Bolivia, il 5° Congresso Missionario Americano (CAM 5) /1
Testo e foto dal CAM 5 di Jaime Carlos Patias, IMC |
10 luglio 2019 – La Missione “ha un cuore, un centro, un nome: Gesù Cristo”. Il lavoro missionario non è “filantropia”, nemmeno è nato “dalle nostre opere di buona volontà”, ma è prima di tutto una “benedizione” per tutti coloro ai quali il Vangelo è annunciato.
Questo è il cuore del messaggio che il Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha pronunciato, martedì 10 Luglio, durante la Messa di inaugurazione del 5° Congresso Missionario Americano (CAM 5), nella città de Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia.
Dal 10 al 14 luglio circa 3.000 missionari provenienti da tutta l’America si incontrano per riflettere sulla “gioia del Vangelo, cuore della missione profetica, fonte di riconciliazione e di comunione”. Sono laici, sacerdoti, diaconi, vescovi, religiosi e seminaristi che, durante il Congresso, saranno accolti dalle famiglie di Santa Cruz in 55 parrocchie e in alcune case religiose.
“La storia della salvezza porta sempre la benedizione di Dio”, ha detto il Cardinale Filoni, inviato speciale del Papa Francesco al Congresso. “Nel nome di Gesù si trova tutta la benedizione di Dio per l’umanità. E, quindi, il lavoro missionario è soprattutto un servizio di benedizione per tutti coloro ai quali viene annunciato il nome del Signore. Le stesse opere di educazione, di sostegno e di difesa degli oppressi, insieme alle opere di carità, di giustizia, di scelta preferenziale dei poveri e degli emarginati, insomma l’uscita verso le varie periferie esistenziali, come dice il Papa Francisco, sono legate tra loro indissolubilmente dal nome di Gesù, e per questo, sono una benedizione”, ha aggiunto il Cardinale Filoni mentre ricordava che il lavoro missionario è, nello stesso tempo, annuncio e testimonianza. “Annuncio di Gesù e testimonianza della vita ricevuta in Cristo”.
Madre Maria Ignazia de Jesus
A questo proposito, il Cardinale ha citato l’esempio della Beata Madre Maria Nazaria Ignazia di Gesù, autentica “missionaria del nostro tempo”, le cui reliquie erano presenti alla messa. Una donna spagnola che ha vissuto tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, in Bolivia, dove ha scoperto un grande passione per l’apostolato missionario e per questo ha fondato la Congregazione delle Missionarie Crociate della Chiesa, dedicata al servizio dei poveri e degli emarginati. La Beata sarà canonizzata il 14 ottobre da Papa Francesco.
Alla fine, il Cardinal Filoni ha espresso l’augurio che questo Congresso possa, “rafforzare il nostro impegno missionario e dare un nuovo impulso nello zelo e nella passione per Cristo. Questa è la vera benedizione”.
A nome del Papa, il Cardinale ha ringraziato i vescovi della Bolivia e il direttore delle Pontificie Opere Missionarie (PP.OO.MM) per l’impegno profuso nell’organizzazione del Congresso.
Partecipano al Congresso in Bolivia, 12 missionari e missionarie della Consolata, tra cui il Superiore Generale, P. Stefano Camerlengo, Il Consigliere Generale per l’America, P. Jaime C. Patias e la Consigliera Generale per l’America, suor Maria Conceição. Sono presenti anche i vescovi colombiani, Mons. Luiz Augusto Castro, arcivescovo di Tunja e Mons. Francisco Javier Munera Correa, del Vicariato Apostolico di San Vicente del Caguán.
Congressi Missionari Continentali
Nel 1977, il Messico ha celebrato il suo 7° Congresso Missionario Nazionale, a Torreón. Su iniziativa del Cardinale Agnelo Rossi, allora Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, sono stati invitati al Congresso i vescovi responsabili delle Commissioni missionarie e i direttori Nazionali delle Pontificie Opere Missionarie (PP.OO.MM.) di diversi paesi dell’America Latina, che in questo modo ha conferito un carattere continentale all’evento. In quel Congresso fu presentata la proposta di ripetere l’esperienza a livello Latino Americano ogni cinque anni. Così, il Congresso Missionario di Torreón (Messico) nel 1977, è diventato il 1° Congresso Missionario Latino Americano (Comla 1). Nel 1999, in occasione del 6° Comla nella città di Paranà, Argentina, il Congresso ha aperto i suoi confini a tutto il Continente Americano, diventando il 1° Congresso Missionario Americano (CAM 1) e il 6° Congresso Missionario Latino Americano (Comla 6). Mettendo insieme i due eventi, è diventato (CAM 1 – Comla 6).
Cronologia
1977 – Comla 1, Torreón (Messico);
1983 – Comla 2, Tlaxcala (Messico)
1987 – Comla 3, Bogotá (Colombia)
1991 – Comla 4, Lima (Perù)
1995 – Comla 5, Belo Horizonte (Brasile)
1999 – CAM 1 – Comla 6, Paraná (Argentina)
2003 – CAM 2 – Comla 7, Guatemala (Guatemala)
2008 – CAM 3 – Comla 8, Quito (Ecuador)
2013 – CAM 4 – Comla 9, Maracaibo (Venezuela).
2018 – CAM 5, Santa Cruz de la Sierra (Bolivia). Viene abbandonato definitivamente l’acronimo Comla, per essere conosciuto unicamente come CAM.
Migranti: a Pozzallo, in preghiera, veglia per non dimenticare
Dalla veglia sul lungomare di Pozzallo |
“Non ti allarmare fratello mio, dimmi, non sono forse tuo fratello? Perché non chiedi notizie di me?”.
Sono parole tratte da una poesia di Tesfom Tesfalidet, il ventiquattrenne eritreo ripescato in mare e portato a Pozzallo il 13 marzo scorso, ricoverato in condizioni disperate per la fame, la tbc e le percosse subite dai trafficanti e morto dopo 24 ore di agonia. Queste stesse parole hanno dato il tono alla veglia di preghiera celebrata il 6 luglio a Pozzallo, all’aperto, davanti al mare che negli ultimi anni è diventato tomba di oltre 34.000 morti tra uomini, donne e bambini, annegati nelle drammatiche traversate del Mediterraneo, nella ricerca di una vita più dignitosa.
Pensieri ed immagini forti che scuotono le coscienze, per svegliarci dall’indifferenza. Dopo la poesia di Tesfom, un video tanto toccante quanto sconvolgente: i corpi senza vita, di uomini donne e bambini, le urla strazianti di paura, il mare, via di salvezza per alcuni, tomba per molti altri che cercavano semplicemente una vita migliore. Ha lasciato senza fiato.
Una veglia per non dimenticare, una richiesta di perdono a Dio per l’indifferenza che “ci ha tolto la capacità di piangere” (omelia di Papa Francesco a Lampedusa), per la mancata presa in carico della sofferenza di questi fratelli, una disattesa risposta di carità, che in quanto cristiani ci deve inquietare; un momento di riflessione per tanta ingiustizia sociale che è causa di sfruttamento e di povertà per questi popoli.
Una veglia organizzata dalla diocesi di Noto, insieme con la Caritas diocesana, la fondazione Migrantes, l’associazione We Care e il comune di Pozzallo. In tanti hanno riempito l’anfiteatro pietrenere del lungomare di Pozzallo. P. Gianni Treglia, missionario per 16 anni in Tanzania, ha introdotto il momento di preghiera, ricordando il dolore di queste morti innocenti e l’impegno dei cristiani a non lasciare da soli questi fratelli, senza chiudersi nell’egoismo e nella paura.
Nel corso della veglia, sono state lette alcune poesie del giovane Tesfom e alcuni interventi di Papa Francesco, sempre così attento, dall’inizio del suo pontificato, al dramma degli immigrati. Francesco, che nello stesso giorno ha celebrato in San Pietro la Messa per loro, ha affermato nella sua omelia che la solidarietà e la misericordia sono le uniche risposte sensate a fronte di questa emergenza.
Papa Francesco in una sua preghiera ci ricorda che possiamo onorare il loro sacrificio con le opere più che con le parole. Bisogna farsi carico di ogni povero e disperato, altrimenti no, altrimenti non ci deve essere dato di dormire sonni tranquilli. L’Africa è terra ricca di risorse costantemente depredate, ognuno di noi ha il dovere di sentirsi coinvolto per questo, mentre godiamo di privilegi costruiti sullo sfruttamento di beni dei quali ci arroghiamo la proprietà, è un’ingiustizia e da troppo tempo ne siamo complici silenziosi. Il cristiano non può far finta di niente, altrimenti semplicemente non è cristiano.
Nella sua riflessione, il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella, ha rimarcato la responsabilità dei cristiani verso questa crisi umanitaria, esortando tutti, credenti e non, a farsi promotori di una cultura più “umana” – quella “cultura dell’incontro”, così centrale nell’insegnamento del Papa -, e di non chiudere i porti, ma soprattutto i cuori e le menti.
Davanti al mare di Pozzallo, città simbolo degli sbarchi, un piccolo ma deciso segnale di umanità, proprio da questa città che ha dato i natali a Giorgio La Pira (di cui il Papa ha nei giorni scorsi ha dichiarato le “virtù eroiche”, primo passo verso la beatificazione), profeta dell’incrollabile speranza e dell’ineluttabilità della pace, poiché “…la storia è intrinsecamente mossa ed orientata -malgrado tutte le resistenze del peccato- verso l’unità, la pace e la liberazione dei popoli di tutta la terra.” (Giorgio La Pira).
Ma in questo momento storico, quando sembra che i cuori impietriti stiano prendendo il sopravvento, la veglia è stata segno di speranza. L’anfiteatro era gremito di gente, perfino fuori le persone erano numerose. Questa presenza massiccia è segno che noi restiamo umani!
Da testi di don Alessandro Paolino e Federica Puma
“l numero dei morti nel Mediterraneo aumenta, ogni giorno. Vogliamo ricordarli, nostre sorelle, nostri fratelli, la cui unica colpa è il sogno inseguito, sogno di pace, … mai raggiunto. Una Veglia Penitenziale per chiedere a Dio perdono per l’INDIFFERENZA che non ci fa chiedere notizie del fratello, per ogni forma di INGIUSTIZIA SOCIALE causa dell’impoverimento dei popoli, per la mancata PRESA IN CARICO dei poveri che tendono a noi la mano”. (padre Gianni Treglia, imc).
“La memoria dei morti ci aiuti a difendere i vivi e a scegliere con intelligenza, determinazione ed efficacia quella umana via per cui ero straniero e mi avete accolto” (mons. Matteo Zuppi)
Chi non è contro di noi è per noi
C’è una scena interessante nel Vangelo di Marco: Gesù, per la seconda volta, cerca di far capire ai suoi discepoli che sta andando a Gerusalemme per essere ammazzato, e non per diventare re, come loro vorrebbero. Ma i discepoli non lo ascoltano. Anzi, discutono su come spartirsi il potere. E, già che ci sono, vogliono anche liberarsi da possibili concorrenti, per non perdere l’esclusiva. Giovanni e gli altri, infatti, cercano di fermare un tale che sta «scacciando i demòni» nel nome di Gesù senza essere del loro gruppo: non è «dei nostri»! Gesù però li sorprende: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,38-41).
Quella di Gesù nel brano di Marco 9 è una risposta che spiazza. Noi, di solito, preferiamo quella riportata da Matteo, simile ma opposta: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12.30), anche se, in Matteo, Gesù dice questa frase in un contesto del tutto diverso, parlando di lotta contro il male.
Marco ci presenta un tale che sta aiutando delle persone che vivono in situazioni disumanizzanti. Uno che, nel nome di Gesù, vuole ricondurli alla loro umanità. «Non è dei nostri», dicono i discepoli. Gesù però oppone alla categoria dei «diritti d’autore» e del monopolio, il dato di fatto che il bene, il bello, il giusto e il vero hanno una sola sorgente: Dio. E in Dio sono patrimonio di tutta l’umanità, di ogni uomo, anche fuori della cerchia dei discepoli, anche fuori della Chiesa, come ci insegna il Vaticano II. Nessun uomo, organizzazione, chiesa, partito o stato può vantare la proprietà o il brevetto del bene, così come a nessuno appartiene l’esclusiva del male che, infatti, serpeggia anche tra i discepoli.
Gesù ci insegna a guardare al bene attorno a noi senza gelosie e pretese di esclusiva, a saper riconoscere la mano e la presenza di Dio in ogni realtà positiva, in ogni persona, cultura, religione. Dove c’è bene e bellezza, giustizia e verità, dove si realizzano autentiche esperienze di umanizzazione, lì c’è Dio, perché l’amore di Dio, il suo Soffio di Vita, non si lascia ingabbiare e soffia dove, come e quando vuole (cfr. Gv 3,8).
Trovo questo detto di Gesù particolarmente attuale oggi, perché è un buon antidoto contro il fondamentalismo e la tentazione di ritenere di avere il monopolio del bene. Cose buone e giuste vengono dette e fatte anche da chi non crede in Gesù. Non ci sarebbe la missione senza queste parole di Gesù, perché uno dei primi doveri di un missionario è proprio quello di riconoscere i «semi di Verbo» (cfr. Ad Gentes 11b) e i «segni dei tempi» nelle più disparate realtà umane e culturali incontrate ai quattro angoli del mondo e anche nelle nostre società complesse dell’Occidente.
Per me è sempre stato motivo di grande gioia rendermi conto che l’azione di Dio mi ha sempre preceduto e mi ha fatto scoprire luoghi di bellezza incomparabile e incontrare persone «giuste» e innamorate di Dio anche nei posti più impensabili.
Credere in queste parole di Gesù è anche un disintossicante per chi vive la crisi del nostro tempo che spinge molti a credere che la nostra religione, la nostra cultura, il nostro modo di vivere sono i «migliori», mentre degli «altri» bisogna diffidare. «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?», chiedeva Natanaele (Gv 1,46) chiuso nel suo pregiudizio che solo l’incontro con Gesù ha dissolto.
Questa attitudine a riconoscere che l’azione di Dio ci precede e non ha confini e che ogni uomo – perché è immagine di Dio – è capace di bene, non significa avere poca stima di sé e della propria fede o pensare che tutto quello che è «altro» sia meglio. È piuttosto il saper riconoscere che la misura di tutto non sono «io», ma «Dio». Qualsiasi atto bello e vero, anche se compiuto da un ateo o da uno di un’altra cultura o religione o tendenza politica, è sempre dono di Dio, in Lui ha la sua sorgente: «Tutto coopera al bene di quelli che amano Dio» (Rm 8, 28) e «respirano» il suo Spirito.
Racconti di donne straniere in Italia
Testi delle seguenti donne straniere e non: Alessandra Rosa, Luisa Zhou, Jacqueline Nieder, Dounya Mahboub, Angela María Osorio Méndez | Foto di: Carlo Cretella | A cura di: Gigi Anataloni | Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»
Il concorso, promosso dalla regione Piemonte e dal Salone internazionale del libro di Torino, e ideato nel 2005 da Daniela Finocchi, è diretto alle donne straniere (anche di seconda o terza generazione) residenti in Italia, con una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare le donne straniere che hanno incontrato e che hanno saputo trasmettere loro «altre identità».
Al concorso si possono inviare racconti e/o fotografie, la premiazione avviene nella giornata di chiusura del Salone del libro di Torino e le opere selezionate ogni anno sono pubblicate in un’antologia.
Non vengono messi limiti, né barriere. Si può scrivere e fotografare a qualsiasi età e in qualsiasi condizione, che si sia una bambina delle elementari o una donna detenuta, e si può partecipare da sole, con opere realizzate a quattro mani, ma anche in gruppo. E se l’italiano scritto non lo si padroneggia ancora, non importa, ci si può far aiutare da un’altra donna italiana (il bando del concorso non solo lo ammette ma lo incoraggia). Scopo del progetto è dare voce a chi spesso non ce l’ha e creare occasioni di scambio, relazione, conoscenza.
Il progetto opera sotto gli auspici del Centro per il libro e la lettura, dell’Istituto autonomo del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo e, in dodici anni, è diventato qualcosa di più grande e complesso, svolge oltre 100 incontri ogni anno su tutto il territorio nazionale con laboratori, incontri, presentazioni, convegni, reading e tanto altro. Inoltre, dal ricco materiale di narrazioni raccolte sono nate e continuano a svilupparsi tante altre iniziative e progetti che vanno dalla realizzazione di video e prodotti multimediali a mostre, libri, spettacoli teatrali tratti dai racconti e festival internazionali.
La nostra riconoscenza a Daniela Finocchi, ideatrice e coordinatrice del Concorso nazionale letterario «Lingua Madre», per aver voluto condividere con i lettori di MC queste storie di vita.
Tutti i testi del 2016 sono pubblicati nel volume: Lingua Madre Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia, edizioni SEB27. Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre
Casella Postale 427 – Via Alfieri, 10 – 10121 Torino Centro
Aprì la porta e si accorse che era venerdì… dai corridoi proveniva un olezzo nauseante di pesce (il venerdì in prigione c’è sempre il pesce… e c’è sempre lo stesso olezzo!). Come ogni mattina, A. si era alzata verso le 7.30 e, bevuto il suo caffè, aveva cominciato a sbrigare le faccende di «cella» (già, nulla cambia, nemmeno in prigione, quelle ci toccano sempre) e fu proprio in quel momento che, alzati gli occhi verso quell’orizzonte, grigio anche nei giorni di sole, vide Ele davanti all’ufficio matricole. Per chi non lo sapesse quest’ufficio si potrebbe descrivere come una specie di tornello che se lo prendi in un senso è la prima porta verso l’inferno, ma se lo prendi al contrario è l’ultima porta prima del paradiso: Ele quel giorno lo stava prendendo dalla parte sbagliata. In qualche modo A. fu immediatamente colpita da quella miriade di colori su sfondo nero, era un arcobaleno di fucsia, verde pisello e giallo; A. pensò tra sé e sé che nonostante quella ragazza fosse «nera» (perché è così che le detenute bianche chiamano quelle di colore) di «nero» aveva ben poco e sprigionava allegria colorata in ogni suo movimento, mentre il suo atteggiamento complessivo aveva un non so che di armonico, di aggraziato.
Dai corridoi proveniva il solito brusio: «Ecco, ne arriva un’altra», «Nuova giunta», «Africa» e via via cominciava la lotteria per scoprire per quale motivo Ele stava entrando a far parte di quella grande famiglia allargata (già, perché, per molti detenuti il carcere diventa, per un determinato periodo di tempo, una nuova famiglia, mentre per altri è l’unica che abbiano mai avuto… per tutti comunque è la famiglia adottiva che nessuno può rifiutare).
Mentre la vedeva camminare, A. avrebbe voluto avvisarla, prepararla, proteggerla come una mamma fa istintivamente verso una figlia (d’altronde si dice che una tigre in gabbia rimane sempre una tigre ma anche una madre in gabbia rimane sempre una madre), perché Ele sembrava proprio una bambina dal corpo agile di una gazzella e dagli occhi impauriti di un cerbiatto e una madre riconosce sempre la paura negli occhi di un bambino. Però dalle finestre del carcere non si può urlare, si rischia un rapporto disciplinare (la prima cosa che ti insegnano in carcere è quella di farti gli affari tuoi, che è quasi sempre meglio) e allora A. rimase in silenzio.
A. sapeva che Ele stava per affrontare la parte più forte del dolore, quella più «invasiva» dell’entrata in carcere; infatti, nonostante la gentilezza istintiva con la quale una donna tocca un’altra donna, quella divisa blu notte l’avrebbe spogliata di tutto, le avrebbe fatto aprire le gambe e con un colpo di tosse le avrebbe chiesto di buttare fuori l’ultima parte di Africa che ancora teneva nascosta dentro di sé; solo chi ci è passato sa cosa si prova a spogliarsi quando non ti vuoi spogliare, quando non è ora di farlo, e cosa si prova a rimanere nude di fronte a qualcuno che non sei stato tu a scegliere, senza neppure ricevere un qualsiasi compenso come prezzo della tua vergogna, del tuo avvilimento! «Povera Ele!» pensò A.
Il caso volle che Ele finisse proprio di fronte alla cella di A., portava sulle braccia un lenzuolo, una coperta, lo shampoo, lo spazzolino, il dentifricio… ma era la paura a pesarle maggiormente e a farle piegare le braccia, come se stesse portando un peso spropositato per le sue forze.
La chiusero nella cella n. 16 e alla chiusura della porta A. vide Ele trasalire… e chi è stato in carcere sa bene perché si sobbalza al rumore delle chiavi che chiudono la cella dietro di te: è un rumore sinistro che non si dimentica più, mai più.
Ele ebbe solo un momento per guardare negli occhi A. poi scoppiò in un pianto silenzioso e nella sezione smisero tutti di parlare, smisero di fare qualsiasi cosa per ascoltare e rispettare quel pianto. In prigione con le lacrime ti puoi fare la doccia ma nessuno si permette di prenderti in giro quando piangi, nessuno osa dire di smettere, perché si impara a rispettare il dolore degli altri, a volte più del proprio.
Un’ora dopo, A. preparò un buon caffè, scaldò un po’ di latte, due biscotti e li porse ad Ele… Ele non parlava, sorrideva e diceva solo «grazie», ma in quel sorriso A. aveva visto tutta l’Africa che quella povera ragazza aveva lasciato da bambina e quel sorriso… non riuscirà mai più a dimenticarlo.
Ele consegnò ad A. un plico di carte: erano scritte in italiano ed Ele di italiano sapeva poco o niente, solo qualche rara parola che le serviva per lavorare, di cui non andava certo fiera, ma che all’occorrenza usava con profitto.
In quei fogli c’era la previsione di un infausto futuro (chissà perché i magistrati tendono sempre a rendere le cose più brutte e gravi di quello che sono in realtà… per «spaventarti» dicono, come se di paura Ele non ne avesse già provata abbastanza in quella buia strada del sesso dalla quale proveniva). In ogni caso le quaranta pagine di carte che Ele nemmeno capiva avevano il peso di quaranta catene di ferro e la stavano imprigionando.
Ad un certo punto A. vide che Ele aveva smesso di piangere, che si era alzata in piedi di fronte alla finestra… non che ci fosse nulla di interessante da guardare al di fuori di quell’apertura sigillata con una grata di ferro, a parte le ciminiere di una discarica che non avevano nulla da spartire con le distese africane in cui Ele aveva trascorso la sua infanzia. A. sapeva che il cuore può procurarsi in breve tempo il biglietto per qualsiasi viaggio ed immaginò che Ele stesse appunto viaggiando verso le savane e le colline del continente in cui era nata, dove forse aveva trascorso gli unici momenti sereni della sua giovane e travagliata vita: non volle disturbare quel momento e la lasciò in pace, a gustarsi quel tramonto, quel sole che si stava preparando alla notte. A. non poteva immaginare che cosa sarebbe successo in seguito e col senno di poi, avrebbe pensato «chissà se disturbandoti avrei potuto modificare gli eventi successivi… chissà se…».
Alle 18 la divisa blu notte dalle unghie smaltate cominciò il controllo delle celle, «la conta» in gergo penitenziario, e arrivata davanti a quella di Ele l’aveva chiamata ma lei non rispose; la guardia carceraria, in un misto di rispetto, fretta e superficialità abitudinaria non insistette e non la richiamò. Mezz’ora dopo però ritornò, forse spinta da un presentimento, chiamò di nuovo Ele ed ancora una volta ella non rispose: quel silenzio cominciò a diventare sospetto, quasi arrogante, al punto da indurre la guardia ad aprire con nervosismo la cella ed entrare per scuotere la ragazza ed obbligarla a rispondere alla chiamata.
Fu in quel momento che A. sentì un urlo di terrore provenire dalla cella di Ele e vide la divisa blu dalle unghie laccate cercare con tutte le forze di sollevare Ele da terra e staccare quel filo di nylon che le serrava la gola. Per fare ciò la guardia carceraria si era rotta tutte le unghie, quasi tutte le unghie, ma tutto risultò inutile e vano.
Era il periodo peggiore del «sovraffollamento carcerario» e quella guardia era l’unica sul piano: da sola non ce l’avrebbe mai fatta… e fu costretta ad aprire la cella di A. e a chiederle aiuto per sostenere quel corpo, che tra la vita e la morte pesava il doppio… Di fronte alla morte, non c’è colore, non c’è divisa che tenga e la divisa blu notte tremava perché non riusciva a staccare Ele da quel letto, alle sbarre del quale la ragazza di colore si era appesa e si stava lentamente lasciando morire.
«Un paio di forbici». Urlò la guardia. «Dammi un paio di forbici, presto!».
«Non abbiamo forbici», rispose A., sgomenta.
«Un coltello, allora. Per l’amor di Dio, dammi qualcosa per tagliare quel filo!», continuava ad urlare disperatamente la divisa blu notte…
Ma in prigione non ci sono coltelli, non c’è nulla per tagliare… Ci si può far male e comunque certi aggeggi possono servire come strumenti di offesa.
Con la forza e il coraggio della disperazione A. e la guardia riuscirono a rompere il filo di nylon e ad adagiare Ele nel corridoio. Adesso era veramente diventata nera, ma un nero che non aveva nulla a che vedere con il colore della sua pelle viva e giovane che aveva catturato l’attenzione di A. Tutto il corpo di Ele, A. e la guardia se ne resero immediatamente conto mentre la stavano liberando dai vestiti, stava assumendo il colore di chi sta morendo per asfissia: solo la bava biancastra che le usciva dalla bocca segnava un netto ed orribile contrasto con tutto quel nero di morte.
A. si chiuse in cella da sola; ormai erano arrivati i paramedici con il defibrillatore, ma dopo alcuni tentativi, alle 19.45 l’apparecchiatura con la gelida frase “no more signal” aveva decretato che Ele nella cella 16 non sarebbe più tornata.
A modo suo Ele era tornata libera.
A. non riuscì a trattenere le lacrime e pianse, pianse come non aveva mai fatto prima di allora… eppure neppure la conosceva… non sapeva nemmeno il suo nome… e non capiva perché… ma pianse e pianse ancora…
Piangeva per quel sorriso di un attimo che tuttavia l’aveva colpita per sempre.
A. pensava ad Ele come a una farfalla: per lei infatti era nata, vissuta e morta nello stesso giorno, così colorata e così fragile.
Nessuno forse l’avrebbe cercata, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza… nessuno avrebbe saputo dove Ele era volata (se arrivi nel giardino del carcere speri che chi ti conosce in fondo non lo scopra mai), ma A. sapeva cosa era stata per lei e sapeva che non avrebbe mai più potuto dimenticarla.
Il giorno dopo, sulla stampa, quasi in ultima pagina, in mezzo a qualche strana pubblicità, c’era un trafiletto di quattro righe che diceva «prostituta nigeriana si suicida in carcere». Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità… c’era solo l’età, 32 anni, ed A. pensò che a lei era sembrata più giovane, molto più giovane.
Il giorno dopo A. scrisse sulla porta della tragica cella, rigorosamente messa sotto sequestro, questo messaggio:
«Cara Ele spero tu sia tornata vento tra gli alberi della tua Africa.
Corri, vola, libera e felice al di là del tempo e dei luoghi.
Ogni volta che sentirò sulle guance un vento caldo
penserò alla carezza del tuo sorriso…
Ti ho chiamato Ele perché in nigeriano Ele vuol dire gazzella».
Alessandra Rosa
Nasce a Torino nel 1966. Si diploma al Liceo classico Massimo D’Azeglio e si laurea alla Scuola universitaria di Scienze motorie. Lavora per un periodo presso il ministero dell’Interno, studia Scienze infermieristiche e insegna educazione fisica presso la propria società sportiva, della quale è anche presidente. Divorziata e mamma di tre ragazze, è stata in regime di arresti domiciliari fino al gennaio 2017. Attraverso la scrittura, scoperta durante il periodo di restrizione carceraria, riesce a visualizzare il suo dolore, metabolizzarlo e non averne più paura. Scoprire la sensibilità letteraria le permette di vincere ogni forma di pregiudizio. Il suo racconto La storia di Ele ha vinto il Premio Speciale Giuria Popolare della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
(S)corri nelle mie vene. Sottopelle
di Luisa Zhou – [Cina]
Per quanto detestasse il villaggio, Ayue amava percorrere quella strada in salita che l’avrebbe portata alle immense, infinite risaie di Yuhu.
Le piaceva il suono dei suoi passi sulla pietra nuda, il chiacchiericcio delle case che si affacciavano sulla via, il tepore del sole sulla pelle alle otto del mattino. Sapeva bene che l’afa estiva l’avrebbe investita con tutta la sua violenza da lì a qualche ora, proprio per questo cercava di godersi quel momento in un misto di aspettativa e leggerezza. Una delle poche consapevolezze che aveva, infatti, era che nelle terre della provincia di Wencheng il mese di luglio – almeno per lei – aveva il sapore degli incubi, intensificato dal ronzare delle zanzare e dall’umidità che pareva soffocarli tutti in una morsa. Tuttavia, il panorama delle campagne cinesi aveva una bellezza intrinseca che difficilmente poteva essere messa in dubbio. All’orizzonte il profilo delle montagne permetteva al cielo di scivolare su e giù in un’altalena di colori e di forme, mentre le nuvole scorrevano pigre sullo sfondo.
Era come contemplare una di quelle tele ad olio dove i contorni sono sfuggenti, sfumano nel sogno. Ayue amava sollevare lo sguardo e perdersi in tutto questo, cadere fuori dal tempo e risvegliarsi all’improvviso, con una fotografia in più negli occhi.
Ogni tanto cercava di immaginarsi anche una vita lì, nel paese che aveva visto nascere i propri genitori – una vita semplice, contadina, scandita da momenti precisi e ripetuti nel tempo. Sveglia all’alba, colazione, giro al mercato, pranzo, qualche risata strappata, cena, una partita a mahjong, un’ultima passeggiata alla luce dei lampioni.
Ma non sarebbe sopravvissuta, non sarebbe riuscita a vincere quella quotidianità fatta di terra, di legna, di lenta rassegnazione – era difficile riconoscersi in un luogo così diverso da quello in cui era nata lei, l’Italia.
Ciò che sua madre chiamava ??, jiaxiang, paese natale, per lei non era altro che una serie di edifici tutti uguali in un paesino nella regione di Zhejiang. Nient’altro, se non un minuscolo puntino nella geografia della Cina.
Come avrebbe potuto trovare le sue radici in un posto del genere?
In quale misura avrebbe potuto comprendere, sentire, la sua identità, tanto era sospesa fra un mondo e l’altro? Era come rimanere immobili a metà di un ponte, indecisi della direzione da prendere.
L’unica cosa che le restava da fare era osservare le acque sotto di lei, il fiume inarrestabile della vita, cercando di riemergere dai propri pensieri.
Spesso, in balìa dei tumulti che le sconvolgevano la mente, Ayue tratteneva il respiro, come in apnea. In perenne attesa che qualcuno arrivasse a risolvere il groviglio delle sue emozioni.
Si ricordava ancora la volta in cui era andata in Grecia, dopo cinque anni di studi classici. Era salita sull’acropoli di Atene con quella che era la sua classe, quando ad un tratto una delle sue compagne, la cui nonna era originaria di Patrasso, cominciò a piangere. Di un pianto che significava più di mille parole.
Non singhiozzava, ma le lacrime scendevano copiose di fronte allo spettacolo del Partenone, della capitale intera, come se all’improvviso il sangue avesse cominciato a ribollire e a gridare l’appartenenza a quella terra infuocata e splendida come solo le cose eterne sanno essere.
E Ayue l’aveva guardata, l’aveva vista trasformarsi, piena di consapevolezza.
È casa mia, sembravano dire i suoi occhi, anche questa è casa mia.
Ma non sembrava esserci «casa» per quella ragazza italo-cinese, non ancora.
Non dimenticarti le tue origini. Le intreccerò con quelle nuove.
Non puoi comportarti da italiana. Sto solo cercando di essere me stessa.
Non tradire i valori della famiglia. Vi amerò per sempre, ma rispetterò ciò che è giusto.
La vita è lavoro, lavoro, lavoro. La vita è un’esplosione di bellezza nei posti più inaspettati.
Tu non appartieni a questo posto. A quale posto appartengo allora?
A cosa ti serve continuare a studiare? Per andare oltre, per superare i confini.
Quando aprirai una tua attività? Voglio poter creare.
Ti devi sacrificare per la famiglia. Non significa rinunciare ai miei sogni.
Non puoi stare con un ragazzo italiano. Non saranno altri a scegliere chi amerò.
Sei cinese. E molto di più.
La prima volta che aveva visitato i nonni al villaggio era stata delusa dalla rapidità con cui era scemato il suo entusiasmo, ma aveva solo sette anni e i bambini si annoiano in fretta. Soprattutto, sanno essere tanto intelligenti da tenersi alla larga dalle domande esistenziali che portano al limbo delle non risposte. Crescendo, tuttavia, si decide di volere di più dalla vita, di essere di più – si vuole dare un perché alle proprie azioni, un senso ai propri sogni, una giustificazione ai propri errori.
Ed è in questo punto della storia che Ayue si sentiva persa.
Sentiva la propria identità sfuggirle di continuo, sabbia fra le dita, in costante mutamento. Le capitava di guardarsi allo specchio e non riuscire a dare un nome al proprio riflesso.
Era la figlia cinese dei proprietari del ristorante vicino al centro.
Era la studentessa italiana che aveva scelto il liceo classico.
Era la ragazza senza nazionalità che si rifugiava nel respiro della scrittura.
Alla ricerca di una terra a cui appartenere.
Cittadina del mondo, le piaceva definirsi, come molti altri prima di lei.
Continuò a camminare sul ciglio della strada, mordendosi il labbro inferiore come faceva tutte le volte che non sapeva bene cosa dire.
In quel momento, non trovava le parole per parlare con se stessa.
Pochi passi più indietro, la madre la seguiva con sguardo distratto, concentrata sulle diverse colture della terra. Patate, erbe, verdure, fiori.
Era capace di riconoscere tutte quelle piante attraverso un’occhiata veloce delle foglie, a cui ogni tanto aggiungeva una carezza, strofinandole fra le dita in un gesto che le illuminava i pensieri.
Pochi passi più avanti, un signore. In testa il ??, douli, il tipico cappello di paglia dei contadini, fra le mani più di settant’anni e un’ascia per tagliare la legna.
Ayue si intenerì a quella vista. Notò le braccia magre, ma forti dell’uomo, e il mezzo sorriso che aveva sulle labbra nel momento in cui si accorse delle due passanti. Lo vide fare un cenno di saluto e chinarsi di nuovo a lavoro.
C’era un’incredibile forza in quei movimenti, una forza che aveva reso grande una cultura millenaria – impossibile restare indifferenti.
La giovane si sentiva come lacerata dal desiderio di avvicinarsi a quel popolo, ma, al contempo, tendeva a rifiutarlo, a negarlo a se stessa perché troppo distante, diverso, in una lotta che l’avrebbe costretta a rinunciare a una delle sue sfaccettature. Sarebbe stata una sconfitta, e lei non l’avrebbe permesso.
In quel momento la madre la superò, mentre lei rallentò il passo per osservare ancora un poco il signore.
Era colpita dalla precisione dei tagli, dalla costanza, dall’alzarsi e abbassarsi della lama che, in alcuni istanti, pareva catturare addirittura la luce del sole.
Con questo ricordo in tasca, Ayue proseguì la camminata, tenendo d’occhio la schiena della madre. Le vennero in mente tutti i litigi che avevano avuto, tutte le parole che si erano dette senza forse volerlo.
Per un attimo, le si strinse il cuore al pensiero di quella donna smarrita in una realtà che non riconosceva come la propria, con un pugno di speranze e due bambini al seguito.
Cina, Italia, Italia, Cina. Ti senti più italiana o più cinese? A quella domanda, Ayue non sapeva mai come rispondere.
Per dire qualcosa di sincero, avrebbe dovuto scavare in profondità, sporcarsi le unghie con il fango delle apparenze, andare oltre la superficie.
Forse, solo allora, avrebbe capito che la sua identità non era fatta di percentuali e di esclusioni. Era qualcosa di più, qualcosa che viveva sotto pelle, che le scorreva nelle vene come sangue.
Era il suo io più intimo, senza il quale lei non sarebbe stata la stessa.
Madre e figlia stavano ancora camminando, ora fianco a fianco, quando ad un tratto il cielo si rabbuiò. Iniziò a piovere – dapprima piano, quasi timidamente, poi sempre più forte, fino a sfociare in un vero e proprio acquazzone estivo, di quelli che ti colpiscono la pelle con violenza, che ti lasciano smarrito ma inebriato, che riecheggiano sulla pietra, liberandoti dai pensieri.
Le due donne cominciarono a correre, ma non c’era modo di sfuggire al diluvio.
Poi, così com’era arrivato, all’improvviso tutto finì, lasciando solo foglie bagnate e odore di pioggia.
Ayue si fermò, il respiro affannato – si spostò i capelli dal viso, assaporando il gusto dell’acquazzone sulle labbra. Guardò la madre, anche lei completamente fradicia, e non riuscì a trattenere un sorriso.
Esausta, sollevò gli occhi al cielo, riprendendo fiato.
E fu allora che se ne accorse: sopra le loro teste, le nuvole avevano lasciato spazio ad un arcobaleno dai colori così vividi da rapire anche lo sguardo della madre. Per quanto fossero diverse, c’erano ancora dei punti in comune.
E c’era così tanta bellezza in questo.
Luisa Zhou
Luisa Zhou nasce a Torino l’11 gennaio 1995 da genitori originari di un piccolo villaggio nella regione di Zhejiang, nella Cina meridionale. Luisa cresce, scrive, sogna e la sua infanzia e l’adolescenza sono strettamente legate al ricordo di un ristorante. Frequenta il liceo classico masticando la lingua dell’epica e della tragedia per cinque anni, tuttavia sui suoi documenti appare la scritta «nazionalità cinese». A diciannove anni decide di partire per Hangzhou, dove trascorre un anno sabbatico alla ricerca delle proprie origini. Al suo rientro in Italia, continua quella che è l’ordinaria vita di una ragazza universitaria. Il suo racconto, (S)corri nelle mie vene. Sottopelle, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Eleonora
di Jacqueline Nieder [Italia]
Sei sdraiata al caldo, sotto le lenzuola pulite. Il ginecologo ti ha controllato un’altra volta ma vorrei che lo facesse di nuovo, per essere certa che non ti accadrà nulla. Mi alzo e cerco l’infermiera. Mentre mi allontano, ti lamenti. Non sono sicura se è perché me ne sto andando o perché finalmente ti ho lasciata sola. Quando torniamo, l’infermiera mi assicura che manca poco, che ogni cosa sta seguendo il suo corso naturale. Me lo ripeto di continuo, ma la luce al neon dei corridoi elude il passare del tempo, lo deforma. È facile confondere ciò che è stato con ciò che sta per accadere. Siamo in Italia, dopotutto, e sono passati vent’anni, dovrei smetterla di avere paura. Non si sentono i colpi di carro armato prima dell’alba o i passi dei soldati che fanno irruzione nell’ospedale e uccidono chi, in fondo, è già morto. Mi dico che sei al sicuro mentre confondo i suoni delle macchine e i lamenti delle altre pazienti con quelli delle sirene. Eleonora. Le hai dato un nome di questa terra ma tua figlia sarà figlia di questa terra? E noi di cosa siamo figlie?
Fuori è già buio. La luce sopra al letto si riflette sulla tua pelle bianca a tal punto che sembra emanata da te e ti trasfigura. Le rughe di dolore che hai sul viso, nello sforzo di spingere, somigliano a quelle di una maschera crudele. All’improvviso, ti sento fredda e mi fai paura. Non riesco a guardarti. Mi stringi la mano fino a farmi male e ho bisogno di andar via. Quando la contrazione ti lascia riprendere fiato, mi libero ed esco dalla stanza, con il pretesto di cercare ancora l’infermiera.
Non volevo guardarti nemmeno la prima volta, non te l’ho detto mai. Sei nata poco dopo l’inizio della guerra, nel ‘93. In tutti questi anni non ti ho mai raccontato di Osijek e del nostro passato. In fondo, non ti è mai interessato, forse perché sapevi che era da lì che veniva il mio rancore.
Ti dò un’ultima occhiata. Hai cappelli rossi così belli, le pareti azzurre ricordano un cielo, ma la tua espressione mi spinge ad allontanarmi. È la stessa di quella volta al parco, quando avevi sei anni. Facevi piovere delle piccole zolle di terra su un formicaio con la medesima leggerezza con cui gettavano le bombe su Osijek. Ti divertiva veder impazzire quelle povere bestiole, e ti sgridavo e avevo paura di te.
Sentivo tornare un rancore lontano. Osijek era un enorme formicaio, i muri segnati dai colpi di mortaio. La strada principale aveva ceduto sotto il peso dei cingolati. Vivevo con mio marito, Saša, in una piccola villetta ai limiti della città, vicino ai campi di mais. L’abbiamo lasciata quando è scoppiata la guerra e sono cominciate le retate. Ogni settimana cambiavamo posto. Cercavamo le abitazioni già perquisite o abbandonate. Molti serbi erano scappati, lasciando la città. Noi forzavamo le porte e dormivamo nei loro letti, senza accendere le luci quando scendeva la notte. Avevamo imparato a trovarci nel buio e a restare in silenzio per giorni interi. Qualche volta, nel bel mezzo della notte, le stanze venivano inondate da una luce calda come quella del sole, ma ogni volta era soltanto il fuoco croato appiccato alle case serbe.
Verso la metà di giugno, mentre Saša era andato a cercare da mangiare, scesi in strada e vidi dei ragazzi attorno a un furgoncino rovesciato. Con le lamiere che avevano recuperato, stavano costruendo un’enorme croce sul ciglio della strada. Due di loro erano soldati, con delle barbe lunghe e incolte. L’altro indossava un cappello di lana e aveva un fucile legato alla schiena. Nessuno di loro portava la fascia bianca al braccio, ciò voleva dire che non erano croati. Non so bene perché, ma cominciai a pregare. Quando se ne andarono, attraversai la strada e m’inginocchiai vicino alla croce. Cercavo l’erba medica per poterla mangiare. Ne presi un bel fascio anche per Saša e rientrai a casa.
Di quella sera ricordo gli odori. Ricordo l’odore di sudore che riempì la stanza quando fecero irruzione mentre stavo dormendo. L’odore di bruciato che entrava dalla finestra, che si mescolava all’odore della mia paura. Erano gli stessi delle lamiere, i due soldati e il civile. Sentivo ancora sulle labbra l’aroma dell’erba e della terra. Quando se ne andarono, gli odori sparirono con loro. Non li riesco più a sentire, nemmeno dopo tutto questo tempo.
Sapevo di aspettarti. Ne ero consapevole già da quella stessa notte, mentre la vicina, che aveva sentito le grida, mi lavava nella vasca da bagno piena di acqua e sale. Mi sono presa a pugni la pancia per la disperazione. Ma non te ne sei andata, per fortuna, non te ne sei andata.
La notte successiva siamo partiti per andare da mia sorella. Abitava fuori città, al confine con i boschi. In cuor mio speravo avesse ancora una gallina o due, non ne potevo più di soffrire la fame. Abbiamo deciso di muoverci a piedi, per nasconderci nei campi e camminare lontano dalle strade. Saša è morto proprio lì, con una gamba prigioniera in una trappola per lupi. Non avevo abbastanza forza per trascinarlo. Sono rimasta con lui per tre giorni finché non se n’è andato.
Da mia sorella non sono mai arrivata. Ho camminato finché ho potuto, nella direzione opposta rispetto ai rumori, alle luci e alle voci che sentivo. Ad un certo punto mi sono trovata davanti a una vecchia casa di boscaioli. Dentro, si erano nascoste alcune donne e un ragazzo giovanissimo, serbo come mio marito. Un disertore, uno che ad ammazzare metà della sua famiglia si era rifiutato. Mi accolsero senza dire niente. Entrai in quella casa come un fantasma e loro entrarono nella mia vita nello stesso modo.
Tra quelle donne una era impazzita. Ogni tanto si metteva a gridare e sbavava, presa dai tremori. Il ragazzo le tappava la bocca perché avevamo paura di farci sorprendere persino dal sole al mattino. Mangiavamo le radici, il mais e le lepri cacciate con i lacci. Eravamo in tre con le pance gonfie. Una aveva solo quattordici anni. Perse il bambino al secondo mese, poco dopo il mio arrivo. L’altra, di trenta, lo partorì e lo abbandonò in mezzo al campo.
Tu, invece, sei arrivata d’inverno. Dovevano esserci venti gradi sotto zero. La neve era alta un metro e rendeva tutto più sopportabile, nascondeva le cose. Sei venuta di notte e ti ho maledetto. Tremavo dal freddo e dalla fame. Le donne più forti mi hanno portato vicino alla caldaia a legna. Hanno detto che così, forse, non sarei morta e non saresti morta neanche tu. Ricordo il sudiciume, i ratti che correvano lungo i muri e avevo paura che cominciassero a mordermi e non riuscissi a difendermi. Sono rimasta sola per molto tempo, poi la ragazzina è venuta con il serbo. Mi hanno messo una coperta e hanno fatto pressione sul mio stomaco per aiutarti a uscire. Sei venuta in fretta. Ho sperato che fossi nata morta, non avrei avuto il coraggio di lasciarti su un cumulo di neve. Invece hai cominciato a piangere e io con te. Ed è stato in quel momento, credo, nella spinta istintiva che ne è seguita, nelle braccia protese in avanti, nelle mani aperte, che è cambiato tutto. E come ti ho avuta, ti ho stretta, nascosta dentro il seno, sotto la coperta, vicino alla caldaia. Ti alitavo in fronte per non farti congelare e ti baciavo come se fossi un miracolo. Ti ringraziavo di essere venuta da me. Così, ora, in questo ospedale, dopo vent’anni, sento ancora il bisogno di chiederti perdono. Per ciò che è rimasto del rancore, per la storia che non ti ho mai raccontato, per le mie paure che a volte credo di vedere sul tuo viso.
Sto cercando di tornare da te, mi sono persa nei corridoi del padiglione Ovest. Chiedo indicazioni a una signora anziana che sembra un vigile e conosce tutto di questo posto. Mentre corro nella giusta direzione, sento che mi chiami. Quando entro nella stanza, l’infermiera sta sollevando Eleonora e dietro ci sei tu, i capelli rossi e sudati appiccicati alla fronte. La prendi, la baci, la stringi e ringrazi Dio e me. Me. Hai Eleonora negli occhi mentre mi avvicino a voi e mi rendo conto che il nostro passato, tu, lo hai sempre conosciuto. Solo ora capisco, dopo vent’anni, che il perdono me lo avevi già dato quel giorno, in quella cantina, in quella Croazia, mentre ti alitavo sul viso per non farti congelare.
Jacqueline Nieder
Nasce a Parma nel 1991 da padre argentino, originario di Buenos Aires, e madre mantovana. Frequenta un liceo scientifico sperimentale con indirizzo linguistico, apprendendo l’inglese e il francese; si laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna e attualmente vive a Torino, dove studia Storytelling alla Scuola Holden. Ama leggere e narrare storie. Il suo racconto Il cappello del Signor E è pubblicato sulla rivista per bambini dei «MagazziniOz» e riceve menzioni d’onore in concorsi di poesia. Ama la fotografia e tiene una fitta corrispondenza con la nonna che definisce sua amica di penna. Il suo racconto, Eleonora, vince il Premio Sezione Speciale Donne Italiane della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Changes
di Dounya Mahboub [Marocco]
Mio padre, uomo ignorante e violento, fisicamente corpulento, massiccio, duro con se stesso e il prossimo, vedeva in me qualcosa di insolito e di diverso nei miei atteggiamenti. Ogni volta che mi vedeva, diceva: «Dounya, non basta pregare cinque volte al giorno, il nostro Dio ci osserva, più devoti siamo e migliore sarà la nostra esistenza!».
Avevo diciotto anni, aiutavo mia madre in casa e guardavo le mie tre sorelle più piccole. Mio padre, fervente religioso, parlava sempre della guerra di Dio verso gli infedeli, diceva che noi credenti eravamo il suo mezzo divino per purificare la nostra religione ed era giusto punire con violenza anche quelli contrari alla guerra santa. Non accettavo questi discorsi ma ero obbligata a non rispondergli, a non fare nulla, immobile al termine delle sue frasi, con il volto impassibile deglutivo quelle parole, perché se avessi osato controbattere e dar vita a una discussione, mi avrebbe picchiata e poi avrebbe picchiato anche mia madre che non c’entrava nulla. La mia schiena era pur sempre dritta e i miei pensieri rimanevano conformi al mio essere, a quella che sono: atea.
Vivevo fingendo, un’attrice di un film che non consiglierei a nessuno, schiava di una religione che non mi appartiene. Pensavo: per quanto ancora? Mi succedeva spesso di perdermi nel vortice assiduo di una speranza ignota. Sentivo freddo quando pensavo alla resa della mia anima mortale, i brividi mi affannavano il respiro, mi alzavo e allo specchio della camera riprendevo possesso della ragione, guardandomi il volto, pensavo certa: «Sono io, sempre io, la ragazza che trova ragione nel sognare un mondo migliore».
Un mattino, nella mia camera, sotto le coperte, stavo aspettando che la luce entrasse dalla finestra perché le riflessioni della notte mi avevano fatto capire che non c’era più tempo da perdere. Mi alzai dal letto e appena mio padre uscì di casa, presi mia madre da parte e le dissi: «Basta mamma! Così non voglio più vivere, preferisco la morte a questa vita».
Mia madre, con le lacrime agli occhi, abbracciandomi disse: «Hal targhabi fi lhoroub!? Aina?».
«In Italia, mamma».
Sapevo benissimo che ottenere un visto per l’Italia non era per niente semplice e le azioni che dovevo svolgere in segreto richiedevano molto tempo e tanta speranza. Dopo alcuni giorni, mi diressi all’ambasciata Italiana a Rabat: con l’iscrizione avrei potuto ottenere un visto lavorativo di sei mesi; intanto mi misi in contatto con mio zio, già in Italia da alcuni anni. Gli raccontai di tutte le pressioni che subivo da mio padre e di tutta la voglia che avevo di scappare.
Mio zio, dopo diversi mesi e vari tentativi, riuscì a trovare una famiglia benestante e, dopo la notizia di mio zio, tutto si trasformò in luce ai miei occhi e nessuno poté più fermarmi. Durante una notte così calda che le candele accese nella casa si scioglievano come burro al sole, scappai, senza lasciare alcuna traccia di movimenti rumorosi che avrebbero potuto infastidire il sonno di mio padre. Ero disposta ad assumermi la responsabilità di un lavoro, per ottenere un permesso di soggiorno. In quel periodo di tempo non avevo mai perso la speranza, sulla mia vicina partenza. Quando poi arrivò, durante il volo, il cuore mi batteva così forte e lo stomaco faceva così male fino a nausearmi, i miei pensieri si perdevano unendosi alla scia dell’aereo, senza mai disperdersi, però. Mi calmavo sapendo che stava per incominciare una nuova vita.
Arrivata a Milano, sperduta in quel grande aeroporto, da lontano, vidi mio zio che mi cercava fra la gente, mi misi a correre fino a lui e, abbracciandolo, le mie paure si sbiadirono sul suo volto sorridente. Giunta finalmente ad Asti potevo girare per quelle vie che profumavano di libro ancora da aprire. Ero ospite di mio zio in corso Alba, molto vicino alla casa in cui dovevo incominciare a lavorare. In quella casa ricca di oggetti a me sconosciuti, svolgevo diverse mansioni e imparavo con grande entusiasmo i piatti tipici piemontesi per la preparazione del pranzo e della cena. Passavo molte ore nella biblioteca della casa, per la sete di sapere che avevo sempre avuto.
Già da bambina leggevo tutto quello che trovavo, ma in Marocco i libri non potevamo permetterceli e mio padre controllava sempre le mie letture; poter leggere così tante cose diverse mi ha permesso di farmi una cultura, solo mia, nessuno mi diceva cosa leggere. Ho preso il diploma e adesso mi mancano tre esami per laurearmi in Scienze politiche a Torino.
Continuo a lavorare per pagarmi gli studi, sperando un giorno di tornare, fiera di me stessa, a Marrakech e portare via, dalle grinfie di mio padre, mia madre e le mie sorelle, che non meritano quella vita.
Sento di essere dove volevo vivere…
Sento di essere una straniera ancora, ma di non avere più la paura di allora…
Conquistatrice di sogni e di viaggi, vago nell’anima del mondo, portando nel cuore le mie origini.
Dounya Mahboub
Nasce il primo gennaio 1994, a Marrakech, in Marocco. Si trasferisce in Italia, ad Asti, all’età di sedici anni, dove tuttora vive con suo zio. Lì frequenta il liceo linguistico «Ugo Foscolo» e, dopo aver conseguito il diploma, si iscrive all’Università degli studi di Torino per seguire il corso triennale in Scienze politiche e sociali. Dopo la laurea, desidera intraprendere una carriera diplomatica e aspira alla politica internazionale: le piacerebbe diventare assistente parlamentare europeo. Il suo racconto, Changes, ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino Mole Antonelliana della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Jet lag affettivo
di Angela María Osorio Méndez [Colombia]
Unità di misura Utc, il fuso orario. È così che devo misurare la metà delle mie relazioni interpersonali, in perenne jet lag affettivo: «Ci sentiamo al mio pranzo, ossia per la tua colazione»; «no, a quell’ora non posso, sarò nel pieno del sonno». Un constante rendez-vous sfuggente, perché in effetti ci dimentichiamo spesso di quegli appuntamenti su Skype quando viviamo quell’altra parte delle nostre vite, quella parte fatta da carne e ossa, contatti e odori.
«Il jet lag, spesso indicato come “mal di fuso” […] è una condizione clinica che si verifica quando si attraversano vari fusi orari (di solito più di due fusi orari), come avviene nel caso di un lungo viaggio in aereo […]. Il fenomeno si verifica a causa dell’alterazione dei normali ritmi circadiani». Wikipedia con usuale semplicità spiega la condizione che io vivo da sei anni, senza viaggiare o prendere aerei o attraversare time zones. Questa è la storia della costante «alterazione dei normali ritmi» affettivi e dei meccanismi impiegati per provare a metterli in sincronia e far collidere le nostre diverse e lontane Utc, annullando le distanze spaziali e temporali per cui possa esistere un solo piano, il nostro, dove emisfero Nord e Sud diventino un tutt’uno.
| JET LAG, 7h | 23:00 UTC -5; 06:00 UTC +2
A 2.640 metri sopra il livello del mare (s.l.m.) l’ossigeno è scarso, ma noi bogotani riusciamo a respirare benissimo. Siamo come quei mammiferi marini che riescono a mantenere il fiato per più di un’ora sott’acqua, tutto grazie ovviamente a uno degli adattamenti più estremi che esistano in natura. No, non sto dicendo che a Bogotá si viva in apnea, per quanto a volte i suoi abitanti possano sembrare sirene scappate dalle isole Sorrentine: nella capitale a volte piove tanto, ma a volte piove pure tantissimo e la gente come per magia sembra prendere quella forma, metà pesce metà umano. A 2.640m s.l.m., a quest’ora a Bogotá la maggior parte dei suoi dieci milioni di abitanti sta andando al letto; i pochi negozi ancora aperti iniziano a chiudersi; le luci nelle case e negli appartamenti a spegnersi; il traffico a diminuire di intensità. Ai 239m s.l.m. di Torino invece, le serrande iniziano ad alzarsi, le panetterie ad aprire e la moka a diffondere il suo profumo di mattina italiana: caffè es-pres-so. Un rito osservato, compreso e imparato solo con il passare dei mesi dal mio arrivo in Italia e con tanta fatica. «Ma come preparate il caffè in Colombia? Ma senza la moka? E allora come?» «D’accordo ti spiego io: l’acqua va fino alla valvola, o se vuoi un po’ più in alto se la moka lo permette. Il caffè lo devi mettere con questo cucchiaio asciutto, metti la mano così intorno e fai questo movimento. Il migliore caffè è questo, prendi solo questo marchio, non gli altri! Stretta bene la moka la metti sul fuoco basso e fai uscire il caffè piano, fino al fischio. Ecco, la moka si usa così».
All’inizio mi sembrava impossibile e oggi mi sembra impossibile non farlo. La moka ormai significa mattina, senza di lei non ci si sveglia. Ed insieme al caffè in tazza piccola a colazione ci sono biscotti dolci, oppure brioche dolci, magari alla marmellata. Ogni tanto baro e il mio caffè diventa un americano, lungo e in tazza grande, e puntualmente incontro lo stupore degli italiani a cui racconto che a 2.640m s.l.m. per colazione si mangia solo cibo salato: i soliti café con leche o chocolate, huevos revueltos , arepas con queso y pan. Il caffè americano è ammesso quando ho voglia di iniziare la giornata più alla colombiana.
| JET LAG, 7h | 01:00 UTC -5; 08:00 UTC +2
A 239m s.l.m. le arterie della città pulsano. Tram, bus, metro, bicicletta, auto, bike sharing, car sharing, passi veloci… ogni flusso si intreccia e ciascuno disegna il proprio tracciato strategico. La prima tratta in bicicletta, la seconda parte sul tram arancione che porta alla coincidenza che finalmente arriverà a destinazione. Ma in alcuni casi si può pure cambiare l’ordine, prima il bus, a seguire il ToBike ed infine il tram. Oppure solo la bici o alle volte solo il bus. Ma questa dimestichezza arriva solo dopo anni di pratica e di percorrenza delle vie della città, perché qua le strade non sono semplici numeri, qua le strade sono vere e proprie biografie ed è più che ovvio che non sia facile orientarsi fra tutti questi nomi. Appena arrivata in città, ho abitato fra le strade degli artisti; una condizione meravigliosa che sembrava impormi tacitamente il mandato di vivere artisticamente. Non so se ci sono effettivamente riuscita, ma quando ogni giorno da via Antonio Canova imboccavo via Benvenuto Cellini, fino alla fermata del bus, a me sembrava sempre di camminare in un museo.
Bogotá invece, con il suo passato coloniale, ha una rete stradale che segue i lineamenti del cardo e del decumano: la toponomastica della griglia che ne risulta non utilizza nomi di municipi e personaggi storici, bensì è composta da numeri, ordinali e cardinali. Oggi vengono chiamate carreras e calles: le prime sono le strade che vanno dal Nord al Sud e le calles sono quelle perpendicolari alle carreras. La numerazione delle calles nasce da Plaza Bolivar, piazza principale della città, e aumenta fino al numero duecento verso il Nord e altrettanto verso il Sud. Le carreras invece crescono di cifra da Est verso Ovest, partendo dalla catena di montagne che costeggia imponente e rigogliosa la città da Nord a Sud, definendo il suo limite naturale. Con questa configurazione urbanistica non c’è bisogno di interiorizzare i nomi e le vocazioni di vie e quartieri per potersi muovere, ma esiste sempre la possibilità di ubicarsi all’interno della griglia. Dall’incrocio della calle diciotto con la carrera quarta per dirigersi all’angolo della calle quattordici con la carrera seconda, basta spostarsi quattro isolati verso Sud e due verso Est. Sommare e sottrarre è l’unico modo per arrivare.
| JET LAG, 7h | 03:00 UTC -5; 10:00 UTC +2.
A 2.640m s.l.m. le persone dormono. Mia madre dorme, mio padre dorme, le mie sorelle dormono, i miei fratelli dormono, i miei amici dormono, le mie amiche dormono e io, a 239m s.l.m faccio una pausa, una pausa caffè al bar con i miei colleghi. In Colombia i bar servono solo bevande alcoliche e aprono solitamente alla sera.
La prima volta che mi hanno chiesto se volevo andare al bar per l’intervallo a metà mattina mi sono stupita, non riuscivo a capire cosa volevano fare i miei compagni. «Bere a metà mattina?». Solo più tardi ho capito che al bar si va per il caffè e che questo si beve al banco, in piedi e al volo! Una volta ancora, questo per me non era affatto scontato: in Colombia il caffè si beve da seduti accompagnato da chiacchiere rilassate, non in fretta e meno che mai in piedi.
Durante la loro ultima visita in Italia è stato naturale per mia madre e mia zia, quelle che ora dormono a 2.640m s.l.m., affidarsi alla scritta «cappuccino al banco 2 euro» per andare a consumare la bevanda calda sedute al banco, che in spagnolo significa panchina. Ingannate crudelmente dalla similitudine fra banco in italiano e banco in spagnolo, hanno scoperto solo al momento di pagare che banco sta per bancone, fermezza su due piedi e sveltezza di consumazione.
| JET LAG, 7h | 05:00 UTC -5; 12:00 UTC +2
A 239m s.l.m. è ora di pranzo, ed ancora una volta si discute di pasta.
Lui: «Con il pesto non si mangia mai la pasta lunga»; io: «E allora prendi quella corta che c’è lì nello scaffale!». Lui: «Ma no, ma neanche i maccheroni vanno bene! Portami le caserecce, o i fusilli, la pasta deve essere un po’ attorcigliata».
Lui, ride. Lei a lui: «Lo so che c’è chi mangia la pasta lunga col pesto, ma con lei bisogna essere tranchant: non le percepisce queste sottigliezze soggettive…».
In Colombia la struttura di un pasto inizia tipicamente con la frutta servita in un piatto piccolo, preferibilmente di vetro. La seconda portata si chiama sopa e consiste appunto in una zuppa, che deve essere servita calda e su un piatto fondo; la terza pietanza si chiama seco. La parola seco in spagnolo vuole dire asciutto, ed è legittimo che venga dopo la zuppa, che è sugosa. Per il seco solitamente si compongono nel piatto diversi elementi: verdure, carne o legumi, e immancabilmente il riso bianco, il cui ruolo è fondamentale per il seco. Tutti gli altri ingredienti possono variare a piacere, ma il riso bianco è la colonna portante del seco. Insieme al seco si beve il jugo, ogni giorno fatto con un frutto diverso: ieri lulo, domani mora, oggi guanabana. Ed infine si chiude con il tinto, una specie di caffè americano e a volte un dolce come un bocadillo de guayaba, una gelatina guava.
Io però a 239m s.l.m. sto mangiando un primo, un secondo e dopo un po’ d’insalata con pane e dopo la frutta tagliata al tavolo e, per finire, un caffè es-pres-so con un gianduiotto.
| JET LAG, 7h | 07:00 UTC -5; 14:00 UTC +2
A 2.640m s.l.m. la gente si sta alzando. Mia madre si sveglia, mio padre si sveglia, tutti si svegliano, compresa me, che sono a 239m s.l.m. e a un mare di distanza. Mi sveglio come loro, ma non da una notte stellata, io mi sveglio dalla siesta: un’attività che in qualche modo riesce a sincronizzarmi con la Colombia e con i suoi ritmi circadiani, con il suo fuso orario.
E questa comune sveglia crea lo spazio e il tempo per una condizione di simile dissimilitudine, di uno strano stare insieme a distanza, un paio di ore di sole condiviso, anche se qua è calante e là è in ascesa. Sono proprio queste le ore preferite per gli appuntamenti cibernetici. Servono solamente internet, un dispositivo portatile, auricolari, uno spazio silenzioso dove poter parlare e del tempo.
Ma in questo primo pomeriggio a 239m s.l.m. queste condizioni fanno fatica a declinarsi nella realtà e sembrano escludersi a vicenda: se ho la connessione, il computer e le cuffie, non ho tempo, o non sono nello spazio adatto; se non ho impegni e sono in un bel luogo, accogliente e favorevole a una bella chiacchierata, magari ho anche con me pc e auricolari, mi manca internet, e cosi via, in costante compromesso spazio temporale.
Ma a volte riusciamo a sospendere il jet lag e ci sincronizziamo per un po’, a volte per alcuni minuti, magari per alcune ore. Diventiamo una specie di piano topologico, dove la distanza tra punti non conta: le nostre diverse condizioni spaziali e temporali s’incontrano in un istante, in una topografia e cronologia che non esiste, loro a 2.640m s.l.m. con il loro fuso orario UTC -5 ed io ai 239m s.l.m. con il mio UTC +2. In questo modo apriamo un’altra dimensione che per noi, che siamo connessi, esisterà oltre il tempo della durata di questa chiamata.
Anche dopo, ognuno di noi sentirà scorrere un ritmo parallelo a quello del proprio quotidiano, e in ogni cosa che faremo, caffè che prenderemo, traffico che sfideremo, convenzione che decostruiremo sarà presente l’idea dell’altro, dall’altro lato dell’oceano, respirando un’altra composizione chimica di aria: fino alla prossima tregua di jet lag affettivo.
Angela María Osorio Méndez
Nasce nel 1986 a Bogotá, in Colombia. Nel suo paese d’origine studia Arti visive; si trasferisce in Italia e ottiene la doppia laurea italo-colombiana in Architettura presso il Politecnico di Torino. Nel 2014 inizia il dottorato in Studi Urbani del Gran Sasso Science Institute (Gssi), presso L’Aquila. Realizza progetti di sviluppo territoriale attraverso iniziative culturali e artistiche, come The School of Losing Time a Londra e Mirafiori Millefogli, in corso di attuazione, a Torino. Il suo racconto, Jet lag affettivo, ha vinto il Primo Premio della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Cari missionari: di martiri in Somalia, di economia e altro ancora
Lettere dei lettori con commenti e risposte del Direttore e ricordo particolare delle cinque martiri della Somalia |
Assist alla Lega?
Sono un vecchio lettore della vostra rivista e apprezzo gli ottimi report sulle missioni nel mondo, gli approfondimenti di Paolo Farinella,
le testimonianze delle comunità cristiane nel mondo. In breve leggo la vostra rivista per motivi religiosi e per l’affetto che da sempre mi lega alle vostre missioni. Non certo per sorbirmi pseudo lezioni di politica economica come quella di Francesco Gesualdi sul cui contenuto ci sarebbe molto da discutere. Non ultimo, mi pare del tutto fuori luogo l’assist che Gesualdi ha dato alla Lega per la sua battaglia contro l’euro.
Cordiali saluti,
Vincenzo Bottigliero 31/05/2018
Caro Sig. Bottigliero,
abbiamo girato la sua email a Francesco Gesualdi.
Ecco la sua risposta.
Ho accettato di curare la rubrica «E la chiamano economia», perché credo anch’io, come dice papa Francesco, che: «L’economia determina in buona parte la qualità del vivere e persino del morire delle persone». Per cui dobbiamo occuparci tutti di economia, prima ancora che come cittadini come cristiani desiderosi di assicurare la dignità ad ogni creatura, come ci richiede il Vangelo.
Spesso, però, l’incompetenza ci impedisce di impegnarci, ed è proprio per fornire una chiave di lettura a chi è intimidito dai termini e dalla complessità della materia che ho accettato di curare la rubrica. Ma fin dal primo numero ho avvertito che l’economia non è una materia neutra. Analisi, giudizi e proposte dipendono dai valori che ci animano e dalla categoria sociale che si intende difendere.
I miei valori sono la solidarietà e la responsabilità, la mia categoria sociale sono gli impoveriti. Ed è con questa prospettiva che ho analizzato l’Europa per scoprire che al centro della sua costruzione non ci sono le persone o la solidarietà, bensì le imprese, il mercato, la concorrenza.
Anche la moneta unica è stata gestita secondo le stesse logiche ed ha prodotto risultati disastrosi quando si è trattato di affrontare un tema come il debito pubblico dai profondi risvolti sociali.
So che il tema dell’euro è strumentalizzato da partiti nazionalisti come la Lega che perseguono obiettivi opposti ai miei. Ma la mia analisi non ha niente da spartire con chi osanna l’individualismo e il razzismo. La mia è una denuncia dei danni che si provocano quando si gestisce l’economia senza bussola sociale ed è una sollecitazione a gestire in un altro modo la moneta comune europea affinché si possa recuperare la libertà di perseguire diritti e occupazione al servizio di tutti, senza subire ricatti da parte dei padroni della finanza.
Le tifoserie pro o contro l’euro non mi appartengono. Mi interessano gli effetti sulle persone: ciò che serve l’ultimo va bene, ciò che gli è contro va cambiato. Questa è la mia stella polare.
Gentile Direttore,
ho letto il dossier «Somalia, terra di martirio» inserito nel numero di maggio 2018. Forse mi è sfuggito, ma non ho trovato, fra i nomi dei martiri citati, quello della crocerossina Maria Cristina Luinetti, uccisa il 9 dicembre 1993 mentre prestava servizio come volontaria della Cri nell’ospedale di Mogadiscio, in Somalia. Come mai?
S.lla Luciana Salmoiraghi 14/05/2018
Cara Sig.ra Luciana,
dopo quella sua email abbiamo avuto modo di chiarirci. Come le ho spiegato, nel dossier abbiamo ricordato solo quei «martiri» di cui avevamo già parlato nella rivista, come Ilaria Alpi, o che erano legati in modo particolare ai missionari della Consolata e quindi a noi più familiari, come il vescovo Colombo e Annalena Tonelli. Siamo quindi ben lieti di rimediare qui alle nostre omissioni e anche alla nostra ignoranza, ricordando la sorella Maria Cristina, di cui le consorelle della Croce Rossa di Saronno hanno inviato una breve biografia. Ricordiamo con lei anche la dottoressa Graziella Fumagalli uccisa a Merca nel 1995. Con suor Leonella, Annalena Tonelli e Ilaria Alpi sono le «cinque italiane martiri in Somalia».
Desidero anche ringraziare tanto lei, sig.ra Luciana per aver condiviso con noi la foto inedita che trovate in (apertura di) questa pagina. Ritrae Annalena Tonelli a Merca nel novembre del ‘93 al centro antitubercolare della Caritas italiana. C’è una piccola festa perché è il giorno dell’arrivo al centro della stessa Luciana Salmoiraghi e anche del generale Carmine Fiore (comandante della missione Ibis e di Italfor, il contingente italiano impegnato in Somalia nell’ambito della missione Onu Restore hope dal settembre 1993 – ndr) comparso con un camion di aiuti e un’enorme scorta d’acqua. • Vedi anche la rubrica «I Perdenti» di questo mese, con «l’intervista» di don Mario Bandera ad Annalena.
Maria Cristina Luinetti
È stata la prima Crocerossina a cadere in servizio dopo la II guerra mondiale.
Maria Cristina nasce a Milano nel marzo del 1969. Consegue la maturità classica nel giugno del 1988, nello stesso anno si iscrive al corso per Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, presso il Comitato di Saronno e viene immatricolata con il numero 35318 nel giugno del 1992 con il grado di Sottotenente.
Possiede un’intelligenza vivace, selettiva nella scelta delle amicizie, non è timida, ma piuttosto ferma, coerente, riservata e profondamente religiosa. Cristina è fortemente motivata dal desiderio di essere di aiuto ai più fragili e deboli, desidera interpretare pienamente quello spirito umanitario che è alla base dell’agire delle Infermiere Volontarie.
Lascia il posto di lavoro come programmatore informatico per seguire corsi di approfondimento di tecniche infermieristiche al fine di affinare la sua preparazione, per far fronte, come lei diceva, «all’inimmaginabile e all’imprevedibile».
Sceglie la via più difficile, quella della missione internazionale.
Il 20 novembre 1993 parte per la Somalia, destinazione Poliambulatorio Italia a Mogadiscio di fronte all’ex ambasciata italiana, 6 mila chilometri lontana dalla sua Cesate.
Il 9 dicembre 1993 Maria Cristina Luinetti muore a Mogadiscio uccisa da un bandito somalo.
Così la ricorda il Commissario straordinario di Croce Rossa, Luigi Giannico: «Hai voluto scegliere, al più alto livello, l’espressione della tua generosità portando aiuto a genti non conosciute, appartenenti ad un’altra razza, ed hai fatto la tua scelta ben consapevole dei rischi e pericoli ai quali ti saresti esposta. Non l’hai considerata cioè un’avventura, pur comprensibile alla tua giovane età: sei partita preparata professionalmente e conscia moralmente dell’alto significato e dell’importanza della tua missione, con maturità e lucidità».
Se n’è andata fedele al motto delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa: «ama, lavora, conforta, salva».
Il Comitato della Croce Rossa di Saronno
Graziella Fumagalli
Medico volontario subentrato ad Annalena Tonelli nel 1994 nella direzione del Centro antitubercolare della Caritas Italiana a Merca, dove viene assassinata pochi mesi dopo, il 22 ottobre 1995 da sicari somali con alcuni colpi di arma da fuoco al viso.
da Famiglia Cristiana
Pazienza
Caro padre Gigi,
ho appena letto nell’editoriale del numero di giugno di MC le riflessioni sulle tre P, suggerite da papa Francesco. Le recenti vicende politiche per formare il nuovo governo, mi hanno suscitato tante riflessioni relative all’importanza di avere uno sguardo a lungo termine e di accogliere i cambiamenti come segno di novità, pur nell’incomprensibilità. Mi è venuta in mente anche una recente attività di formazione che ho proposto ad un gruppo di insegnanti di scuola dell’infanzia correlata al tema del dialogo, in quanto la loro programmazione scolastica riguarda l’accoglienza del diverso. Ho suggerito di prendere spunto da un’opera d’arte e di immaginare un dialogo sia con i personaggi sia con l’autore. Per dare loro uno spunto sono andata a vedere un quadro che molti anni fa avevo ammirato per l’originalità e la bellezza: La fuga in Egitto di Andrea Pozzo, conservato nella Cappella dei Mercanti a Torino (vedi foto).
Ho pensato a cosa potevo chiedere a Maria, a Giuseppe, al Bambino e a Pozzo. Soprattutto a Giuseppe che precede Maria lungo il sentiero, pronto a sorreggerla e a soccorrerla se necessario, e le rivolge uno sguardo carico di affetto mentre con il braccio destro avvolge il Bambino tutto fasciato, pienamente compreso nella responsabilità di portare al sicuro ambedue. Vorrei domandargli dove trovava tanta forza per recarsi in un paese sconosciuto con un bambino piccolo e con la madre dello stesso, lungo un sentiero impervio, accidentato, per sottrarli alle iniziative tremende di Erode, timoroso di perdere potere e prestigio. Senza dubbio Giuseppe ha dimostrato una fede e una speranza, tradotte nell’amore per i suoi cari, oltre ogni evidenza ma incrollabili e meritevoli di essere vissute in misura analoga anche da me, da noi.
Con riconoscenza.
Milva Capoia 02/06/2018
Domande sulla Messa
Caro padre,
posso farle un paio di domande sulla messa?
Dopo la presentazione dei doni c’è l’orazione sulle offerte, si ascolta in piedi o da seduti? È uguale per tutte le diocesi o ogni vescovo può dare la sua di direttiva? […]
Emanuela 12/04/2018
Nella email ci sono anche altre domande sulla messa.
Per ora provo a rispondere sinteticamente a questi due primi punti.
1. In piedi o seduti.
L’Ordinamento Generale del Messale Romano, al n. 43, prescrive: «I fedeli stiano in piedi dall’inizio del canto di ingresso, o mentre il sacerdote si reca all’altare, fino alla conclusione dell’orazione di inizio (o colletta), durante il canto dell’Alleluia prima del Vangelo; durante la proclamazione del Vangelo; durante la professione di fede e la preghiera universale (o preghiera dei fedeli); e ancora dall’invito Pregate fratelli prima dell’orazione sulle offerte fino al termine della Messa, fatta eccezione di quanto è detto in seguito.
Stiano invece seduti durante la proclamazione delle letture prima del Vangelo e durante il salmo responsoriale; all’omelia e durante la preparazione dei doni all’offertorio; se lo si ritiene opportuno, durante il sacro silenzio dopo la Comunione».
2. Uguale per tutti?
Lo stesso documento scrive: «Spetta però alle Conferenze Episcopali adattare i gesti e gli atteggiamenti del corpo, descritti nel Rito della Messa, alla cultura e alle ragionevoli tradizioni dei vari popoli secondo le norme del diritto».
Si può dire che non dovrebbero esserci differenze tra le diocesi dello stesso paese, ma soltanto tra nazioni e riti (penso in Italia al Rito Ambrosiano) diversi.
Ricordo anche che il pregare «in piedi» rispecchia l’atteggiamento dell’uomo libero, del figlio col Padre, di chi è risorto a vita nuova, del viandante e pellegrino pronto a iniziare il suo cammino di «esodo» nella vita, del missionario (apostolo) inviato. «In ginocchio» richiama adorazione, supplica, richiesta di perdono. «Seduti» va con ascolto e accoglienza.
Detto questo, mi pare che una norma di carità dovrebbe essere quella di fare le cose in armonia e unità, perché la celebrazione dell’Eucarestia non è mai un atto individuale (la mia messa) ma sempre una celebrazione del Popolo di Dio, la Chiesa, una celebrazione che costruisce comunità attorno all’ascolto della Parola e nello spezzare il pane.
Migrazioni:
Schengen è morto, viva l’Europa
Testo di Simona Cranino, foto di Simone Perolari |
Ci eravamo abituati ad andare in Francia senza controlli. Oggi, chi ha la faccia da europeo continua a farlo. Gli altri invece rischiano di morire sulla frontiera. E vi muoiono. I gendarmi francesi passano il confine con arroganza, per riportare in Italia i malcapitati sopravvissuti, africani o asiatici. Intanto a Strasburgo si fatica a modificare il trattato di Dublino.
Un’ora e 10 minuti è il tempo di percorrenza del treno regionale che da Torino porta a Oulx, comune dell’alta valle di Susa, situato a 20 chilometri dal confine francese. Dalla stazione ferroviaria, un servizio di autobus di linea conduce a Claviere in meno di mezz’ora. Da lì, a piedi ci vogliono 3 ore per arrivare a Briançon. Se si cammina nella neve, bisogna considerare almeno mezz’ora in più. Tuttavia, al netto di imprevisti, il viaggio da Torino, attraverso il valico del Monginevro, fino al primo centro abitato della Francia ha una durata di circa 4 ore e mezza.
Un tempo troppo breve, per non provare ad attraversare quell’ultimo confine. Soprattutto se si paragonano le 4 ore e mezza ai mesi di viaggio in cui si è sopravvissuti al deserto, al mare e alle violenze dei trafficanti, prima di arrivare in Europa. Questo pensa Abdel, 38 anni, algerino, mentre si sfrega le mani per il freddo e si siede su una panchina di Oulx ad aspettare l’autobus che lo porterà a Claviere, da dove inizierà l’ultimo tratto di strada nei boschi per arrivare in Francia.
Nell’ultimo anno, migliaia di persone, come Abdel, hanno tentato di attraversare il confine italo-francese in alta valle di Susa, in seguito all’intensificazione dei controlli a Ventimiglia, a partire dall’estate 2017. L’obiettivo è uno solo: vivere in Francia o continuare il viaggio verso il Nord Europa.
Rotte che cambiano
Fino a gennaio 2018 i migranti provavano ad arrivare a Briançon attraverso il colle della Scala e Nevache, iniziando il percorso da Bardonecchia. Le grandi nevicate dell’inverno e il rischio slavine hanno convinto i viaggiatori a cambiare rotta e passare dal Monginevro, che permette di raggiungere Briançon su sentieri più sicuri, anche se maggiormente controllati dalla gendarmerie francese.
Abdel ha già provato la traversata ieri sera, ma è stato respinto dalla polizia al Monginevro. Determinato a viaggiare verso la Francia, ha deciso di ritentare l’attraversamento oggi, dopo essersi riposato nella saletta di prima accoglienza a Bardonecchia messa a disposizione dal comune nei locali della stazione, gestita da due referenti migranti della Recosol (Rete dei comuni solidali), il sudanese Moussa Khalil Issa e il camerunense Roland Djomeni, e dai medici dell’Ong Rainbow for Africa, che forniscono assistenza sanitaria. «La gendarmerie continua a respingermi – spiega Abdel in un buon italiano -. Eppure io ho il permesso di soggiorno per motivi umanitari valido in Italia, per cui non capisco perché non possa andare in Francia».
Senza visto
Sulla carta, una persona non europea con regolare permesso di soggiorno può varcare i confini di tutti gli stati dell’Unione senza richiesta di visto turistico. Tuttavia, nei fatti, con l’esacerbazione dei controlli alle frontiere interne all’area Schengen, ripristinati dalla Francia a partire dal 2015, in seguito agli attacchi terroristici e alla crisi migratoria, anche chi possiede i documenti di viaggio corretti può essere respinto, se non è in grado di dimostrare risorse economiche sufficienti a giustificare il periodo di turismo. Con la sospensione della libera circolazione, la Francia è diventata una roccaforte irraggiungibile per i migranti che, come Abdel, non hanno intenzione di rimanere in Italia. «Ho vissuto in Italia per 8 anni, ma oggi il mercato del lavoro non offre opportunità e quindi, visto che parlo francese, e ho tanti amici in Francia ho pensato di provare la fortuna lì». Eppure ad Abdel è preclusa la possibilità di un lavoro regolare in Francia perché, secondo il regolamento di Dublino, i migranti possono richiedere asilo politico solo nel paese di arrivo, che, in caso di approvazione della domanda, diventa l’unico stato dell’Unione in cui possono lavorare regolarmente, mentre negli altri paesi possono viaggiare come turisti.
Abdel lo sa e pensa che sia meglio lavorare in nero piuttosto che non lavorare affatto e quindi accetta il rischio. In fondo, lui possiede un permesso di soggiorno e, nel peggiore dei casi, dovrà accettare l’idea di rimanere in Italia.
Le vittime di Dublino
Diversa è la situazione di Abu, 18 anni, originario del Ghana. In mano non ha documenti. Arrivato a Lampedusa nel 2017 ha fatto richiesta di asilo, poi è scappato dal centro di accoglienza, stufo di aspettare il giorno di esame della sua pratica, che dopo mesi di attesa, ancora non era arrivato. Ora è vicino al confine francese e sta pensando se attraversarlo. A farlo ragionare sui pro e contro della sua scelta ci pensano i referenti della Recosol.
«Noi informiamo le persone dei loro diritti in Italia – spiegano Roland e Moussa -. In particolare, ricordiamo ai richiedenti asilo politico che se migrano in Francia e non si presentano in questura per la valutazione del proprio caso, perdono il diritto di avere un permesso valido in Italia e non potranno fare un’altra richiesta d’asilo in Francia, rischiando di vivere da sans papiers». La norma che impone di fare domanda d’asilo nel primo paese d’accesso, prevista dal regolamento di Dublino, è responsabile dei tentativi di fuga dai centri di accoglienza di chi, sbarcato in Italia, Grecia e Spagna, ambisce a richiedere asilo politico in Francia o in altri paesi del Nord Europa, non sapendo che di fatto non potranno fare nuovamente domanda. In questi mesi, il parlamento europeo sta lavorando a una riforma di Dublino, che prevede la sostituzione del criterio del primo paese d’accesso con un meccanismo di ricollocamento delle persone negli altri stati europei, secondo un sistema di quote e di legami tra migrante e paese di destinazione. Tuttavia, la riforma è in discussione e il risultato si vede alla frontiera italo-francese dove donne, bambini e uomini cercano di superare il confine illegalmente, convinti che un altro modo non ci sia. E in effetti, non c’è. Senza permesso di soggiorno non è possibile muoversi in Europa, neppure facendo riferimento a un eventuale passaporto rilasciato nel paese d’origine. Così ha pensato anche Abu, che alla fine ha deciso di affrontare la frontiera. Abu non ha il passaporto del Ghana, ma anche se lo avesse ottenuto, avrebbe dovuto chiedere un visto turistico alla Francia che glielo avrebbe negato per mancanza dei requisiti economici, la stessa mancanza che lo ha spinto a lasciare il proprio paese.
Il «potere» del passaporto
Il «Passport Index 2018», la classifica annuale dei passaporti secondo il potere di circolazione senza richiesta di visto, stilata dall’impresa Arton Capital, riporta che il passaporto ghanese permette di viaggiare solo in 61 stati senza richiesta di visto, nessuno dei quali è in Europa. Invece, il passaporto italiano apre le frontiere di 161 paesi. Questo determina che nascere in Italia o in Ghana divide automaticamente le persone in serie A e serie B. E chi ha un passaporto di serie B, come Abu, non gode della libertà di movimento, per cui risulta obbligato ad affidarsi a reti di traffico illegale e a un viaggio insicuro.
Invasioni francesi
Per tutto l’inverno, i migranti respinti alla frontiera di Claviere, o al traforo del Frejus, sono stati trasportati dalla Gendarmerie di fronte al ricovero di Bardonecchia, secondo una prassi dei militari francesi non concordata con la polizia italiana. Prassi che ha portato a un attrito scoppiato il 30 marzo scorso, quando la Gendarmerie ha fatto irruzione nel punto di accoglienza a Bardonecchia, per svolgere gli esami delle urine su un ragazzo nigeriano, fermato sul Tgv in direzione Roma, sospettato di essere un consumatore e corriere di droga. L’operazione, che ha portato alla liberazione del ragazzo per mancanza di prove, si è svolta sotto gli occhi dei volontari e dei mediatori del punto di accoglienza. Sebbene sia sempre stato rispettato l’accordo di cooperazione Italia-Francia che permette alle rispettive forze di polizia di svolgere controlli coordinati su migranti nelle zone di frontiera, il 30 marzo si è rischiato di mettere in discussione le relazioni diplomatiche tra i due stati per omissione di comunicazione alla polizia italiana dell’operazione gestita dai militari francesi sul nostro territorio nazionale. Il fatto ha evidenziato la tensione che negli ultimi mesi si è generato alla frontiera franco-italiana in alta valle di Susa. «Le relazioni diplomatiche tra i paesi di frontiera sono rimaste ottime – commenta a due mesi dall’accaduto Francesco Avato sindaco di Bardonecchia -. I fatti del 30 marzo non hanno inciso negativamente sull’operatività del nostro lavoro, anzi siamo riusciti a concordare che la polizia francese non possa più trasportare alla nostra stazione i migranti, di cui ora si occupa la polizia italiana. I fatti hanno permesso comunque di portare in agenda internazionale ed europea la situazione migratoria sulla nostra frontiera».
Uomini e numeri
I flussi di migranti in alta valle di Susa sono altalenanti. A partire da maggio 2018 i numeri si sono ridotti, sia nel ricovero di Bardonecchia, sia alla stazione di Oulx. «Oggi calcoliamo una media di circa 6 o 7 passaggi al giorno – commenta il sindaco di Oulx Paolo De Marchis -. Tuttavia, potrebbero aumentare con la riapertura del Colle della Scala, nel periodo estivo. Su quel versante della montagna è più facile passare inosservati ai controlli».
Fino a marzo 2018, nella sala di accoglienza di Bardonecchia transitavano 15 o 20 persone al giorno. Guinea Conakry, Mali, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana sono gli stati di provenienza della maggior parte dei migranti, anche se, nei mesi primaverili, sono aumentate le persone originarie di Iraq, Bangladesh e Pakistan. Sebbene i numeri della migrazione che si muove su rotte irregolari siano difficili da documentare, i volontari e gli attivisti di «Chez Jesus», che a marzo 2018 hanno occupato il sottoscala della chiesa di Claviere installando un rifugio per migranti in transito, hanno visto il passaggio di centinaia di persone. A fronte di picchi di flusso tra le frontiere interne all’Europa, si è verificata una riduzione degli arrivi via mare. Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), dal 1 al 23 maggio 2018 si sono verificati 1.240 sbarchi sulle coste italiane a fronte dei 22.993 di maggio 2017. Stessa tendenza al ribasso anche in aprile con 3.171 arrivi del 2018, rispetto ai 12.943 del 2017. Come Abdel e Abu, la maggior parte delle persone che cercano la Francia, dal confine dell’alta valle di Susa, hanno deciso di rimettersi in viaggio, dopo aver vissuto un periodo in Italia.
Morti di frontiera
L’intensificazione dei controlli alla frontiera da parte della polizia francese, se sulla carta ha l’obiettivo di limitare la tratta e la migrazione illegale, di fatto ha inasprito la situazione e spinto i migranti a cercare pericolosi punti di accesso alla frontiera. E se, nei mesi del grande freddo, i volontari del Soccorso alpino hanno dato fondo alle proprie forze per evitare tragedie umane in montagna, proprio mentre la neve sta lasciando spazio al verde della primavera, a maggio 2018 si sono verificate le prime due vittime del viaggio migratorio. Entrambe le persone hanno perso la vita in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano. Mathew Blessing, ventunenne nigeriana, è caduta nel fiume Durance mentre cercava di raggiungere Briançon, mentre Mamadou, un ragazzo senegalese, è morto di sfinimento dopo tre giorni che vagava per i sentieri oltre il valico del Monginevro. A marzo era morta anche Beauty, ragazza nigeriana incinta affetta da linfoma in stato terminale che, a pochi giorni dallo spegnersi, aveva tentato di camminare nella neve per arrivare fino in Francia, prima di essere respinta dalla Gendarmerie, che l’ha trasportata a Bardonecchia dove i medici di Rainbow for Africa hanno attivato i soccorsi. Beauty è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino, dopo aver dato alla luce sua figlia. Il suo sogno era partorire in Francia, dove vive sua sorella.
E mentre le notizie delle morti si succedono, le frontiere rese invisibili da Schengen nel 1995 ritornano a innalzarsi su un’Europa inespugnabile, costituita da nazioni che sembrano negare quegli stessi diritti umani che hanno contribuito a teorizzare dopo la rivoluzione francese.
Reato di solidarietà
Intanto di fronte al peregrinaggio silenzioso dei migranti, la frontiera si anima di persone e opinioni contrastanti. E se da un lato si rafforzano spinte nazionaliste, ben riassunte dalla massiccia presenza di esponenti della destra di GénérationIdentitaire che sul confine italo-francese manifesta la propria opposizione ai movimenti migratori al grido «Defend Europe», dall’altro lato, gli attivisti di Briser les frontières, la rete che promuove la libera circolazione degli esseri umani, oggi divisa nei due collettivi Chez Jesus e Valsusa oltre confine, porta il proprio sostegno ai migranti offrendo cibo, vestiti e suggerimenti di viaggio, promuovendo una «Welcoming Europe» e ribadendo che «la solidarietà non è reato».
Eppure si può venire accusati di «reato di solidarietà». È successo a Benoît Duclos, cittadino francese che rischia una condanna a 5 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver trasportato all’ospedale di Briançon una donna incinta bloccata nella neve a Claviere. Stessa cosa è accaduta a Eleonora, Theo e Bastien che, dopo aver partecipato a una manifestazione ad aprile per promuovere l’apertura delle frontiere, sono stati accusati dalla polizia francese di favoreggiamento di immigrazione clandestina in banda organizzata. Il procedimento contro i tre ragazzi e Benoît mette sullo stesso piano chi compie atti umanitari e i passeur delle reti di contrabbando e di tratta, che richiedono pagamenti elevati a chi cerca di andare in Francia. Tuttavia, sono agli antipodi le motivazioni di chi, convinto che le frontiere non debbano esistere, cerca di dare una mano gratuitamente a un migrante che rischia di morire sui sentieri di montagna e di chi, al contrario, sfruttando i muri alzati dalla Francia e la mancanza di un’universale uguaglianza nella libertà di movimento, prova a lucrare sul dolore dei migranti.
Simona Carnino
Il Gomni in Tanzania: Il Vangelo «pratico» del servizio
Testo di Marco Bello e foto Archivio Gomni |
(Il Gomni) Nasce un po’ per caso. Come le grandi storie. Poi diventa l’impresa di una vita. Un gruppo missionario molto «operativo». Lo è ancora oggi, dopo più di 30 anni. Principi saldi e perseveranza. Ispirato a suor Irene Stefani e nessun margine al compromesso. E, sempre: fare il bene senza farsi pubblicità. Ne parliamo con Giuseppe Lupo, uno dei fondatori.
«Quando mia figlia ha compiuto cinque anni, ha iniziato ad andare all’asilo delle suore della Consolata in corso Allamano (a Torino, ndr.). Grazie a questo, io e mia moglie Maria abbiamo fatto amicizia con suor Idelma, la sua insegnante. Ma un giorno, senza preavviso, ci ha detto che sarebbe partita per la Tanzania». Chi racconta è Giuseppe Lupo, universalmente conosciuto come Pino, e parla di un «inizio», di qualcosa che gli sta molto a cuore. Pino e Maria avevano creato un’azienda nel settore delle forniture idrauliche, dove erano impegnati entrambi tutta la giornata.
All’inizio fu un viaggio
Corre l’anno 1986, Pino continua: «Suor Idelma cominciò a scriverci delle lettere con le sue prime esperienze di missione e noi le rispondevamo. Così iniziai a incuriosirmi di questo paese e dell’Africa in generale, continente di cui sapevo poco o nulla. Di fatto io non avevo mai viaggiato». Poi Pino prende il coraggio a due mani e decide di andare a trovare suor Idelma. Soprattutto vuole andare a vedere l’Africa. Un viaggio che dura – ricorda con precisione – «34 giorni», e che cambia qualcosa in lui. Qualcosa che a 32 anni di distanza ancora non sa spiegare. «Ero tornato da poco e durante una festa di battesimo, un tizio mai visto mi avvicinò: “Sei tu quello che è stato in Africa?”, chiese. Così cominciammo a parlare. Voleva sapere tutto. Alla fine della festa mi disse che se fossi partito di nuovo, sarebbe venuto. E così fu». Così si crea un gruppo di persone interessate alla missione.
Il Vangelo come servizio
Pino è disorientato. Insieme agli amici sente che deve fare qualcosa per «condividere» con le sorelle e i fratelli africani incontrati in Tanzania. Anni dopo scriverà: «Ogni attività nasce da un incontro con persone, luoghi, situazioni complesse e gravi che possono essere comprese nell’umiltà del cercare di calarsi dentro», e anche: «Occorrono iniziative idonee a modificare le cause di povertà creando sviluppo», e «Si crea così la possibilità di un cammino comune e di uno scambio profondo di esperienze».
Con Maria si rivolgono ancora una volta alle suore della Consolata e incontrano suor Gianpaola Mina. È lei che parla loro della beata Irene Stefani: «Siamo rimasti immediatamente ispirati dalla vita di suor Irene», commenta Pino. Così, insieme agli amici, Pino e Maria creano il «Gruppo operativo missionario Nyaatha Irene», Gomni in sigla, dove Nyaatha, ovvero madre misericordiosa, è l’appellativo che gli africani davano a suor Irene.
Racconta Pino: «Suor Mina ha aiutato il gruppo a nascere e a formare lo statuto. Ci disse: “Non potete chiamarvi Gruppo Irene, perché voi non sarete mai un gruppo esclusivamente di preghiera, voi porterete il Vangelo dando servizio, lavorando con la carità. Sarete un gruppo operativo missionario”. E in effetti ci aveva azzeccato».
Gruppo «di carità»
Un altro principio fondamentale deciso fin da subito è che «non saremo mai né onlus né Ong – ricorda Pino -, ma un gruppo di carità». Questo per «non scendere a compromessi», perché l’associazione vuole «vivere di carità, dando carità». Rifiuta dunque di entrare nel «business» o, più benevolmente, nel settore, della cooperazione internazionale. E il Gomni riesce a mantenere la promessa per tutta la sua storia, nonostante non sia facile, perché qualcuno che ha tentato la virata c’è stato, ma poi ha prevalso lo spirito iniziale.
Una scelta, quella del nome, che chiarisce le intenzioni della neonata associazione. I suoi fondatori si sentono ispirati anche dal beato Giuseppe Allamano. E in particolare fanno loro il motto «Far bene il bene, senza far rumore», senza spazio al compromesso. Non si fanno pubblicità, non mettono bandierine (come invece fanno molte associazioni). E chi prova a farlo viene riportato sulla retta via. «Anche se noi non ci facciamo conoscere, sono in molti che ci conoscono», ricorda Pino.
Subito operativi
Il Gruppo operativo parte, e fa onore al suo nome. Inizia una collaborazione con alcuni missionari della Consolata in Tanzania. I primi progetti sono del 1988 a Kibao e Iringa. Viene realizzato un intero acquedotto che alimenta un ospedale, un dispensario e diverse case, e un impianto elettrico per le stesse strutture. Poi si continua lavorando con la diocesi di Njombe. «Ci basiamo sempre su strutture locali, su persone che si dimostrino strumenti di promozione umana e comunitaria, in modo da coinvolgere la popolazione sempre da protagonista e non solo come beneficiaria».
Il Gomni ha alcuni principi molto chiari, come il fatto che con le sue attività non vuole «creare un circolo vizioso di dipendenza da assistenza, ma piuttosto intraprendere iniziative e attività concrete per uno sviluppo autogestito in loco». Ovvero, aiuto sì, ma condivisione e protagonismo attivo della gente coinvolta, che sia comunità, affinché «con il tempo assuma pieno coordinamento dei progetti, nella promozione del bene comune». Concetti molto avanzati per la fine degli anni ‘80.
Importanti, nella fase iniziale, sono i consigli di padre Franco Cellana. «Lo conobbi in Tanzania nel 1989, poi lo ritrovai a Torino nel ‘91». Nei primi anni ’90 padre Franco è responsabile dell’animazione missionaria in Casa Madre. La grande esperienza di Africa, come missionario, aiuta il gruppo nei primi fondamentali orientamenti. «Ci confrontammo sul fatto che lavorare con i missionari va bene, ma quando il missionario parte, la missione tende a decadere. Fondamentale è dunque far crescere la gente, che è anche la cosa più difficile che ci sia».
Puntare sempre allo sviluppo della persona, attraverso la formazione, e poi il lavoro, quindi la conoscenza di un mestiere: «Orientare ogni attività verso la crescita in dignità della persona, nella convinzione che ciascuno può realizzarsi pienamente».
È padre Franco a presentare al gruppo l’allora vescovo di Njombe, monsignor Raymond Mwanyka, incontro fondamentale.
I progetti diventano delle vere e proprie collaborazioni sul lungo periodo, relazione, amicizia, scambio. Numerose sono le attività con la diocesi di Njombe, Sud Ovest del paese, a partire dal 1992. Una collaborazione che continua ancora oggi. Diventano decine i viaggi di Pino e degli altri soci per portare avanti lo scambio, creare fratellanza, ma anche realizzare progetti concreti: ospedali, impianti fotovoltaici, acquedotti, dighe e impianti idraulici, centri di formazione, falegnamerie, ma anche formazione di giovani promettenti ai mestieri, ecc.
Un altro degli approcci del Gomni è infatti quello di formare, per creare lavoro, micro impresa si dice oggi nel gergo della cooperazione, in modo da permettere alle persone di avere un reddito e poter vivere con dignità nella propria terra. Una visione all’avanguardia, se si pensa che il sistema della cooperazione internazionale allo sviluppo arriverà a questi concetti solo diversi anni dopo.
Un riferimento solido
Pino è fiero di aver portato sua figlia, la prima volta all’età di 7 anni, in Tanzania, e poi di averla riportata tante volte, così che lei «è cresciuta un po’ in Africa, e riesce a trasmettere certi valori ai suoi figli, ora che è diventata mamma».
Oggi il gruppo Gomni ha circa 80 aderenti di cui 7 o 8 pienamente operativi. Tutti volontari che si pagano ogni viaggio e ogni attività. Oltre alla base di Torino hanno delle «antenne» a Milano, Roma, Treviso.
Il gruppo è cresciuto intorno all’Istituto Missioni Consolata. A Torino le guide spirituali del gruppo sono state missionarie e missionari della Consolata e l’Istituto è sempre stato un riferimento centrale. Da suor Mina a suor Leottavia, da padre Franco a padre Francesco Bernardi e padre Giacomo Mazzotti. In filo rosso che ha guidato il Gomni nelle sue tre decadi di esistenza.
Anche se non vuole diventare Ong, il Gruppo Irene (come viene definito famigliarmente) collabora con enti, onlus e Ong. Talvolta riceve finanziamenti, altre volte, al contrario, si impegna a cercare materiali e fondi necessari per un progetto, finanziando attività di un altro ente. Ma sempre «senza far rumore». In questo modo, con aiuti puntuali, Gomni è intervenuto anche in Kenya, Romania, Brasile ed Haiti.
Un centro per suor Irene
Nel 2016 nasce un progetto integrato con la parrocchia di Mkiu, 80 km a Sud Ovest di Njombe. Il progetto prevede una prima fase, quella attuale, nei settori agricoltura e artigianato. Si tratta di creare le condizioni affinché i giovani possano formarsi in diversi ambiti: agricoltura, allevamento, falegnameria, carpenteria, taglio e cucito, informatica. Ovvero realizzare infrastrutture, iniziare attività che generino reddito e fare formazione.
Pino ci ricorda che: «Noi pensiamo che le persone debbano saper lavorare, ma anche saper gestire il lavoro, in modo che dia loro reddito. E poi saper gestire questo reddito». Concetti molto concreti, ma non facili da realizzare. In ogni caso molto pertinenti per la situazione che vivono i giovani nella diocesi di Njombe.
E così in questo villaggio di 4.000 persone più altrettante nei villaggi del circondario facenti parte della parrocchia, nello splendido scenario dei monti Livingston, immerso in una natura mozzafiato, il Gruppo Irene ha iniziato una serie di attività: un allevamento di vacche, maiali, polli, bacini di piscicoltura, apicoltura, riforestazione, laboratorio di falegnameria e costruzioni metalliche.
Il progetto a Mkiu è centrato attualmente sulla figura di padre Innocente Ngaillo, detto padre Inox, diocesano. Padre Inox ha passato alcuni mesi in Italia nel 2016 per motivi di salute, ed è nata questa idea con il Gomni, subito chiamata: «Centro agricolo – artigianale Irene Stefani».
«Abbiamo parlato con il vescovo, mons. Alfred Leonhard Maluma e ci ha garantito che padre Inox potrà restare a Mkiu per il tempo necessario a formare alcune persone locali alla gestione di quest’opera. Non ha senso realizzare grandi opere se poi non c’è nessuno che possa gestirle. Il nostro obiettivo è proprio far crescere le persone».
Ma come si finanzia un gruppo che fa carità? «Di carità, ovvero di donazioni di amici, persone, aziende, associazioni che vengono a conoscere i nostri progetti con il passaparola. È sempre stato così. Abbiamo dei tempi lunghi ma portiamo a compimento i nostri programmi. E non abbiamo vincoli ne obblighi, se non con il nostro statuto, i nostri principi e la nostra coscienza».
Nell’arco di questi 32 anni molte sono state le persone che hanno condiviso un percorso, anche lungo, con il Gomni. Poi magari hanno lasciato, o sono andati a creare altre realtà.
Dietro al front man Pino Lupo c’è sempre stata sua moglie Maria, «organizzava dietro le quinte, ma è pure stata spirito e motore propulsivo del gruppo». Maria è tornata alla casa del Padre nel 2006, ma Pino ha continuato a sentirla al suo fianco e a lottare insieme a lei per questo sogno: una condivisione e uno scambio, che deve essere alla pari, con l’Africa e gli africani. «Quelle lettere mensili di suor Idelma, che ci portavano i suoi problemi di missione in casa, sono diventate la nostra vita».
Marco Bello
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L’economia soffocata dalla finanza
Testo di Francesco Gesualdi a presentazione del nuovo documento vaticano su Economia e Finanza |
Lo scorso 17 maggio è uscito un documento vaticano – «Oeconomicarne et pecuniariae quaestiones» – che affronta un tema economico difficile quanto fondamentale. Quello della finanza che scalza l’economia reale. Una situazione che ha provocato enormi guasti e che non è più sostenibile. È tempo di etica, regolamenti e limitazioni.
Il papato di Francesco si caratterizza per una forte attenzione all’economia. Nell’introduzione a Potere e denaro di Michele Zanzucchi, il papa spiega: «L’economia è una componente vitale per ogni società, determina in buona parte la qualità del vivere e persino del morire, contribuisce a rendere degna o indegna l’esistenza umana».
Un aspetto che oggi rende l’economia particolarmente ingiusta e instabile è l’espansione della finanza che «soffoca l’economia reale». Il che – è scritto nel documento Oeconomicarne et pecuniariae quaestiones – «reclama da una parte un’adeguata regolazione delle tematiche economiche e finanziarie, e dall’altra una chiara fondazione etica, che assicuri al benessere raggiunto quella qualità umana delle relazioni che i meccanismi economici, da soli, non sono in grado di produrre». Così il testo elaborato dalla «Congregazione per la Dottrina della fede», assieme al «Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale», e apparso il 17 maggio 2018. Un documento breve, ma denso, che oltre a spiegare perché la finanza deve essere riformata, traccia alcune linee di intervento.
Produzione e finanza, due mondi diversi
Parlare di finanza non è facile. È un mondo complesso, per non dire malato, affollato da pescecani ossessionati da un unico obiettivo: guadagnare sempre di più non attraverso la produzione e commercializzazione di nuovi beni e servizi, ma attraverso la rendita, la variazione dei prezzi, l’accaparramento dei soldi altrui, l’espansione di valore del patrimonio accumulato. La finanza, quindi, prima che un insieme di tecniche è un cambio di visione economica: è lo spostamento dell’attenzione «dal pesce alla canna». O per usare un’altra metafora, il cavallo non interessa più per i pesi che può portare, ma per la pelle che se ne può ricavare. Nella logica produttiva l’attenzione è rivolta a ciò che si produce, seppur espresso in termini monetari per pura comodità contabile. Nella logica finanziaria, invece, l’attenzione va ai valori monetari in quanto tali, un cambio di prospettiva che, se prende il sopravvento, può stritolare l’economia reale, come fa il boa con la sua preda. Ad esempio, da quando l’attenzione si è spostata dalla capacità produttiva, al valore patrimoniale delle imprese, si fa di tutto per fare risultare profitti alti pur di fare aumentare il valore delle azioni. Per questo i licenziamenti sono salutati con favore mentre si fa sempre più alta la tentazione di truccare i bilanci. Nella stessa logica si assiste a smembramenti di aziende che in un’ottica produttiva dovrebbero costituire un tutt’uno, ma in quella finanziaria sono frantumate per vendere meglio quei rami più appetibili che permettono l’incasso immediato. È un po’ come demolire il tetto in legno per fare fuoco, rendendoci conto dell’errore commesso solo quando ci pioverà in testa.
La finanza come scommessa: i «futures»
Un’altra espressione dell’economia finanziaria, con ampie ripercussioni negative sull’economia reale, è la scommessa che assume caratteristiche ogni volta diverse a seconda del contesto in cui si concretizza. In ambito commerciale, uno degli strumenti più diffusi è quello dei futures, impegni a vendere o a comprare, non perché si è interessati al bene trattato, ma unicamente al suo prezzo. Il future è un impegno a comprare o a vendere a data futura secondo un prezzo predeterminato. Se scommetto sul rialzo mi impegno a comprare a prezzo basso; se scommetto sul ribasso mi impegno a vendere a prezzo alto. Al momento di chiudere il contratto, se la controparte vuole effettivamente la transazione del fisico, mi organizzerò per disporne. Se avevo promesso di comprare, comprerò dal mio cliente al prezzo basso pattuito e rivenderò sul mercato al prezzo alto del momento. Se mi ero impegnato a vendere, comprerò sul mercato ciò che mi serve al prezzo basso del momento e rivenderò al mio cliente a prezzo alto previsto nel contratto. Solitamente, però, i futures si chiudono senza transazioni del fisico, ma con un semplice esborso da parte di chi ha perso a vantaggio di chi ha vinto. Tuttavia, il dramma dei futures è che il loro volume è diventato talmente ampio da condizionare di fatto i prezzi dei beni su cui sono costruiti. Nel caso del caffè il valore commercializzato dai futures è 28 volte superiore alla produzione mondiale, per cui è ovvio che chi ha interesse a fare alzare o abbassare il suo prezzo ha la possibilità di farlo mettendo i piccoli produttori in una posizione di incertezza permanente.
La finanza pro fallimento: i «Cds»
Rispetto alla miriade di strategie finanziarie esistenti, il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, si concentra in particolare su alcune di esse fra cui i Cds (Credit Default Swaps) e le cartolarizzazioni. Volendo metterla semplice, i Cds sono forme di assicurazione sulla possibilità di fallimento, ma non della propria azienda, bensì di quella altrui. E come il marito che fa l’assicurazione sulla morte della moglie può avere la forte tentazione di ucciderla, allo stesso modo, chi si assicura contro il fallimento di un altro, può avere la forte tentazione di farlo fallire per riscuotere il premio. È successo nel 2009-2010 contro la Grecia da parte dei fondi speculativi. Visto lo stato di dissesto della Grecia, i fondi prima hanno stipulato contratti assicurativi per tutelarsi contro il fallimento greco, poi hanno sferrato un attacco speculativo contro la Grecia per farla fallire davvero. Guadagnando quindi su due fronti: quello assicurativo e quello speculativo. La conclusione della «Congregazione per la Dottrina della fede» è netta: «Quando da simili scommesse possono derivare ingenti danni per interi paesi e milioni di famiglie, si è di fronte ad azioni estremamente immorali ed appare quindi opportuno estendere i divieti già presenti in alcuni paesi per tale tipologia di operatività, sanzionando con la massima severità tali infrazioni».
La finanza e i mutui: le «cartolarizzazioni»
Lo stesso atteggiamento di condanna, la Congregazione lo riserva al sistema delle cartolarizzazioni, che è alla base dello tsunami che investì il sistema bancario occidentale nel 2008, trascinando nella crisi l’intero sistema economico mondiale. La storia sarebbe lunga, ma per farla breve diciamo che fra il 2001 e il 2005 la Banca centrale statunitense attuò una politica di bassi tassi di interesse che stimolò il sistema bancario americano a offrire mutui a tasso molto basso per l’acquisto della casa. Le famiglie che aderirono all’offerta furono così tante che le banche dovettero inventarsi un modo per disporre di tutto il capitale necessario per rispondere alle richieste. La soluzione che trovarono si chiama cartolarizzazione, che significa, richiesta di nuovi prestiti al grande pubblico dando in garanzia i mutui già concessi. Come dire: le famiglie che mi devono i soldi garantiscono che io banca restituirò ciò che mi avete dato. La proposta funzionò: di investitori disposti a prestare alle banche prendendo a garanzia i mutui delle famiglie americane ce ne furono tanti. Ma per completare il quadro va detto che l’operazione di cartolarizzazione fu affidata a banche come Goldman Sachs e JP Morgan che, facendo di mestiere gli intermediari, guadagnavano sulle commissioni di vendita. Ed è a questo punto che si verificò il paradosso: pur di incassare commissioni, le banche di intermediazione stimolarono le banche commerciali a moltiplicare i mutui concessi in modo da moltiplicare le cartolarizzazioni. Una volta esaurite le famiglie benestanti, vennero convinte ad indebitarsi quelle più povere, di certo incapaci di restituire il mutuo. Ma questo dettaglio fu taciuto e, all’insaputa di tutti, la macchina delle cartolarizzazioni continuò a piazzare richieste di finanziamento basate su garanzie fasulle. E, al colmo dell’inganno, le agenzie di rating (Mody’s, Standard and Poor’s, Fitch), quelle che danno voti sulla solidità dei certificati finanziari, asserirono che le garanzie c’erano, ed erano altissime. Purtroppo per noi, anche le banche europee avevano investito montagne di soldi in questo genere di prodotti che risultarono carta straccia quando si seppe che le garanzie erano fornite da famiglie americane che vivevano di stenti. Inganno, opacità e complessità degli accordi contrattuali sono alla base della truffa subita addirittura da parte di prestigiosi istituti bancari.
Contro questa finanza: alcune proposte
Per evitare il ripetersi di una simile situazione pagata da tutti, la «Congregazione per la dottrina della fede» fa varie proposte, fra cui più trasparenza, creazione di comitati etici all’interno degli istituti bancari, meccanismi di maggior controllo sulle cartolarizzazioni, la creazione di organi di certificazione pubblica, l’esclusione dal mercato di operazioni gestite da entità finanziarie non controllabili perché domiciliate nei paradisi fiscali.
E per venire a ciò che possiamo compiere come individui, il documento Oeconomicarne et pecuniariae questiones ci ricorda di non sottovalutare lo spazio di scelta che abbiamo non solo nell’ambito del consumo, ma anche del risparmio, in modo da fare crescere le esperienze di finanza al servizio della persona come «il credito cooperativo, il microcredito, così come il credito pubblico a servizio delle famiglie, delle imprese, delle comunità locali e il credito di aiuto ai paesi in via di sviluppo».
Francesco Gesualdi
Le due Gambo: l’ospedale in Etiopia e la borgata nelle Langhe
Testodi Ugo Pozzoli su l’incontro tra Gambo in Etiopia e Gambo nelle Langhe |
Incontro Enza Fruttero per la prima volta nel suo laboratorio, nel più grande ospedale di Torino. Ha un sorrisone stampato sulla faccia, proprio di chi sta per andare in pensione e di chi ti sta parlando di una delle grandi passioni della sua vita. Interessante – mi viene da pensare. È sempre coinvolgente ascoltare persone che ti raccontano la missione in prima persona e lo fanno con la luce negli occhi, come se non avessero trovato senso a fare null’altro nella vita.
«Ma tu sei mai andato a Gambo?», mi chiede, quasi per capire se vale la pena di parlare con chi si trova davanti. In effetti, sono stato a Gambo non molto tempo fa. Ricordo bene la missione, l’ospedale, fratel Francisco Reyes, medico e missionario della Consolata allora incaricato della struttura, le suore, la fattoria, le scuole… e la grandissima sensazione di vuoto provata in quell’occasione.
Un giorno intero, passato a vagolare nell’ospedale deserto insieme a Francisco, mio cicerone, che mi dicenva: «Immagina questo reparto stracolmo di gente, queste sale operatorie in continua attività… in questo cortile la gente si accampa… tantissime persone». Quel giorno l’ospedale di Gambo era tutto vuoto. Pochi malati facevano la fila al pronto soccorso, alcuni degenti nei reparti, i lebbrosi visitati a casa loro. Era la festa del compleanno del Profeta e questo spiegava la vacanza dalle scuole, il personale quasi tutto a casa, l’ospedale deserto. Del resto Gambo si trova in Oromia, una vasta regione dell’Etiopia a maggioranza musulmana.
Ciò che non ho potuto vedere quel giorno mi è successivamente diventato familiare grazie ai racconti di Enza Fruttero, biologa, le ferie degli ultimi vent’anni «consumate» in Africa a organizzare un laboratorio ben diverso dal suo di Torino, quello di un piccolo dispensario sperduto nella foresta, al servizio dei lebbrosi, diventato poi un ospedale, punto di riferimento e segno di speranza per gran parte della popolazione circostante.
Lì, il giorno del compleanno di Maometto del 2013, è iniziata la mia storia con Gambo, un luogo divenutomi poi familiare pur non avendoci più rimesso piede.
I tanti amici e volontari, medici e tecnici specializzati che dedicano tempo, energia e sapere allo sviluppo dell’ospedale, mi hanno reso un servizio prezioso, raccontandomene ciascuno un pezzetto, narrando motivazioni, esperienze, successi e sovente non poche difficoltà. Gambo è soprattutto la loro storia, così come è la storia di tante persone che da varie parti del mondo hanno contribuito finanziariamente e spiritualmente per costruire, pezzo dopo pezzo, una struttura di eccellenza al servizio dei più poveri.
Dell’Ospedale di Gambo si è molto parlato anche su questa rivista. Dal 1974, infatti, i missionari della Consolata ne hanno la gestione, continuando a offrire ininterrottamente un servizio di promozione umana che completa in modo perfetto l’azione di annuncio e accompagnamento pastorale della missione. Nel corso di questi anni, si sono portate avanti molteplici attività per finanziare e appoggiare gli operatori locali con il servizio di una cinquantina di medici e specialisti provenienti da Spagna, Italia e Olanda che si danno il turno durante l’anno e quello di tecnici e manutentori in grado di consentire l’operatività della struttura in un ambiente complesso come quello in cui sorge.
Da Gambo a Gambo
«Ma tu sei mai andato a Gambo?». Questa volta a chiedermelo è la dottoressa Paola Palesa. È stata Enza a presentarmela. Si sono conosciute a un master di bioetica e l’entusiasmo di Enza ci ha messo poco a far breccia anche nel cuore di Paola. Racconto nuovamente la piccola, quasi insignificante, storia del mio rapporto diretto con Gambo, ma anche le tante occasioni di contatto indiretto che sono maturate in questi anni.
Enza e Paola mi parlano di un’iniziativa che potrebbe prendere piede se decidiamo di unire le forze e provare a coinvolgere qualcun altro. Gambo ne ha bisogno. A Enza preme trovare i soldi per ristrutturare il villaggio dei lebbrosi che vivono intorno all’ospedale. Sono stati loro la prima vera attenzione dei missionari, il primo vero obiettivo dell’allora piccolo dispensario. Costretti a lasciare le loro famiglie e le loro comunità a causa della malattia e dello stigma che essa comporta, centinaia e centinaia di persone si sono radunate a Gambo per avere cura, ma anche protezione e autentica consolazione.
Per anni le missionarie della Consolata si sono prodigate nell’assistenza di queste persone. Adesso le case del villaggio che li ospita hanno bisogno di una seria manutenzione.
Paola vive a Torino, ma è originaria di La Morra d’Alba, terra di vino, comune con una vista mozzafiato sulle Langhe in cui viene prodotto il Barolo D.o.c. Il belvedere de La Morra è patrimonio dell’umanità, decretato dall’Unesco, roba mica da ridere. Più in basso, all’entrata del paese, a circa tre chilometri dalla signorile piazza del Castello c’è una frazione che curiosamente si chiama «Gambo». Il collegamento è presto fatto, veloce scatta l’idea: perché non proviamo a fare una sorta di gemellaggio?
Il progetto «Colline sorelle: da Gambo a Gambo. Volti e storie di Langa e di Etiopia» è nato così, dal tentativo di mettere a dialogare mondi differenti accomunati semplicemente da un nome e dall’ambiente collinare. Del resto, in questo mondo fluido in cui il «qui da noi» e il «là da loro» si perdono grazie a una maggiore facilità negli spostamenti e, soprattutto, al continuo migrare dei popoli, è bello poter pensare a un progetto in cui l’aiuto sia vicendevole, in cui ciascuno offra all’altro parte di quello che ha, ma anche di quello che è, condividendo cultura, storia, tradizioni, pensiero.
La risposta di La Morra nell’organizzazione dell’evento è stata entusiasta, amministrazione comunale e parrocchia in testa. Gli abitanti di frazione Gambo hanno acconsentito a ospitare una mostra fotografica e un concerto per celebrare i due luoghi omonimi. Sono molti coloro che hanno accettato di mettersi in gioco per aprire una finestra sul mondo.
Da domenica 1° luglio a giovedì 12, infatti, il belvedere cittadino offrirà un panorama ancora più esaltante. Lo sguardo non arriverà soltanto ai paesi dell’alta Langa, ma si spingerà fino alle «verdi colline d’Africa» che ci trasmetteranno suoni, voci, persino i sapori. Sarà divertente e, penso, interessante vedere la cucina dell’Etiopia fare capolino in uno dei centri emergenti del turismo etnogastronomico a livello europeo.
Non si ama se non ciò che si conosce: lo scopo di questi giorni e far entrare la Gambo etiope nella casa della Gambo delle Langhe, sperando che un giorno qualcuno dei tanti, che passeranno a La Morra a inizio luglio, trovi la strada per restituire la visita.
«Ma tu ci sei stato a Gambo?». Questa volta, dopo luglio, la mia risposta sarà differente: «In quale delle due?».
Ugo Pozzoli
Gambo Hospital
Comincia con un villaggio di capanne in paglia e fango, rifugio per alcune centinaia di lebbrosi. Nel 1965 diventa un lebbrosario in muratura, completato nel 1969. Dal 1972 sono presenti i missionari della Consolata. Nel 1980, su richiesta del governo, parte del lebbrosario è trasformata in ospedale generale. Il numero dei posti letto passa da poche decine a novanta con tre sezioni: lebbrosario, medicina generale, Tbc (particolare attenzione è data ai malati di tubercolosi, molto numerosi nella regione). Oggigiorno l’ospedale ha centocinquanta letti e i seguenti reparti: Tbc, lebbrosario, pediatria, medicina, maternità, chirurgia, sala operatoria, ambulatorio e servizi di laboratorio analisi, ecografia, radiologia, per la cura di circa duecentocinquanta persone al giorno. Il bacino di utenza ufficiale è di centomila persone, ma la zona di provenienza dei pazienti è molto più ampia. Oltre alle cure mediche, ai malati che accedono all’ospedale vengono offerti servizi di medicina preventiva prenatale e di terapia per i bambini malnutriti e denutriti su un territorio composto da 23 villaggi.
da www.missioniconsolataonlus.it
Fotogalleria del’Ospedale da Gambo dall’Archivio Fotografico MC
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Colline sorelle: da Gambo a Gambo
Volti e storie di Langa e di Etiopia
Iniziativa in favore dell’Ospedale/lebbrosario di Gambo Etiopia
Comune di La Morra d’Alba (CN)
Domenica 1 luglio
Ore 11 – Santa Messa presieduta da S.E. Mons. Marco Brunetti, Vescovo di Alba. Ore 12 – Inaugurazione dell’esposizione di prodotti artigianali e dipinti tipici dell’Etiopia (Chiesa di San Rocco). Orario esposizione: 10.30/12 – 14.30/18 tutti i giorni.
Ore 15 – Presentazione dell’evento: obiettivi, finalità, progetti e testimonianze (Chiesa di San Sebastiano). Partecipa p. Marco Marini, Superiore Regionale dei Missionari della Consolata in Etiopia.
Ore 17 – Concerto del Coro “Il Bell’Humore”.
Repertorio: spirituals, classico piemontese e corali sacre di Bach (Chiesa di San Martino).
Mercoledì 4 luglio
Pomeriggio: Animazione Estate Ragazzi.
Giovedì 5 luglio
Ore 16 – Animazione con diapositive e presentazione dell’iniziativa alla Casa di riposo.
Domenica 8 luglio
Ore 11 – Santa Messa. Concelebrata da don Massimo Scotto, parroco di La Morra, e p. Ugo Pozzoli, missionario della Consolata.
Ore 12 – Pranzo etiope presso l’enoteca “Vigne Bio”.
Ore 17 – Frazione Gambo: Cerimonia dell’Amicizia, con caffè etiope e baci di La Morra.
Presenti le “Lamorresine” e costumi tipici etiopi. Concerto di fisarmoniche locali.
Esibizione di tamburi e gong con Marina Gallo e Paola Simonelli (operatrici del suono).
Durante tutto il giorno: Mostra fotografica a cielo aperto:
“Le due Gambo”.
Per dettaglisulle eventuali altre iniziative
e sulla manifestazione di chiusura prevista per giovedì 12 luglio: Ufficio turistico di La Morra 0173 500344 www.lamorraturismo.it.
Fotogalleria della giornata dell’8 luglio a Gambo, La Morra
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Raposa Serra do Sol (Roraima):
Esempio di resistenza indigena
Testo e foto da Raposa di Jaime C. Patias |
Sono oltre 20mila gli indigeni che vivono a Raposa Serra do Sol, terra indigena riconosciuta nel 2005 dopo decenni di lotta. I problemi non mancano: salute, istruzione, viabilità. L’ostilità anti indigena rimane elevata e produce insicurezza e invasioni. Tuttavia, i popoli indigeni hanno imparato a difendersi. Dal 1971 i missionari della Consolata vivono al loro fianco.
A Roraima, nella regione Nord del Brasile, ad aprile le piogge iniziano a irrigare la terra riempiendo fiumi e torrenti. Nella terra indigena Raposa Serra do Sol (Ti Rss), la vegetazione rigogliosa, rallegra gli oltre 20mila indigeni Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingaricó e Patamona. Nel 2005, l’area di 1,7 milioni di ettari (pari alla regione Lazio, ndr) è stata dichiarata «protetta», cioè ad uso esclusivo degli indigeni, dall’allora presidente Lula da Silva, dopo 34 anni di lotte che sono costate la vita ad almeno 21 indigeni. È così che Raposa è divenuta un esempio di resistenza contro l’invasione bianca.
Nella Costituzione federale del 1988, lo stato brasiliano riconosce che «le terre tradizionalmente occupate dagli indigeni sono destinate al loro possesso permanente e avranno l’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, fiumi e laghi in esso esistenti» (art.231, 2). La popolazione è cresciuta sempre organizzata intorno ai propri leader, i tuxaua (figura corrispondente ai cacique, ndr), in più di 200 villaggi nelle regioni di Surumú, Sierras, Baixo Cotingo e Raposa. Nelle comunità e nelle scuole di vario grado, dove oramai quasi tutti gli insegnanti sono indigeni, la presenza di bambini e giovani colpisce l’occhio del visitatore. Circa il 60% della popolazione ha meno di 15 anni, una garanzia per il futuro che, nel contempo, comporta delle sfide.
Dalla repressione al riscatto
Nel 1977, un centinaio di tuxaua e altri rappresentanti indigeni alleati organizzarono una delle prime assemblee nella missione di Surumú, interrotta dall’irruzione dei militari. I leader indigeni non furono intimiditi da tale repressione. Si dispersero per continuare altrove l’assemblea. Questo fatto è ricordato come primo atto pubblico di resistenza e della ricerca di autonomia del nascente movimento indigeno. Molto probabilmente è per questo che nel 2005, nella stessa missione, furono bruciate la chiesa, la scuola e il centro di salute in uno dei numerosi attacchi orchestrati dagli invasori bianchi. La svolta fondamentale nella lotta è stato l’impegno «Ou vai ou racha» (o tutto o niente) quando gli indigeni, il 26 aprile 1977, riuniti a Maturuca, un villaggio a 320 km da Boa Vista, decisero di dire «no alla bevanda alcolica, sì alla comunità» avviando il processo di organizzazione che culminò nella creazione del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Un impegno che comprendeva la lotta all’invasione dei garimpeiros e degli agricoltori non indigeni.
Un grande impulso alla causa indigena è stato dato dal successo del progetto «Una mucca per l’indio», lanciato nel 1980, che prevedeva l’affidamento ad ogni comunità indigena di 52 bovini e che, a sua volta, si impegnava, dopo cinque anni, a consegnare a un’altra comunità altrettanti capi di bestiame. Questa iniziativa sostenuta dalla Chiesa cattolica e da tanti altri benefattori ha contribuito a creare degli allevamenti comunitari di oltre 30.000 bovini.
L’opzione per gli indigeni
Presenti in Roraima dal 1948, solo nel 1971 i missionari della Consolata hanno scelto una chiara opzione per i popoli indigeni. E nel 1972 hanno iniziato a vivere nei villaggi, in mezzo alla gente. Un cambiamento radicale nello stile di evangelizzazione. Da una prospettiva meramente sacramentale, succube dei poteri forti del latifondo, a una pastorale profetica e liberatrice fatta dai villaggi e a fianco delle popolazioni indigene. Questa opzione assunta anche dalla diocesi di Roraima, ha causato persecuzioni, diffamazioni e minacce di morte per i missionari e per l’allora vescovo, mons. Aldo Mongiano (Missionario della Consolata), sulla cui testa era stata posta una taglia molto cospicua.
La riflessione su Il piano di Dio per noi (un progetto di formazione biblico-pastorale) ha guidato l’azione di evangelizzazione integrando la fede e la vita in cui la liberazione della terra era l’obiettivo principale. E il Consiglio indigenista missionario (Cimi), fondato nel 1972, è diventato gradualmente uno strumento di riflessione e appoggio alla causa.
Oggi, sette giovani sacerdoti missionari della Consolata africani – Philip Njoroge Njuma, James Murimi Njimia, Joseph Musito, Jean Tuluba, Jean-Claude Bafutanga, Joseph Mugerwa, Gabriel Ochieng -, insieme a Francesco Bruno, un fratello missionario italiano, accompagnano le comunità indigene nella Raposa?Serra do Sol. Inoltre nella zona lavorano tre suore missionarie della Consolata.
Padre Philip Njoroge sottolinea che «i protagonisti sono gli indigeni. Seguiamo e camminiamo insieme in modo che le loro vite prosperino nel pieno rispetto dei loro diritti, della loro cultura e saggezza ancestrale». Dopo 70 anni di presenza, per una congregazione che ha nel suo Dna la missione ad gentes, l’esperienza di lavoro missionario in Raposa Serra do Sol ha insegnato ai missionari a camminare con le popolazioni indigene, con le loro speranze e lotte, gioie e conflitti, rompendo confini e modelli tradizionali di evangelizzazione.
Il professor Ednaldo Pereira André, secondo tuxaua di Maturuca, riassume così le grandi sfide: «Rispettare gli impegni, prendersi cura della terra e intensificare la produzione, lavorare nelle comunità per affrontare insieme i problemi e gli ostacoli in sintonia con Il piano di Dio su di noi. È urgente investire nella formazione dei leader: tuxaua, coordinatori di comunità, mandriani, catechisti e agenti di salute… in modo che capiscano bene il loro ruolo».
Politici e pastori
Inácio Brito, uno dei primi insegnanti a implementare l’educazione indigena, chiede una maggiore presenza nelle comunità per aiutare a combattere le minacce. «Oggi la politica dei partiti vuole dividere disseminando i pastori evangelici nelle comunità in cui le leadership indigene sono deboli», afferma il professore. «Vogliono toglierci i diritti garantiti dalla Costituzione: educazione, salute, trasporti, progetti, ecc. Questa è una persecuzione. La lotta per la terra è nata dall’unione tra le varie regioni, ma molto è cambiato nonostante il Cir continui nel suo sforzo di coordinamento».
La strategia dei politici e dello stato è chiara: dividere i gruppi per indebolire il popolo. Ci sono evidenze chiare di questa strategia, come l’emendamento parlamentare del deputato federale Édio Lopes, scritto in collaborazione con il senatore Romero Jucá (due politici notoriamente anti indigeni), che ha portato una mandria di bovini nelle comunità. Questa decisione è criticata per la dipendenza che può creare e per l’uso politico che se ne può fare. «Non è sbagliato ricevere queste “offerte” di bestiame perché recentemente abbiamo avuto molte perdite. Ma dobbiamo fare attenzione alla strumentalizzazione e al pericolo di invasione e divisione che ne può derivare. I politici ci hanno sempre dato contro e adesso improvvisamente ci offrono il miele. Dobbiamo aprire gli occhi», avverte Brito.
Le donne sono impegnate attraverso l’«Organizzazione delle donne indigene di Roraima» (Omir) con progetti di formazione e sostenibilità economica. Una delle coordinatrici, Marisete de Souza, indica i risultati ottenuti che includono l’aumento dei capi di bestiame, miglioramento della coltivazione e l’incarico di tuxaua assunto da alcune donne. «Il nostro lavoro mira a rafforzare l’identità e le tradizioni. Lo facciamo con la pianificazione di workshop, seminari, assemblee e corsi. Il nostro ruolo di donna, madre, moglie e attivista del movimento indigeno è lottare per la sostenibilità e contro le bevande alcoliche. Lavoriamo insieme ai missionari che ci appoggiano».
L’importanza della terra
Dopo la fine del latifondo nella terra Raposa Serra do Sol, gli indigeni hanno occupato aree strategiche. Nuove comunità sono nate. Per esempio, dov’era l’azienda del fazendeiro Jair, a 250 km da Boa Vista, cinque famiglie hanno creato la comunità San Matteo, che ora comprende ben 19 famiglie. Questa comunità si è incontrata per discutere i problemi e rinnovare gli impegni. Per tre giorni, adulti e giovani discutono. I bambini accompagnano e scrivono sui loro quaderni. Matias de Lima e Jacir José de Souza, due leader storici, fanno memoria della lotta. Per Jacir, le principali sfide sono «raccontare ai giovani e bambini i risultati ottenuti e gli impegni da mantenere. Inoltre essere sempre in allerta con nuovi tentativi di invasione».
Matias de Lima ricorda di essere stato arrestato e picchiato riportando la rottura della clavicola. «Sono preoccupato. Una volta i tuxaua erano determinati, ora vedo insicurezza. I politici stanno comprando alcuni tuxaua, dei coordinatori e la gente. Se non apriamo gli occhi, soffriremo ancora», avverte il vecchio attivista della causa indigena. «Non possiamo rinunciare ai nostri impegni. Se cadiamo, dobbiamo alzarci. Questi bambini hanno bisogno di terra per piantare e mangiare. Io continuerò la lotta finché avrò vita».
L’attuale tuxaua della comunità, Martinho Macuxi Souza, uno dei figli di Matias, ricorda che «prima il bianco ci ha proibito di cacciare, pescare e coltivare. Hanno arrestato, picchiato e bruciato le nostre case e la missione di Surumú. Oggi non vediamo più i nostri parenti soffrire violenza. Non voglio le mucche offerte dal governo e dai politici», ribadisce. «Per quanto riguarda la terra, stiamo cercando di fare del nostro meglio seguendo i principi di una agricoltura sostenibile e la formazione tecnica che riceviamo presso scuola di Surumú, su come allevare il bestiame e coltivare ortaggi senza pesticidi. Facciamo ancora troppo poco per custodire e proteggere la terra», sostiene Martinho.
Tira (ancora) una brutta aria
I coniugi Edinho Batista e Catiane de Souza sono appena rientrati da Brasilia (Df) dove hanno partecipato al «15° Acampamento Terra Livre» (Atl), che dal 23 al 27 aprile ha riunito 3.000 indigeni da tutto il Brasile. Ci sono ancora 836 terre indigene da demarcare. «Ci sforziamo di custodire e proteggere la nostra Madre Terra, ora vogliamo aiutare anche altri fratelli e sorelle indigeni a liberare la loro terra», dice Edinho. Per Catiane «la partecipazione delle donne è stata determinata e forte. Ora informerò le comunità sulle decisioni prese». Con il tema «Unificare la lotta in difesa degli indigeni: la garanzia dei diritti originari dei nostri popoli», a Brasilia l’Atl si è svolto mentre tutt’intorno si percepiva un forte risentimento anti popoli indigeni in un clima di ostilità che perdura da quando è stata promulgata la Costituzione federale del 1988.
Nonostante gli investimenti, nella Ti Rss sono tuttora visibili i problemi relativi a salute, istruzione, sicurezza e infrastrutture. La salute delle popolazioni è di competenza del «Segretariato della salute Indigena» (Sesai), creato nel 2010.
Rispetto all’educazione, quasi tutte le comunità hanno scuole elementari. Alcuni centri principali hanno anche le scuole secondarie e il programma di «Educazione per i giovani e adulti» (Eja). Sfortunatamente molte strutture si trovano in condizioni precarie e necessiterebbero di ristrutturazioni urgenti, cosa che raramente viene fatta dalle autorità pubbliche.
Per costruire nuove scuole e centri sanitari, alcune comunità si affidano ai progetti della Chiesa cattolica e all’aiuto dei missionari. La Fondazione Missioni Consolata Onlus ha appoggiato la realizzazione di alcuni progetti. Le distanze e le condizioni delle strade rendono il lavoro sempre difficile e costoso.
Spesso, l’aiuto alle popolazioni indigene è rallentato dalle dispute di competenza tra i vari organismi amministrativi del governo federale, dello stato e del municipio. Da non sottovalutare, inoltre, il peso negativo della propaganda dei latifondisti e dei politici contro l’omologazione che per costoro continua ad essere un fallimento e che perciò dovrebbe essere rivisto.
Gioventù
La vita nella Raposa Serra do Sol è migliorata dai tempi del latifondo. Gli indigeni hanno ripreso le loro attività tradizionali e recuperato i valori culturali, anche se con difficoltà. C’è molta vita, organizzazione, spiritualità e senso di cittadinanza. C’è molta gioventù. La miseria è l’eredità lasciata dagli invasori che hanno violentato, bruciato case, chiese, scuole, centri sanitari. Queste persone rappresentano tuttora una minaccia all’autonomia e alla dignità delle popolazioni indigene.
Jaime C. Patias Consigliere Generale dei missionari della Consolata