dittatore è stato mandato via, i cristiani si sono ridotti a 200.000. Allora chiedo: è questo il modello di democrazia che vogliono imporci anche in Siria? I cristiani sono parte integrante del nostro paese: non sono uccelli migranti. La Siria è sempre stato un modello di modernità e di convivenza.
Arabia Saudita e Israele
Detto del ruolo di Russia e Iran, dobbiamo fare luce sul ruolo di Israele e su quello dell’Arabia Saudita. Mai infatti dimenticare che questa sporca guerra siriana è una guerra per delega o procura.
Tutti sappiamo quanti miliardi ha speso l’Arabia Saudita per inviare armi in Siria e continuare la guerra. Quando Trump è andato a Riad (maggio 2017, ndr), ha venduto 200 miliardi di armi all’Arabia Saudita. Tutte necessarie per distruggere lo Yemen? Non credo. Quante di queste armi arrivano in Siria attraverso i corridoi della Turchia?
E veniamo ad Israele, uno dei grandi beneficiari di questa guerra. Ci siamo forse dimenticati che i jihadisti feriti sono stati curati in Israele? Ci siamo dimenticati le visite negli ospedali del premier Benjamin Netanyahu? Ebbene, una volta curati, questi uomini sono tornati a fare la guerra contro il governo siriano! Il sogno israeliano rimane quello di distruggere il mondo arabo per rimanere l’unico stato stabile, oltre che l’unico ad avere le bombe atomiche e chimiche.
La Turchia
Infine, c’è la Turchia. Si diceva che combatteva l’Isis, ma era una finta. Oggi sta bombardano i Kurdi, gli unici che veramente hanno combattuto l’Isis. Quelli che erano angeli, adesso sono diventati diavoli. Con questa scusa la Turchia sta occupando territori siriani per tornare a quello che un tempo era l’Impero ottomano. Il signor Erdogan era d’accordo con i bombardamenti sulla Siria perché il suo nemico numero uno è Assad.
Di Erdogan non ci si può fidare perché cambia idea in ogni momento. E si sta approfittando anche dell’Europa, chiedendo miliardi per far parcheggiare (questo è il verbo che voglio usare) sui suoi territori i rifugiati siriani e non solo. Quando gli conviene, apre le porte e li manda in Europa. Dobbiamo essere coerenti con i dittatori ed Erdogan lo è. Ha messo in prigione migliaia di giornalisti, professori e funzionari, in patria sta uccidendo i propri nemici. E un uomo siffatto va a parlare di democrazia in Siria? Del governo dittatoriale di Assad?
A tutti questi signori della guerra io vorrei dire: tornate a casa vostra e noi siriani in tre mesi – come ho sostenuto più volte – siamo capaci di tornare alla pace. La grazia di avere un po’ di petrolio e di essere territorio di passaggio dei possibili oleodotti (c’è una lotta senza esclusione di colpi attorno a questi, ndr) non debbono diventare una disgrazia per il popolo siriano.
I media e la Siria
Mi è stato detto che io sono molto critico verso i media che parlano di Siria. Io non sono critico: sono arrabbiato. Perché in Europa non si dice la verità. Perché io debbo ascoltare la Giovanna Botteri parlare della Siria dagli Stati Uniti? Ma che ne sa? Un’altra giornalista ci parla dalla Turchia. Un po’ di coerenza, cari giornalisti: per parlare di Siria andate in Siria, come alcuni fanno. Per indagare, per ascoltare, per chiedere.
A fare propaganda e molto di più ci pensano i Caschi bianchi. Durante il giorno fanno finta di aiutare la popolazione, mentre la notte fanno passare le armi per uccidere i siriani. Ma voi in Europa volevate dare loro il Premio Nobel per la pace. Un’altra commedia! Occorre aprire gli occhi altrimenti anche in Europa la pagheremo cara.
Si dice che noi cristiani siamo a favore del presidente Assad. Noi siamo a favore della nostra presenza in Siria e in Irak come cristiani. Un governo che difende i diritti di ogni uomo, di ogni minoranza è il garante della mia vita e del mio futuro in Siria. Io non difendo Assad in sé, io difendo il suo governo in cui i ministri sono un mosaico di religioni.
Perché quando sono in Italia i vescovi – maronita o caldeo o altro ancora – di Aleppo non vengono intervistati? Nessuno ha il coraggio di dare loro la parola, se non per una conferenza qui, un incontro là. Si preferisce dare spazio a quanto riferisce la Botteri. Per trovare la verità occorre avere un po’ di buonsenso ascoltando gli uni e gli altri. E poi occorre far tornare gli ambasciatori in Siria e parlare.
L’Italia
Mi spiace molto che il premier uscete Gentiloni abbia detto in parlamento (17 aprile) che rispetto alla guerra in Siria l’Italia non è un paese neutrale. Avrebbe dovuto sostenere proprio il contrario. Non si può appoggiare un attacco al popolo siriano senza sapere la realtà! E poi ci si lamenta dei profughi che arrivano sulle coste italiane! Anche i cosiddetti «corridoi umanitari» sono contro il popolo siriano. Dobbiamo smettere di portare i siriani in America o in Europa. Dobbiamo dare loro il coraggio di tornare. Chi vuole dare una mano alla Siria dovrebbe farlo in questo modo: aiutando i siriani scappati a tornare e a ricostruire il paese, dimenticando l’odio e la vendetta cresciuti in questi sette anni di guerra.
Abbiamo vissuto insieme per decenni. Dobbiamo tornare a farlo. Con questa speranza io ho fiducia nel futuro. Ho fiducia nell’unità della Siria e dei siriani.
Mtanious Hadad (testimonianza raccolta da Paolo Moiola e Daniela d’Andrea)
Ancora missili sulla Siria
Belli, nuovi ed anche intelligenti
Governi, politici e quasi tutti i media non hanno dubbi sulla Siria: il presidente Assad è il macellaio per definizione e va punito. I ribelli jihadisti sono diventati vittime.
Sulla Siria c’è una narrazione dei fatti dominante. Ma non per questo va ritenuta vera.
«Nice, new and smart»: sono gli aggettivi con cui, in un tweet, Donald Trump aveva descritto i missili Usa. Missili poi lanciati – per fortuna senza fare vittime – sulla Siria nella notte del 14 aprile. Tre aggettivi il cui contrario descriverebbe perfettamente il presidente statunitense, probabilmente uno dei peggiori della storia americana (per l’ambiente, l’economia, la pace, a prescindere dai – presunti – meriti nella vicenda nordcoreana). Sicuramente il più pacchiano. Il loro lancio non è servito a nulla se non a mostrare i muscoli delle potenze occidentali (gli Stati Uniti affiancati dalla fida Gran Bretagna e dall’opportunistica Francia di Macron) e ad esasperare gli animi. La guerra siriana è ancora lì perché – come detto più volte anche da questa rivista – sul suo territorio si sta svolgendo una guerra per procura. Sulla pelle dei siriani e ora anche dei Kurdi.
In un mondo iperconnesso e sovraccarico di informazioni spesso false o non verificate non è facile districarsi per capire una situazione. Eppure, quasi a smentire questa condizione, per la guerra in?Siria, in Occidente vengono accreditate (e dunque diffuse dai media principali) quasi sempre soltanto due fonti informative: gli Elmetti bianchi (White Helmets) e l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Syrian Observatory for Human Rights), i primi sponsorizzati soprattutto dagli Stati Uniti, il secondo dalla Gran Bretagna, ovvero da due paesi coinvolti nella guerra e schierati contro il presidente Assad (fonti: Gli occhi della guerra, Alberto Negri, Fulvio Scaglione).
Consapevoli di questa distorsione informativa, per la Siria da tempo Missioni Consolata fa riferimento a mons. Mtanious Hadad e all’aggiornatissimo e prezioso sito di AsiaNews, che riceve le proprie informazioni da religiosi che nel paese vivono (e soffrono). Forse a causa di questa diversità di fonti la Siria che noi descriviamo è diversa da quella descritta da altri, siano essi i maggiori telegiornali o quotidiani come la Repubblica o il Corriere della Sera. Precisato che non è affatto certo che ci siano stati attacchi chimici (fonte: Robert Fisk, The Independent) e, qualora ci siano stati, da chi siano stati eventualmente commessi (l’esercito governativo aveva già vinto), vediamo di dare conto delle molte voci dissonanti che non trovano spazio sui media importanti.
Subito dopo l’attacco missilistico padre Bahjat Elia Karakach, francescano del convento di Damasco, ha parlato di pretesto delle potenze occidentali per attaccare la Siria come a suo tempo era avvenuto in Iraq. Per parte sua, mons. Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, ha affermato che le potenze avevano gettato la maschera (fonte: agenzia Sir). Sandra Awad, membro di Caritas Sira, ha diffuso (fonte: AsiaNews) una lettera aperta al presidente Trump raccontando la storia di Rabee, giovane che ha perso una gamba a causa dell’esplosione di un razzo lanciato dai ribelli della Ghouta orientale (oggi liberata). Il giovane oggi è riuscito ad avere una protesi e guarda al futuro. «Signor Trump – scrive Sandra -, la maggior parte delle famiglie siriane annovera tragedie analoghe. […] Rabee vuole partecipare alla ricostruzione della Siria, che lei invece vuole contribuire a distruggere con il suo denaro, i suoi missili intelligenti e il suo odio profondo».
È invece datata primi di marzo una durissima lettera (fonte: AsiaNews) delle religiose trappiste siriane. «Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte?», si domandano. Le sorelle raccontano della visita a una scuola bombardata dai ribelli. «Perché – si chiedono – l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo quando il governo siriano interviene […] ci si indigna per la ferocia della guerra?».
Viene ricordato che gli attacchi verso i civili sono stati iniziati dai ribelli jiadisti. «Oggi – proseguono le trappiste – dire alla Siria, al governo siriano di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia».
Le religiose rispondono anche all’accusa che tutte le Chiese d’Oriente siano «serve del potere», riverenti «verso il satrapo siriano»: «È un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravvedere l’altro lato della medaglia». La lettera si conclude con esplicite accuse ai mezzi d’informazione. «Chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente?».
Mentre dei Kurdi di Rojava e Afrin non si parla quasi più (abbandonati nelle mani omicide del furbissimo Erdogan), mentre i missili lanciati da Israele sono considerati un atto dovuto (Israel first) e Trump sfascia l’accordo nucleare con l’Iran (8 maggio), dobbiamo sperare che il conflitto non si allarghi ulteriormente e che l’Arabia Saudita – danarosa alleata di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e di molti altri paesi occidentali – non decida di intervenire in Siria come sta facendo nel devastato (e dimenticato) Yemen. Sarebbe molto imbarazzante dover dire che l’Italia «non è un paese neutrale», come dichiarato (17 aprile) in parlamento da Paolo Gentiloni, primo ministro uscente del nostro paese.