Preghiera 19. La preghiera traghetta nelle tempeste della vita
Proseguendo la puntata precedente [MC, ottobre 2018], continuiamo l’immersione nella Parola di Dio, pregando con il racconto della tempesta dominata da Gesù, come la racconta Marco (cfr. Mc 4,38-41), il primo degli evangelisti scrittori, che c’impegna in questa e nella prossima puntata del mese di dicembre. Gesù ha un progetto di mondo, di vita e di relazioni che chiama «regno di Dio». Esso riguarda tutta l’umanità, non è riservato a una categoria (religiosa, sociale o etnica), ma per sua natura è universale, quasi a dire che il Dio di cui è testimone si colloca al di sopra di ogni differenza o etnia storica: «Sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). A questo progetto universale di «ben-essere» si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il dubbio dell’assenza di Dio, il senso di abbandono anche da parte di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere?
Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (mare e tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (i demoni). C’è un motivo teologico dietro questo schema: l’uomo Gesù testimonia la potenza di Dio che è sempre in uno «stato di esodo»: libera la creazione e l’umanità dalla schiavitù del male che le imprigiona. L’evangelista attribuisce a Gesù gli stessi poteri che l’AT attribuisce a Dio, creatore dell’universo e liberatore del suo popolo Israele, perché, come lui, impone alle acque di ritirarsi e, come lui, si prende cura di tutti gli Àdam e le Eva di ogni tempo, offrendo loro un giardino di felicità (cfr. Gen 1-3) che chiama «regno di Dio».
Siamo certi che l’interpretazione sia questa perché lo stesso evangelista (cfr. Mc 1,24-27) ha già descritto un racconto di esorcismo con la stessa struttura del racconto della tempesta. Solo leggendo in parallelo i due testi, si rende evidente l’obiettivo spiccatamente teologico di Mc, interessato a presentare Gesù come il rinnovatore dell’intera storia della salvezza. Egli, infatti, con la sua presenza e la sua testimonianza riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», domina gli spiriti del male che rendono schiava l’umanità, come fece il serpente nel giardino di Èden (Gen 3). Nello stesso tempo impone la propria autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1), dove si afferma che tutto esistette in forza della parola: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3-29). «Parola e fatto», in ebraico «Dabàr». In Dio la Parola è sempre un fatto, mai è vana. Questo dovrebbe farci riflettere sul nostro concetto di preghiera, perché spesso le nostre sono solo parole vacue, stanche se non «morte parole».
Due racconti, un insegnamento
Gli ebrei e i cristiani che conoscevano molto bene la Bibbia ebraica e quella greca della LXX, erano spinti in questo modo ad abbinare la persona di Gesù con Yhwh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e salvatore (Sinai). Ecco i due racconti in sinossi.
Tempesta sedata (Mc 4,38-41)
Schema
Esorcismo indemoniato (Mc 1,24-27)
4,38
Lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Rimproveri
a Gesù
1,24
«Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
4,39
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Minacce
di Gesù
1,25
E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
4,39b
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Obbedienza
a Gesù
1,26 e
1,27b
E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui…
4,41
41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?»
Timore
e stupore
1,27a
1,28
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»
Gli stessi rimproveri di Gesù si trovano nella guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (cfr. Mc 3,11-12). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio, mandato a riprendere in mano l’opera creatrice iniziale compromessa da Àdam ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori che domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione, per responsabilità dei progenitori, fu assoggettata alla decomposizione (cfr. Rm 8,20-23) perché il peccato di Àdam ed Eva immise nel mondo la corruzione, la distruzione e la morte (v. diluvio in Gen 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (cfr. Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» creatore, venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione che si chiama «regno di Dio» e che bisogna conquistare con determinazione (cfr. Lc 16,16 e Mt 11,12).
Preghiera:
Signore, se guardo la mia vita, la mia giornata, il mio lavoro, mi accorgo che, forse più spesso di quanto io stesso non creda, non «sento» la tua presenza e forse ti considero un «intruso», un ostacolo, specialmente quando sono costretto a scegliere tra i princìpi della coerenza credente e gli interessi della logica del mondo, secondo cui «così è la vita o così fan tutti». Mi accontento di una vita ordinaria, oserei dire banale. Spero anche che tu dorma, tranquillo sulla barca e io, pur rischiando, mi adagio nel mare del compromesso, del male minore, del conformismo, del silenzio complice, del «non posso farci niente». Mi è comodo pensare e credere che «il regno» tuo sia qualcosa da venire, oltre la morte, qualcosa che «tanto chi può verificarlo?». In fondo, vado a Messa, qualche volta prego, mi confesso ogni tanto. Di più non posso. Non mi accorgo che non si tratta di più o di meno, ma solo di «essere» e di apparire chi non sono.
Le quattro chiavi di Dio e di Gesù
Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente capace di trattenere le acque superiori (pioggia), mentre, dalla parte opposta, i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone apocalittico (cfr. Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggiava su colonne piantate sulla terra piatta che così formava una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (cfr. Gen 1,7). È lo schema usato da Dante per la Divina Commedia. Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e anche il Targum frammentario) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Rachele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targumista, ancora al tempo di Gesù, commentava questo versetto nella sinagoga:
Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei secoli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nutrimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri, perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire. La chiave della sterilità, perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli.
La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma anche della tradizione giudaica:
• La chiave dell’acqua:
«Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).
• La chiave del nutrimento:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).
• La chiave dei sepolcri:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25).
• La chiave della sterilità:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).
Nota esegetica:
Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon) dà il seguente risultato:
MA = MA?àr = Pioggia
P = Parnàsa = Nutrimento
TEA = Tehiàt hAmetìm = Resurrezione dai morti
CH = CHayyìm = Viventi
Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fiduciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco intende affermare la sua divinità. I primi cristiani, infatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fossero mantenute non poche tradizioni del giudaismo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35-41) dando una traduzione più attenta, letterale, anche se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 398-515).
Mc 4,35:
«In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”».
La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e arrivare.
La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare a esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio, non al teatro delle debolezze umane. Pregare è «passare oltre» che è il significato di «Pesàch – Pasqua». Pregare, cioè andare all’altra riva, è, dunque, un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza propone. I genitori che volessero i figli uguali e identici a se stessi, si illudono di potere fermare la vita, perché i figli sono già «oltre» i loro sogni e i loro orizzonti: sono «immagine e somiglianza di Dio» che essi possono solo adorare, contemplare, amare, sostenere, guidare. Mai fermare. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci avventuriamo nei sentieri imprevedibili di Dio, dobbiamo lanciarci non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente. Il «regno di Dio», appunto.
Mc 4,36:
«Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui».
Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Queste debolezze sono tipiche del mondo pagano e dell’ambiente clericale-curiale che confonde la «Gloria di Dio» con la propria vanagloria; anzi, fa della «Gloria di Dio» il trono della propria vanità. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se ci lasciamo accompagnare da altri, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciare condurre, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che, per natura, ma lo diventa anche per grazia, è «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, nel servizio, custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche. Quando l’autorità che governa la Chiesa saprà, sull’esempio di Gesù, affidarsi e fidarsi dei propri figli e discepoli, quel giorno, cominceranno a sorgere la terra e i cieli nuovi previsti dal profeta (cfr. Is 65,17; 66,22).
Preghiera attualizzante
Anche per me scende la sera e ho davanti due possibilità: dormire o passare all’altra riva. Alla presenza dello Spirito, cerco d’individuare le volte e le ragioni in cui mi sono addormentato per essere comodo, non disturbato e in che circostanze e con quali motivazioni, invece, ho deciso di passare all’altra riva.
La folla, cioè il bisogno di conferma, di approvazione o di adulazione o di sentirsi indispensabile, quanto posto occupa nella mia vita, nell’operare il mio lavoro, il ministero? Mi lascio portare come sono dallo Spirito o devo avere tutto sotto controllo perché «senza di me nulla è possibile fare?». Il mio potere di accentramento in una scala da 1 a 10, a che misura lo colloco?
La vanità è un valore per me? È così importante da adularla anche facendo finta di essere umile? Mi sono mai servito di «Dio» per imporre il mio pensiero, una mia idea, un mio sopruso?
Signore Gesù, custode delle quattro chiavi di Dio (acqua, pane, morte e vita), tu «che scruti le reni e il cuore» (Ger 11,20) e «conosci il mio cuore e i miei pensieri» (Sal 139/138,23), fa che nulla mi distragga da te e dal mio cammino verso di te perché possa imparare a imitarti come solo lo Spirito tuo può indicarmi e non la vanità che spesso si annida nelle forme più subdole di una spiritualità accomodante.
L’Eucaristia racchiude tutte e quattro le chiavi perché spezza il pane, disseta con acqua e vino, dona la vita e sconfigge la morte. Quante volte la «uso» con leggerezza, con abitudine, con distrazione, con fretta perché «urge» altro nella mia vita? Quante volte ho fatto in fretta per «sistemare le cose con te» e poi potermi dedicare ai miei affari, alle mie capacità, cioè ai miei interessi?
Temo la solitudine perché ho paura di me e questa non può che essere terrore di te, e per tenerti buono cerco di comprarti in qualche modo con preghiere raccogliticce, con tempi-scarto, dedicandomi a te tra un affare e l’altro. Signore, è tempo di purificazione e di verità, è tempo per me che io passi all’altra riva dentro la tua barca, così come sono. Signore, per favore, prendimi per mano e precedimi perché da solo non sono in grado e io sono troppo lontano anche dagli altri, dalla mia comunità, da quella Chiesa che spesso uso come stazione ferroviaria per timbrare un biglietto per un treno che non mi porta a te, ma mi fa tornare a me stesso. Sì, andiamo all’altra riva. Andiamo insieme, Signore Gesù: «Maranàh, thà. Signore, Vieni!» (1Cor16,22).
Paolo Farinella, prete [La Preghiera, continua-9].
Una controstoria del Novecento in ottica nonviolenta
Si può parlare del secolo racchiuso tra il 1918 e il 2018 come di un secolo di pace? A Torino, un gruppo di studiosi crede di sì: mettendo insieme diverse esperienze di pace e giustizia dei decenni passati in tutto il mondo, ha dato corpo a una vera e propria controstoria. Non sono solo le guerre e il sangue sparso a indirizzare la storia dell’umanità, ma anche, e soprattutto, le azioni di pace, gli atti e le lotte nonviolente, di cui il Novecento è costellato.
«La nostra memoria è selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo ciò che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull’esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, è evidente che le soluzioni che troveremo per l’oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un’altra storia, di un’altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e là la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potrà che essere radicalmente trasformato», scrive il ricercatore francese Jacques Semelin, e ciò sintetizza bene le motivazioni alla base del progetto di ricerca che da alcuni anni viene portato avanti da un gruppo di lavoro del Centro studi Sereno Regis: far emergere la storia nascosta dei tentativi di costruzione della pace nel secolo appena trascorso, provare a ricostruire qualche tassello significativo dei «Cento anni di pace», come abbiamo intitolato il progetto, dalla prima guerra mondiale a oggi, per aprire speranze di futuro.
Un secolo di pace?
Ma il Novecento non è stato il secolo più violento della storia umana?
Come possiamo dire che è stato un secolo di pace?
Ovviamente, non intendiamo solo le pause tra guerra e guerra, impregnate dei disastrosi effetti della guerra precedente e dei germi infetti della successiva.
Non intendiamo le «paci» che i vincitori impongono ai vinti, perché esse non sono paci, ma il risultato della guerra: l’imposizione con la violenza della propria volontà al più debole. La «pace d’imperio» (Raimond Aron, Norberto Bobbio) non è la pace che soddisfa il diritto umano universale alla vita giusta e libera.
Quando questa sembra ai popoli un buon risultato, è spesso un’illusione, perché la realtà dimostra che «la vittoria non conduce mai alla pace» (Raimon Panikkar). La vittoria italiana nel 1918 fu la «madre del fascismo», come vantava lo stesso regime. La vittoria su Hitler nel 1945 tolse tardivamente un male gravissimo, ma generò altri grandi mali come la Guerra Fredda, enormi diseguaglianze umane, e la minaccia atomica sull’umanità.
Semi di pace
Che cosa intendiamo allora dicendo «cento anni di pace»? Vogliamo mostrare che «in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (M. K. Gandhi). In mezzo all’inferno della guerra persistono sorgenti genuine di pace giusta. È sbagliato disperare e lasciare che la violenza sia vista come regina della storia.
La migliore delle paci è quella che si verifica non prima o dopo la guerra, ma invece della guerra. È la pace che si attua preventivamente con il gestire i conflitti senza violenza.
Un’altra pace è quella desiderata come un sollievo, nonostante i suoi limiti, dopo una guerra.
Altrettanto coraggiosa e ammirevole è l’azione di pace fatta durante la guerra, che pone le basi alternative e sostanziali per il superamento della logica distruttiva della guerra stessa.
Nel travagliato cammino umano ci sono semi di pace che attendono di essere visti, coltivati, curati. Non trionfano, ma promettono, perciò ci impegnano.
Cerchiamo queste azioni promettenti nel mezzo delle diverse violenze del Novecento. E le riconosciamo in ogni atto che limita la violenza e riduce le sofferenze, ma specialmente le vediamo nelle lotte nonviolente. Queste ultime sono «lotte» perché non sopportano le ingiustizie e vogliono attivamente liberarne le comunità umane, e sono «nonviolente» perché scelgono di non usare la violenza omicida e distruttiva, ma le forze umane del coraggio, dell’empatia, dell’unità, della resistenza, della disobbedienza civile, dell’organizzazione politica alternativa.
Coerenza tra mezzi e fini
Caratteristica fondamentale della nonviolenza è l’omogeneità tra mezzi e fini, secondo l’insegnamento e le esperienze di Gandhi: «I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero».
La cittadinanza nonviolenta ha come principio fondamentale la «non collaborazione al male», che esige il coraggio della disobbedienza civile all’ordine ingiusto: una disobbedienza leale, dichiarata, solidale che è la prima arma nonviolenta. Infatti nessun potere politico, economico o militare può imporsi se il popolo non collabora.
Questi principi sono fondamentali per un’autentica democrazia, conquista storica del Novecento contro le dittature violente, preziosa e delicata: la democrazia, infatti, si corrompe in «dittatura della maggioranza» (Alexis de Toqueville), quando diritti e dignità delle minoranze non sono rispettati, ma anche quando sono rispettati solo all’interno, mentre verso l’esterno si attuano politiche di dominio e di guerra.
Il superamento delle violenze
Tra gli obiettivi principali della nonviolenza, oltre al superamento delle violenze fisiche, armate, oltre alla lotta contro le violenze strutturali ed economiche, c’è la lotta contro la violenza culturale, la più profonda e nascosta, causa e giustificazione delle altre, la quale si manifesta spesso nella rassegnazione di fronte a ingiustizie e disuguaglianze.
Per superare la violenza occorre smettere di dare per scontato che la società sia per natura fatta di forti e deboli, di primi e ultimi, di affermati e scartati, in competizione individuale e nell’indifferenza verso il bene comune.
Proteggere la casa comune
Pacifisti e nonviolenti da sempre hanno manifestato contro i test nucleari e gli armamenti atomici, a difesa della sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, altri movimenti hanno dato vita alle lotte per i diritti animali, per la protezione delle foreste, o contro i crescenti casi di inquinamento causati dalle attività industriali. Tuttavia, la percezione di «essere in guerra contro l’ambiente» è nata, nel pensiero occidentale, molto tardivamente. La parola «ecocidio» è recente: altre comunità da sempre riconoscono in Gaia, Madre Terra, la fonte di vita e la casa comune che ospita tutti i viventi.
Negli ultimi decenni un aumento drammatico di conflitti ha visto contrapporsi i detentori del potere economico/finanziario contro vaste comunità di contadini, pescatori, popoli indigeni, ma anche comunità locali dei paesi «sviluppati». In questi conflitti, gruppi sociali, associazioni, movimenti che condividono strategie e obiettivi nonviolenti organizzano proteste, marce, iniziative che – grazie alle crescenti reti di comunicazione – stanno assumendo dimensioni globali, e propongono nuove modalità di relazione con i sistemi naturali che ci ospitano.
Due casi esemplari
A titolo esemplificativo citiamo due esempi concreti di costruzione della pace dal basso.
Il primo è l’opera di mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio in Mozambico, come testimonia Roberto Zuccolini, suo portavoce: «Il 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco, a Roma, il presidente mozambicano e segretario del Frelimo, Joaquim Chissano e Afonso Dhlakama (scomparso di recente), leader della Renamo, la guerriglia che lottava contro il governo di Maputo, firmavano un Accordo generale di pace che metteva fine a 17 anni di guerra civile (centinaia di migliaia di morti; 3-4 milioni di sfollati interni e profughi nei paesi confinanti).
La firma concludeva un lungo processo negoziale, durato un anno e qualche mese, portato avanti nella sede della comunità di Sant’Egidio. Lì, a Trastevere, alcuni membri della comunità (il fondatore, Andrea Riccardi, e un prete, Matteo Zuppi, oggi arcivescovo di Bologna), un vescovo mozambicano (Jaime Gonçalves, ordinario di Beira) e un “facilitatore” espressione del governo italiano (Mario Raffaelli), avevano pazientemente tessuto un dialogo tra chi si combatteva in nome dell’ideologia e del potere. Avevano imbastito un quadro negoziale all’insegna dell’unità del popolo mozambicano, alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide.
Con l’Accordo generale di pace si stabiliva la consegna delle armi della guerriglia alle forze dell’Onu, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare, le procedure di sminamento e di pacificazione delle zone rurali, una serie di passi destinati a trasformare il confronto armato tra le parti in una competizione fondata sulle regole costituzionali e democratiche. Le elezioni del 1994, le prime veramente libere nell’ex colonia portoghese, avrebbero sancito il successo dell’intero percorso negoziale e consegnato il Mozambico a una stagione nuova, fatta innanzitutto di pace».
Un altro caso esemplare è l’esperienza di Lucha nella Repubblica democratica del Congo. Dopo la morte di Lumumba, primo presidente dopo l’indipendenza, democraticamente eletto ma subito assassinato, e la lunga dittatura di Mobutu, il paese è nel caos, con milioni di morti, disastro economico e miseria nonostante la ricchezza di risorse.
Alcuni giovani, stanchi della violenza e dell’ingiustizia, attivano un movimento di intervento su problemi concreti e quotidiani, come, ad esempio, l’approvvigionamento dell’acqua. In poco tempo il movimento cresce e nel 2013 prende il nome di Lucha, abbreviazione di Lutte pour le Changement. Il logo del movimento è semplice: una freccia, e le sue iniziative sono comunicate tramite immagini e messaggi chiari e diretti, per coinvolgere tutti, nella convinzione che ognuno può fare qualcosa.
Il punto comune di tutte le azioni di Lucha è la nonviolenza, che richiede più tempo e pazienza della violenza, ma alla fine è più efficace, perché la guerra ha fallito.
«Coloro che accettano di morire nei gruppi armati», sta scritto in uno dei «fumetti» di Lucha, «non sono idioti o manipolati; qualcuno è riuscito a convincerli che stavano facendo qualcosa di bene per il loro paese, ma per noi la nonviolenza è il solo modo di difendere la propria causa rispettando la dignità delle persone». Una figura mostra persone che si tengono per mano, sedute in cerchio per terra, resistendo ai soldati armati.
Un obiettivo formativo per le nuove generazioni
La storia è memoria collettiva formata e narrata in modo da avere un significato. Nel fare storia si mette in atto un vitale rapporto passato-presente. Per questo è importante porsi il problema di come leggere il passato, perché da esso si possano trarre efficaci spunti di riflessione per il vivere civile della realtà odierna.
Due in particolare sembrano le concezioni che la storia contemporanea ha posto radicalmente in crisi: innanzitutto l’idea di progresso-sviluppo così come si è affermata nella storia dell’Occidente dall’età moderna a tutto il Novecento. Questo modello lineare e meccanicistico oggi rivela tutti i suoi limiti nelle conseguenze sociali e ambientali disastrose che ha prodotto. In secondo luogo appare in crisi l’idea di guerra-difesa come si è affermata dalla Rivoluzione francese in poi. L’armamento atomico sintetizza emblematicamente entrambi gli aspetti: è uno dei più importanti frutti del progresso-sviluppo raggiunto – nell’accezione principale che il termine ha nella cultura occidentale, cioè di progresso scientifico tecnologico -, ed è il più potente mezzo di guerra o, meglio, di dissuasione, cioè di quella forma assunta nella guerra fredda dai modelli di difesa. Alla luce di tali considerazioni, rendere visibile una contronarrazione di quanto è stato fatto per costruire percorsi di pace, affinché diventi parte integrante del bagaglio collettivo della società di oggi e del futuro, diventa un obiettivo importante da perseguire: per ridare speranza e fiducia alle nuove generazioni.
Se il XX secolo è stato infatti il secolo dei campi di sterminio, della bomba atomica, dell’allarme ambientale, del malsviluppo, è stato anche l’età di Gandhi, di Martin Luther King e delle rivoluzioni nonviolente in diverse parti del mondo.
La strategia nonviolenta di trasformazione dei conflitti appare oggi l’unica via razionale per risolvere le controversie, l’unica strada compatibile con la sopravvivenza dell’umanità.
Se dunque la storia è interpellata dai problemi del presente e se ogni storiografia è un particolare sguardo sul passato alla luce di essi, l’assunzione di un’ottica nonviolenta nella storia può avere oggi un grande significato e una forte rilevanza teorica e politica.
Angela Dogliotti
con Dario Cambiano, Elena Camino, Paolo Candelari, Enrico Peyretti
La mostra «100 anni di pace»
Nel XX secolo si è manifestata la violenza delle due guerre mondiali, dei genocidi e delle distruzioni di massa, ma anche la novità della nonviolenza come dottrina politica che si è tradotta in nuove modalità di lotta e di liberazione.
La storia umana che dalle elementari all’università viene raccontata come un susseguirsi di guerre, si è costruita anche nei tempi di pace. Il progresso civile, le conquiste sociali e ambientali, i diritti, le Costituzioni, sono opera della lenta e tenace cooperazione tra le persone, non l’esito di conflitti violenti.
La mostra «100 anni di pace»
La mostra presenta in tre sezioni alcune delle tante realtà di nonviolenza attiva che hanno segnato l’ultimo secolo.
1 – No alla guerra: superare l’idea di nemico. La pace dentro la guerra, la resistenza contro la guerra e la resistenza civile. I movimenti e le azioni nonviolente contro il militarismo e per l’obiezione di coscienza, i movimenti antinucleari. L’alternativa nonviolenta alla guerra: un’altra difesa è possibile.
2 – «Satyagraha»: la forza della nonviolenza per costruire giustizia. La resistenza nonviolenta contro il colonialismo. I movimenti per i diritti civili e la giustizia economica e sociale. La resistenza nonviolenta contro occupazioni, dittature e totalitarismi.
3 – Gaia, la nostra casa comune: fare la pace con la natura. La resistenza contro le violenze verso i socio-eco-sistemi. Dall’ecocidio all’inclusione.
Tempi e modi per visitarla
Dal 4 al 30 novembre presso il Centro studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino, con ingresso gratuito.
Visite libere al pubblico al pomeriggio (in orario preserale da confermare).
Per le scuole, al mattino con due turni: 8.30-11.00 e 11.00-13,30.
Il Cssr è una Onlus che promuove ricerca, educazione e azioni sui temi della partecipazione politica, della difesa popolare nonviolenta, dell’educazione alla pace e all’interculturalità, della trasformazione nonviolenta dei conflitti, dei modelli di sviluppo, delle energie rinnovabili e dell’ecologia.
Costituito nel 1982 su iniziativa del Movimento internazionale della riconciliazione e del Movimento nonviolento, dopo la prematura scomparsa di Domenico Sereno Regis, uno dei fondatori, nel gennaio 1984, il Centro fu intitolato alla sua memoria.
Il Cssr promuove iniziative culturali e ricerche in collaborazione con alcuni dei più significativi centri di ricerca per la pace nel mondo, ad esempio la Rete Trascend, fondata da Johan Galtung per la trasformazione dei conflitti su scala locale e internazionale.
Il Centro studi è una struttura aperta alla collaborazione con altre associazioni e realizza le sue attività grazie al concorso dei soci, dei collaboratori, di giovani in servizio civile, volontari, e grazie al contributo di privati, di enti locali e fondazioni.
Centro studi Sereno Regis, via Garibaldi, 13 – Torino
Mail: info@serenoregis.org – Tel. +39 011532824
I corridoi umanitari per vincere il traffico (di migranti)
La normativa dell’Unione europea prevede la possibilità di emettere un numero limitato di visti relativi a un singolo paese. Su questo alcune istituzioni cristiane, cattoliche ed evangeliche, hanno trovato un accordo con il governo (della passata legislatura). L’idea è portare in Italia persone particolarmente bisognose. Dopo l’arrivo è pure previsto un percorso d’integrazione. Anche se i numeri non sono enormi, si tratta comunque di oltre un migliaio di rifugiati. E l’accordo potrebbe essere rinnovato con il nuovo governo.
Abeba aveva una malformazione cardiaca. Se non l’avessero operata subito, quasi certamente sarebbe morta. In Etiopia non era possibile. Non ci sono le strutture per i cittadini, ancora meno per i profughi. Lei, piccola eritrea, è però riuscita a venire in Italia ed è stata operata all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Così si è salvata. E ciò grazie ai corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Conferenza episcopale italiana (Cei), il governo di Roma e quello di Addis Abeba.
I corridoi umanitari nascono da una collaborazione tra il governo italiano (ministeri degli Affari esteri e dell’Interno), la Comuntà di Sant’Egidio, la Cei, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e la Tavola Valdese. Queste ultime due istituzioni si sono occupate in particolare di rifugiati siriani provenienti dai campi profughi del Libano.
Descriviamo qui il corridoio Etiopia-Italia, mentre parleremo del secondo canale, Libano-Italia, nella prossima puntata.
Campione di accoglienza
È un’operazione che, dal novembre 2017, ha permesso di portare in Italia dall’Etiopia 327 eritrei, somali, sudsudanesi. E, tra ottobre e gennaio, ne farà arrivare altri 173. L’Etiopia si trova geograficamente al centro di conflitti e sofferenze. Il paese ospita un milione di profughi in fuga da guerre, carestie e persecuzioni. È una delle nazioni al mondo che accoglie più rifugiati. Una parte consistente arriva dal Sud Sudan, nazione sconvolta da una guerra che, dal 2013, ha causato migliaia di morti e quattro milioni di sfollati, persone che hanno lasciato la casa per cercare rifugio in altre zone del paese o all’estero (vedi MC ottobre 2018).
In Etiopia arrivano anche molti somali in fuga da un conflitto lungo quasi trent’anni che ha causato circa 500mila morti, e da un terrorismo islamico sempre presente e violento (Al Shabaab, vedi dossier MC maggio 2018).
Dal Nord, poi, arrivano gli eritrei, in fuga da un regime paranoico non dissimile da quello nordcoreano, il più dittatoriale di tutta l’Africa, e gli yemeniti, vittime di un conflitto civile senza quartiere che ha trasformato il gioiello della penisola araba in un inferno costellato di crimini di guerra.
«I corridoi umanitari – spiega Giancarlo Penza della Comunità di Sant’Egidio – sono un modo per far arrivare nel nostro paese i rifugiati senza che questi debbano finire nel tritacarne del traffico di uomini, e con la certezza che riusciranno a integrarsi in modo serio nella nostra società».
Cosa sono i corridoi umanitari
L’idea è nata nel 2011. Di fronte alle continue stragi del mare, i membri della Comunità di Sant’Egidio si sono interrogati sul fenomeno e, stimolati anche da papa Francesco che ha dedicato il suo primo viaggio pastorale proprio ai migranti recandosi a Lampedusa, hanno deciso di scendere in campo.
«Dopo un attento studio delle leggi – continua Penza -, abbiamo scoperto che il codice dei visti offre la possibilità ai singoli paesi europei di concedere un numero annuale di visti “a territorialità limitata” che valgono cioè solo per il paese che li rilascia. Abbiamo così proposto al governo italiano di concedere nullaosta a persone vulnerabili sottraendole ai viaggi della disperazione».
Il governo ha dato il suo assenso e così a novembre 2017 è partito il primo gruppo dall’Etiopia. Le persone sono scelte tra le categorie più deboli: malati (soprattutto i bambini come Abeba), vedove, giovani che hanno subito carcere e torture. «Sono individui – osserva Penza – che ci vengono indicati da organizzazioni religiose che lavorano in loco, ma anche dall’agenzia etiope per i rifugiati e dall’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) con le quali collaboriamo strettamente. Una volta individuati, i rifugiati giungono in Italia e qui chiedono il diritto d’asilo. Il vantaggio è doppio: i migranti non devono sobbarcarsi viaggi lunghissimi e pieni di pericoli; l’Italia conosce fin dall’inizio chi giungerà sul proprio territorio, perché già in Etiopia ha fatto una selezione tra chi ha presentato la domanda di visto».
Integrazione?
I corridoi umanitari permettono però di superare anche il problema dell’integrazione, lo scoglio più grande per chi arriva nel nostro paese. «L’Italia non ha un problema d’immigrazione, ma di integrazione – osserva l’ex viceministro agli Esteri, Mario Giro, da sempre legato alla Comunità di Sant’Egidio -. A questo riguardo il progetto dei corridoi umanitari ha molto da dire: il modello di accoglienza diffusa sta mostrando quanto l’integrazione non sia solo possibile ma è il nostro futuro».
Nel nostro paese, i rifugiati non vengono infatti lasciati a loro stessi. Sono accolti in 13 delle 20 regioni italiane (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto) presso parrocchie, appartamenti di privati e istituti religiosi. Qui possono contare sul supporto di famiglie italiane che si occupano di accompagnare il percorso di integrazione sociale e lavorativa sul territorio, garantendo servizi, corsi di lingua italiana, inserimento scolastico per i minori, cure mediche adeguate.
La Caritas di Ragusa, per esempio, ha ospitato Mohamed Abdi, 54 anni, la moglie Kadija Hussen, 31 anni e cinque bambini tra i 2 e 15 anni. La famiglia, pur di fede islamica, è dovuta fuggire a causa delle minacce di un gruppo musulmano fondamentalista. Una delle bimbe è affetta da lupus, una malattia cronica autornimmune. Un fratellino è già morto a causa della stessa patologia. La Caritas di Ventimiglia ha invece ospitato un papà del Sud Sudan con i suoi due bambini, la bimba ha un grave problema a un occhio.
Come si pagano i corridoi
Ma chi paga l’arrivo, l’accoglienza e l’assistenza in Italia? Il progetto è nato dalla collaborazione tra Comunità di Sant’Egidio e la Conferenza episcopale italiana che copre la maggior parte dei costi grazie ai fondi dell’8 per mille (quello della Fcei, con l’8 per mille della Tavola Valdese, ndr). Altri fondi arrivano da donazioni private. «Allo stato – continua Penza – questa operazione non costa nulla. A fine anno, la convenzione scadrà. Stiamo trattando per rinnovare il protocollo. Nonostante sia cambiato il governo e l’attuale compagine abbia posizioni molto dure sull’immigrazione, finora abbiamo trovato ampia disponibilità. Speriamo davvero di poter ripristinare un sistema che ha permesso di salvare vite umane. L’obiettivo è di alzare l’asticella chiedendo i visti per 600 rifugiati provenienti dall’Etiopia e da altri paesi».
In questo senso fanno ben sperare le parole del premier Giuseppe Conte pronunciate a margine della visita nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Roma, dove ha incontrato profughi, anziani e disabili: «La Comunità di Sant’Egidio ha varato in passato protocolli per realizzare corridoi umanitari. Sono iniziative importanti perché fanno arrivare in Italia migranti che hanno diritto alla protezione umanitaria. Numeri specifici, persone individuate. Si tratta di immigrazione regolare».
«La speranza è che in Italia si ripeta questa esperienza – ha dichiarato monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana accogliendo i primi rifugiati arrivati nel novembre 2017 -. Questi corridoi umanitari devono diventare una prassi consolidata, affinché chi ne ha bisogno possa realizzare il suo sogno di vivere con dignità. Questa esperienza non nasce oggi, ma si pone a fianco di altre iniziative che la Chiesa italiana sviluppa in questi paesi di migrazione e transito da più di 30 anni».
Enrico Casale (prima puntata – continua)
Chi dice donna dice… dono
Quest’anno, per la nostra campagna di Natale, parliamo di donne: tanto preziose quanto poco valorizzate in molti dei paesi nei quali lavorano i missionari della Consolata. Le seguiamo in tutte le fasi della loro vita: bambine, ragazze, adulte, anziane, studentesse, lavoratrici, madri, nonne.
«Tanto tempo fa in un discorso fatto all’Onu dissi che volevamo che gli uomini facessero qualcosa per noi. Quel tempo è passato. Non chiederemo agli uomini di cambiare il mondo, lo faremo noi stesse». Così si è rivolta al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2014, attivista pachistana per il diritto all’istruzione che nel 2009 i talebani cercarono di zittire sparandole alla testa. Malala ha esortato ogni donna e bambina a farsi sentire, denunciando le discriminazioni e violenze che vedono nelle loro comunità e nelle loro società.
Se le donne e le bambine del mondo decidessero di farsi sentire tutte contemporaneamente, il pianeta diventerebbe un posto piuttosto rumoroso. Risuonerebbero, infatti, le parole di protesta di 34 milioni di bambine in età da scuola elementare che non sono in classe; più forte di tutte sarebbe la voce di 15 milioni di potenziali alunne – 9 milioni nella sola Africa – che probabilmente in un’aula non ci metteranno mai piede.
Si sentirebbe inoltre il lamento del miliardo e duecento milioni di donne che nel corso della vita hanno subito violenza fisica o sessuale almeno una volta e di 750 milioni di donne che si sono sposate prima dei 18 anni. Oggi continuano a essere costrette al matrimonio almeno 23 bambine al minuto, per un totale di 12 milioni all’anno@. Si udirebbe senz’altro il grido di dolore – e in questo caso non è un’espressione retorica – di 200 milioni di donne e bambine che hanno subito una forma di mutilazione genitale in trenta paesi del mondo@.
Questo coro è solo immaginario; ma le singole voci sono reali e ben distinguibili. I nostri missionari le ascoltano ogni giorno nel loro lavoro, cercando di fare loro da megafono e di trovare risposte efficaci.
Spose invece che alunne
Tra i Turkana (nel Nord Ovest del Kenya, distribuiti nelle contee del Turkana, Samburu e Marsabit), nascere femmina in una famiglia di pastori nomadi significa spesso dover rinunciare alla scuola. Lo sanno bene i missionari che operano a Loyiangalani e che da circa dieci anni portano avanti un’iniziativa di alfabetizzazione per bambini (destinati a essere pastorelli) e bambine (destinate al matrimonio precoce) che non sono mai andati a scuola.
La contea Turkana è una di quelle che ha il tasso di scolarizzazione più basso: solo metà dei bambini vanno a scuola, contro il 92% della media nazionale. Per le femmine, l’abbandono scolastico è ancora più probabile e i matrimoni precoci ne sono una causa.
Nella contea Samburu, dove si trova il Wamba Catholic Hospital – gestito dalla diocesi di Maralal di cui è vescovo monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata – la situazione delle bambine è ancora più complessa. Qui, secondo uno studio dell’Unicef (esteso anche ad altre quattro aree dove vivono i gruppi etnici Masaai, Pokot, Somali e Rendille) al problema dei matrimoni precoci si affianca e si lega quello delle mutilazioni genitali femminili (Mgf o – in inglese – Fgm, female genital mutilation). Su un campione di quasi 5.300 donne intervistate, per Wamba i dati sono preoccupanti: la mutilazione (escissione della clitoride senza infibulazione, la quale, quest’ultima, comporta anche la cucitura della vagina, ndr) riguarda il 95% delle donne di 18-49 anni e il 57% delle bambine fra i 10 e i 17@.
Alcuni punti sulla Mgf
La questione delle mutilazioni genitali femminili è complessa e va capita bene nel suo contesto. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie evidenzia che:
– è una pratica ben radicata nella tradizione culturale di molti (non tutti) popoli africani;
– non viene praticata per ragioni igieniche e non è un fatto privato;
– è sempre legata a due riti di alto significato culturale e sociale, come l’iniziazione o il matrimonio;
– è il segno della nuova identità sociale della bambina (o giovane) che, con il rito, diventa «adulta».
Si tratta dunque di un fenomeno culturalmente complesso e radicato, al punto che molte ragazze chiedono di essere sottoposte all’escissione prima di iniziare la scuola secondaria per non essere escluse o umiliate dalle loro compagne. Per contrastare questa pratica non basta quindi dire «no alle Mgf»: occorre aiutare la comunità a creare forme alternative e socialmente accettate di rituali di passaggio e iniziazione.
L’abolizione delle Mgf o la loro sostituzione con altri riti devono conciliare il diritto della persona all’integrità del proprio corpo con la sua esigenza di essere pienamente inserita, accettata e rispettata nella sua società e cultura.
Il peso dei condizionamenti sociali
Che la pressione sociale e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti spingano molte donne a prendere posizioni che le danneggiano è confermato anche dal dato riportato in un rapporto Unicef del 2014. Nel mondo, quasi la metà delle adolescenti (15-19 anni) pensa che un marito o un partner siano giustificabili se picchiano la moglie o la compagna in alcune circostanze: se la moglie litiga con il marito, esce senza avvertirlo, trascura i bambini, rifiuta di avere rapporti sessuali o brucia il cibo. In Africa subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa le adolescenti convinte di questo superano la metà@.
Il lavoro dei nostri missionari in questo paese si è recentemente arricchito di un metodo di formazione che si chiama «pedagogia della cura» e che nella zona di Puerto Leguizamo coinvolge gli studenti delle scuole superiori in percorsi di controllo e gestione delle frustrazioni e della rabbia e di risoluzione pacifica dei conflitti interpersonali. Anche attraverso questi percorsi si sta tentando di eliminare la violenza che spesso nasce «in contesti familiari caratterizzati da abuso di alcol, machismo e povertà» e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno nelle bambine e nelle donne le principali vittime.
Le barriere invisibili
Gli ostacoli che impediscono alle donne di avere accesso a istruzione e sanità non sono sempre facili da individuare: solo una relazione costante e ravvicinata con le comunità può permettere di scorgerli e rimuoverli. Spesso, infatti, questi ostacoli derivano dalla reticenza ad affrontare temi considerati tabù, come il ciclo mestruale, oppure dal delicato equilibrio nei rapporti fra uomo e donna all’interno della famiglia.
Unicef stima che le scuole prive di servizi igienici adeguati nei paesi a basso reddito siano circa la metà. E basta che una scuola manchi dei servizi perché le ragazze rinuncino ad andare a lezione durante il periodo mestruale. Questo problema, stando ai dati diffusi dall’Unesco, interessa una ragazza su dieci in Africa subsahariana, causando per ciascuna una riduzione del venti per cento del tempo passato sui banchi e, a volte, il totale abbandono del percorso scolastico.
Quanto all’accesso ai servizi sanitari di base: ci sono ostacoli evidenti come la mancanza di strutture, e poi altri meno visibili, ma ugualmente determinanti, come le resistenze culturali. Un esempio è il lungo dialogo tra i missionari della Consolata di Dianra, Costa d’Avorio, e le comunità locali per decidere la costruzione di alcuni centri di salute nei villaggi legati al dispensario di Dianra Village (vedi Cooperando, MC Aprile 2017). Poiché lì le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi (e quindi andare dall’équipe medica per se stesse o i figli), i missionari hanno dialogato con i leader comunitari perché tutti fossero sensibilizzati sull’importanza dell’assistenza sanitaria.
La Costa d’Avorio ha uno dei tassi di mortalità materna più alti dell’Africa subsahariana (645 madri decedute ogni 100mila nati vivi nel 2015@) e quasi tre donne su dieci partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato.
Il difficile accesso al mercato del lavoro
La partecipazione attiva delle donne alla vita economica di una comunità genera benefici per tutti. Uno studio McKinsey del settembre 2015 ha stimato che, se le donne fossero economicamente attive alla pari degli uomini, il Pil mondiale aumenterebbe di 28mila miliardi entro il 2025. Se ogni paese, anche non raggiungendo la completa parità di genere, si impegnasse almeno a «copiare» il vicino più virtuoso nel garantire alle donne la partecipazione alla vita economica, l’aumento del Pil sarebbe comunque pari a 11mila miliardi di dollari a livello globale, con un aumento del 12% in Africa e del 14% in America Latina. La sola India vedrebbe aumentare la sua crescita del 16%. Per i paesi in via di sviluppo presi nel loro insieme la fetta di aumento del Pil sarebbe di circa 4mila su 11mila miliardi di dollari@.
Il World Economic Forum ha stilato una classifica dei paesi del mondo che misura la parità di genere: i quattro più vistuosi sono l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia e il Ruanda, mentre il primato negativo va allo Yemen, seguito da Pakistan, Siria e Ciad.
Nonostante le numerose conferme del loro valore, le donne rimangono a livello globale meno pagate e più probabilmente disoccupate o occupate in lavori precari rispetto agli uomini. Su di loro ricade quasi sempre l’incombenza di occuparsi dei familiari, si tratti di bambini, anziani o malati.
Investire sulle donne
Le esperienze dei nostri missionari confermano che investire sulle donne paga: i numerosi progetti di piccola imprenditoria e microcredito in RD Congo, Kenya, Costa d’Avorio hanno consentito alle donne di sostenere le proprie famiglie, pagare le spese mediche e coprire i costi per l’istruzione dei figli. Il microcredito che i missionari gestiscono nel Nord della Costa d’Avorio ha percentuali di restituzione del prestito che non scendono mai sotto il 98%. A Camp Garba, in Kenya, il lavoro con le donne dei gruppi etnici turkana e borana iniziato con un progetto di agricoltura e sartoria è stato fondamentale nel ricostruire i rapporti fra le comunità all’indomani degli scontri che nel 2012 opposero i due gruppi etnici e che avevano portato alla morte di trenta persone, alla distruzione di 150 case e all’esodo forzato di tremila sfollati. Oggi, un gruppo consolidato di donne turkana, borana e somale continua a collaborare per mandare avanti le attività ed è riuscito a coinvolgere altri membri della comunità in un progetto di allevamento di bestiame.
Le incerte prospettive per le donne anziane
Il mondo sta invecchiando, avverte la prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet: nel 2015 le persone sopra 60 anni di età erano 900 milioni, nel 2050 saranno due miliardi e la maggior parte di queste vivrà nei paesi in via di sviluppo, principalmente in Asia. Ma anche l’Africa subsahariana vedrà i suoi anziani triplicare: dagli attuali 53 milioni a 150. Eppure, lamenta il direttore dell’International Longevity Centre all’Università di Cape Town, Sebastiana Kalula, nell’agenda politica dei governi africani il fenomeno e il tema di come affrontarlo non appaiono fra le priorità. L’invecchiamento interesserà maggiormente le donne, che tendono a vivere più a lungo degli uomini sia nei paesi ad alto reddito che in quelli più poveri@. A questo fenomeno se ne combinano altri due: in primo luogo, la migrazione verso le città porterà i due terzi della popolazione mondiale a vivere in centri urbani; inoltre, la precarietà del lavoro spingerà le persone a lavorare più a lungo e più lontano da casa. Un possibile effetto del combinarsi di invecchiamento, inurbamento e precarietà potrebbe essere che le donne anziane non solo non saranno accudite dai familiari più giovani, ma potrebbero trovarsi loro stesse costrette a occuparsi dei loro nipoti. Già oggi, la condizione degli anziani abbandonati, ammalati e in povertà assoluta è ben nota ai missionari della Consolata che a Sagana, Kenya, gestiscono una casa per le anziane o che a Guiúa, in Mozambico, hanno avviato un programma per anziani malnutriti fra i quali le donne sono la maggioranza.
Chiara Giovetti
CAMPAGNA
DI NATALE 2018
Un dono…
per riparare i danni
«Chi dice donna dice danno», recita un detto popolare. Nel detto può esserci del vero, a patto di completarlo: «Chi dice donna dice danno… che lei subisce». Ogni giorno, in tutto il mondo.
Il nostro impegno è da sempre quello di proteggere, promuovere e valorizzare le donne, ma quest’anno vogliamo fare di più: ci impegneremo a eliminare i danni che le donne subiscono e aiutarle a dimostrare alle comunità quanto la loro presenza sia un dono.
❤ Con 10 euro puoi donare il materiale didattico a una bimba
nei nostri asili.
❤ Con 10 euro garantisci a una donna un parto sicuro,
con 50 euro un parto cesareo.
❤ Con 50 euro copri un mese di cibo, farmaci e assistenza
per un’anziana seguita nei nostri centri.
❤ Con 100 euro sostieni il salario mensile di un insegnante
per l’alfabetizzazione delle donne.
❤ Con 300 euro sostieni a distanza una bambina
della scuola primaria.
In un mondo di debiti, tra crescita e austerità
Non è soltanto l’Italia a essere indebitata. Lo è tutto il mondo. Si stima un debito di 30mila dollari a testa, neonati inclusi. Le ricette proposte sono sempre le stesse: per ripagare il debito occorre tagliare sanità, scuola, pensioni. E poi bisogna crescere. Quanto? In che modo? E a che prezzo?
Il debito è motivo di preoccupazione per tutti, ma ciascuno per ragioni diverse: l’Unione europea (Ue) è preoccupata per le ricadute sull’euro, le imprese per le ripercussioni sull’andamento economico, le famiglie per i contraccolpi sociali. E, a seconda del tipo di preoccupazione, cambiano ricette e rimedi.
Il debito secondo l’Ue
L’obiettivo principale dell’Unione europea è rassicurare i mercati, dimostrare agli investitori internazionali che non hanno niente da temere perché i governi europei sono debitori affidabili. Perciò i suoi occhi sono puntati solo sui conti per mantenerli entro parametri rassicuranti per gli investitori: debito complessivo non oltre il 60% del Pil e deficit annuale al di sotto del 3%, meglio se uguale a zero. È il famoso «pareggio di bilancio» in base al quale tutte le spese, compresa quella per interessi, devono essere coperte dalle entrate ordinarie.
L’Europa si è autornimposta un giro di vite a partire dal 2011, quando la situazione debitoria di tutti i paesi europei peggiorò a causa dei salvataggi bancari. E l’Italia, pur non avendo una situazione bancaria così disastrosa, divenne subito un vigilato più sorvegliato degli altri perché aveva un debito pubblico cronicamente elevato. Del resto in quel periodo i titoli di stato italiano continuavano a perdere valore, un chiaro messaggio che, se l’Italia non si fosse attrezzata per dimostrare di essere un debitore fedele, sarebbe stata messa sotto attacco da parte dei mercati. La politica non tardò a battere un colpo: nel novembre 2011 destituì Berlusconi, considerato troppo debole, e lo sostituì con Monti che adottò subito politiche di austerità particolarmente pesanti. L’allora primo ministro aumentò le tasse, fino a portare la pressione fiscale al 44,1% del Pil nel 2013, mentre tagliò pensioni, istruzione, sanità, trasferimenti ai comuni. L’inevitabile conseguenza furono povertà, disuguaglianze e disoccupazione, una decadenza mal sopportata dal popolo italiano che non ha tardato a punire le forze politiche che l’avevano sostenuta.
Il debito secondo le imprese
Se veniamo alle imprese, la loro posizione sul debito non è omogenea, come del resto non lo è su molte altre questioni. Di solito su principi e obiettivi le imprese convergono, ma sulle strategie possono esprimere posizioni diverse a seconda dell’attività svolta, delle dimensioni raggiunte, dei mercati occupati. In tema di debito, le imprese sono tutte concordi nell’affermare che gli impegni vanno onorati, ma sono divise sul tipo di logica da far prevalere. Grosso modo si fronteggiano due schieramenti: il partito dell’estrazione e il partito della produzione. Partigiani del partito dell’estrazione sono le imprese della finanza (banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento) che, vivendo di parassitismo, sognano un sistema economico altamente indebitato totalmente asservito alle esigenze di guadagno dei creditori. Partigiani del partito della produzione sono le imprese dell’economia reale che, vivendo di produzione e commercio, sentono il bisogno di operatori economici sani ad alta capacità di acquisto. Dunque, non troppo dilapidati dai loro creditori. La storia del capitalismo è piena di crisi provocate da un eccesso di debito: l’inceppamento dell’intero sistema dovuto ai fallimenti di imprese, famiglie e governi, sopraffatti da un eccesso di risorse da trasferire ai creditori. Che è esattamente il rischio che corriamo oggi, considerato che il mondo galleggia su 237mila miliardi di dollari di debiti, circa tre volte il prodotto lordo mondiale (Iif, maggio 2018).
Una buona dose di regole, per tenere contemporaneamente a bada gli appetiti degli avvoltorni finanziari e la propensione all’azzardo da parte degli operatori economici, sarebbe il modo migliore per prevenire l’eccesso di debito. Ma poiché le imprese vivono le regole come dita negli occhi, si ostinano a rifiutarle, sostenendo che esiste una ricetta capace di salvare capra e cavoli: l’interesse di chi è parassita a garantirsi alti incassi e l’interesse di chi è parassitato a garantirsi un’alta solidità finanziaria. La ricetta si chiama crescita e si basa sul principio che, se la ricchezza si fa più grande, diventa più facile pagare i debiti con ampia soddisfazione per tutti, sia dei creditori che dei debitori. Applicata ai debiti sovrani, la tesi è che, se cresce la ricchezza prodotta nella nazione, cresce anche il gettito fiscale e quindi la capacità di spesa dei governi che, al tempo stesso, avranno abbastanza risorse per garantire servizi ai cittadini e onorare i propri debiti. In effetti, questa è la sola ricetta che in Europa si va facendo strada in alternativa all’austerità: la propugnava il governo Pd di Renzi e la propugna il governo giallo verde di Di Maio e Salvini. Potrà funzionare?
La favola della crescita
In teoria sì, in pratica presenta molte perplessità. Per cominciare c’è un problema di misura: quanta crescita servirebbe per tirarci fuori dal pantano senza sacrifici? Proviamo a fare due conti. Solo di interessi ci servono una settantina di miliardi l’anno; ma se ci aggiungiamo anche il traguardo di sbarazzarci in venti anni di metà del debito accumulato, che ormai ha oltrepassato i 2.300 miliardi, dovremmo mettere in conto altri 57 miliardi l’anno. Ad oggi farebbero 125 miliardi. Se è vero che andrebbero a scalare via via che passano gli anni, non sbaglieremmo di molto se dicessimo che per i prossimi 10 anni lo stato dovrebbe avere un aumento di gettito di un centinaio di miliardi all’anno. Considerato che oggi la pressione fiscale è al 40%, per ottenere un simile risultato, il primo anno dovremmo avere un aumento di Pil di 250 miliardi. Tradotto in termini percentuali farebbe una crescita del 15%, che è il doppio della crescita media ottenuta dalla Cina nell’ultimo quinquennio. Quella italiana è un’economia matura e, per bene che vada, non può attendersi una crescita del Pil oltre il 2%, 34 miliardi l’anno, un ammontare che – secondo la pressione odierna – potrebbe produrre un gettito aggiuntivo di 13 miliardi: appena l’11% di ciò che servirebbe. Insomma, i numeri ci dicono che quella della crescita è una bella favola che serve a poco per tirarci fuori dai problemi. Ciò nonostante è usata come pretesto per imporci una serie di altre riforme che peggiorano le nostre condizioni di lavoro e attentano al bene comune. Il punto è che la crescita a cui tutti pensano è quella trainata dalle imprese private, che oggi però sono libere di andare a produrre dove vogliono. Il che ha messo tutte le nazioni del mondo in gara fra loro percreare le condizioni più allettanti per gli investimenti. E poiché le imprese prestano attenzione prioritaria al costo del lavoro e alle tasse, tutti i governi si stanno organizzando per ridurle. Tant’è che anche in Italia le parole d’ordine sono flessibilità, libertà di licenziamento e riduzione delle tasse come mostrano il Job’s Act e il fatto che l’imposta sui redditi d’impresa è passata dal 37% nel 1994, al 24% di oggi. E, detto per inciso, a che serve impegnarsi per fare aumentare il Pil, se poi si abbassano le tasse su chi potrebbe pagarle? Ma la fede nella crescita è così radicata che c’è chi chiede di poter fare altro debito per permettere allo stato di investire in opere pubbliche, nella convinzione che la costruzione di strade, ponti e ferrovie stimolerà l’avvio di molte altre attività economiche. In questa direzione sembra voler andare anche l’attuale governo giallo verde che, pur di riuscirci, si dice pronto a superare i paletti fissati in sede europea. È cronaca di questi mesi.
Altri parametri, altre strade da percorrere
È fuor di dubbio che in Italia ci sono molti bisogni insoddisfatti che necessitano di interventi pubblici, ma l’obiettivo non può essere la crescita tout court, bensì il miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tenendo ben presente che c’è anche un’altra condizione fondamentale da rispettare: la salvaguardia ambientale. In questa ottica non sono le grandi opere a dover prevalere, ma il recupero del patrimonio edilizio esistente e la valorizzazione delle tratte stradali e ferroviarie locali. Una scelta che (forse) non farebbe crescere il Pil come auspicato, ma che migliorerebbe la vita dei cittadini senza consumare altro suolo e limita al minimo il consumo di nuove risorse. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il tempo della crescita è finito, mentre deve iniziare quello della riconversione economica: una totale rivisitazione del «cosa, come e per chi» produrre con l’obiettivo di espandere le attività ad alto impatto qualitativo sul piano dei diritti, della serenità personale, dell’inclusione occupazionale, della difesa ambientale, mentre vanno chiuse le attività energivore, insalubri, dissipative, utili solo a creare bisogni artificiali che ci ingolfano di rifiuti e ci condannano a una vita in corsa perenne per guadagnare sempre di più.
Gestire il debito attraverso la crescita è come volersi ingraziare la dea Khali con sacrifici umani: il rimedio peggiore del male.
Progressività, patrimoniale, prestito forzoso
Vanno cercate altre strade. Una soluzione è quella della redistribuzione, che vuol dire fare pagare i più forti. Fino ad ora si sono cercate le risorse a favore del debito tagliando sanità, scuola, assegni sociali, che è come se una famiglia decidesse di pagare le banche riducendo la razione di latte del neonato invece che togliere la bistecca agli adulti. In Italia la ricchezza c’è, ma – per un tacito accordo fra tutte le forze politiche – i potenti nessuno li tocca. Questa ingiustizia deve finire: se il paese è in difficoltà lo sforzo del risanamento va richiesto prima di tutto a chi sguazza nell’opulenza. Un obiettivo che si raggiunge non solo riformando il sistema fiscale in senso fortemente progressivo (come avevamo nel 1974), ma anche imponendo una seria imposta patrimoniale e magari un prestito forzoso sugli alti redditi e patrimoni, ad esempio oltre i 500mila euro. In contemporanea andrebbe attuata una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che ogni anno procurano allo stato una perdita di oltre 100 miliardi. E poiché questi provvedimenti hanno bisogno di tempi lunghi, come misura d’urgenza si dovrebbe pensare di chiedere anche ai creditori di fare la propria parte. I creditori chiedono un tasso di interesse perché corrono un rischio, ma se sono sempre protetti, il rischio dov’è? Una strategia di uscita dal debito potrebbe cominciare proprio dalla decisione di raggiungere il pareggio di bilancio tagliando la spesa per interessi, invece che le spese a vantaggio della collettività. Nel 2017 la quota di interessi che le imposte non sono riuscite a coprire è stata pari a 40 miliardi, lo stato avrebbe potuto congelarli raggiungendo di fatto il pareggio di bilancio. Ma chi sarebbe stato penalizzato da una simile decisione? Non certo le famiglie che detengono appena il 5% dei titoli del debito pubblico italiano. In ordine decrescente ci avrebbero rimesso le banche italiane che ne detengono il 27%, la Banca centrale europea (Bce) che ne possiede il 20%, altre istituzioni finanziarie italiane anch’esse al 20%, la Banca d’Italia al 15%, altri investitori stranieri al 13%. In altre parole, a subire i contraccolpi non sarebbero solo istituzioni private, da cui potremmo aspettarci un atteggiamento ostile, ma anche la Banca centrale europea e la Banca d’Italia dalle quali ci potremmo attendere quanto meno un atteggiamento di non belligeranza dal momento che sono istituzioni private con funzioni pubbliche. Ed è proprio la Banca centrale europea, la grande struttura che, alla fine, dobbiamo riformare perché, se avesse un’altra impostazione, potrebbe liberare tutti i governi dell’eurozona dal fardello dei loro debiti senza troppi scossoni.
Chi ragiona diversamente c’è
Charles Wyplosz, uno dei più noti economisti europei, ha avanzato una proposta in tal senso con un progetto denominato Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone). In pratica l’istituto di Francoforte diventerebbe il nuovo titolare dell’intera massa debitoria degli stati dell’Eurozona e, mentre potrebbe dotarsi di un piano pluriennale per estinguere gradatamente il capitale con denaro di nuova emissione, potrebbe pagare gli interessi in scadenza con i proventi del «signoraggio», ossia con i guadagni ottenuti dal servizio di emissione monetaria. Tutto questo per dire che, da un punto di vista tecnico, le soluzioni ci sarebbero. L’ostacolo è tutto politico ed è rappresentato dal predominio dell’ideologia liberista che vuole gli stati succubi dei mercati. Solo una nuova volontà popolare può aprire la strada a un’altra visione, ma un nuovo popolo si affermerà solo se capirà che i responsabili dei suoi mali non si annidano fra gli ultimi bensì fra i primi.
Francesco Gesualdi
Comunità simpatiche … secondo l’Allamano
Il mese di novembre si apre con la solennità di «Tutti i Santi» e, quest’anno, si apre subito dopo il Sinodo dei giovani che ha avuto tra le sue parole chiave «santità», non certo politically correct (parlando di giovani). Tra i vari documenti del Sinodo, appare anche questa annotazione: «Convinti che la santità “è il volto più bello della chiesa”, prima di proporla ai giovani, siamo chiamati tutti a viverla da testimoni, divenendo così una comunità “simpatica”. Solo a partire da questa coerenza, diventa importante accompagnare i giovani sulla via della santità. Se sant’Ambrogio affermava che “ogni età è matura per la santità”, senza dubbio lo è anche la giovinezza».
Tutti noi adulti, dunque, siamo invitati a diventare «simpatici», ossia attraenti e capaci di accompagnare i nostri giovani sulle strade della santità. In questo, per noi missionari della Consolata, è stato maestro e testimone esemplare il beato Allamano che, con autorevolezza e sapienza, ha saputo esercitare con i giovani aspiranti missionari una vera «pedagogia della santità»; come appare, ad esempio, nelle poche lettere da lui scritte a fratel Benedetto Falda, missionario poco più che ventenne e appena arrivato in Africa.
Ricordandolo con nostalgia e trepidando un poco per lui, l’Allamano gli scrive: «Ciò che ti raccomando particolarmente è di non mai scoraggiarti dei tuoi difetti, sia di umiltà, di ubbidienza, di carità o d’altro. Non sei ancora santo e di questa roba ne avrai sempre, finché vivrai, frutto in gran parte del tuo carattere vivace. Basta che abbia davanti a Dio il desiderio di emendarti… e poi, allegro come prima!». E ancora: «Comprenderai come il mio cuore paterno abbia esultato nel sapere della tua professione perpetua. Il caro p. Morino me ne scrisse una minuta relazione, riferendomi i punti principali del bel discorso del p. Cagliero. Metti in pratica tale predica e sarai il modello di quanti fratelli verranno dopo di te… Felice te! Sarai capo di una grande schiera di santi fratelli in cielo e dovrai lassù anche ringraziare me, che non ti risparmiai le correzioni».
Questi cenni brevissimi, ma luminosi, ci aiutano a scoprire, una volta di più, la volontà del Signore «che ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (Gaudete et exsultate, 1). Non solo, ma che questa «meta alta» a cui tutti siamo chiamati deve essere proposta ai giovani con l’accompagnamento, l’affetto e la guida sapiente… proprio come il beato Giuseppe Allamano ci ha mostrato e insegnato.
Giacomo Mazzotti
Suore per la Missione
I primi missionari della Consolata intravidero subito che il loro apostolato sarebbe rimasto penalizzato senza l’apporto delle suore. Il contatto con l’ambiente femminile e con i bambini, tutto l’apparato infermieristico e, parzialmente, anche quello scolastico, la cura degli ambienti delle missioni, erano situazioni nelle quali le suore si sarebbero mosse molto meglio.
Padre Filippo Perlo, procuratore del primo gruppo, appena quattro mesi dopo l’arrivo in Kenya, inviò un messaggio allo zio, il canonico Giacomo Camisassa, da trasmettere all’Allamano: «Per ora dica al Sig. Rettore che se vuole mandare 100-200 missionari, non vi è che l’imbarazzo della scelta del posto. Ad ogni passo si presentano splendide popolazioni. Se vi sono pochi preti mandi suore. Convertiremo il Kenya con le suore».
Sia l’Allamano che il Camisassa, conoscendo l’esperienza di altri istituti missionari, erano più che convinti della necessità di personale femminile in missione. Così, ben presto, l’Allamano si accordò con il canonico Giuseppe Ferrero, padre della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cottolengo, ed ottenne che alcune suore Vincenzine partissero per collaborare con i suoi missionari in Kenya.
Le missionarie Vincenzine del Cottolengo
Le suore del Cottolengo rimasero in Kenya dal 1903 al 1925, e subito pagarono un alto prezzo in vite umane. La loro santa avventura missionaria si aprì con la morte di sr. Editta e di sr. Giordana già nel 1903, e si concluse con la morte di sr. Maria Carola nel 1925, mentre stava rientrando a Torino in nave. Per lei il mare divenne il suo sepolcro.
In occasione della beatificazione del Cottolengo, nel 1917, prima che tutte le missionarie Vincenzine lasciassero il Kenya, l’Allamano espresse pubblicamente la riconoscenza sua e dei missionari scrivendo: «Mirabile fu la fortezza con cui queste cooperatrici dei miei missionari li coadiuvarono nelle difficoltà degli inizi straordinariamente ardui e duri. Alcune di esse ne meritarono già il premio, volate in Cielo; ma altre ne presero il posto; e anche oggidì, in numero di 36, compatte e sempre molto agguerrite contro il clima, istruite da lunga pratica, compiono un’opera apostolica di cui la loro modestia vieta di dire il valore e il merito, precedendo, come anziane, le già numerose missionarie della Consolata, divenute loro compagne di apostolato».
Le missionarie della Consolata
Quando i responsabili del Cottolengo non furono più in grado di rispondere alle esigenze delle missioni che chiedevano suore sempre più numerose, l’Allamano si vide costretto a prendere in esame l’eventualità di iniziare un istituto femminile per conto suo. A spingerlo in questa direzione erano pure le insistenze dei missionari.
Per iniziare l’istituto delle missionarie, l’Allamano seguì il suo metodo di discernimento che usava per ogni attività importante e consisteva in questo trinomio: pregare, consigliarsi e ubbidire.
Certo pregò molto. Non disse mai quanto, ma in occasione della memoria liturgica del beato Cottolengo si lasciò sfuggire questa confidenza con le suore: «Oggi è la festa del beato Cottolengo. Prima d’incominciare il vostro istituto io sono andato a pregare sulla sua tomba. Naturalmente ho dovuto pregare e poi consigliarmi e ciò ho fatto non solo coi galantuomini di questo mondo, ma anche coi Santi. Gli ho detto: “Ho da fare questo istituto o no? Veramente avrei più caro di non farlo; la mia pigrizia vorrebbe quello. Anche voi avreste fatto tanto volentieri il canonico, eppure avete realizzato questo complesso di carità. Dunque, devo farlo o non farlo?“». Poi quasi scherzando: «Quel che mi abbia detto non lo dico a voi. Però, se non si faceva l‘istituto per i missionari, non si faceva per voi sicuro». E le suore capirono.
Si consigliò, come disse, anche con i «galantuomini di questo mondo». Sicuramente con il suo arcivescovo, il card. Richelmy, e con il prefetto di Propaganda Fide, il card. Girolamo Gotti. Tutti lo spingevano per quella direzione, incoraggiandolo ad iniziare presto. Chi, però, diede la spinta decisiva fu il papa san Pio X. L’Allamano stesso raccontò come si svolsero le cose durante un’udienza privata con il papa. Mentre ricordava alle suore la fondazione dei missionari, fece questa precisazione: «Poi, ma molto più tardi, siete venute voi, ma voi siete del papa Pio X. Una volta che gli parlavo di questa nuova fondazione, mi disse: “Bisogna farla”. E avendo io aggiunto che credevo di non avere la vocazione per questo, egli mi rispose: “Se non l’hai te la do io”. Ed ecco le suore».
Su questo particolare l’Allamano ritornò altre volte, perché per lui non era solo un dettaglio insignificante, ma la più esplicita espressione della volontà di Dio. Alle missionarie disse ancora: «L’idea della fondazione venne dal papa Pio X, che è il rappresentante di Gesù Cristo in terra, quindi non c’è stato neppure un momento che questa istituzione non sia stata di Nostro Signore». E in altra occasione: «È il papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». L’obbedienza al papa fu il fondamento della sua serenità di fondatore e di educatore delle missionarie.
C’è una testimonianza che aggiunge un aspetto originale e forse determinante. Secondo quanto scrisse padre Giuseppe Gallea, sembra che sia stato addirittura Pio X a suggerire la vera motivazione della fondazione: «Le opere in missione – avrebbe detto il pontefice all’Allamano -, procederanno meglio se le suore saranno formate con lo stesso spirito che avete dato ai missionari».
Molte suore, poche missionarie
Raccomandando alle loro preghiere il card. G. Gotti morente, l’Allamano così si espresse con le missionarie: «Era un uomo di fede; fu anche lui che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: è volontà di Dio che ci siano le suore. “Ma, risposi io, suore ce ne sono già tante”. E lui: “Molte suore, poche missionarie”».
Ben presto si passò alla realizzazione pratica, dando vita alla prima comunità delle missionarie della Consolata, ufficialmente il 29 gennaio 1910. L’annuncio al pubblico fu senza rumore. Sul periodico «La Consolata» del mese di febbraio 1910, figurano poche righe, che non accennano ad una “fondazione” ma la lasciano supporre: «La Direzione del periodico riceve spesso domande di informazioni da persone che vorrebbero prendere parte come suore nelle missioni della Consolata. Avvertiamo che per questo si rivolgano alla “Direzione Istituto Missionarie”, corso Duca di Genova, 49 – Torino». Tutto qui, secondo lo stile dell’Allamano: operare con ardore, ma senza apparire!
Francesco Pavese
Il valore dell’interculturalità
Crescere vivendo nell’interculturalità
L’interculturalità non è semplicemente un modello nuovo e più efficiente, magari per impostare la nostra attuale internazionalità o almeno mantenerla il più possibile libera da conflitti. Interculturalità, nella spiritualità del nostro Istituto, significa molto di più, cioè è invito a una visione più profonda dell’attuale mondo plurale e in continua evoluzione, e delle persone che lo abitano, indipendentemente da lingua, cultura e religione.
Una visione che è in sintonia con la «contemplazione cristiana a occhi aperti» e che va considerata anche nelle relazioni interpersonali all’interno delle nostre comunità formative.
Voi, cari giovani, siete privilegiati su questo punto, perché le vostre comunità sono di fatto internazionali e, conseguentemente, interculturali. Voi potete formarvi e crescere nell’esperienza vissuta dell’interculturalità.
La vostra generazione, fatta adulta, non potrà non essere interculturale. Nei nostri noviziati e case di formazione i segni dell’interculturalità sono già numerosi ed evidenti. Vi invito a continuare a percorrere il cammino intrapreso dando il meglio di voi. In un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale, è compito profetico della Chiesa e nostro, come Istituto, offrire al mondo nuovi modelli esemplari della vita comunitaria.
Ci potrebbe essere il rischio che, impegnandosi ad aderire alle varie culture, gradatamente si sottovaluti o si trascurino l’origine e la tradizione. Ricordiamoci che tutto possiede il suo valore. L’albero si mantiene vivo e produce frutto, se conserva le sue radici vive e sane. I futuri missionari della Consolata saranno necessariamente una famiglia interculturale, ma con tutti i valori e con lo spirito immutato proprio dell’Allamano. Questo ideale è stimolante e merita perseguirlo.
Il beato Allamano
Cari giovani, vi propongo un esercizio interessante, che consiste nel confrontare voi stessi con il fondatore vivo e perenne. Perché sia efficace, questo confronto deve essere realizzato spesso, non una volta sola, e in modo concreto, vitale e adatto al particolare momento che uno sta vivendo.
«Confrontarsi» con il fondatore significa compiere un gesto formativo di prim’ordine, purché sappiate porvi di fronte a lui, così come siete, lasciandovi conoscere e interrogandolo, magari discutendo, per poi rispondergli. Le risposte, però, non ve le dovete dare per conto vostro, con l’ausilio della vostra fantasia. Esse devono essere oggettive, cioè contenere la verità dello spirito del fondatore. Dire: «Oggi, il fondatore mi direbbe o farebbe così…», può essere comodo. Perché sia anche vero, si richiedono genuine disposizioni interiori, che impediscano di «barare».
Oltre alla conoscenza, è indispensabile la «Sapienza», e questa virtù ce la dona lo Spirito. Per cui, prima di confrontarvi con il fondatore, oltre alla coscienza di conoscere lui, la sua storicità, il suo pensiero, dovete «pregare», per avere luce e forza: luce per non sbagliarvi, forza per non voltarvi da un’altra parte e fingere di non aver capito. Il fondatore, anche oggi, non chiede l’impossibile, ma la coerenza, nel clima di fervore che ha sempre proposto ai suoi missionari.
Quando l’Allamano era con noi su questa terra, assicurava personalmente questo confronto con la comunità e con i singoli, mediante la sua opera formativa. Conosceva ognuno personalmente. Ora, continua a garantire questo confronto con l’ispirazione.
Come allora, anche oggi, a quanti sono suoi discepoli, è richiesto di essere attivi, accogliendo il suo insegnamento, seguendo le sue proposte, confrontando con lui la propria vita e la propria attività. Chi non realizza questo contatto esistenziale di conoscenza, sequela e confronto perché è negligente o perché non gli interessa, si pone al di fuori del suo influsso. Lo possiamo paragonare a quanti, durante la sua vita terrena, erano svogliati, distratti o freddi e non lo seguivano. Senza dubbio, nessuno di loro è diventato missionario della Consolata o, se lo è diventato, lo era solo giuridicamente, ma non nell’identità vocazionale.
Perché il contatto con colui che sentite «padre» della vostra vocazione si realizzi pienamente per tutti voi, vi assicuro la mia preghiera presso la Consolata e il fondatore, ai quali chiedo una speciale benedizione sui nostri noviziati e case di formazione, che sono il futuro della nostra famiglia missionaria.
Signore, ti ringraziamo per il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Padre e maestro, ci ha insegnato ad essere missionari in spirito di famiglia e santità di vita. Aiutaci a vivere con fedeltà e ardore la nostra consacrazione missionaria nella condivisione dello stesso carisma, nell’amore fraterno e nello zelo apostolico. Insegnaci ad annunciare a tutti che Tu sei Padre e chiami ogni persona, popolo e cultura a fare parte del tuo progetto universale di salvezza. Amen.
Aquiléo Fiorentini
Padre Aquiléo Fiorentini, brasiliano di nascita, è stato il primo superiore generale non italiano dell’Istituto missioni Consolata. Era pertanto logico che sentisse particolarmente importante il tema dell’interculturalità, verso cui l’Istituto sta camminando a passi veloci. Cogliamo da una sua lettera, del 20 maggio 2010, rivolta ai missionari giovani, una riflessione sul tema dell’interculturalità e della fedeltà al fondatore.
Sinodo dei giovani: Esperienze di giovani in «Missione»
Da ormai parecchi anni molte realtà in Italia propongono ai giovani di trascorrere un periodo in missione per un’esperienza concreta di incontro con il mondo. È una proposta che – anno dopo anno sta crescendo non solo nei numeri ma anche nella qualità: non è semplicemente una «vacanza alternativa», ma una proposta che mira a lasciare il segno nello sguardo con cui un giovane affronta la propria vita, anche qui in Italia.
Proprio per questo, in occasione del Sinodo che si tiene in questo mese di ottobre e ha per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», le riviste missionarie riunite nella Fesmi, insieme a Missio Giovani e al Segretariato Unitario di Animazione Missionaria (Suam) hanno pensato di promuovere un’indagine nazionale su questo tipo di esperienze e divulgarne i risultati preliminari in occasione del Sinodo.
Per conoscere la realtà dei giovani partiti sono stati predisposti due questionari,
uno rivolto alle realtà che promuovono questi percorsi,
l’altro proposto direttamente ai giovani partecipanti,
che sono stati inviati a tutti i Centri missionari diocesani, agli istituti missionari e alle associazioni cattoliche di volontariato che in Italia promuovono esperienze, estive e non, in missione.
I primi risultati di questo censimento sono una sintesi delle risposte che 39 realtà – tra centri missionari diocesani, istituti religiosi e associazioni – hanno offerto al questionario loro rivolto.
Viene raccolta anche la voce di 106 giovani partecipanti, che hanno offerto il proprio feed-back su quanto ha lasciato loro in eredità il periodo trascorso in missione.
Va precisato che si tratta di un campione parziale senza alcuna pretesa di esaustività: sappiamo bene essere molti di più i centri missionari e gli istituti che organizzano questo tipo di proposte. Inoltre esperienze del genere sono organizzate anche da singole parrocchie in collaborazione con missionari o missionarie della propria comunità. Quanto presentato di seguito, dunque, vuole essere semplicemente un primo sguardo, nella speranza di riuscire in futuro a offrire una fotografia più completa; e non potrebbe essere anche un frutto del Sinodo su giovani e discernimento vocazionale?
Nota: va ricordato che l’Agesci invia ogni anno circa 450 giovani a fare esperienze di servizio in Africa, America Latina e altri paesi dell’Asia Minore e dell’Europa.
Giovani in Missione: Dati significativi
Con questa premessa, presentiamo alcuni dati significativi emersi dall’indagine:
Quanti giovani in missione?
Nelle realtà censite il numero complessivo di ragazzi e ragazze coinvolti nelle esperienze estive promosse in missione nell’estate 2018 si aggira intorno ai 1000 giovani;
per molte realtà si tratta di una proposta consolidata: più della metà degli enti che hanno risposto al questionario racconta di offrire questo tipo di esperienza da almeno 10 anni
una stima complessiva del numero di giovani coinvolti dall’avvio delle proposte parla ormai di almeno 20.000 giovani italiani inviati in missione da queste 39 realtà.
Chi sono e dove vanno questi giovani?
L’età media è molto giovane: il 39% dei ragazzi coinvolti ha meno di 25 anni, solo il 26% ha superato i 30 anni
tra i partecipanti vi sono lavoratori (54%), studenti (37%) e giovani in cerca di un’occupazione (9%)
Le risposte pervenute direttamente dai giovani sono per il 71% da donne
per la metà dei giovani si tratta di un’esperienza unica nell’arco della propria vita. E sono comunque meno del 30% i giovani partecipanti alle esperienze del 2018 che raccontano di essere stati in missione più di due volte
le destinazioni abbracciano tutti i continenti con una prevalenza significativa dell’Africa (38%)
la durata varia a seconda delle proposte: per molti l’esperienza dura solo tre o quattro settimane, ma c’è anche chi vive in missione per alcuni mesi.
Come arrivano?
Pochi partono da soli: a seconda della proposta si arriva in missione in gruppo (58%) oppure insieme a una o altre due persone (34%); la dimensione comunitaria, dunque, è un fattore importante;
l’esperienza non arriva all’improvviso ma è solitamente preparata con cura. L’82% dei giovani parte dopo aver frequentato un cammino di preparazione; e almeno la metà dei giovani che partono lo fa al termine di un cammino che è andato avanti durante tutto l’anno precedente all’esperienza in missione
nel 40% dei casi, poi, anche al ritorno è previsto un nuovo percorso che continua durante tutto l’anno successivo; per far sì che l’esperienza vissuta in missione non sia qualcosa di estemporaneo, ma un tempo forte della propria vita.
Come incide l’esperienza vissuta in missione sulla loro vita?
A molti lascia in eredità un forte senso di responsabilità: il 69% dei giovani racconta – una volta tornato a casa – di aver scelto di assumersi un impegno in parrocchia o nella propria diocesi o in un’associazione di volontariato. Molti di questi impegni sono legati all’ambito dell’animazione missionaria in Italia. Un altro sbocco interessante per alcuni è l’impegno nel campo dell’assistenza ai migranti in Italia, nel segno della continuità nell’apertura al mondo. Più in generale c’è chi racconta di aver cambiato almeno un po’ il proprio stile di vita in Italia, di essere più attento a questioni come il consumo dell’acqua, di aver cambiato il modo di vedere tante cose
non mancano difficoltà di ambientamento in missione: il clima, le condizioni di vita, a volte anche lo stesso dover accettare di non essere lì per fare qualcosa ma semplicemente per condividere. Ma anche questa fatica alla fine viene riconosciuta come un dono dell’esperienza vissuta in missione.
emerge però chiara un’altra fatica che ha a che fare con il ritorno a casa: una volta tornati in parrocchia si fa fatica a trovare un ambiente aperto ad accogliere davvero la ricchezza vissuta in missione da questi ragazzi e ragazze. L’impressione che emerge è quella che abbiano vissuto un’esperienza che riconoscono essere stata molto ricca da un punto di vista personale, ma che fatica a far crescere intorno a sé la consapevolezza e l’apertura al mondo anche in chi è rimasto a casa. Il che – evidentemente – pone a tutti i livelli una sfida pastorale su come valorizzare meglio queste esperienze ormai così diffuse.
I FRUTTI RACCOLTI “IN MISSIONE”
Di seguito alcune frasi scritte di chi ha fatto l’esperienza “missionaria”:
«Ho imparato un modo nuovo di vedere le cose: anche casa mia, da quando sono tornato, mi sembra un mondo nuovo e diverso»
«Ho imparato che cosa vuol dire sentirsi stranieri, cosa vuol dire non essere accettati, ho conosciuto correnti di pensiero completamente diverse dalle nostre. Mi ha arricchito mostrandomi un mondo che non avevo mai visto».
«Ogni incontro, ogni realtà, ogni storia, ogni ferita… tutto è stato un dono prezioso. L’esperienza ha cambiato il mio sguardo, mi ha messa in discussione, mi ha lasciato tanto e ha fatto tanto spazio. Ha cambiato la mia vita in un modo che non mi sarei mai aspettata»
«Mi ha cambiato la percezione del tempo, delle attività da svolgere nella giornata, l’attenzione a me stessa, la preghiera quotidiana per accettare quello che non capisco. Mi ha dato una “direzione”, mi ha fatto capire quanto sia bello vivere servendo».
«Mi ha fatto comprendere l’importanza del ruolo del missionario: non è colui che fa qualcosa per l’altro, ma colui che è qualcosa per l’altro e l’altra. Mi ha aperto gli occhi di fronte al mio bisogno di amare ed essere amata e mi ha permesso di rendermi conto di come, quando non organizziamo tutto e non abbiamo la pretesa che tutto sia sotto il nostro controllo, c’è qualcuno che si sta guidando. Infine mi ha fatto conoscere una realtà molto povera, ma che ha molto da insegnare a noi oggi nel tornare a relazioni più vere e di apertura verso l’altro».
«Poter toccare con mano come si vive in questi luoghi, quali povertà e ricchezze offrono, vedere, sentire e vivere con la gente ogni giorno ti arricchisce, ti cambia, è un’esperienza che entra a far parte di te e che non puoi fare a meno di condividere con gli altri».
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Questi dati indicano una cosa molto chiara: queste esperienze sono una ricchezza non solo per il mondo missionario, ma anche per tutta la Chiesa e la società italiana. In questo momento storico, segnato dalla paura della diversità e dalla tentazione della chiusura, questi ragazzi e ragazze tornano dalla missione con uno sguardo nuovo sul mondo e desiderano spenderlo anche nella forma di un impegno concreto qui in Italia.
La Chiesa italiana si è accorta di loro? Ed è disposta a investire su questo patrimonio?
Anche al mondo missionario questi dati chiedono però un passo in più: l’indagine, pur con i suoi limiti, rappresenta il primo tentativo di mettere in rete questo tipo di esperienze nate e portate avanti autonomamente da ciascuna realtà. Proprio l’importanza che i giovani danno a questo tipo di esperienze non dovrebbe incoraggiare una maggiore collaborazione tra le realtà che propongono questo tipo di esperienze? Pur senza perdere nulla della specificità di ciascun ente, si potrebbero elaborare percorsi e strumenti condivisi, utili per strutturare meglio i percorsi di preparazione e i momenti proposti al rientro in Italia.
Le parrocchie e comunità locali non potrebbero valorizzare meglio la presenza di questi e queste giovani, con il loro vissuto?
Possono queste esperienze maturare in un serio processo di discernimento e diventare occasione per donare al mondo non solo qualche settimana ma tutta la propria vita? In quali forme? Sono domande che il Sinodo ci rilancia…
Fesmi, Missio Giovani, Suam 3 ottobre 2018
Questa rivista – Missioni Consolata – è parte della Fesmi, Federazione Stampa Missionaria Italiana
«Fratelli, vivete la vostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore glorioso, senza ingiuste preferenze per nessuno», scrive Giacomo (Gc 2,1). «Facciamo un esempio»: con l’aereo arriva CR61, ricco, aitante e famoso, «voi vi mostrate pieni di premure e dite»: ecco qui un bel po’ di milioni per farci incantare dalla tua fama. «Viene anche uno che è povero e vestito male»; è scuro di pelle e arriva dal mare, tale Pacchia 18i. A lui, invece, dite: rimani sulla nave, che ti rimandiamo da dove sei venuto, ladro di lavoro, insidiatore di donne, mangiatore a ufo. «Se vi comportate così, non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?» (Giacomo 2,1-4).
Il testo di Giacomo non è proprio così, ma forse lo sarebbe stato se lo avesse scritto nell’Italia e nell’Europa di oggi contagiate da sovranismi, populismi, xenofobie, nostalgie vetero-cattoliche e rigurgiti antipapisti o, meglio, anti-Francesco. Avrebbe detto parole di fuoco in questa nostra Europa che sembra avvinta da un identitarismo cristiano di facciata («appartenere e credere senza praticare») cavalcato da tanti politici. Una pseudo identità cristiana che trova alleati in certi movimenti politici e religiosi che vedono nel Vaticano II, e soprattutto in Francesco, lo stravolgimento della Chiesa. E in nome di questa presunta identità cristiana si costruiscono muri, si difendono privilegi, si giustificano intolleranza, esclusioni, razzismi e violenze. «Non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?», dice Giacomo.
La logica del Vangelo è diversa, e ce lo ricorda Francesco: «[La] trasmissione della fede avviene dunque per il “contagio” dell’amore, [essa] esige cuori aperti, dilatati dall’amore. All’amore non è possibile porre limiti: forte come la morte è l’amore (cfr Ct 8,6). E tale espansione genera l’incontro, la testimonianza, l’annuncio; genera la condivisione nella carità con tutti coloro che, lontani dalla fede, si dimostrano ad essa indifferenti, a volte avversi e contrari. Ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù e alla presenza sacramentale della Chiesa rappresentano le estreme periferie, gli “estremi confini della terra”, verso cui, fin dalla Pasqua di Gesù, i suoi discepoli missionari sono inviati, nella certezza di avere il loro Signore sempre con sé (cfr Mt 28,20; At 1,8). In questo consiste ciò che chiamiamo missio ad gentes» (Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2018).
Essere dalla parte del Vangelo è fare scelte concrete di Amore che contestano il modo farisaico di vivere una religione centrata sul sacro e sull’esteriorità e che non disturba né l’economia che sfrutta l’uomo e l’ambiente (a beneficio di pochi straricchi), né la politica autoritaria e populista che offre false sicurezze e utopie. Le scelte d’amore sono scelte che si pagano, a cominciare dagli insulti sui social, dalla violenza e intolleranza subite quotidianamente, legittimate dal vocabolario e dallo stile di chi dovrebbe essere al «servizio» del bene comune. E questo è vero non solo nel mondo della politica, ma anche all’interno della Chiesa stessa, dove – è triste scriverlo – si consumano gli attacchi più feroci proprio contro papa Francesco, autentico testimone della misericordia di Dio.
La Chiesa di Gesù è nel mondo senza accettare la logica del mondo, cosciente delle sue debolezze ma anche della forza della Parola di cui è custode e testimone. La Chiesa di cui siamo parte che non è il Vaticano, quel chilometro quadrato della città di Roma ricco di bellezza e, allo stesso tempo, segnato da contraddizioni e scandali. La Chiesa non è solo vescovi e preti, religiosi e suore. Troppo comodo pensarla così e denigrarla per gli eventuali scandali di chi dovrebbe essere esempio di santità, generalizzando, dimenticando le testimonianze meravigliose di chi senza rumore e pubblicità paga di persona, anche con la propria vita, ignorando le malefatte che anche i «laici» commettono quotidianamente.
La Chiesa è di ogni cristiano, di ogni battezzato: la mia Chiesa, la tua, la nostra Chiesa, di cui siamo pietre vive, nella quale siamo attori, non spettatori o giudici. La nostra «Madre» Chiesa, «santa e prostituta», come scrivevano i Padri, che impoveriamo con le nostre debolezze, ma rendiamo splendida se «con le nostre opere belle» facciamo sì che gli uomini «rendano gloria al Padre nostro che è nei cieli» (cfr Mt 5,16).
Gigi Anataloni
1.«CR6». Dicono sia CR7, ma il 7 nella Bibbia è il numero della perfezione, meglio il 6, un po’ imperfetto…
con gioia e stupore ti ringraziamo perché per un’iniziativa del tuo amore preveniente ci troviamo in questo mondo. Per mezzo del Cristo, tuo dilettissimo Figlio, ci hai creati a tua immagine e ci hai rigenerati a vita nuova, rendendoci tuoi figli adottivi in virtù del dono del tuo Santo Spirito, che ci fa vivere l’entusiasmante avventura di chiamarti Papà nella Chiesa, tua famiglia. Nella fede riconosciamo che la nostra vita è una missione: attratti da te ed inviati nel mondo, ci percepiamo interiormente animati dal tuo Spirito d’amore che custodisce in noi la speranza. Ti supplichiamo umilmente: fa’ che nessuno rifiuti il tuo amore, in modo tale che cessi la povertà materiale e morale e ogni discriminazione di fratelli e sorelle.
O Cristo Gesù crocifisso e risorto,
aprendoci alla missione che tu ci affidi dicendoci: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», la nostra fede rimane sempre giovane. Tu dai senso alla nostra vita, tu sei la verità che ci rende liberi, il tesoro che riempie di gioia la vita, il fondamento dei nostri sogni e la forza per realizzarli. Stando con te prendiamo coscienza che il male è provocazione ad amare sempre di più. Dalla tua croce gloriosa impariamo la tua logica amorosa, l’offerta di noi stessi come annuncio del tuo Vangelo per la vita del mondo. Tu per la fede abiti nei nostri cuori e vuoi parlare e agire in noi.
Spirito Santo, anima della Chiesa,
dal battesimo dimori in noi come in un tempio.
Illumina e infiamma la mente e il cuore di ciascuno di noi, rendendoci missionari del Vangelo nel mondo
intero. Ti ringraziamo per il dono di coloro
che ci hanno trasmesso la fede con la vita e la parola, testimoniando la perenne vitalità del Vangelo.
O Maria, Regina degli Apostoli e madre e modello della Chiesa,
prega per noi perché in fretta raggiungiamo gli ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù vivente nella Chiesa. Aiutaci a donarci nella vocazione che ci è stata regalata dal Creatore, seguendo il tuo Figlio Gesù. Insegnaci a metterci il grembiule per servire i più piccoli, promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Ricordaci che molta gente ha bisogno di noi, che Cristo conta su di noi, chiamandoci incessantemente ad essere suoi discepoli missionari, sempre più appassionati per il suo Regno.
San Francesco Saverio, Santa Teresa del Gesù
Bambino, Beato Paolo Manna, intercedete per noi e accompagnateci sempre.
Amen. Alleluia!
don Francesco Dell’Orco di Bisceglie (BT), 02/08/2018
Ha ragione Salvini?
Cari Missionari,
ve la prendete se dico che, almeno in una cosa, Salvini ha ragione? Non è meglio se i coniugati che hanno figli vengano chiamati padre e madre, anziché genitore uno e genitore due?
Mario Zumpanesi 12/08/2018
Caro Mario,
dal mio povero punto di vista non credo ci sia bisogno di scomodare Salvini per dire che un bambino/a ha un padre (maschio) e una madre (femmina) e non genitore 1 e/o 2. Lo dice la natura stessa, la nostra specie. Tanto più che essa è una realtà con paladini più credibili di un ministro che governa (o fa campagna elettorale perenne) twittando.
Primo, c’è una tradizione dell’umanità che va avanti da qualche migliaio di anni ed è condivisa dalle culture più disparate. E questo è «civiltà», come avrebbe scritto Giovannino Guareschi che definiva «progresso» la «tornilette vicino alla stanza dove mangi e dormi», e «civiltà» il «cesso fuori da dove vivi» (come era un tempo nella sua Bassa).
Poi c’è una solida tradizione biblica e cristiana. È vero, il Vangelo non ha norme su come devono essere scritti e formulati i documenti dello stato, e quindi è legittimo che questo usi le diciture che preferisce. Ma se si vuole essere davvero inclusivi e rispettare tutti i credi e le opinioni, perché imporre a tutti quel «genitore 1 e 2» che, se rispetta una minoranza, insulta invece una grande maggioranza?
Da ultimo. Uno stato può e deve legiferare su aborto, divorzio, unioni omosessuali, gender, utero in affitto e via dicendo, ma per un credente l’aborto rimane un omicidio, il matrimonio è per la vita, l’unione tra due persone dello stesso sesso non è matrimonio, l’utero in affitto non è accettabile (vedi a pag. 62) così come la sperimentazione genetica sui feti, un bambino/a nasce dall’incontro tra uno spermatozoo di un maschio e l’ovulo di una femmina, eccetera. Benvenga la modifica dei documenti twittata da Salvini, purché mantenga uno spazio di rispetto per chi la pensa in modo diverso e non sia un’imposizione ideologica.
Dissentire da Gesualdi
Gent.mo padre Gigi,
seguo da anni la rivista e apprezzo molti articoli, devo però dissentire su molte cose scritte negli articoli di Francesco Gesualdi.
Ad esempio, nell’articolo di giugno appare che tanti problemi siano dovuti alla mancanza di sovranità monetaria degli stati. Quando si afferma che «la moneta unica ha prodotto risultati disastrosi», forse sarà pur vero in qualche caso (ha tolto terreno agli speculatori), ma è innegabile che i risultati positivi sono stati di gran lunga maggiori. Ma se la Grecia o l’Italia non avessero avuto una stabilità monetaria cosa sarebbe successo?
Come sarebbero stati gli interessi che si sarebbero dovuti pagare, senza l’euro, a chi ha prestato capitali (usati per politiche demagogiche come mandare in pensione statali con soli 15 anni di lavoro o dare invalidità a tanti che non ne avevano diritto)? Ma si è certi che bastava stampare altra lira per azzerare il debito? Il default dell’Italia sarebbe stato meglio?
Il vero problema è la mancanza di una politica comune (fiscale, economica, estera) e l’esistenza di tanti egoismi locali e nazionali. Ripeto: il problema non è la mancanza di sovranità monetaria.
Quando si fa riferimento a Keynes, come esempio da seguire si dimentica che sono passati 90 anni, che il mondo è cambiato, le distanze si sono enormemente accorciate; alcuni stati (europei e non solo) hanno bilanci inferiori a quelli di alcune multinazionali. Non si può tornare indietro … «Piccolo è bello», slogan in voga negli anni ‘80-’90 ha dimostrato che è un’illusione chiudersi nel proprio piccolo, nazione o gruppo.
Comunque, continuerò a leggere Missioni Consolata e quando leggerò gli articoli di Gesualdi scuoterò sconsolato la testa.
Antonio Borello 20/07/2018
Caro signor Antonio,
quanto Francesco Gesualdi scrive con competenza e passione, non è Vangelo. È un contributo alla comprensione di una realtà – come quella economica – estremamente complessa e sempre più fuori dal controllo non solo di noi gente comune, ma a volte anche dei governi.
È vero che ci fa più piacere leggere cose che confermano quello che già pensiamo, ma confrontarci con chi la pensa diversamente da noi ci arricchisce e ci può invogliare ad approfondire di più e conoscere meglio.
La logica di questa rivista non è quella dei social: riscuotere il più alto numero di «mi piace». Non cerchiamo il consenso, ma crediamo nel cuore e nell’intelligenza dei nostri lettori di cui rispettiamo fino in fondo la libertà di pensiero e di opinione.
Spezzare la catena
La rete che fa partire i migranti africani, cioè quelli che si fermano in Libia, ce l’hanno descritta più volte: ci sono quelli che girano nei paesi per convincere le persone a partire e poi le vendono a una lunga catena di intermediari in tutti i paesi attraversati. Vengono bloccate e torturate fin quando non arrivano altri soldi, e poi l’ultima sanguinosa estorsione avviene in Libia, che magari prende soldi italiani per rubarci su costruendo lager, e altri ancora li estorce dai poveretti per lasciarli imbarcare.
Non potrebbero giornalisti coraggiosi, magari assumendo informazioni dai missionari, descrivere bene questa catena (in cui, a occhio, c’entrano molti stati ex francesi e ora comunque collegati con la Francia che tanto strilla per non riceverli) e l’Italia occuparsi di diffondere queste informazioni su tutte le reti possibili, in modo che arrivino nei paesi d’origine dei migranti?
Claudio Bellavita
04/07/2018
Il problema è grande. Ci sono Ong, associazioni e chiese che si impegnano in questo campo. Pensi solo alla rete «Talitha Kum» creata da tante suore nel mondo che stanno lottando contro la tratta di persone. Oppure alle attività di cui abbiamo scritto a proposito del Niger (MC 3 e 4/2018) o del soccorso in mare (dossier MC 1-2/2018). Quanto alle responsabilità, quella francese è fuori discussione, visto la politica colonialista passata e recente. Ma neanche noi italiani possiamo ritenerci del tutto innocenti: Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia sono nostre ex colonie e il nostro colonialismo non è stato «più buono» di quello inglese, francese o tedesco.
Crollo di una diga in Laos
Spero che la tragedia del 24 luglio, quando il crollo di una colossale diga ha provocato la morte di oltre cento persone e la scomparsa di decine di villaggi nel Sud del Laos, convinca i governanti che il Mekong, più che un gigante pericoloso da imbrigliare con costosissime operazioni di ingegneria idraulica, è un fiume che dovrebbe essere amato, capito e valorizzato per quello che è, ovvero un patrimonio di eccezionale valore biologico, naturalistico e paesaggistico.
Spero che i professionisti dell’informazione facciano del loro meglio per ricordare a tutti che la tutela del Laos e della sua natura è di cruciale importanza per la conservazione degli equilibri ecologici e climatici nella regione del Sudest Asiatico e non solo.
Ave Baldassarretti
12/08/2018
I disastri non risparmiano alcun angolo del mondo. Ma non dovremmo aver bisogno di terremoti, inondazioni, incendi, tsunami ed eruzioni per «custodire il creato». Papa Francesco, nell’enciclica «Laudato si’», ci ha ricordato con forza e chiarezza la nostra responsabilità. Ma come è difficile per tutti cambiare e smettere di comportarci da «padroni» e diventare invece «custodi» e «giardinieri» del mondo.
Cammino verso Czestochowa
«Se vogliamo conoscere il cuore dei polacchi, occorre venire qui a Czestochowa al santuario della Madonna Nera. Bisogna ascoltare in questo luogo l’eco della vita dell’intero popolo vicino al cuore della sua Madre e Regina».
Queste parole pronunciate da Giovanni Paolo II esprimono bene quel rapporto tra il santuario di Czestochowa e la vita di milioni di fedeli. La prospettiva migliore per capire tutto questo è di partecipare a uno dei numerosi pellegrinaggi che a piedi da ogni parte del paese d’estate si dirigono qui. Si contano ogni anno circa 250mila pellegrini provenienti da tutte le 41 diocesi polacche.
La tradizione dei pellegrinaggi al santuario della Madonna Nera è antica. I primi gruppi documentati risalgono al
XVII sec. Nel settembre del 1626 un gruppo di 80 fedeli partì da Gliwice diretto a Czestochowa per onorare un voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’assedio dell’esercito danese. Il voto impegnava i cittadini a recarsi lì ogni anno per ringraziare e far memoria dell’evento.
Pochi anni dopo nel 1637 anche i fedeli della città di Kalisz iniziarono a recarsi a piedi al santuario e, cosa singolare, a fare a piedi anche il ritorno. Nel 1771, il 6 agosto, anche i varsaviani come voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dalla peste inziarono a pellegrinare verso il santuario. Questi primi gruppi iniziarono una tradizione ininterrotta che si è sviluppata grandemente e ancora oggi dopo diversi secoli resiste nel tempo.
Dalla sola città di Varsavia partono ogni estate almeno cinque pellegrinaggi a piedi, tra questi quello organizzato dalla Pastorale universitaria dell’Arcidiocesi che ha sede nell’antica chiesa di sant’Anna, nel centro della città. Vi partecipano mediamente 4mila giovani e famiglie divisi in 19 gruppi. Uno di questi gruppi, quello argento, lo guidiamo noi missionari della Consolata. Infatti, fin dal nostro arrivo in Polonia nel 2008 ogni anno partecipiamo al pellegrinaggio con questo gruppo.
Il percorso è di circa 300 km diviso in 10 giorni dal 5 al 14 agosto. La giornata inizia con la sveglia all’alba. Dopo essersi preparati, aver ripiegato la tenda o aver sistemato il sacco a pelo usato nel fienile di qualche contadino, i pellegrini sono pronti ad affrontare la lunga giornata. Ogni due ore circa si fa una sosta nei pressi di una parrocchia che organizza l’accoglienza. Il parroco benedice con l’acqua santa i gruppi che arrivano, mentre i parrocchiani ristorano gli affaticati pellegrini con panini e bevande. In cambio ricevono riconoscenza e tante preghiere. Il programma spirituale è intenso. Ogni giorno, in una cornice di canti gioiosi, vengono fatte conferenze dai sacerdoti, preghiere tradizionali, il rosario, la Corona alla divina misericordia e, come momento culminante, la S. Messa. Alla sera ci si saluta con un momento di ringraziamento in gruppo e un canto mariano. Ogni giorno si fa esperienza dell’ospitalità presso famiglie semplici di villaggi che condividono quello che hanno. Forniscono un po’ di acqua per lavarsi dopo la calda giornata, rendono accessibile il fienile per sistemare i sacchi a pelo e trascorrere la notte oppure i propri giardini su cui montare le tende e passare qualche ora di riposo notturno indispensabile per riprendere un po’ di forza e ripartire il giorno dopo.
Il clima che si crea tra i pellegrini è di grande fraternità e di gioia. Una gioia che umanamente è difficile scorgere in una esperienza obiettivamente faticosa. Eppure, ogni partecipante vive una forza interiore che lo sorregge e incoraggia. Questa forza, lo crediamo, ci è data da Colei verso cui e per cui camminiamo offrendole le fatiche e tantissime intenzioni di preghiera.
Il nostro gruppo in mezzo agli altri si distingue per la caratteristica missionaria. La nostra presenza internazionale vuole essere un segno della universalità della nostra fede vissuta nella fraternità. Spesso invitiamo confratelli e amici da altri paesi che arricchiscono le giornate con i loro racconti e testimonianze.
In una cultura occidentale che propone all’uomo moderno una tecnologizzazione globale, spesso anonima, che esclude le distanze e gli incontri reali così come ogni forma di sacro, il pellegrinare a piedi ha ancora un suo significato prezioso: ridare all’uomo il giusto orientamento per il quale è nato, quello del camminare con altri condividendo una forte esperienza di fede. Per questo andare a piedi percorrendo centinaia di chilometri ha un suo senso e le persone che vi partecipano lo testimoniano con convinzione.
padre Luca Bovio Czestochowa, 17/08/2018
Grazie, Asante sana
Ringrazio Dio per avermi aiutata a concludere gli studi e a diventare una maestra. Lo ringrazio perché l’aiuto di tante persone che neppure conosco mi ha permesso di arrivare a questo punto e superare tutte le difficoltà. Grazie per esserci stati per me quando avevo più bisogno di voi.
Catherine Smaila Maralal, Kenya
Con queste parole Smaila [o Smiler) ha voluto ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla sua educazione dalla scuola elementare fino al completamento dei suoi studi al Teacher’s College.
Ma oggi Smaila è tornata a sorridere grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno permesso di aiutarla nei lunghi anni di scuola. Con lei e con tanti altri bambini e bambine che hanno concluso il loro ciclo di studi o stanno ancora studiando, vi ringarzio anch’io di cuore. Il «sostegno a distanza» è un’avventura lunga e impegnativa, ma la gioia che dà è grande. Che il Signore ricompensi ciascuno di voi per la pazienza e l’affetto con cui aiutate noi missionari a restituire il sorriso e la speranza a tante persone in situazione di grande povertà e sofferenza.
Ricordando padre Giovanni Calleri, vulcano d’amore
Testi in memoria di don/padre Giovanni Calleri di: Ernesto Billò, Margherita Allena, Ugo Pozzoli, Corrado Dalmonego e scritti vari dagli archivi Imc
A cura di: Gigi Anataloni
Foto: da Archivio fotografico MC e famiglia Calleri
Sommario
«Se dovessi morire, è per una grande causa» (G. Calleri)
Un giovane prete, missionario esemplare per generosità e coraggio. Un turbine di attivismo e di apostolato che sa coinvolgere, sorprendere, trascinare i giovani e i meno giovani. Padre Giovanni Calleri, carrucese (di Carrù Cn), perde la vita a soli 34 anni, tutti fervidamente vissuti. La perde in Brasile, nella foresta amazzonica, il 1° novembre 1968, durante una spedizione da lui guidata fra gli indios Waimiri-Atroarí del rio Alalaú (o rio sant’Antonio). Partita da Manaus il 13 ottobre con intenti umanitari e pacificatori, padre Calleri sa che l’impresa è molto rischiosa, anche per lui che in precedenza ha già saputo vincere la diffidenza degli Yanomami.
Proprio per i suoi precedenti contatti con gli indios, padre Calleri era parso l’uomo giusto per tentare la mediazione nel conflitto tra indigeni e governo: sia ai suoi superiori della prelazia di Roraima, che alle istituzioni brasiliane, preoccupate di superare le tenaci ostilità di indios ancora non contattati alla realizzazione di una strada nella foresta lunga 800 chilometri, da Manaus (Brasile) a Caracas (Venezuela): la Br-174, un’arteria che poteva cambiare aspetto all’Amazzonia «aprendola alla civiltà», ma anche a colossali interessi economici e minerari, all’invasione delle terre da parte di coloni e alla diffusione di malattie e «vizi» dei «bianchi» sconosciuti agli indigeni.
Sentendosi invasi nei loro territori millenari, gli indios, con attacchi a sorpresa, avevano costretto l’impresa a interrompere i lavori a duecento chilometri da Manaus; e proprio lì doveva intervenire la spedizione guidata da padre Calleri (in tutto, compreso lui, otto uomini e due donne) per convincere i diversi gruppi di indigeni a spostarsi dall’area interessata dalla costruzione della strada. Certo erano in gioco interessi estranei allo spirito evangelico di un missionario; ma egli sapeva che il governo era determinato a fare la strada a ogni costo e che sui duemila indios Waimiri-Atroarí pesava la minaccia di sterminio sia con bombardamenti dal cielo che con rappresaglie da parte dell’esercito. Padre Giovanni era ben consapevole dei pericoli che avrebbero corso lui e i suoi compagni, sia per l’istintiva diffidenza degli indios, sia per le ambiguità del governo e gli enormi interessi in gioco; ma non gli mancavano coraggio e fiducia in Dio. «Se dovessi morire, si sappia che è stato per una grande causa», scrisse, partendo, alla famiglia a Carrù.
La spedizione partì a metà ottobre da Manaus, il 22 cominciò a entrare nel territorio conteso. Aveva tempo un paio di mesi per pacificare gli indios, poi l’esercito avrebbe avuto mano libera. Durante la spedizione sette messaggi radio raggiunsero Manaus in un’alternanza di speranze e di allarmi. Poi, dal 31 ottobre, la radio tacque: un silenzio carico di brutti presagi. Le ricerche partirono con grande ritardo il 7 novembre con ricognizioni aeree, e solo dal 24 novembre con pattuglie nella foresta, fino all’atroce scoperta del 30 novembre: nove cadaveri ridotti a scheletri spolpati dagli animali e dagli avvoltorni. Un massacro per il quale furono incolpati e puniti gli indios. Più avanti presero forza ipotesi inquietanti, come quella di un doppio gioco messo in atto da un membro della spedizione, unico sopravvissuto, in combutta con alcuni indigeni traditori e il governo, per favorire la soluzione drastica voluta da quest’ultimo contro gli indigeni.
Grande sconcerto si diffuse tra confratelli e amici in Brasile, commozione in Italia, nella sua famiglia e dovunque padre Giovanni era passato lasciando segni e semi di una presenza umana ed ecclesiale di singolare incisività. Fu vasta l’eco alla tivù, sui giornali nazionali e locali.
Ernesto Billò
Da Carrù al rio Alalaú:
quando l’amore non ha confini
«Non si accontentava delle mezze misure»
Cinquant’anni fa, padre Giovanni Calleri e otto dei suoi nove compagni di spedizione (sei uomini e due donne) furono massacrati dagli indios Waimiri-Atroarí nei pressi del rio Alalaú, nello stato di Roraima in Brasile. Volevano pacificare le comunità indigene e convincerle a spostarsi dal percorso della strada Manaus – Caracas, la Br-174, che il governo era deciso a costruire ad ogni costo invadendo i loro territori ancestrali e facendo piazza pulita di ogni resistenza. La spedizione aveva poche settimane di tempo per raggiungere lo scopo, ma troppi interessi erano in gioco. Un’impresa che si capisce solo nella logica dell’amore.
Nato nel 1934, ultimo di quattro figli (Maria, Margherita, Lucia le sorelle), a otto anni – nel 1942 – rimane orfano del padre Giuseppe, che, dopo alcuni anni vissuti da migrante in California, era tornato e aveva acquistato la cascina Pralungo a Morozzo (Cn). La mamma Lucia Massimino, rimasta vedova, deve far ricorso al proprio carattere forte, pratico, risoluto. Trasferisce i suoi in via Monasteroli a Carrù, e lì Giovanni – legato alle sorelle, specie a Margherita (poi suor Teresina), alla madrina e ai cugini – frequenta le prime classi elementari e la parrocchia retta allora da don Giorgio Oderda che consiglia per lui nell’ottobre ‘44 il passaggio alla quinta elementare nel piccolo seminario della diocesi di Mondovì a Vicoforte. E lo presenta così: «È un bravo giovinetto inclinato a pietà, assiduo nel servizio in chiesa e tra gli aspiranti di Azione Cattolica Può diventare domani un buon sacerdote». Giovanni ha solo dieci anni, e condivide quel distacco da casa con l’amico Antonio Servetti e con un ragazzo di qualche anno maggiore, Matteo Rino Filippi.
Da Carrù al seminario
Per Carrù e la Langa è un periodo drammatico sotto l’occupazione nazifascista. Il seminario tiene quei ragazzi al riparo dai rigori della lotta, ma non dai rigori di un’alimentazione di pura sussistenza. Giovani stomaci vuoti, bilanciati dalla spensieratezza dell’età e dall’impegno nello studio e nella preghiera. Nonostante quelle ristrettezze Giovanni comincia a manifestare vitalità, intraprendenza e ingegnosità non comuni. «Non si accontentava delle mezze misure», ricorda la sorella Margherita che di lì a poco sarebbe entrata, ventenne, nella clausura del Carmelo a Torino col nome di suor Teresina. La mamma fa fatica ad accettare come una benedizione quella duplice vocazione nata in famiglia, ma come non capirla? Sì, perché alla conclusione della quinta ginnasio, Giovanni – a differenza dei suoi due amici – sceglie di vestire la talare e di proseguire gli studi (filosofia dal 1950 al 1953 e teologia dal 1953 al 1957) nell’antico seminario maggiore di Mondovì Piazza. Lo fa con convinzione, anche se la mamma lo vorrebbe ingegnere.
A ogni fine d’anno ottiene risultati e giudizi più che buoni, e più che buone sono le relazioni stese da don Oderda sulla sua condotta nelle settimane estive in cui torna a casa per le vacanze: «Pietà profonda, volontà tenace, studioso con vocazione sicura». Col rettore del seminario don Giorgio Gasco, invece, qualche attrito e incomprensione non mancano per la vivacità e impulsività del giovane, tipica di una personalità in formazione desiderosa di agire sulle cose e sugli altri, con slancio e una certa autonomia, come dimostrano le sgroppate estive in bicicletta anche assai lontano e le avventurose uscite con i seminaristi più piccoli affidati alla sua assistenza negli anni ‘54-‘56. Nel dicembre del ‘56, quando è suddiacono, esprime al direttore del seminario il suo desiderio di diventare missionario. Un proposito al quale ha contribuito, dalla clausura, anche suor Teresina. I diretti superiori però rinviano a tempo imprecisato ogni decisione. Intanto le inattese difficoltà, gli inspiegabili ostacoli incontrati via via lo radicano ancor più nel suo sogno.
Vicecurato «dirompente»
Il 29 giugno 1957 Giovanni è ordinato prete (con Angelo Maritano, Efisio Caredda, Giovanni Crosetti, Armando Peano) da monsignor Sebastiano Briacca, vescovo di Mondovì. E subito va vicecurato festivo a Niella Tanaro, dove – giovane coi giovani – anima un ventaglio di proposte e di attività: dalle gite in bici in gruppo, al lancio – fallito – di una mongolfiera alta come il campanile, e tanto altro. Non tardano a venire espresse su di lui alcune riserve, specie dal parroco. Così nel maggio ‘58 il vicecurato scavezzacollo è trasferito nella remota Val Bormida. C’è sconcerto e dispiacere in paese, specie tra i giovani. Ma a Calizzano con don Suffia il rapporto è più fiducioso e costruttivo. «Ci impressionava per la grande devozione», ricorda un ragazzo d’allora, «anteponeva Dio a tutto e cercava di portare noi scalpitanti a fare lo stesso». Quindi, la partita di calcio si fa solo dopo vespri e benedizione. Le partite più memorabili da lui ideate sono quelle tra i «rossi» dello stato e i «neri» della chiesa (3-2; 3-3) seguite da accese tifoserie.
Intanto cresce in lui l’aspirazione a una vita diversa, in terra di missione. E cresce pure l’impazienza per l’assenso del vescovo che ancora non arriva. Tramite la sorella, don Giovanni contatta il Pime, Pontificio istituto missioni estere di Milano, e si reca da loro per un corso di esercizi spirituali. Ma da Mondovì arrivano ancora freni, sicché Giovanni sollecita suor Teresina: «Mettiti un po’ a pregare per me». Difficile però smuovere quei dubbi. La scusa è: scarsezza del clero. Scarsezza? Col seminario pieno? La sorella gli suggerisce di pregare e riflettere molto per conoscere bene la volontà di Dio. Pazienza ancora per un anno almeno. A fine 1959 è mandato come vicecurato a Farigliano, a due passi dalla sua Carrù e alle porte della Langa. Quel parroco lo accoglie bene e dà spazio alla sua estrosa intraprendenza. Don Giovanni si butta dunque più che mai ad animare il paese e i dintorni. Suscita adesioni e simpatie nei giovani che lo seguono in iniziative di vario richiamo. Così nasce nel gennaio ‘61 «A.gi.r.e.» (Associazione giovanile ricreare educando) che organizza spettacoli teatrali con la filodrammatica «Cit Farian Show», partite di calcio, concorsi ippici (con l’olimpionico Piero D’Inzeo), gare di moto, incontri di pugilato. Successi esaltanti e qualche inatteso e costoso flop. Mentre don Giovanni si appresta a inaugurare il nuovo stadio «Indemini» da lui tenacemente voluto e sostenuto, un incidente con la sua auto – nel quale muore un uomo – gli crea turbamenti. Dalla clausura intanto la sorella si preoccupa per lui, sollecita più volte in alto loco quell’assenso che tarda troppo. «Se ha veramente la vocazione missionaria, perché non lasciargliela assecondare presto?».
Il sogno della Missione
Finalmente nell’autunno 1962 giunge il via libera per un anno di preparazione presso il Pime. A Farigliano è amarezza generale quando lui stesso ne dà l’annuncio. «Ma quando Dio chiama…», dice. E il parroco, in appoggio: «Il suo ardente cuore non conosce limiti nel darsi agli altri. Troverà la forza di una totale offerta di sé per la salvezza di tanti». Parole profetiche. Il 28 settembre una folla lo accompagna fino a Villa Grugana, a Calco presso Lecco. Ma il postulandato (periodo di prova prima del noviziato) al Pime dura pochi mesi. Il direttore sospetta infatti che don Giovanni abbia ancora pendenze a Farigliano con la gestione di A.gi.r.e di cui è presidente, nonostante la regola precisi di tagliare con ogni impegno precedente. Con dispiacere gli consiglia di ritirarsi e il 14 dicembre lo dimette.
Che fa don Giovanni? Su consiglio della sorella va a bussare alle Missioni della Consolata, da lui ben conosciute anche perché radicate da tempo nella Certosa di Pesio, nella stessa diocesi di Mondovì. Mons. Briacca, il suo vescovo, al quale vengono richieste informazioni canoniche sul suo conto, lascia, in una lettera del 12 gennaio 1963, la seguente autorevole testimonianza: «Attestiamo che don Calleri, di questa diocesi, ha sempre tenuto una condotta sacerdotale buona sotto ogni riguardo, dimostrando doti particolari di zelo, di volontà generosa, e carattere sereno e disinteressato. Lo crediamo bene intenzionato verso la vita missionaria, sulla quale ha insistito con frequenza. Crediamo possibile con la guida di provetti missionari, ottenere da lui una maggior fermezza di volontà nelle singole iniziative, ed un più equilibrato giudizio della giusta misura nelle attività esteriori, la qual cosa dovrà prefiggersi nel periodo di postulandato e di noviziato. Saremo lieti della sua buona riuscita».
A padre Delio Lucca, superiore regionale dei missionari della Consolata che chiede informazioni confidenziali, il direttore del Pime di Milano risponde illustrando le difficoltà avute con lui concernenti l’associazione A.gi.r.e, e così conclude: «Voglio sperare che quanto è successo possa servire a don Calleri per il futuro. Mi è sembrato un buon giovane, molto dinamico, ma bisognoso di incanalare le sue energie nell’obbedienza. Se sotto la loro guida diventerà un buon missionario, gioirò e ringrazierò il Signore».
Don Giovanni giunge così all’Istituto Missioni Consolata con la sua grande carica di vitalità e si sottomette volenterosamente alle sue regole. I superiori, apprezzando le eccezionali qualità organizzative del postulante, il suo grande spirito di dedizione e la non comune capacità comunicativa, lo aiutano a moderare gli ardori del suo carattere tanto fattivo ed esuberante.
Missionario della Consolata
Non risulta facile neppure il nuovo inserimento come postulante tra Rovereto e Rosignano; il percorso è ancora accidentato (e ci si mette di mezzo pure un’assurda lettera diffamatoria e l’eccessivo «scandalo» per la riproposizione a Merano – come già a Calizzano – di un incontro di calcio «Chiesa-Stato», col clero in campo coi calzoncini corti). Comunque, Giovanni trovò maggior comprensione e incoraggiamento: da Farigliano, da Mondovì e dalla maggior parte dei maestri della Consolata.
Giovanni comincia col mettere in ordine l’archivio a Rovereto, poi prende a organizzare mostre e giornate missionarie a Cortina, Merano, coinvolgendo anche villeggianti. Proprio non riesce a star fermo; le regole gli vanno strette, e fa corrugare qualche fronte. Qualche padre si lamenta, anche se – senza ammetterlo – ammira e invidia tanta vitalità, e quelle spiccate doti di persuasione.
L’ammissione al noviziato non è però «pacifica». Una relazione di padre Andrea Salvini riassume bene le qualità e i limiti di don Giovanni e determina la sua accettazione: «Lati negativi: don Calleri è portato all’indipendenza nell’assolvere gli incarichi ricevuti: non per ambizione ma per una certa frenesia nell’azione che lo spinge facilmente a strafare. Ha una salute di ferro e perciò non bada al riposo; passa i limiti soliti della resistenza propria e altrui. Chi lavora con lui presto si sfianca. Lati positivi: ha una pietà solida e costante, ha un vero entusiasmo per le missioni e lo comunica agli altri suscitando collaboratori e offerte nelle giornate missionarie. Ha un dono quasi eccezionale di persuasione con poche parole dette nelle prediche. Si accaparra l’aiuto disinteressato di volenterosi. Concepisce l’obbedienza in modo un po’ … spartano. Non rifiuta nessun comando e ubbidisce senza discussioni; però per agire fa notare che vorrebbe una certa libertà. Se lo si tiene imbrigliato con le redini tese in giusta misura si potrà avere da lui un rendimento ottimo; se non lo si controlla potrà avere sbandamenti per troppo zelo. Io spero che avremo in lui un bravo padre della Consolata».
Don Calleri passa alla casa del noviziato a Bedizzole, dove trascorre ancora due mesi di postulandato prima di iniziare il noviziato. Padre Giovanni Morando, maestro dei novizi, lo accompagna nell’anno del noviziato e al termine dell’anno scrive: «È di pietà sincera, di costumi irreprensibili, socievole nella convivenza, di obbedienza a volte un po’ ragionata. Ha dato segni decisamente buoni della sua vocazione ecclesiastico-missionaria e di grandi possibilità nel lavoro apostolico. La sua estrosa genialità organizzativa e la sua salute forte lo spingono a gettarsi senza limite. Ma occorre che chi lo dirigerà comprenda le sue capacità e doti, e sia deciso nell’esigere da lui il rispetto dei limiti stabiliti. Per altro, sotto quest’ultimo aspetto, l’impegno non gli è mancato». Padre Giovanni Calleri viene ammesso alla professione religiosa, pronuncia i voti il 12 gennaio 1965 e viene destinato alla prelazia di Roraima, Brasile.
La partenza
Il 4 febbraio 1965 tutta Carrù gli è attorno per la consegna del crocifisso; poi padre Giovanni si reca al Carmelo di Torino per congedarsi dalla sorella. Che di là dalla grata gli dice: «Ti auguro di poter lavorare tanti anni per il Signore; poi, come premio, il martirio». E lui: «Sarebbe la grazia più grande». La sera del 15 febbraio, accompagnato fino a Linate da un nugolo di parenti e amici, parte per il Brasile, destinazione Roraima, Amazzonia. Mamma Lucia lo segue, soffocando le lacrime, fino alla scaletta dell’aereo, fino a che quella veste bianca e quella barba nera scompaiono dentro. Non lo vedrà più. Solo qualche lettera affettuosa, qualche foto, una voce di lontano.
All’arrivo a Boa Vista il 22 marzo 1965, scrive al superiore generale: «Oggi termina il nostro viaggio. Tutto felicemente bene. Le devo esprimere viva e filiale riconoscenza per avermi data la possibilità di lavorare per le missioni, tanto più in un campo come questo. Molti miei amici sacerdoti mi invidierebbero sapendomi a lavorare in queste situazioni così bisognose. Cercherò senz’altro di fare del mio meglio per essere un po’ meno indegno di questa chiamata di predilezione. Per questo la ringrazio della sua paterna benedizione che già benevolmente mi diede alla partenza e ancora mi vorrà dare».
In Roraima si prepara al lavoro missionario applicandosi innanzitutto allo studio della lingua portoghese, e poi partecipa ai viaggi per contattare gli indios Yanomami che vivono lungo il fiume Catrimani, accompagnando padre Bindo Meldolesi che della zona della foresta è un buon conoscitore. Quando padre Bindo si ritira, padre Calleri continua da solo e, pur in mezzo a qualche dubbio e perplessità da parte dei superiori, cerca di stabilire in maniera permanente la missione al Catrimani. La missione viene piantata lungo il fiume, perché considerato dagli indigeni luogo neutro di scambi e di incontro con altri gruppi.
Dopo quei primi contatti con il mondo indigeno, padre Giovanni così scrive nel luglio del 1965 ai suoi familiari: «Qui ho avuto impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso, quasi completamente, dalla nostra Europa. Uomini e cose. Tutto a base di natura: come uscita dalle mani di Dio. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi, civilizzati, fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente».
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Catrimani
In quel periodo padre Giovanni ha la fortuna d’incontrare padre Silvano Sabatini, amministratore di tutto il gruppo dei missionari in Brasile e appassionato del mondo indigeno, che lo comprende e lo accompagna nel suo intento di iniziare una forma nuova di evangelizzazione tra le popolazioni delle foreste che non sia la tradizionale «desobriga» (visite periodiche alle comunità per adempiere agli obblighi fondamentali di messa, confessione e comunione), utilizzata dai missionari in passato. Sono gli anni in cui gli effetti del Concilio Vaticano II si fanno sentire impellenti ed esigono una rivisitazione della prassi tradizionale della missione. Padre Giovanni è pronto alle nuove sfide e a continuare con impegno il suo lavoro nella missione del Catrimani.
La missione del Catrimani diventa il suo mondo per due anni. Vi si stabilisce evitando, per quanto possibile, il viaggio di 600 km lungo il fiume per ritornare a Boa Vista, la sede della Prelazia. Le sue giornate sono scandite da due ore di preghiera il mattino con la celebrazione dell’eucaristia in privato, e dieci ore di lavoro con gli indigeni. Nel suo bagaglio missionario c’era la concezione di una missione tradizionale ben strutturata, che ben presto accantona per ridurre all’indispensabile le costruzioni. Mette in piedi una capanna che gli possa servire da casa e alcuni magazzini. Avvicina la gente e da loro cerca di imparare la lingua: per lui è una priorità. Cura le persone con le poche medicine che ha a disposizione. Non regala niente, anche perché la gente già conosce il baratto. Offre oggetti indispensabili in cambio di ore di lavoro («mamo» sono dei cartoncini che usa come «moneta di scambio» in base alle ore di lavoro fatte). Disbosca, costruisce una pista per piccoli aerei per facilitare i contatti con la sede centrale senza dover sobbarcarsi i viaggi in fiume, dissoda terreno per piccole coltivazioni.
La gente impara a conoscerlo e collabora volentieri con questo straniero gentile, rispettoso e tanto laborioso. L’inizio di questa missione è incoraggiante. Padre Calleri non è ancora del tutto consapevole di quanti interessi esistano dietro a questa foresta lussureggiante e impenetrabile. Sa che il governo centrale del Brasile vorrebbe costruire una strada che va verso il Nord del paese e che dovrebbe passare proprio in mezzo ai luoghi dove abitano gli indigeni. Ma non sa che tutto questo è però solo la punta di un iceberg.
Il missionario si converte
Padre Sabatini intanto gli consiglia di seguire un corso di antropologia a Belém, dove insegna un missionario, buon conoscitore della realtà indigena. Padre Giovanni abbandona così il Catrimani e gli indios fra i quali, come confessa lui stesso, aveva cominciato a costruire il suo «nido» e si reca a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, per seguire un corso di studi antropologici e allo stesso tempo offrire il suo aiuto di ministero in una parrocchia della città. È proprio questa interruzione del lavoro a Catrimani che gli permette di rivedere quanto finora realizzato e tracciare un piano per il futuro.
Ecco alcune linee-guida da lui maturate:
Le popolazioni indigene non devono essere «colonizzate o civilizzate» per poterle evangelizzare. Il missionario deve innanzitutto avvicinarsi a loro con grande stima e attenzione. Deve andare a scuola da loro per apprenderne la lingua, la cultura e le credenze.
L’approccio missionario ha bisogno di una radicale conversione. Gli indios non devono abbandonare la lingua e cultura per diventare «cristiani». Il missionario deve rispettarli, solidarizzare con loro, e non «imporre» i valori cristiani per farli giungere presto al battesimo. Questa fase di pre-evangelizzazione può avere una durata molto estesa. Il missionario non deve accelerare questo cammino di conoscenza, ma sottomettersi al loro ritmo di apprendimento e di crescita.
È possibile una promozione umana dell’indio? La risposta è affermativa ma sempre nel rispetto del suo cammino. Il criterio deve essere quello del «completamento» e non quello della «sostituzione», come è stato fatto troppo spesso in passato.
Bisogna fare sì che gli indios vengano a contatto con altre culture e realtà di vita perché anche per essi ci possa essere crescita e sviluppo. Il totale isolamento a cui la foresta li ha finora relegati ha impedito loro un naturale sviluppo (idea non più condivisa dai missionari oggi, ndr).
Una promozione umana e cristiana potrà avvenire attraverso l’utilizzo di quattro mezzi: la salute, il lavoro, la giustizia, l’elevazione intellettuale.
Il missionario, pertanto, deve innanzitutto credere che l’indio è un uomo libero, ha personalità, ha cultura, ha dignità, ha diritti, ha una patria che è la foresta.
Oltre a studiare, padre Calleri offre il suo aiuto pastorale in una parrocchia di Porto Alegre. Anche qui, la sua creatività, il suo slancio giovanile e impegno vulcanico, fanno sì che al termine degli studi, la gente e i sacerdoti desiderino che la sua presenza continui. Lo ricorda lui stesso in una lettera ai familiari del luglio ‘68: «Sono stato nel Sud del Brasile per fare un due tre corsi… E laggiù dove ero ospite feci una mezza rivoluzione, tanto che manco più riuscivo a venirne via: da Roraima mandavano una serie di telegrammi, della necessità del mio ritorno per un lavoro urgente tra gli indios; e di là, da Porto Alegre, rispondevano con sottoscrizioni a valanga per chiedere la mia permanenza là. Alla fine, ne venni fuori, ma con un sacco di nostalgia».
Salvare i Waimiri-Atroarí
Intanto nuove difficoltà si affacciano. Il governo brasiliano, costretto a sospendere i lavori per la costruzione della strada Manaus-Venezuela a causa di tribù ostili, richiede ufficialmente l’intervento della Prelazia di Roraima per un’opera di pacificazione. La strada che deve attraversare l’area indigena rischia di compromettere l’esistenza stessa di vari gruppi di indios a causa della distruzione del territorio, del contagio di malattie sconosciute agli indigeni e delle violenze perpetrate da lavoratori e minatori abusivi che inquinano il territorio alla ricerca di oro. La prelazia costituisce una commissione per studiare il problema in maniera da permettere da un lato di salvare gli indios e dall’altra di offrire al governo statale la possibilità di continuare la costruzione della strada Br-174. Di tale commissione padre Calleri è il segretario. La soluzione diocesana contempla un processo lento di avvicinamento, di conoscenza della popolazione e poi uno spostamento dei vari gruppi di indios in aree più sicure.
Padre Giovanni viene inviato dalla Diocesi di Roraima a Manaus per convincere le autorità governative della bontà del progetto dei missionari. E qui avviene invece un cambio di programma. Lo stesso padre Calleri, che tanto successo ha ottenuto con gli Yanomami, pare l’uomo giusto per l’impresa di capitanare una spedizione pacificatrice governativa. La missione è difficile e rischiosa. Egli aderisce alla proposta e accetta, pur sapendo che nessuna delle decine di persone partite negli ultimi anni per avvicinare quelle tribù aveva fatto ritorno.
Mentre da Manaus già si accinge alla partenza, ne dà notizia alla famiglia esponendo i motivi della sua decisione:
«Cara mamma e care sorelle,
[…] Vi dò una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da Indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale scelse me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli Indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio.
L’Istituto, attraverso il Superiore Generale, che venne appositamente in Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato. Se il nostro Istituto non accettava di intervenire erano duemila indios che venivano massacrati con bombardieri. Inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. Non è nemmeno il caso di dirvi di pregare. Già lo farete e lo farete fare.
Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questi gruppi di Indios sono espertissimi nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto … È costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…
Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
[…] Arrivederci presto!
Giovanni».
Con queste ultime parole padre Calleri presagisce la fine che toccherà a lui e ai suoi compagni di spedizione, poche settimane dopo.
Ernesto Billò e Margherita Allena (con inserzioni da pubblicazioni dei missionari della Consolata)
Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami
Da napë a xori
Da «straniero / nemico» a «parente / amico». Tradotte e trascritte quasi letteralmente, tre interviste a Yanomami che raccontano i primissimi incontri tra gli indios e padre Calleri, testimonianze del passaggio dalla diffidenza all’accettazione. L’originale è registrato in video.
Lavorare insieme
Intervista a Pedro Yanomami (di circa 80 anni) realizzata presso la comunità dei Maamapi theri, il 20 gennaio 2015.
«Inizialmente, [padre] Bindo [Meldolesi] abitò qui da solo e fece la pista di atterraggio. All’inizio abitò da solo e ci chiese di aiutarlo nel lavoro. Lui fece in questo modo: ci nutrì e si fece nostro amico. Lui disse così: “Io sono padre Bindo, sono veramente un padre”.
In seguito, aumentò il numero delle persone, [alla missione Catrimani]. È arrivato padre Calleri, scendendo con l’aereo. Con lui noi lavorammo. Padre Calleri ci chiese di lavorare».
[Interviene Teresa, moglie di Pedro] «Io, per prima, cinsi il mio collo con collane di perline. Quando altre donne videro che io avevo molte perline, rimasero felici e lavorarono con intensità alla pista di atterraggio. Noi donne lavoravamo e ricevevamo [in compenso] perline di vetro».
[Pedro continua] «Solamente i padri [i missionari e i loro aiutanti] arrivavano [a poco a poco] e aumentavano. Loro dicevano così: «Noi siamo padri; noi ci prenderemo cura di voi», e ancora: “Non ci sono altri napëpë [pl. non Yanomami o stranieri] che siano vostri amici”. I padri non mi alloggiarono in una casa di paglia, ma in una casa di assi. I padri costruirono la mia casa di assi, ben protetta. Loro mi chiamarono per abitare vicino. In quella direzione, dall’altro lato del fiume, avevamo una casa, ma loro mi chiamarono per abitare su questa sponda, vicino. Loro [i padri] iniziarono la scuola. Padre Giovanni, per primo iniziò ad insegnare. Lui consegnava [per il lavoro] biglietti [una forma di moneta che si chiamava mamo (occhio)], [in cambio] di questi biglietti distribuiva utensili. Così faceva padre Calleri. Disegnava molti biglietti [con simboli diversi corrispondenti alle ore di lavoro]. Con questi ricevevamo oggetti e utensili. Così faceva padre Calleri.
Con molto impegno, padre Giovanni scriveva nel quaderno la mia lingua. Io gli insegnai la mia lingua. Padre Giovanni diceva: “Insegnami la lingua yanomae”, perciò io gli insegnai. Gli insegnai il nome degli animali: “Questo è un tapiro, questo è un pécari, questa è una scimmia ragno, questa è una scimmia urlatrice, questo è una scimmia cebo, questa è una tartaruga di terra”, così gli dicevo. Così lui imparò a parlare molto bene».
I primi contatti
Interviste a Alexandre (nascita: 1961) e Xirixana (nascita: 1956) realizzate presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 18 gennaio 2015.
«L’indio [di etnia Ticuna, chiamato] Peruano, accompagnava padre Calleri che distribuì alcuni oggetti [ami, forbici, ecc.] agli Yanomami che con lui visitarono le loro comunità [si riferisce ai primi viaggi esplorativi per contattare i vari gruppi risalendo il fiume Catrimani; era normale lasciare allora dei piccoli regali come riconoscenza per l’accoglienza ricevuta e per dimostrare la volontà di un incontro pacifico, ndr].
Due Yanomami, lo zio di Juruna – questo [giovane] seduto lì – e il marito dell’anziana madre [Andina], trasportarono alcuni utensili e gli alimenti dei due: di padre Calleri e di Peruano.
Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [quella di Alexandre, localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del fiume Catrimani] e raggiunse le altre comunità degli anziani [lett. «antenati», perché molti di loro sono già morti, ndr]. In seguito, giunsero altri [insieme al padre].
In seguito, chiamò altri [abitanti] di questa regione. In questo modo, vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari per lisciare l’arco.
Padre Calleri osservò e provò [gli utensili degli Yanomami]: “Si fa così con questo?”. Vedendo l’utensile di denti di aguti [un roditore, ndr] legato al braccio, domandò: “Come lo fate?”. Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”.
In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli anziani [che confezionavano i loro utensili]: le donne cuocevano la focaccia di manioca sulle pietre, grattugiavano i tuberi di manioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema. Vide le donne che facevano fatica: spremevano la polpa di manioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò, li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui”. Gli anziani Yanomami andarono ad aprire la pista di atterraggio.
Padre Calleri orientò gli anziani Yanomami: il gruppo degli Opikitheri [di língua yaröame], quelli della comunità di Tooropi, quelli del fiume Hwayau, quelli della comunità Kaxipii, altri Yanomami del fiume Catrimani, quelli [provenienti dalla] comunità di Korihana. Tutti questi anziani Yanomami, insieme aprirono la pista di atterraggio.
In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i machete che aveva portato da Manaus.
Calleri aiutò gli anziani che, per questo, rimasero molto contenti. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri. Tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui, ma lui fu ucciso».
La paura delle donne
Dall’intervista a Fátima (nascita: 1956) realizzata presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 17 gennaio 2015.
«Anticamente, padre Calleri arrivò fra di noi, nella regione chiamata Kaxipi [sulla riva del fiume Jundiá, affluente del medio fiume Catrimani]. Solo gli adulti [non ebbero paura e] continuarono a cantare mentre lui [Calleri] ascoltava. Lui [Calleri] chiese loro di continuare a cantare e, dopo aver deposto al suolo le sue cose [forse un registratore], li fece danzare. Mentre gli anziani cantavano, noi ragazze ci chiedevamo: “Perché stanno cantando?”.
Dentro [alla casa comunitaria], al fondo, io rimanevo nascosta [fra le foglie] perché avevo paura. [Io pensavo che] I padri potessero rubare le donne, per questo ebbi paura e, in silenzio, rimasi nascosta. All’inizio avevamo molta paura. Ebbi paura perché era arrivata la notizia che alcuni napëpë [plurale di napë] che avevano risalito il fiume, durante una visita al popolo Yawari, avevano portato [via] con sé alcune donne».
[Anni dopo, Fatima divenne l’aiutante della suora infermiera nel dispensario della missione del Catrimani].
I ricordi della sorella, monaca di clausura
Il coraggio di fare il bene bene
Il Carmelo dello Spirito Santo è una piccola oasi di tranquillità e silenzio nella già tranquilla prima collina torinese. Da anni i missionari della Consolata che vivono in Casa madre a Torino offrono il servizio come cappellani di questa piccola comunità di suore di clausura che, con fede e tanta simpatia, accompagnano al ritmo della preghiera anche la nostra missione nel mondo. Da tanti anni, però, c’è un altro motivo di contatto e comunione fra le nostre due comunità.
Nel 1946, con un viaggio reso complicato dai postumi della guerra, una giovane ragazza di Carrù, entrò in monastero per donare interamente la sua vita al Signore, lo sposo amato. Oggi, è un’arzilla vecchietta che sta per compiere 92 anni alla quale chiedo di ripercorrere per l’ennesima volta la storia di suo fratello, di raccontarmi com’era questo padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata ucciso in Amazzonia cinquant’anni fa, il 1° novembre 1968.
«Padre Giovanni lo conoscevo bene, eccome, l’ho tirato su io da bambino – inizia a ricordare suor Teresina. Era un bambino vivace, molto vivace… un po’ furbetto. È stato con la cresima che, secondo me, Giovanni ha ricevuto una grazia speciale. È diventato più aperto, ma anche più disposto alla preghiera».
Le chiedo che cosa avevano pensato in famiglia a proposito della sua decisione di entrare in seminario e poi, in seguito di diventare missionario.
Suor Teresina risponde di getto. Sorvola sulla famiglia – del resto in quei tempi, soprattutto nelle nostre campagne – era cosa comune mandare i figli a «studiare dai preti». Ricorda invece che il parroco, guardando forse il carattere vivace del ragazzo, era contrario al suo ingresso in seminario. Pensava che non fosse la sua strada, che avrebbe avuto delle delusioni. Giovanni venne aiutato nel suo proposito da una catechista che lo conosceva bene e, soprattutto, ne vedeva alcuni aspetti di bontà. Si capiva che dietro a tanta vivacità si nascondevano una creatività e una attitudine verso la pietà davvero speciali. Così quando sua sorella entrò nel Carmelo, lui entrò nel seminario di Mondovì.
«Quando invece decise di andare in missione ci preoccupammo tutti un po’ – continua suor Teresina -, in diocesi aveva mille impegni, tantissime attività iniziate e ci chiedevamo tutti come avrebbe potuto lasciare tutte queste cose per iniziare un nuovo cammino. Del resto, la sua prima esperienza di formazione missionaria con il Pime di Milano finì anche per questo motivo. I suoi nuovi superiori si accorsero che continuava ad essere attaccato alla sua precedente realtà pastorale e gli consigliarono di tornare ad essa e di dedicarsi anima e corpo alla parrocchia e alle attività ad essa legate».
Fu una delusione, il dover tornare indietro?
«Certamente lo fu. Quell’anno, si era all’inizio della novena di Natale, venne a trovarmi e a confidarsi con me. Giovanni aveva nel cuore la missione, voleva andarci. Mi disse che aveva chiesto ai Salesiani che, però, pur avendo istituti scolastici e missioni all’estero, non gli avevano assicurato di poterlo mandare. Lui aveva bisogno di trovare un Istituto missionario. Solo gli bastò guardare ancora più vicino».
«In quegli anni, qui al Carmelo, avevamo già un cappellano missionario della Consolata, padre Creola. Misi Giovanni in contatto con lui e così iniziò il percorso di formazione con il vostro Istituto. Ne fu contento, si trovò immediatamente bene, in mezzo a tanti piemontesi come lui, si è subito sentito il benvenuto».
Suor Teresina conosceva però bene suo fratello e dovette intervenire con la preghiera e un paio di lettere ai superiori di padre Giovanni per far sì che riuscisse a coronare il suo sogno.
«È vero, lo hanno fatto tribolare non poco prima di dargli il via. Giovanni era un tipo vulcanico, difficile da inquadrare in uno schema. Io ogni tanto scrivevo ai suoi superiori dicendo che avessero comprensione, che Giovanni era buono, di tenerlo perché sicuramente avrebbe fatto del bene. Chi ne ha visto la stoffa e lo ha capito è padre Giovanni Morando, che fu suo maestro di noviziato. Lo prese davvero a cuore».
Chissà che gioia quando padre Morando scoprì che il suo novizio aveva una sorella monaca di clausura di nome «Suor Teresina». Aveva un’autentica devozione per Suor Teresina di Lisieux.
«Quando lo seppe mi scrisse subito. Del resto Santa Teresina è patrona delle missioni, il mese missionario inizia con la sua festa, e io stessa mi sento missionaria in prima linea, qui dal Carmelo, accompagnando con la preghiera tutti i missionari. Santa Teresina mi ha ispirato. Devo a lei anche la mia vocazione visto che è maturata dopo aver letto il suo “Storia di un’anima”».
Chiedo a suor Teresina qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello.
«Prima di partire per il Brasile venne a salutarmi e a celebrare qui l’Eucaristia. Ricordo le ultime parole che gli dissi: “Ti auguro di lavorare, di fare tanto bene e alla fine, se Dio vorrà… il martirio”. Mi rispose: “Sarebbe la grazia più bella”. È un martirio per il quale si è preparato, nonostante il poco tempo in cui è rimasto in Brasile. Si era reso conto che qualcosa non andava con quella spedizione in cui poi perse la vita, che qualcuno gli remava contro. È andato avanti lo stesso, con tenacia, ispirato dall’ideale della salvezza dell’uomo, di questi indios a cui si era donato. Ha resistito anche di fronte a chi gli consigliava di lasciar perdere, che era troppo pericoloso. Questa sua fortezza basterebbe a considerarlo un martire della carità».
Vedo che suor Teresina è stanca. Continuerebbe a parlare di suo fratello, lo si legge negli occhi, ma forse è meglio fermarci. Le faccio un’ultima domanda e le chiedo quale caratteristica di suo fratello potrebbe essere di ispirazione per un giovane di oggi.
Mi guarda come se fosse in procinto di darmi una risposta scontata… e forse lo è. «Il coraggio – mi dice – il coraggio nel fare il bene a qualsiasi costo».
Ugo Pozzoli
Giovanni Billò – Margherita Allena
Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio
Nella prima parte io ho cercato di seguire Giovanni nel suo cammino di educazione umana e spirituale: dagli inizi in famiglia e in parrocchia agli anni di scuola e di seminario, cogliendo – attraverso lettere, testimonianze, documenti – il maturare delle sue doti di sensibilità, intelligenza, creatività, autonomia, e il precoce affiorare di una vocazione ecclesiale e missionaria determinata e generosa messa però presto alla prova da certe incomprensioni e diffidenze dovute soprattutto alla sua vivacità e intraprendenza e a certi atteggiamenti che apparivano troppo anticonformistici in ambienti educativi ancora rigidi e chiusi. […]
Qui si innesta la seconda parte del libro, in cui Margherita Allena riferisce di un viaggio compiuto nel 2009 in Brasile con la cugina Zelda Guglielmotto, pronipoti di padre Giovanni,
visitando i luoghi dove aveva operato e cercando contatti con chi l’aveva conosciuto e con vecchi indios che egli aveva contribuito a beneficare e tra i quali aveva perso la vita. (Gio. Bil.)
Edito da: Associazione «Amici di Padre Calleri»
Piazza Dante 12, 12061 Carrù (Cn)
info@amicipadrecalleri.it
Bibliografia essenziale
Damioli e G. Saffirio, Yanomami, Indios dell’Amazzonia, Ed. Capitello 1996.
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica, Emi, Bologna 2001.
Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo, Ediesse 2012.
Gabriele Soldati, Testimonianza di sangue, MC 1/1969 p. 14-35.
Sabatini Silvano, Sono morti così, MC 1/1970 p. 28-35.
Gigi Anataloni, La causa degli Indios è la nostra causa, dossier MC 2/1985 p. 27-38.