Una matrigna (troppo) possessiva


Testo di MIRCO ELENA; foto di MIRCO ELENA e AfMC |


Nel 1949 le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek furono sconfitte da quelle comuniste di Mao Ze Dong. I nazionalisti si rifugiarono sull’isola di Taiwan, da poco liberata dal dominio giapponese. Da allora Taiwan e Cina popolare non hanno mai firmato una tregua. Pechino considera l’isola una «provincia ribelle». Nel frattempo lo stato taiwanese, pur riconosciuto da pochi paesi, ha raggiunto un notevole livello di sviluppo.

Tra i tanti luoghi del nostro pianeta ove le tensioni politiche potrebbero portare a uno scontro militare su grande scala, spicca sicuramente Taiwan per la sua storia drammatica.

Con la fine della seconda guerra mondiale, si ebbe in Cina la ripresa del conflitto civile che divideva da tempo i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) e i comunisti di Mao Ze Dong. Lo scontro fratricida era stato momentaneamente sospeso per fare fronte comune all’invasione giapponese, ma riprese nel 1946, poco dopo la sconfitta dell’esercito nipponico. Temprati da molti anni di lotta, i comunisti ebbero la meglio e, nel 1949, costrinsero gli avversari del Kmt a ritirarsi dal continente e a rifugiarsi, assieme a due milioni di profughi politici, sulla piccola isola che si trovava poco al largo delle coste della provincia del Fujian. Qui giunta, l’armata in rotta impose la legge marziale1, applicata con il pugno di ferro dal suo leader, il «generalissimo» Jiang Jieshi (da noi meglio noto come Chiang Kai-shek). Egli rimase al potere fino al 1975, anno della sua morte. A tutt’oggi non è mai stata firmata ufficialmente una tregua tra i due contendenti, né tanto meno la pace.

Un governo autoritario e anticomunista

Nel 1945, la gran parte della popolazione taiwanese parlava correntemente il giapponese2. Nell’ottobre di quell’anno, dopo la resa dei Giapponesi, il territorio dell’isola fu affidato dall’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) al governo della «Repubblica di Cina» che era in lotta con la «Repubblica popolare» che aveva la propria capitale a Pechino. Fu inevitabile qualche problema comunicativo, dato che a Taiwan il giapponese era stato per decenni la lingua ufficiale, mentre la popolazione parlava dialetti hoklo, hakka o idiomi aborigeni. Da parte loro, i nuovi occupanti, arrivati dal continente, parlavano prevalentemente dialetti di Pechino e di Shanghai. Dopo il «massacro 228»3 del febbraio ‘47, il cinese mandarino divenne la lingua ufficiale dell’amministrazione statale e l’unica impiegata nell’insegnamento, mentre l’uso pubblico di altre lingue fu pesantemente sanzionato.

La politica fortemente anticomunista di Chiang Kai-shek gli procurò per molti anni l’appoggio politico incondizionato e gli aiuti economici degli Stati Uniti e di tutte le potenze occidentali, che vedevano in lui il governo legittimo di tutta la Cina. Solo nel 1979 gli Usa instaurarono relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare. Nel frattempo (1971) Taiwan aveva perso il proprio seggio all’Onu e nel Consiglio di sicurezza, seggi che vennero ambedue trasferiti al governo di Pechino.

Per quasi quarant’anni Taiwan fu governata in modo autoritario da leader tutti nati sul continente, in una realtà sociopolitica piuttosto differente da quella isolana. Ogni protesta venne repressa con la violenza. Poi, lentamente, a partire dal 1987 si verificò un processo di liberalizzazione che nel 2000 portò per la prima volta alla vittoria elettorale di un partito diverso dal Kmt: quello Progressista democratico. Ma se il Kmt aveva sempre sostenuto l’unità di tutta la Cina, includendo quindi il grande territorio continentale, il nuovo governo sembrava invece intenzionato a dichiarare l’indipendenza completa dell’isola. Ciò causò forti tensioni con Pechino, che minacciò di attaccare militarmente l’isola, considerata una provincia ribelle. Non era la prima volta che Pechino mostrava i muscoli. A queste minacce gli Stati Uniti, alleati di Taiwan per la comune ideologia anticomunista, avevano sempre risposto ribadendo il loro impegno a difesa dell’isola, arrivando anche a far passare le loro possenti portaerei nello stretto di Formosa che separa i due rivali. Nel 2000 la situazione si risolse fortunatamente in modo pacifico, ma fu chiaro che la questione dell’indipendenza dell’isola poteva costituire un casus belli capace di provocare un conflitto su grande scala. Notiamo anche come nel 2005 il parlamento cinese abbia approvato la cosiddetta legge antisecessione, che autorizza il governo ad usare la forza militare nel caso l’isola ribelle dichiari l’indipendenza.

La complessa situazione sino-taiwanese si può riassumere, almeno nei suoi aspetti essenziali, in alcuni punti che proviamo a descrivere.

Il peso della storia

Negli scorsi due secoli l’interazione della Cina con il mondo esterno, in particolare occidentale e giapponese, non è certo stata felice. Ha subito aggressioni e invasioni militari, perdite territoriali e trattati iniqui, obbligo di legalizzare l’importazione di oppio x riequilibrare la bilancia dei pagamenti altrui4. La proverbiale lunga memoria cinese fa sì che il ricordo di queste vicissitudini sia ancora vivo. Questo aiuta, almeno in parte, a spiegare il difficile rapporto odierno che intercorre tra Pechino e Washington e di cui accenniamo nel seguito.

Due regimi autoritari

Cina e Taiwan hanno entrambe avuto regimi autoritari che, se da una parte hanno represso violentemente qualunque richiesta democratica, negli ultimi decenni hanno anche garantito un progresso economico impressionante.

Se a tutt’oggi la Cina è ancora caratterizzata da un regime totalitario, Taiwan si è incamminata su un positivo percorso di democratizzazione che ne ha ormai fatto un esempio per tutto il mondo. Le elezioni si svolgono regolarmente e hanno garantito una salutare alternanza dei partiti al potere.

Grande famiglia

La Cina vanta una civiltà antichissima e prestigiosa, che ha esportato filosofia e scrittura (in una parola sola: «cultura») in tutto l’estremo oriente. Come tale si ritiene un po’ «l’ombelico del mondo», almeno di quello dell’Asia dell’Est. Per i suoi governanti e anche per i normali cittadini, quindi, può risultare difficile capire ed accettare che una piccola popolazione come quella di Taiwan5 possa non desiderare di far parte della grande famiglia, specie in un momento come quello attuale, nel quale la Cina è diventata una grande potenza, rispettata dal mondo intero.

No all’indipendenza

Si può pertanto capire come la pretesa ideologica di avere una Cina unificata, comprendente la parte continentale e l’isola, sia ancora saldissima a Pechino (mentre è passata del tutto in secondo piano a Taiwan). L’unificazione di tutte le popolazioni parlanti i vari dialetti cinesi e la completezza territoriale vengono viste come il passo finale del recupero di dignità nazionale, dopo i tristi eventi del passato che avevano fatto «perdere la faccia» a questo paese (e per la cultura cinese non c’è cosa peggiore). Il partito comunista cinese (che ormai di comunista ha ben poco, ma questo è un altro discorso) e quasi tutta la popolazione sinica del continente (martellata per decenni dalla propaganda ufficiale) sono convinti che una ipotetica dichiarazione di indipendenza taiwanese sia del tutto inaccettabile e che essa debba essere impedita a qualunque costo, anche arrivando a scatenare una guerra.

Qualche anno fa, parlando con giovani universitari cinesi, a cui avevo chiesto cosa avrebbero fatto nel caso in cui Taiwan avesse dichiarato l’indipendenza da Pechino, mi colpì molto sentirmi dire all’unisono «ci arruoliamo come volontari per andare a combattere per l’unita della patria». Non ci fu modo di farli recedere da questa posizione, nemmeno facendo notare loro che, stante l’ancora enorme vantaggio militare che gli Stati Uniti possiedono sulla Cina, ciò avrebbe comportato pesantissime distruzioni per il loro paese, e un probabile blocco del suo sviluppo economico. Ma niente e nessuno poteva scalfire il sentimento patriottico di costoro. E questi giovani rappresentavano l’elite colta e preparata del paese, non il popolino, così facile a farsi influenzare dalla propaganda governativa.

Pechino: integrità territoriale e sviluppo economico

La Cina, governata quasi sempre durante la sua plurimillenaria storia da regimi totalitari, è riuscita a modernizzarsi nel giro di pochi decenni e a trarre dalla miseria più nera centinaia di milioni di cittadini. Nel corso degli ultimi secoli, molto raramente ha intrapreso azioni aggressive nei confronti degli stati vicini e non ha mai avuto particolari tendenze espansioniste, mirando invece a mantenere la propria integrità territoriale, spesso minacciata dalle potenze occidentali e dal Giappone, e concentrandosi su un accelerato sviluppo economico.

Il ruolo degli Stati Uniti

Dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, temendo l’espansione del comunismo, appoggiarono senza esitazioni il regime del Kmt, a prescindere dalla natura dittatoriale, violenta e repressiva che lo stesso ha mantenuto fino al 1987. Questo comportamento non era propriamente consono al propagandato impegno americano per la democrazia e i diritti umani (valori che oltretutto si incolpava la Repubblica popolare di non possedere).

Gli Stati Uniti hanno esercitato una fortissima influenza politica, economica e culturale su Taiwan. Molti taiwanesi hanno studiato o lavorato negli Usa e non sono poche le persone appartenenti all’elite governativa, militare ed economica in possesso della doppia cittadinanza. È forse per questo che taluni di questi sono visceralmente anti-Pechino, e sono favorevoli ad opporsi con ogni mezzo militare alle pressioni cinesi, disposti anche ad una guerra totale pur di mantenere l’indipendenza dell’isola, che sarebbe però presumibilmente ridotta ad un cumulo di macerie. Viene da sospettare che persone di questo tipo abbiano posizioni così estreme in quanto, in tale sfortunato caso, loro potrebbero comunque sempre tornare a vivere in America.

Aggiungo un piccolo aneddoto: nel corso di un convegno, un tecnico che lavora nel settore armiero sostenne il concetto che i taiwanesi avrebbero un «diritto umano» a dotarsi di ogni genere di armamenti, anche dei più distruttivi.

Nell’ottica di Pechino è indubbio che gli Usa abbiano ripetutamente interferito nelle loro questioni interne: Pechino considera che il rapporto con Taiwan rientri in quell’ambito. L’ingerenza americana non sarebbe che l’ultima in ordine di tempo, dopo quelle avvenute nel passato da parte di molte potenze europee (Italia inclusa) e del Giappone. Anche per questo motivo, gli interventi americani rivestono particolare importanza, riaprendo la piaga delle antiche umiliazioni e dei tanti soprusi subiti. Dall’altro lato l’utilità per gli Usa di disporre di un fidatissimo alleato a poche centinaia di chilometri dalle coste cinesi è evidente, specie dal punto di vista militare. Per gli Usa, Taiwan è come un’inaffondabile portaerei da cui poter influenzare, spiare, attaccare il territorio estremo asiatico e chiaramente hanno tutto l’interesse a che questa situazione si prolunghi il più possibile.

Differenze e timori

II tre decenni trascorsi dall’inizio del processo di liberalizzazione a Taiwan hanno fatto sì che, specialmente le nuove generazioni, si siano abituate a vivere in democrazia e ad apprezzarne i vantaggi, in termini soprattutto di libertà di parola, espressione e movimento.

Notevole è la differenza con la situazione politica della Cina continentale, ove il regime è totalitario, non accetta nessun dissenso, limita la libertà di stampa, incarcera chi vuole. Sulla base di queste grandi differenze, è facilmente comprensibile come quella parte di popolazione taiwanese più affezionata all’ideale democratico veda con grande preoccupazione la possibilità di un’annessione da parte di Pechino.

Mirco Elena
(prima parte- continua)




Insegnaci a pregare 11:

Pregare per essere noi stessi


Di Paolo Farinella |


Alla conclusione della decima puntata di «Insegnaci a pregare» del dicembre scorso ci siamo salutati con la promessa che la rubrica sarebbe continuata per tutto il 2018 in una sorta di «seconda parte» dedicata a esercizi pratici di preghiera con e nella Bibbia.

Partiamo da alcune riflessioni preliminari per una coscienza disposta a imparare a «pregare i testi» se non vogliamo camminare invano. Su questo argomento sono stati scritti decine e centinaia di metodi, suggerimenti, sussidi e credo che nessuno potrà mai esaurire la ricerca o trovare la soluzione ideale. Ognuno prenderà quello che è più consono alla propria sensibilità, cultura, interiorità, bisogno, difficoltà, disponibilità di tempo e coscienza di sé. Noi non vogliamo fare concorrenza ad alcuno né vogliamo insegnare qualcosa a qualcuno, ma partendo dalla nostra esperienza e formazione sempre «in aggiornamento», desideriamo riconsiderare «l’atto del pregare in sé». Proviamo a metterlo in pratica con l’obiettivo di scoprire sempre più chi siamo noi per essere in grado d’imparare a conoscere meglio Dio stesso. Ci poniamo su un versante introduttivo perché ognuno deve imparare a pregare secondo il suo cuore. Noi possiamo condividere stimoli e desideri.

«Dove» lungo il cammino

L’errore di fondo è dare per scontato Dio, solo perché frequentiamo qualche cerimonia o per il fatto di essere preti o monaci o monache o credenti, ma non praticanti. Lungo il cammino della nostra vita, dobbiamo sapere «dove siamo»: nessuno ha la garanzia di avere incontrato Gesù. È possibile che «adesso e qui» siamo con Adamo ed Eva a discutere «frutto sì, frutto no», o schiavi in Egitto a macinare mattoni, o ai piedi del Sinai a fare baldoria attorno a un vitello scambiato per Dio liberatore, o vaganti nel deserto alla ricerca di una terra promessa e mai raggiunta, o uditori della parola dei profeti non ascoltati perché preferiamo i riti del tempio più rassicuranti, o esuli in Babilonia a sognare i «bei tempi andati», o tra gli storpi, ciechi e muti che cercano Gesù di Nàzaret, o sul sicomòro con Zacchèo perché piccoli di statura spirituale e incapaci di vedere Gesù che passa «di là» (Lc 19,4), o ai piedi della croce con la massa urlante «crocifiggilo», o delusi ai bordi di un sepolcro vuoto, o pieni di Spirito del Risorto, felici di annunciare il suo Vangelo, avendolo vissuto interamente e senza sconti.

Non si può pregare a caso, a orologio, o a bisogno. Pregare è respirare, vivere, desiderare, comunicare, fondersi, morire. San Benedetto, tra i secoli V e VI aveva inventato lo schema Ora et labòra (pregare e lavorare), ma oggi bisognerebbe modificarlo in «Ora est labòra» (pregare è lavorare). La preghiera, infatti, è lavoro perché, come nell’amore, impegna «cuore, testa e pelle». Quando gli Ebrei pregano, dondolano il corpo perché anch’esso partecipi all’azione interiore del pensiero e dell’affetto. Non possiamo separare queste tre dimensioni senza creare una frattura in noi che per istinto tendiamo all’unità tra pensiero, sentimenti del cuore, atteggiamenti corporei. È quello che si chiama «movimento ecumenico personale» perché il sentiero dell’unità tra le Chiese passa attraverso il cuore di ogni singolo credente che guarda alla sintesi armonica dell’essere e dell’agire tra:

Chi si è e ciò che si fa.
Ciò che si fa e ciò che si prega.
Ciò che si prega e ciò che si desidera.
Ciò che si desidera e ciò che si spera.
Ciò che si spera e ciò che si pecca.
Ciò che si pecca e ciò che si riceve in grazia.

Questa è la preghiera: rimescolare le carte, intraprendendo un cammino verso la maturità e l’armonia per raggiungere la coscienza di sé e sapersi riconoscere come figli-immagine del Padre. Diversamente, pregare si trasforma in un soliloquio, un parlare con se stessi, macinando parole morte, veri idoli che occupano la mente, impedendo di abitare il cuore.

Sapere chi si è

Ciminiera campanile del Santo Volto – Torino

È la domanda esistenziale che la commissione d’inchiesta inviata dal sinedrio pone a Giovanni: «“Tu, chi sei?” Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque?”» (Gv 1,19-21). La domanda posta dalla commissione a Giovanni «Chi sei tu?» (Gv 1,19 e 22; cf 8,25; 21,12), è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’individuazione della nostra identità. In altre parole: io devo sapere chi sono. Non basta avere opinioni, o formule precostituite (Elia, il profeta, uno dei profeti, ecc.), bisogna sapere chi si è e chi non si è, bisogna cioè avere un contatto vero e coerente con i nostri confini, se si vuole vivere la vita nell’autenticità e nella verità. La commissione d’inchiesta parte dal tempio, inviata dai farisei, cioè dai custodi delle tradizioni, del culto, della spiritualità, della liturgia, della regola: sono gli specialisti del sacro. Noi siamo specialisti della vita religiosa, perché poniamo Dio nel mezzo dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti, attribuendo a lui le nostre aspirazioni e convinzioni. C’è il rischio d’identificarci con Lui e di contrabbandare la nostra volontà con la sua e quindi di chiuderci alle «gioiose notizie» che ogni giorno c’invia attraverso gli avvenimenti che viviamo, anche quelli che a noi sembrano banali o insignificanti.

La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto questa scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? Qual è la mia identità personale all’interno degli ambienti di vita e nelle relazioni che vivo? Qual è il senso del mio essere uomo, donna, madre, figlia, marito, figlio? Giovanni sgombra subito il terreno, distruggendo le eventuali illusioni che i commissari avrebbero potuto farsi di lui e li incalza: «Io non sono il Cristo», scartando onori e compiti che non gli appartengono. Può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a considerarci migliori di quanto non siamo. Non possiamo illuderci con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque. Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione. Forse è possibile che di fronte agli altri non sappiamo cosa rispondere, ma quando rientriamo nel segreto della nostra stanza, là dove non possiamo né barare né nasconderci, «il Padre tuo, che vede nel segreto» (Mt 6, 4.6) ci obbliga a rispondere alla verità di noi stessi: «Chi sono io?». Questo è l’obiettivo della vita, lo scopo della rivelazione, la dimensione della preghiera. Se non sappiamo chi siamo, come possiamo presentarci agli altri e a Dio, l’Altro per eccellenza?

«Non posso insegnarvi parole di preghiere»

Il cristiano maronita libanese, poeta, scrittore e mistico, Jubr?n Khal?l Jubr?n (1883-1931), in occidente conosciuto come Kahlil Gibran, parlando della preghiera usa parole profonde, da orientale (sottolineature nostre):

«…allora una sacerdotessa disse:
Parlaci della Preghiera.
Ed egli rispose, dicendo:
Voi pregate nelle angustie e nel bisogno;
ma io vorrei che pregaste anche nella gioia piena e nei giorni dell’abbondanza.

Poiché che altro è la preghiera se non l’espansione di voi stessi nell’etere vivente?

Ed è a voi di conforto versare nello spazio, la vostra oscurità,

ed è anche per voi diletto versare all’esterno la gioia mattinale del vostro cuore.
E se non potete fare a meno di piangere quando
l’anima vi chiama alla preghiera,
essa dovrebbe spingervi, comunque, fino al punto che attraverso le lacrime spunti il sorriso.

Quando pregate voi v’innalzate a incontrare nell’aria tutti coloro che in quel medesimo istante sono in preghiera,
che mai, se non nella preghiera, potreste incontrare.

Perciò non sia questa vostra visita a quell’invisibile
tempio che estasi e dolce comunione.
Poiché se intendeste entrare nel tempio non per altro che per chiedere, non ricevereste nulla.
E se entrate per umiliarvi, non sarete innalzati.
E se anche voleste entrare per intercedere per il bene di altri, non sarete esauditi.
Basta già che voi entriate nell’invisibile tempio.

Io non posso insegnarvi parole di preghiere.
Dio non ascolta le vostre parole,
a meno che Egli stesso non le pronunci attraverso le vostre labbra.

Ed io non posso insegnarvi la preghiera dei mari,
delle foreste, delle montagne.
Ma voi, nati dai monti, dalle foreste e dal mare potete ritrovare nei vostri cuori la loro preghiera.

E se solo state in ascolto nella quiete delle notti udrete mormorare:
“Dio nostro, che sei la nostra ala, è la tua volontà che vuole in noi. È il tuo desiderio che desidera in noi.
È il tuo impulso in noi che può trasformare le nostre notti, in giorni che siano anche i tuoi giorni.

Nulla possiamo noi chiederti, poiché tu conosci le
nostre necessità prima ancora che nascano in noi.
Sei tu la nostra necessità; e nel darci più di te stesso, tu ci dai tutto”».

(Da Il Profeta, Giunti edizioni, Bellaria (Rimini), 2004).

«Versare il cuore»

Parole da centellinare una per una, perché mentre svelano la natura della preghiera, velano le nostre nudità che si accontentano spesso di esteriorità e verbosità: espansione, versare nello spazio e all’esterno, come dire uscire da noi stessi, abitando il nostro profondo, che spesso trasformiamo, riuscendoci, in prigione comoda e accidiosa. Gibran è immerso nella Scrittura, la respira con la sua vita, riuscendo a trasformarla in poesia e anelito di desiderio. Dio, ci dice, non ascolta le parole, ma abita il cuore nostro per trasformarlo in benedizione da spandere sull’umanità e riunire così in un unico afflato tutti coloro che pregano in ogni «dove» personale, sparsi in tutto il mondo, là ove stanno oranti, conosciuti e sconosciuti, per essere trasformati «in un cuor solo e un’anima sola». Sì, pregare è essere presenti, non diventare ciarlanti e petulanti.

Nulla possiamo, nulla dobbiamo chiedere a Dio – come non ricordare i gigli del campo e gli uccelli del cielo? (cfr. Mt 6,26-29) – perché, non solo lui conosce le nostre necessità meglio di noi, ma è lui e solo lui la nostra unica e sola necessità. Anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), purtroppo, riporta il salmo 62/61,9 con queste parole: «Davanti a lui aprite il vostro cuore», traduzione piana, oseremmo dire, banale, neutra. L’ebraico invece ha parole dirompenti che lasciano il segno: «Versate davanti a lui il vostro cuore».

Nota esegetica.
Il verbo «shaphàk – versare» indica lo spargimento di qualcosa di liquido, comunque non di immobile. Da questo verbo deriva «shèphek – luogo del versamento», cioè «la discarica» (cfr. Lv 4,12); per analogia, invece, «shophkà» è il «pene» maschile in quanto condotto di fluidi (cfr. Dt 23,2). Si versa l’acqua (cfr. Es 4,9), il sangue (cfr. Lv 4,7); lo spirito (cfr. Gl 3,1), la collera (cfr. Ez 14,19). Il testo ebraico oltre che più poetico è più intenso e potente della traduzione italiana, con l’espressione «versare il cuore» (per la Bibbia sede dell’intelligenza e della coscienza), descrive la vita come fosse la liquidità inafferrabile che solo Dio sa contenere: «Versate davanti a lui».

È la preghiera suprema: donarsi a Dio come liquido che si spande e si sparge. Non si può stare davanti a lui duri e impermeabili, ma col «cuore versato», quasi che Dio vi debba attingere per riempire e saziare il bisogno che egli ha di noi. Lo abbiamo già visto nella prima parte, commentando il Targùm del Cantico dei Cantici 2,8, dove Dio supplica l’Assemblea-sposa-Israele a mostrarsi a lui nella bellezza orante perché non può vivere senza «vedere» il volto e sentire la voce dell’Assemblea che prega:

«Subito, allora, essa aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce. Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Esodo Rabbà XXI, 5 e Cantico Rabbà II, 30; Mekilta Es 14,13).

È in questo senso che, secondo noi, deve essere interpretata l’ottava strofa della sequenza di Pentecoste «Veni, Sancte Spiritus» (sec. XII): «Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato – Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium». Da queste potenti immagini emerge lo Spirito come artigiano modellatore che lavora la creta finché la forma non corrisponda alla sua idea (cfr. Ger 18,2-6; cfr. anche Is 64,7). Il liquido si adatta immediatamente al suo contenitore e l’immagine del «cuore versato» apre prospettive molto belle e ardite sulla relazione affettiva con Dio e, di conseguenza, anche sulla preghiera che, a questo punto, non può più essere una contrattazione commerciale (io ti do e tu mi dai) o un rituale a orario fisso, ma uno svuotarsi, sull’esempio di Gesù che «non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso – ekènosen» (Fil 2,7), perché noi potessimo versare il nostro cuore liquido davanti a Dio che lo raccoglie, goccia a goccia, perché nulla vada perduto (cfr. Gv 6,39).

Voce di silenzio sottile

«Io non posso insegnarvi parole di preghiere», ci ha detto Gibran. Se riduciamo la preghiera a parole, scaviamo un abisso tra noi, la preghiera, lo Spirito e Dio, impossibile da valicare perché restiamo coperti dalla «polvere delle morte parole», ossessionati dal compiere il dovere di «recitare l’Ufficio» o di «dire la Messa», dimentichi che il vertice della Parola, e di conseguenza, delle nostre parole, è il Silenzio adorante. Insegna un mistico bengalese (India), Rabindranth Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’animo nel silenzio», quel silenzio che il Dio di Gesù amò prima della creazione del mondo, secondo un midràsh ebraico:

«Rabbi Abbahù (300 ca.) diceva in nome di Rabbi Jochanàn (m. 279): Quando Dio diede la Legge nessun uccello cinguettava, nessun volatile volava, nessun bue muggiva, nessuno degli Ofanìm (ruote del carro divino, cfr. Ez 1,15-21) muoveva un’ala, i Serafini non dicevano “Santo, Santo, Santo”, il mare non mormorava, le creature tacevano, tutto l’universo era ammutolito in un silenzio senza respiro, e venne la voce: “Io sono il Signore tuo Dio” (Es 20,2)» (Midràsh, Esodo Rabbà 29,9 a 20,1).

Autunno in Certosa di Pesio

Il profeta Elia fa l’esperienza della «voce di silenzio sottile – qol demamàh daqqàh», che lascia sbigottiti, perché non capiamo il senso della «sottigliezza» del silenzio che già da sé esprime una intensità assoluta. Il silenzio è anche sottile, come se volesse essere ancora più silente: «Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile (la Bibbia-Cei, 2008 traduce in modo banale brezza leggera). Come l’udì [udire il silenzio!] Elìa si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (1Re 19,12-13). L’esperienza di Elia è connessa con il dramma del vivere in mezzo al male del mondo e la necessità di dominarlo e, per non impazzire, ciò può avvenire solo vivendo fino in fondo la propria vita in intima unione con il Signore. Dominare il male del mondo significa liberare Dio da ogni tentazione temporale e idolatrica e restituire alle cose del mondo la loro autonomia perché il Dio di Elìa non è nel terremoto o nel turbine e nemmeno nel vento leggero, come di solito s’interpreta superficialmente il testo. No, Dio non è nella brezza leggera. Dio è Silenzio sottile.

Il testo dice che Elìa si coprì il volto al sentire la «voce di silenzio sottile – qol demamàh daqqàh» che non sappiamo come rendere in italiano nel suo significato vero. Possiamo supporre che sia in contrapposizione a Bàal, i cui sacerdoti Elìa ha annientato (cfr. 1Re 18). Bàal era il dio della tempesta e quindi del frastuono, mentre il Dio d’Israele è il «Dio silente» della coscienza e del cuore, che occorre ascoltare. Per ascoltare col cuore occorre non solo fare silenzio, ma «essere silenzio» e pure sottile, trasparenza, identità. La «voce di silenzio sottile» potrebbe essere anche uno schermo per velare Dio alla vista di Elìa, come la mano di Dio impedì a Mosè di vederne la «Gloria» (cfr. Es 33,32).

Sono solo interpretazioni, ma il profeta nell’«ascoltare il silenzio sottile», rinnova il gesto di Mosè al Sinai e si copre il volto perché nessuno può vedere Dio e restare in vita (cfr. Es 3,6 33,18-23; Is 6,2). Fa eccezione Mosè con cui «Il Signore parlava con faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11). Un’eccezione «unica», riservata al profeta per eccellenza, l’antesignano del Messia, il custode della Parola. La liturgia cattolica sente l’esigenza di creare questo clima nel momento supremo dell’incarnazione. L’antifona d’ingresso della II Domenica di Natale canta: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale» (Sap 18,14-15).

Ascoltando il silenzio di Dio che comunica a noi il suo anelito di vita, entriamo nella dinamica della preghiera, guidati dalla Parola, stabilendo, nel prossimo numero alcune regole essenziali.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, 11 – continua].




Migranti: reportage dalla nave Aquarius

 


Testi e foto di Daniele Biella |


Sommario

L’umanità sulle grandi acque.

«In mare eravamo pronti alla morte».
L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo.

Sos Mediterranée.

Cosa (non) vediamo in Libia.
I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia.

«Ho visto cose terribili».
La testimonianza di un volontario italiano.

E come li accogliamo.
Da dove e perché.

fake news.

1: 35 euro al giorno.

2: malaria e nozze.

 


L’umanità sulle grandi acque

Daniele Biella è nostro collaboratore da diversi anni. Alla fine della scorsa estate ha avuto l’opportunità di accompagnare il viaggio di una nave della Ong Sos Mediterranée in zona Sar, la zona di ricerca e salvataggio del Mare Mediterraneo ai confini con le acque territoriali libiche. Da quell’esperienza è nato questo Dossier. Un reportage dalle «grandi acque», accompagnato dall’analisi del controverso accordo Italia-Libia, dal racconto di un volontario, testimone della strage in mare del 6 novembre avvenuta con qualche responsabilità della Guardia costiera libica finanziata dall’Italia, da una panoramica sul perché e da dove vengono i migranti e su come li accogliamo, e da qualche spunto sulle fake news che sul tema delle migrazioni trovano terreno fertile.

Luca Lorusso


«In mare eravamo pronti alla morte»

L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo

Ecco, scandito per singoli giorni, il reportage del nostro viaggio sull’Aquarius, a documentare quanto accade oggi nel «Mare Nostrum», da sempre conosciuto per la bellezza delle sue acque ma, negli ultimi anni, sempre più associato alla morte di migliaia di persone che annegano nel tentare la fuga verso una vita migliore.

Siamo partiti da Catania l’8 settembre scorso in 40, siamo tornati a Trapani il 16 in 411. Questo è stato il carico umano della nave Aquarius dell’Ong (organizzazione non governativa) Sos Mediterranée.

Tra i 40 della partenza, 14 erano ufficiali e marinai, 12 membri della squadra di Sos Mediterranée, 10 dell’èquipe medica dell’Ong Medici senza frontiere (Msf) e quattro giornalisti, tra cui il sottoscritto.

Gli altri 371 erano persone migranti provenienti da 16 nazioni diverse, recuperate da gommoni in difficoltà in mare aperto e tolte, quindi, a morte certa. Tutte salvate nella quinta giornata di navigazione, il 14 settembre. È questo – salvare persone – che le navi delle Ong fanno dal 2015, a fianco delle imbarcazioni della Guardia costiera italiana e delle Marine militari di vari stati europei.

L’arruolamento

La chiamata arriva 72 ore prima dell’inizio della missione: «Sei stato selezionato come uno dei quattro giornalisti a bordo della ventisettesima rotazione della nave Aquarius», mi dice un membro dello staff a terra dell’Ong Sos Mediterranée (ci sono diversi gruppi di volontari che prestano servizio sulla nave e si alternano a rotazione, ndr.). Sapevo già che, in caso di chiamata, i tempi sarebbero stati stretti: passaporto alla mano e organizzazione familiare effettuata, parto. Come giornalista impegnato da anni a narrare le migrazioni forzate e i drammi in mare e lungo le altre frontiere, ritenevo l’esperienza diretta su una nave umanitaria un passo fondamentale del mio lavoro.

Una volta tornato sulla terraferma, la mia frase più frequente sarà: «Dovrebbero passare tutti un periodo su una nave come l’Aquarius, per capire come stanno le cose e quindi per raccontarle in modo corretto».

«L’opinione pubblica deve sapere»

Eccomi quindi nella cabina 14 dell’Aquarius assieme a un esperto giornalista della radio pubblica francese, Raphael Krafft. Gli altri due colleghi, anch’essi navigati reporter, sono il fotografo Tony Gentile e il videomaker Antonio Denti, entrambi dell’agenzia Reuters. «Consideratevi parte dell’equipaggio fin da subito: di fronte a un’emergenza, anche voi siete chiamati ad aiutare a salvare vite», ci viene detto da Madeleine Habib, australiana coordinatrice delle attività Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) dell’Aquarius. Sono lei e Marcella Kraay, responsabile dell’èquipe medica di Msf – che opera sulla nave grazie a un contratto con Sos Mediterranée – i punti di riferimento del personale umanitario della missione. «Documentare quello che avviene è importante. Per questo chiediamo ai giornalisti di venire a bordo con noi: l’opinione pubblica deve sapere da fonti dirette il dramma in atto nel Mar Mediterraneo», aggiunge Madeleine.

I primi due giorni

I primi due giorni sulla nave, il 9 e il 10 settembre, passano attraverso una serie di incontri conoscitivi ed esercitazioni: iniziamo, alle 8.15 del mattino, con un incontro collettivo che si ripeterà ogni giorno e che riguarda le informazioni sulla rotta, sulle necessità a bordo, e sugli eventuali salvataggi. Ci viene spiegato quali saranno le fasi del viaggio: il warm up, ovvero le esercitazioni iniziali, lo sprint, cioè il recupero di persone in mare, e la marathon, il ritorno alla terra ferma al porto indicato dalla Guardia costiera italiana (l’Imrcc, Italian maritime rescue coordination centre, il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo). È l’Imrcc che, dalla propria sede centrale di Roma, coordina le navi in mare, sia le proprie che quelle delle Ong, dell’agenzia europea Frontex e i mercantili di passaggio.

Dopo l’incontro del mattino, andiamo a conoscere il comandante della nave e seguiamoL’esercitazione medica per le situazioni di emergenza, in particolare sul massaggio cardiaco, tenuto da Margherita Colarullo, medico di Msf. Margherita è una dei pochi italiani (mezza dozzina) a bordo in questa rotazione. Gli altri provengono da diversi paesi dell’Europa, ma anche da altri continenti. L’età media è di 30-35 anni.

Ancora, facciamo la simulazione di evacuazione generale, quella di un attacco di pirateria (in cui bisogna recarsi in una zona della nave a chiusura ermetica, chiamata citadel), e si approfondisce la conoscenza della tipologia di persone vulnerabili che potrebbero essere recuperate. Msf ha previsto una serie di braccialetti di diverso colore per segnalare, per esempio, i minori stranieri non accompagnati (Msna), le persone con malattie (che vengono prese in cura già a bordo) e i casi estremamente vulnerabili, come le persone con tutta evidenza vittime di violenze.

La prima notte di navigazione e la giornata successiva non sono facili dal punto di vista fisico: il mare è molto mosso. Dato però che sono tra quelli che non accusano malesseri, ne approfitto per ascoltare le storie e le motivazioni che hanno portato le persone a bordo a passare mesi in mare per salvare vite. «Quando nel 2015 stavano arrivando centinaia di migliaia di persone sull’isola greca di Lesbo dalla Turchia sono andato sulle spiagge ad aiutare. È stata un’esperienza che non dimenticherò mai, mi ha fatto capire quanto ognuno di noi può essere utile per gli altri», mi racconta Iasonas Apostolopoulos, 29 anni, originario della Grecia continentale. «Finita l’emergenza lì, ho capito che potevo ancora dare il mio contributo: ho fatto pratica di soccorso e sicurezza in mare e ho chiesto e ottenuto di imbarcarmi sulle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale, fino ad arrivare qui sull’Aquarius». Iasonas ha salvato, con le proprie mani, centinaia di persone issandole a bordo dei rhib, i gommoni di soccorso. Purtroppo ne ha recuperate anche altre senza vita. Nonostante la giovane età di molti, trovo un incrocio di professionalità e umanità che non dimenticherò, e che getta luce utile a fugare tutte le ombre che si sono create nell’estate 2017 sull’operato delle Ong in mare.

Terzo e quarto giorno: l’arrivo in zona Sar

Quando il maltempo si placa, l’acqua diventa placida. «Bisogna stare all’erta, perché con il mare calmo i trafficanti fanno partire i gommoni», spiega Max Avis, uno dei soccorritori più esperti a bordo, 29enne come Iasonas, nato in Inghilterra ma vissuto soprattutto in California. È lui il punto di riferimento delle operazioni di salvataggio, ovvero la prima persona che, con un mediatore culturale al seguito, parla con le persone migranti quando un barcone in pericolo viene avvistato e raggiunto dai rhib. Max cerca di infondere tranquillità nei migranti e distribuisce giubbotti di salvataggio prima di issarli a bordo.

Una volta arrivati nella zona Sar, ovvero in quella parte di Mediterraneo che arriva fino a 12 miglia di distanza dalle coste libiche in cui si fa l’attività di ricerca e soccorso, nel pomeriggio della terza giornata simuliamo un salvataggio.

Sono per me momenti molto intensi, anche perché Sos Mediterranée dà l’opportunità ai giornalisti di salire a bordo dei gommoni di soccorso e quindi di vivere in prima persona le manovre di contatto con l’imbarcazione in pericolo. Per la simulazione issiamo sul gommone dei manichini. Più tardi dovremo issare persone.

Mi fa impressione rendermi conto che tutto questo succeda veramente nel 2017, in un mare splendido in cui avvistiamo gruppi di delfini giocare con le onde create dalla nave.

Nel solo 2016, l’anno peggiore di sempre, sono state ben 5.096 le vittime nel Mediterraneo, e 3.081 all’11 dicembre 2017 in cui sono diminuite le partenze per effetto di accordi critici come quelli tra Unione europea e Turchia o tra Italia e Libia. Rispetto all’anno precedente, nel 2017 è aumentata la probabilità di non farcela: a morire oggi, tra quelli che tentano la traversata, è una persona ogni 42, mentre nell’annus horribilis 2016 si era al rapporto di uno ogni 51.

Durante le esercitazioni, pensare alle migliaia di persone abbandonate in acqua dai trafficanti è disarmante. Si è da soli in quel mare così grande, in balia delle onde, con un’alta probabilità di non rivedere mai più la terra.

La prima chiamata

Una volta entrati nella zona di possibili segnalazioni di imbarcazioni in pericolo, gli operatori della squadra Sar si alternano nei turni al ponte di comando, usando anche il binocolo, a fianco degli uomini dell’equipaggio.

La mattina del quarto giorno, mercoledì 13 settembre, arriva in effetti la prima chiamata del Imrcc di Roma per soccorrere un’imbarcazione nel mare a Ovest di Tripoli. Noi siamo a Est, per indicazione della stessa Guardia costiera italiana, quindi il luogo del soccorso è molto lontano dall’Aquarius: ci vorranno almeno 7-8 ore per arrivare. Per fortuna, dopo meno di tre ore, Imrcc richiama dicendo all’Aquarius che una nave militare tedesca è riuscita a fare il salvataggio e che non ci sono vittime. La giornata si conclude quindi con un sollievo generale, affiancato alla preoccupazione per l’indomani.

Quinto giorno: i salvataggi

E infatti, giovedì 14 settembre inizia con un rumore di elicottero sopra le nostre teste: è un mezzo militare del dispositivo europeo «Operazione Sophia» che pattuglia l’area contigua alla Libia. La chiamata all’Aquarius questa volta arriva a sorpresa dalla Guardia costiera libica per segnalare un gommone in avaria che loro non riescono a recuperare, a 25 miglia dalla costa. Una lancia con quattro militari libici arriva rapidamente fin sotto alla nostra nave. Temendo intimidazioni da parte loro, come è successo di recente verso alcune Ong (con tanto di spari in aria), la coordinatrice Sar chiede a tutti noi di andare in coperta. L’apprensione, però, si stempera quasi subito. I libici chiedono all’Aquarius di farsi carico del recupero. Successivamente, durante il salvataggio, rimangono a fianco dei due gommoni di Sos Mediterranée, collaborando in parte alle operazioni. Nel giro di tre ore, prima che l’acqua faccia affondare l’imbarcazione malridotta, iniziando da donne, bambini e casi medici problematici (per fortuna nessuno grave), 20 persone alla volta, i 142 occupanti del gommone vengono trasferiti dai soccorritori dell’Ong sulla Aquarius. Poco dopo, la Guardia costiera libica smonta il motore e brucia il mezzo, poi torna verso le proprie coste.

Un giovanissimo migrante subsahariano, appena salito sull’Aquarius, racconta: «I libici ci avevano intercettato e intimato di tornare indietro, ma il motore si è rotto in quel momento e quindi il vostro salvataggio è stato per noi un miracolo, altrimenti ora saremmo morti o di ritorno nelle prigioni libiche». Sono evidenti i segni delle torture sui loro corpi, così come la spossatezza delle donne, alcune delle quali in seguito testimonieranno alle operatrici di Msf gli abusi subìti nei centri di detenzione.

Subito donne e bambini sono condotti nello shelter, «rifugio», zona della nave al chiuso, mentre gli uomini rimangono sui vari ponti all’esterno, dove passeranno la notte. A tutti viene consegnato un kit comprendente una tuta, una coperta, un integratore energetico e una salvietta.

Poco dopo aver concluso il salvataggio, arriva un’altra chiamata, ancora dalla Guardia costiera libica, per altre 120 persone in difficoltà in mare aperto. Questa volta non c’è un’imbarcazione libica ad accompagnare l’Aquarius, quindi, date le maggiori condizioni di sicurezza, a noi giornalisti viene concesso di salire sui rhib.

Fortunatamente il gommone è in buone condizioni e nessuno è caduto in mare.

Basta Libia!

«No more Lybia», basta Libia, gridano in molti. Via dall’inferno dove hanno vissuto gli ultimi mesi. Verso una vita di sicuro non facile, ma migliore di quella che hanno lasciato alle spalle.

Nel tardo pomeriggio, alla fine dei due salvataggi, le persone recuperate sono 262: il più piccolo ha una sola settimana di vita ed è con i genitori, il più anziano ha 56 anni.

Ma non è ancora finita: a notte inoltrata, questa volta su indicazione di Imrcc, sono trasferiti da noi, dalla nave dell’Ong Save the children, la Vos Hestia, altri 109 migranti recuperati in un’altra zona delle acque internazionali. Arriviamo al totale di 371 persone, di 16 nazioni diverse, tra cui 54 minori non accompagnati.

«Ora fate rotta verso l’Italia, domani vi diremo il porto di sbarco», è l’indicazione della Guardia costiera italiana.

Sull’Aquarius si fa evidente la stanchezza di una giornata pazzesca, e tutti si addormentano, mentre la squadra di Sos Mediterranée rimane sveglio a turni per controllare la situazione generale.

Il ritorno verso l’Italia e lo sbarco

Il giorno dopo i salvataggi è un giorno fondamentale. Le persone, per la prima volta dopo mesi, se non anni, in cui sono state alla mercé di predoni del deserto, sfruttatori e trafficanti di ogni specie, finalmente hanno qualcuno di cui fidarsi: la sensazione è immediata, e molti si aprono sia con il team medico di Msf, sia con noi giornalisti.

Raccontano storie di speranza e di orrore, di quanto hanno subito in Libia e in altri luoghi dove l’umanità sembra essere stata dimenticata.

«Sono stato venduto cinque volte, mi trattavano come un oggetto, non una persona», mi dice un ragazzo 17enne proveniente dal Gambia. Poco lontano, un ragazzo non riesce a camminare bene per le conseguenze di colpi d’accetta ricevuti sui piedi.

Una donna piange disperata mentre guarda i bambini sani e salvi a bordo: non sono i suoi. I suoi li ha persi in un naufragio a luglio, prima di essere respinta dalla Guardia costiera libica. Erano tre, avevano 1, 3 e 5 anni.

Ci sono anche famiglie intere, scappate dai rapimenti sempre più frequenti a Tripoli, capitale della Libia, e ci sono famiglie siriane che hanno sperato fino all’ultimo che la guerra iniziata nel 2011 terminasse, ma alla fine hanno lasciato tutto per partire. Loro hanno pagato di più per il viaggio, attorno ai mille dollari a testa, e in cambio hanno ricevuto un «trattamento» migliore, senza violenze.

Gran parte delle persone dell’Africa subsahariana, con meno soldi a disposizione, hanno subito vessazioni quotidiane dai carcerieri, comprese le telefonate ai parenti per spillare loro soldi da inviare via money transfer.

Tutto il male del recente passato, però, scompare temporaneamente sulla nave che li ha salvati: partono i canti, i balli, prima sommessi, poi di festa collettiva. Sono momenti indimenticabili, di liberazione.

«Non sappiamo domani dove verremo mandati, ma l’importante è avercela fatta». «È come una rinascita, perché in mare eravamo pronti alla morte. Meglio infatti morire di speranza che rimanere in mezzo alle violenze libiche», sono alcune delle voci che raccolgo.

Intanto, i bambini giocano sia nella zona riservata a loro e alle donne, sia sul ponte della nave, e l’atmosfera è tranquilla. Non ci sono situazioni mediche gravi e, soprattutto, i tre salvataggi sono stati completi, senza nessuna salma da riportare a terra, come invece avviene in molti altri casi.

Io passo la giornata e quasi tutta la notte successiva a dialogare e ascoltare testimonianze, e ad aiutare gli operatori delle Ong: è talmente evidente la necessità di darsi da fare che non si può stare a guardare.

Terra (europea) in vista

Alla mattina dell’ultimo giorno di viaggio, ecco la terra: Sicilia, Italia, Europa. A colazione il texano Jay Berger, logista di Msf, spiega a tutto l’equipaggio come avverrà l’operazione di sbarco. Arriviamo a Trapani, dove in un paio d’ore tutte le 371 persone salvate in mare vengono fatte sbarcare. Portate nei presidi del ministero dell’Interno e delle Ong per i primi accertamenti, ricevono ulteriori visite mediche dopo quelle sulla Aquarius.

Scendiamo anche noi quattro giornalisti lasciando il posto ad altri colleghi che ci danno il cambio. La Aquarius ripartirà poche ore dopo, di nuovo verso la zona Sar, dove le navi di salvataggio in questo periodo sono poche, nonostante le partenze dalla Libia continuino.

È il momento dei saluti sia con lo staff che con i migranti, ed è emozionante, perché tutte queste persone, con cui ora ho stabilito un contatto, hanno davanti a loro un futuro nuovo, di certo difficile, ma almeno più sicuro. Persone, ognuna diversa dalle altre, «non numeri, ma volti e storie», come dice papa Francesco. È proprio così: donne e uomini come noi. Potremmo essere noi al loro posto se fossimo nati dalla parte sbagliata del mondo.

Daniele Biella

Sos Mediterranée

L’Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée nasce nel 2015 in Germania e va nel mar Mediterraneo con la nave Aquarius (che prima era un’imbarcazione della Guardia costiera tedesca) nel febbraio 2016. Da allora fino allo sbarco dell’11 dicembre 2017, l’Aquarius, lunga 77 metri, ha salvato 25.646 persone: 11.261 nel 2016, 14.385 nel 2017. Ben oltre 25 le nazionalità di provenienza delle persone, sia dall’Africa che dal Medio Oriente.

Sito web: www.sosmediterranee.org


Cosa (non) vediamo in Libia

I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia

Lo sappiamo da tempo: in Libia i migranti subiscono brutali forme di violazione dei loro diritti. Nonostante questo, l’Italia ha fatto un accordo con Al-Sarraj che mira a scoraggiarne la partenza. Così sono diminuite le partenze e i morti in mare, ma di fatto sono peggiorate le condizioni delle persone sulla terra ferma.

Quello che sta accadendo nel mar Mediterraneo e sulle coste libiche non si può più tacere. Ci sono filmati e testimonianze che ora pesano come macigni sulla Comunità internazionale, e sull’Europa in primis. Racconti che arrivano all’attenzione dell’opinione pubblica grazie al coraggioso lavoro di giornalisti disposti a rischi personali in nome della verità dei fatti, grazie alle stesse persone migranti che fanno conoscere la loro storia nonostante il rischio di ritorsioni, e grazie alla presenza in mare di soccorritori che partono con un preciso scopo: salvare vite umane.

Migliaia, se non decine di migliaia di esseri umani, prima di venire obbligati a partire affidandosi alla roulette russa del mare, sono vittime per mesi di violenza da parte di carcerieri e trafficanti.

Succede da anni, ma solo dall’autunno del 2017 se ne parla apertamente, dopo la strage del 6 novembre (almeno 52 morti causati dal comportamento scorretto delle autorità libiche, si veda box) e altri fatti angoscianti come quelli mostrati dal video della Cnn in cui si assiste a una compravendita di giovani dell’Africa subsahariana. Un vero e proprio commercio di «schiavi» in terra libica. Il 27 novembre, poi, hanno destato ulteriore indignazione le immagini di decine di bambini denutriti e coperti di piaghe recuperati dalla nave Aquarius dell’Ong Sos Mediterranée su indicazione del Imrcc di Roma. Sul peschereccio dal quale sono stati prelevati c’erano 421 anime. Prima di lasciare la terra ferma erano stati chiusi per mesi in condizioni più che disumane in prigioni illegali gestite dai trafficanti.

Un accordo

La Libia, che non ha firmato la Dichiarazione Onu sui diritti umani, è considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Per questo sta sollevando una forte discussione il fatto che, prima con un Memorandum del febbraio 2017, poi con un vero e proprio accordo nell’estate, il governo italiano abbia stretto un patto con quella parte della Libia governata dal premier Al Sarraj. L’Italia, in cambio del controllo delle partenze dei migranti, garantisce navi e formazione alla Guardia costiera del paese nordafricano, in particolare della città di Zawiya e, a detta degli stessi libici, un apporto economico (rimasto imprecisato).

Il problema è duplice: da una parte il «controllore» potrebbe benissimo essere anche il «controllato» (il miliziano trafficante che cambia casacca e diventa membro della Guardia costiera libica, come denunciato dal giornalista Rai Amedeo Ricucci); dall’altra in quelle zone si continua a combattere e nuove milizie si impossessano dei territori di altre, come avvenuto a settembre, quando quelle riconosciute da Al Sarraj sono state sconfitte da altre vicine al rivale, il generale Haftar che controlla gran parte della Cirenaica. La conseguenza è il caos totale per le persone migranti rinchiuse nei centri di detenzione in attesa di partire per l’Italia (più che di un improbabile rimpatrio): esse si trovano in balia degli eventi, esposte a un fuoco incrociato di libici contro libici e al rischio di essere di nuovo rapite o vendute e, ovviamente, trattate senza alcun rispetto dei diritti umani.

L’Unhcr, l’alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, può entrare a visitare i campi di detenzione «ufficiali» solo con permesso delle autorità libiche. Quando lo fa, di solito trova situazioni ripulite per l’occasione, ma appena i detenuti riescono a parlare, raccontano di soprusi e compravendite di persone che avvengono anche lì, nei centri più controllati. La partenza per il mare è una liberazione, ma, da quando sono in atto i respingimenti, l’incubo è destinato a continuare, perché in caso di intercettazione da parte della Guardia costiera libica si è costretti a tornare. Questo, il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, promotore dell’accordo con la Libia, lo sa, ma la sua linea è quella di fare qualcosa in ogni caso per fermare gli arrivi in Italia. Per questo dopo il naufragio del 6 novembre 2017, nonostante l’appello del volontario di Sea-Watch Gennaro Giudetti, che ha visto da vicino la violenza delle autorità libiche, nonostante il video della Cnn e le prove delle torture subite dalle persone migranti in Libia, non ha cambiato la linea governativa rivendicando «la lotta ai trafficanti» e «la diminuzione del numero degli sbarchi».

Lo stesso ministro Minniti ha creato nel luglio 2017 un Codice di condotta per le Ong sull’onda del clamore di una campagna mediatica di attacco alle stesse organizzazioni, sospettate di essere d’accordo con i trafficanti, nonostante in un anno di accuse da parte di blogger, media e politici schierati con la «criminalizzazione della solidarietà», nessun fatto concreto sia mai stato accertato. Al momento una sola Ong, la tedesca Jugend Rettet, pur vedendosi riconosciuti i suoi fini umanitari, è stata indagata dalla Procura di Trapani per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Quasi tutte le organizzazioni non governative hanno firmato il Codice di condotta accordandosi con il ministero. Molte poi si sono rifiutate di tornare nelle acque internazionali, ma più per l’atteggiamento aggressivo della Guardia costiera libica che per le regole del Codice, che di fatto sono le stesse già in vigore in mare e già osservate anche dalla stessa Guardia costiera italiana. È l’atteggiamento libico il vero problema: da esso dipende se un salvataggio va a buon fine o se centinaia di persone trovano la morte. Una situazione inaccettabile.

Daniele Biella


«Ho visto cose terribili»

La testimonianza di un volontario italiano

Il 6 novembre 2017 c’è stata l’ennesima strage in mare. Almeno 52 morti, anche a causa del comportamento della Guardia costiera libica. Ce ne parla un testimone oculare.

Gennaro Giudetti ha 27 anni, è originario di Taranto e negli ultimi sette anni ha vissuto un anno in Albania con i Caschi bianchi in Servizio civile all’estero, poi come volontario in Kenya, nei Territori Palestinesi e in Libano per il corpo di pace Operazione Colomba dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.

A maggio 2017 e a novembre si è imbarcato con l’Ong Sea Watch per partecipare, come mediatore culturale, alle operazioni di salvataggio e soccorso nel Mediterraneo, durante le quali ha dovuto personalmente trarre in salvo dall’acqua decine di persone, donne e bambini compresi.

Il 6 novembre 2017 è stato testimone di un naufragio che ha causato la morte di decine di persone. Sono state chiare fin da subito le responsabilità del personale della Guardia costiera libica presente sullo scenario. Giudetti è stato il primo a denunciare tutto questo, chiedendo in un appello su Vita.it di incontrare il ministro dell’Interno Marco Minniti e i membri del Parlamento europeo. Ecco il suo racconto di quei momenti drammatici, ripreso da giornalisti e politici di tutto il mondo, compresa la presidente della Camera Laura Boldrini, ex portavoce di Unhcr, Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati.

«Ciò che ho visto con i miei occhi»

«Non appena sono tornato a terra, dopo il naufragio del 6 novembre, ho deciso di raccontare a tutti quelli che vorranno ascoltare ciò che ho visto con i miei occhi.

Insieme ad altri volontari dell’Ong Sea Watch abbiamo tirato fuori dall’acqua, uno a uno, a braccia, 58 persone, salvandole dalla morte.

Di fronte a noi, la Guardia costiera libica ha agito in modo disumano, lasciando decine di uomini e donne in mare ad annegare, senza lanciare salvagenti e picchiando chi non voleva essere preso da loro per non tornare in Libia e voleva, invece, venire sulla nostra nave, dove vedeva al sicuro i fratelli, le mogli, i padri. È stato straziante vivere tutto questo.

Quel giorno eravamo a 30 miglia marine dalla Libia, in piene acque internazionali. L’Imrcc di Roma, la Centrale di comando della Guardia costiera, ci ha contattato per effettuare il salvataggio di un gommone in difficoltà, aggiungendo che sullo scenario avremmo trovato anche una nave della Marina francese con cui collaborare. Quando siamo arrivati sul punto indicato, però, abbiamo capito fin da subito che era già in corso un dramma».

Abbiamo dovuto farci largo tra i corpi

«Prima di noi e dei francesi era arrivata una nave della Guardia costiera libica, che aveva agganciato il gommone dei migranti. Il natante era bucato e c’erano decine di persone in mare. Alcuni indossavano il salvagente, molti altri non avevano nulla.

Dalla nave della Sea Watch 3 abbiamo lanciato i due gommoni di salvataggio. Io ero su uno di questi con altri tre componenti dell’equipaggio.

Abbiamo dovuto farci largo tra corpi di persone che erano già annegate per riuscire a raggiungere e cercare di recuperare quelli che invece erano ancora in vita. Abbiamo tirato a bordo i superstiti con le braccia. Dopo un po’ facevano talmente male che mi si stavano per bloccare. C’erano naufraghi che si attaccavano al mio collo mentre salvavo altri. Sono stati istanti tanto tragici quanto rischiosi.

A un certo punto ho visto un bambino che galleggiava davanti a me, apparentemente senza vita. Avrà avuto 3 o 4 anni. L’ho tirato su nel gommone con le mie mani, sperando in un miracolo. L’abbiamo riportato sulla nave e abbiamo provato a effettuare la rianimazione, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare».

La Guardia costiera libica

«I militari libici sembravano non interessarsi delle persone che erano più lontane da loro. C’erano intorno alcuni corpi senza vita. Loro hanno lanciato delle corde alle quali le persone ancora in acqua si aggrappavano per salvarsi. Ma molti, sapendo che con la Guardia costiera libica sarebbero ritornati in Libia – dove oramai sono documentate le tante violenze commesse -, hanno iniziato a nuotare verso di noi non appena ci hanno visto. I libici all’inizio sembravano collaborativi, non ostacolavano chi si dirigeva verso di noi. Poi, però, hanno iniziato a fare un gesto folle: ci hanno lanciato addosso delle patate, mentre ci urlavano di andarcene. Nello stesso tempo si rendevano protagonisti di brutalità sulla loro nave: prendevano a frustate e bastonate chi era già a bordo ma cercava di alzarsi e ributtarsi in mare per venire da noi.

Nonostante ciò, tante persone continuavano a provare a sfuggire alla Guardia costiera libica, anche perché alcuni dei loro parenti erano già in salvo sui nostri gommoni e vedersi separati aumentava la loro disperazione. Improvvisamente, i libici hanno deciso di andarsene, a tutta velocità e senza una chiara motivazione.

Un elicottero militare italiano, presente sulla scena, si è abbassato di colpo, costringendoli a rallentare almeno per un attimo. La loro fuga ha aggravato il dramma già in corso. Molte persone, infatti, erano ancora in mare, attaccate alle corde e la motovedetta in movimento li ha messi in estremo pericolo.

Ho assistito a una scena orribile: un marito che si è aggrappato a una corda per scendere dopo avere sentito la moglie che lo chiamava dal nostro gommone, ma non sapendo nuotare aveva paura di lanciarsi in acqua. Proprio in quel momento la nave libica è partita e lui è rimasto appeso. Chissà cosa ne è stato di lui: noi non l’abbiamo potuto recuperare e non sappiamo se sia vivo o morto. Lascio immaginare quanto sia disperata ora sua moglie, così come la mamma del bimbo che ho visto annegare davanti ai miei occhi. Nelle ore successive al salvataggio ho passato molto tempo a cercare di consolarla, anche se è impossibile pensare di alleviare un trauma simile».

Fermare l’accordo con la Libia

«Come italiano ed europeo chiedo scusa alle persone la cui unica colpa è essere nati nella parte sbagliata del mondo. Queste donne, questi uomini, questi bambini, non sono solo numeri: sono esseri umani, con un nome, una faccia, e vorrei che tutto il mondo venisse sulle barche nel Mediterraneo per capire davvero come stanno le cose. Mi amareggia pensare che c’è chi liquida quanto accade con frasi come “c’è un’invasione che va fermata”. Credo che di fronte a questa tragedia dovremmo ascoltare la nostra coscienza.

E mi preoccupa l’accordo che il governo italiano ha fatto con la Libia e il modo in cui vengono utilizzate le navi donate alla Guardia costiera libica. Credo che si debba fermare o modificare immediatamente l’accordo con la Libia. Ora più che mai, nessuno può dire “chissà cosa succede veramente?”. Io c’ero, ho visto, ed è tutto vero. E quello che sta succedendo non deve succedere mai più».

Testimonianza di Gennaro Giudetti, raccolta da Daniele Biella


E come li accogliamo

Da dove e perché.

Vengono via da regimi oppressivi, da zone di conflitto, dai gruppi jihadisti. O anche «solo» da una condizione di povertà e di assenza di prospettive. L’Unione europea fatica a prendersi carico della loro sorte. L’Italia affronta la situazione nel tentativo di uscire dalla condizione di emergenza.

Da dove vengono e dove vanno le persone che migrano verso l’Europa? C’è la rotta libica, quella su cui ci concentriamo qui, ma non dimentichiamoci della rotta balcanica, diretta in particolare verso il Nord Europa, con passaggi anche a Est dell’Italia, vedi Trieste e Gorizia: migliaia di persone, bambini compresi, che puntano all’asilo politico venendo da nazioni come Siria, Afghanistan, Pakistan e Iraq e che oggi sono in gran parte bloccati in campi di accoglienza sulle isole o sulla terraferma greca o, in condizioni peggiori, ai confini dell’Est Europa. Una delle ultime vittime, lo scorso 23 novembre 2017, una bambina afgana di 6 anni investita da un treno merci al confine tra Croazia e Serbia: era stata appena respinta dalla polizia croata assieme alla propria famiglia.

La Libia è un collo di bottiglia

Per quanto riguarda la rotta libica, stiamo parlando di quello che viene spesso paragonato a un «collo di bottiglia», ovvero un luogo in cui le persone vengono assembrate dai trafficanti prima della partenza obbligata verso l’Europa. Molti, provenienti dall’Africa Subsahariana, non puntano al vecchio Continente, ma piuttosto alla Libia stessa come luogo di lavoro. Una volta giunti in Libia, però, si rendono conto che la scelta è sbagliata, anche per le atroci violazioni dei diritti umani che finiscono per subire e, non essendoci una rotta di ritorno, l’unica via d’uscita è la traversata del Mediterraneo. Verso la Libia convergono rotte migratorie sia dal Corno d’Africa (dall’Eritrea in particolare, dove c’è una decennale dittatura, ma anche dalla Somalia dove terrorismo e violenze sono pericoli quotidiani), sia da paesi in guerra come il Sud Sudan o il Congo, sia da altri paesi alle prese con diverse forme di terrorismo (si veda Boko Haram in alcune zone della Nigeria o gruppi jihadisti in Mali), persecuzioni governative o anche situazioni di dissesto climatico e povertà diffusa. Tutti motivi che spingono migliaia di persone, soprattutto giovani, a partire: i figli maggiori sono quelli su cui una famiglia punta, spesso indebitandosi. Quando il ragazzo arriverà alla meta, potrà iniziare a inviare denaro.

Ma non è solo in Libia il pericolo: ogni passaggio è rischioso, perché trafficanti e criminali comuni stabiliscono rotte ben precise e se non hai i soldi per percorrerle vieni lasciato indietro. Nel deserto del Sahara questo significa morte certa di stenti o a mano armata. Se superi deserto, Libia e mare, alla fine l’Europa la trovi.

In Italia, le maggiori nazionalità di arrivo nel 2017 sono state: Nigeria, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea (vedi tabella).

Il Regolamento di Dublino

Per il Regolamento di Dublino, in atto nell’Unione europea dal 1990 con una serie di modifiche successive non sostanziali, il primo paese d’approdo in Europa è quello in cui una persona deve chiedere asilo politico. Molti però non vogliono, perché hanno parenti o conoscenti altrove, e provano a passare illegalmente le frontiere di terra, per esempio tra Italia e Francia, Svizzera e Austria. Il risultato sono altre morti, come le cronache locali purtroppo riportano tra Ventimiglia, Como e Brennero.

A metà novembre 2017, dopo anni di lavori, finalmente il Parlamento europeo ha varato una riforma del Regolamento che supera il blocco del primo paese d’approdo, prevedendo l’invio della persona dal centro di prima accoglienza in nazioni diverse attraverso il sistema delle quote: ma tale riforma va approvata anche dal Consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo dei singoli membri Ue, che oggi su questo argomento ha posizioni molto rigide di avversione. I più contrari sono soprattutto i paesi dell’Est Europa, appartenenti al cosiddetto «Gruppo di Visegrad».

La prima accoglienza

In attesa di questo cambiamento, fortemente voluto dalla società civile italiana ed europea, il sistema di accoglienza prevede due fasi: la prima attraverso il meccanismo degli hotspot, e la seconda attraverso strutture dove le persone rimangono il tempo necessario a vagliare la loro domanda di asilo (protezione internazionale).

Gli hotspot sono luoghi in cui le persone vengono trattenute appena sbarcate, in attesa di ricevere la loro richiesta d’asilo. Ce ne sono una decina
distribuiti tra le isole greche e l’Italia, con situazioni diverse tra loro. In Grecia, infatti, in conseguenza dell’accordo tra Ue e Turchia del marzo 2016, migliaia di persone, bambini compresi, sono trattenute per mesi in attesa di una risposta sul loro ricollocamento. La situazione è particolarmente esplosiva sull’isola di Lesbo: nell’hotspot di Moria a dicembre 2017 erano presenti almeno 6mila persone, a fronte di una capienza di 2.500, molti in tende nonostante il freddo. Accade spesso che le persone migranti vengano addirittura rimandate in Turchia, considerato dall’Europa un «terzo stato sicuro» dove le persone non rischiano la vita. L’Europa però non prende in considerazione le dure condizioni dei campi profughi turchi in cui vivono in milioni, soprattutto siriani.

Gli hotspot italiani, invece, oggi funzionano meglio e le persone che ne hanno diritto – ovvero che hanno possibilità di chiedere asilo e non provengono da quegli stati con cui l’Italia ha accordi bilaterali di rimpatrio, come Marocco o Tunisia – vengono smistate nei centri di seconda accoglienza lungo la penisola e in quota residuale all’estero (le cose cambieranno, appunto, se il Regolamento di Dublino verrà modificato).

La seconda accoglienza

Le strutture di seconda accoglienza in Italia si basano su quote regionali e sono di due modelli: il Cas e lo Sprar. Il referente del ministero dell’Interno per i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) è la Prefettura territoriale. Questa, con un bando, assegna un numero di persone in accoglienza a enti gestori che possono essere profit e non profit, in cambio di 35 euro per ospite. Di questi 35 euro al singolo ospite ne vanno 2,5, il resto è utilizzato dal gestore che deve spenderlo per i servizi previsti dal bando, altrimenti può essere denunciato per lucro. Le persone vengono alloggiate in strutture dell’ente stesso o che quest’ultimo affitta da privati.

Il secondo modello è quello dello Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati): un’accoglienza gestita direttamente tra Ministero dell’Interno e Comune. Quest’ultimo riceve incentivi e, soprattutto, grazie alla «clausola di salvaguardia» emanata dal ministero nel 2016, può evitare Cas sul proprio territorio se completa la propria quota Sprar che è attorno ai tre richiedenti asilo accolti ogni mille abitanti.

Molti studi affermano come sia opportuno il passaggio graduale dal sistema Cas (chiamato anche «emergenziale») a quello Sprar («strutturale»). Oggi i dati, seppure indichino un ampliamento del sistema Sprar, parlano ancora di una forte presenza di richiedenti asilo nei Cas, a volte in sovrannumero rispetto al territorio in cui sono ospitati, con conseguente disagio sia per la popolazione locale che per i migranti stessi che trovano difficoltà di conoscenza reciproca. A fine 2016, a fronte di 170mila in accoglienza Cas, erano 34mila in Sprar (fonte Anci).

Il Piano nazionale d’integrazione

Dopo anni di tentennamenti, da qualche tempo anche il governo promuove la diffusione generale del modello Sprar e ha emanato a settembre il primo Piano nazionale d’integrazione: l’integrazione è la vera sfida da vincere al di là dell’accoglienza, per la quale, a parte evidenti casi di malaffare, l’Italia si distingue in positivo rispetto ad altri paesi europei.

Lo stato deve promuovere azioni sistematiche, non sperare solo nella buona volontà del singolo tessuto sociale. Altrimenti, in un momento in cui l’opinione pubblica è molto divisa sul tema dell’accoglienza anche per causa di un’informazione fatta male sia a livello di mass media che istituzionale, il rischio è quello di dividere la società su un tema che invece andrebbe affrontato in modo unitario, chiedendo conto all’Europa di una redistribuzione complessiva degli ospiti che oggi non avviene.

Daniele Biella


Fake news

1: 35 euro al giorno

«Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato». «Si prendono 35 euro al giorno». Benvenuti nel mondo delle notizie false, propaganda o fake news anti-migranti: un mondo pericoloso dove le paure vengono amplificate e le persone portate alla diffidenza estrema sia da politici senza scrupoli che da quegli stessi mass media che dovrebbero invece portare più chiarezza. Smascherarle è un lavoro lungo ma necessario (in inglese si chiama debunking, mentre la verifica dei fatti narrati fact-checking), anche se spesso le smentite, soprattutto nel mondo dei social network, non raggiungono  nemmeno la metà della portata di un articolo falso sparato in prima pagina e condiviso da migliaia di utenti.

In Italia, rispetto alla media dell’Europa, è alto il numero degli «analfabeti funzionali», ovvero delle persone che leggono frasi ma ne travisano il significato. Ma il dato che spaventa di più, in questo caso tutta l’Europa, raccolto dalla Stanford University, riguarda l’incapacità della maggior parte degli adolescenti – con punte dell’80% – di riconoscere una notizia tendenziosa o una pubblicità, nemmeno di fronte a prove evidenti, come il logo di un sito o di un prodotto. Il messaggio viene recepito come notizia vera e quindi assimilata.

«La credibilità delle notizie è il tema centrale di questi anni», conferma Stefano Pasta, giornalista e membro dell’Associazione Carta di Roma che porta il nome del documento firmato nel 2008 da Ordine dei giornalisti e Fnsi, il sindacato di categoria, proprio per «rispettare la verità sostanziale dei fatti osservati». Se uno studente «non riesce a riconoscere la palese falsità di una notizia è un problema che le agenzie educative devono affrontare aumentando con urgenza il loro senso critico», osserva Pasta. L’associazione Factcheckers, in questo senso, ha messo online gratuitamente un’efficace «Guida galattica per esploratori di notizie» (factcheckers.it/guida).

«L’altro fenomeno preoccupante da arginare e poi scardinare è la diffusione delle post-verità», riprende il referente di Carta di Roma. «Di fronte a una supposta notizia che ci sconvolge, facciamo prevalere il nostro stato emozionale sulla realtà dei fatti: i nostri sentimenti rendono vero quello che non lo è e la nostra interpretazione del mondo è falsata. È successo così, per esempio, con il tema delle allusioni alla collaborazione tra Ong in mare e trafficanti: nessun fatto concreto, ma notizie a cui molti hanno creduto perché spinti da sentimenti di paura e rifiuto, stimolati e orientati da persone abili a manipolare le coscienze». Come bloccare l’insinuarsi della post-verità? «Osservare a fondo la realtà, trovare fonti diverse che confermino o meno una notizia che ci salta all’occhio», continua Pasta. «E allargare i propri orizzonti: quanti di noi sanno, per esempio, che meno del 10 per cento dei profughi nel mondo viene verso l‘Europa?». Infatti i dati Onu parlano chiaro: tra i paesi che ne ospitano di più al mondo ci sono Turchia, Giordania, Libano, Colombia e due stati della stessa Africa, Kenya e Rwanda. A conti fatti, fake news e post-verità sono due facce della stessa medaglia e vanno affrontate assieme, ribattendo punto su punto. Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato? No, «rifugiato» è una delle tre forme legislative previste, le altre due sono «protezione sussidiaria» e «protezione umanitaria». La somma (su dati ministeriali) fa almeno 40% in prima udienza, 60% dopo l’appello, ovvero la quota di accoglienza delle domande di asilo è in media positiva in sei casi su dieci. «Si prendono 35 euro al giorno». No: 35 euro li prende l’ente gestore, al richiedente asilo ne vanno 2,50 al giorno, quindi circa 75 al mese.

D.B.

2: malaria e nozze

«Dopo la miseria, portano malattie», titolava il quotidiano Libero mercoledì 6 settembre 2017 sul caso di una bambina di 4 anni che a Trento aveva preso la malaria. E nel sommario: «Immigrati affetti da morbi letali diffondono infezioni». In questo caso l’Ordine dei giornalisti è intervenuto per denunciare il «rischio di incitamento all’odio», ma la notizia in questi termini è girata per giorni, ampiamente trattata con toni allarmistici anche nelle televisioni, mentre chi portava spiegazioni ragionevoli dell’accaduto non veniva preso in considerazione. «È stata una macroscopica falla nelle procedure, un errore umano, ovvero un’iniezione sbagliata con siringa già infetta da parte di un infermiere», è stato infine accertato dalle indagini a inizio novembre, ma questa notizia ha trovato rilievo su ben poche testate nazionali.

«Mi hanno piantato un coltello nella mano, è stato un africano».
Questo il grido di dolore di un controllore delle Ferrovie milanesi di Trenord. Era il 19 luglio 2017: notizia sotto i riflettori ovunque, sciopero successivo indetto dai colleghi, indignazione collettiva. Infuria la caccia all’aggressore, ma il 28 luglio emerge, grazie alle telecamere della stazione, la sconvolgente verità: «Se l’è fatto da solo». Nessun africano criminale! Denuncia dell’azienda e probabile licenziamento per il controllore. Nel frattempo però la notizia falsa, ma data per vera dalla maggior parte dei media e parecchio ghiotta per «sbattere il mostro in prima pagina», è girata, purtroppo, molto di più della smentita.

Il caso in Veneto del matrimonio combinato tra una bambina di 9 anni e un adulto musulmano di 35 che avrebbe usato violenza su di lei: bufala apparsa come notizia vera il 21 novembre 2017, prima sul Messaggero, poi su altre testate nazionali e addirittura riportata nella nota rubrica «Buongiorno» de La Stampa, curata dal pur attento giornalista Mattia Feltri, nonostante la smentita da parte delle forze dell’ordine fosse arrivata entro la sera stessa. Feltri la mattina successiva è dovuto correre ai ripari, perlomeno sulla versione online, dato che il cartaceo era già in edicola.

Un caso emblematico che ha strumentalizzato il problema delle spose bambine, non molto comune in Italia ma diffuso in altri paesi del mondo, allo scopo di alimentare l’islamofobia.

D.B.


Questo dossier è stato firmato da:

  • Daniele Biella Classe 1978, giornalista, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di tematiche sociali, in particolare migrazioni e cooperazione internazionale. Ha all’attivo due libri: L’isola dei Giusti. Lesbo crocevia dell’umanità (Paoline, 2017) e Nawal, l’angelo dei profughi (Paoline, 2015). Interviene come referente di progetti educativi e formativi sul tema dell’accoglienza in scuole, assemblee cittadine e altri centri di aggregazione. In particolare, tramite il progetto «Con altri occhi», lungo l’anno scolastico 2016-2017, ha incontrato più di 5mila alunni di scuole primarie e secondarie. Al termine degli studi universitari ha vissuto in Cile, dove ha svolto un anno di servizio civile volontario nel corpo di pace «Caschi Bianchi».
  • A cura di: Marco Bello e Luca Lorusso, redazione MC.

 

Foto di questo Dossier

  • Tutte le foto, eccetto quelle di pp. 42-44 – che sono di Sea-Watch e.V. / Lisa Hoffmann, sono state scattate da Daniele Biella durante il viaggio sulla Aquarius.

 




Tanzania: Maria e Consolata due sorelle in una


Testo di Marianna Micheluzzi MC A – Foto di Angelo Dutto |


L’università di Iringa, in Tanzania, da quest’anno 2017 ha due nuove studentesse eccezionali, Maria e Consolata. Due sorelle unite non solo dal sangue, ma dal fatto di condividere parte dello stesso corpo. Orfane dalla nascita e dotate di una brillante intelligenza, le due sorelle stanno sfidando il futuro e i pregiudizi con tanta voglia di vivere e il sorriso sulle labbra.

Una sera di vent’anni fa, in un villaggio rurale nei pressi di Ikonda, in Tanzania, una giovane donna in attesa della nascita del suo primo figlio, fu presa all’improvviso dalle doglie del parto. Il sospirato evento, in cui col marito aveva riposto tante aspettative, era ormai prossimo.

In Africa il parto è ancora l’avvenimento più naturale del mondo, se non ci sono complicazioni. Così però non fu per quella giovane mamma e le donne del vicinato se ne resero subito conto. L’istinto e, soprattutto, la consumata esperienza le aveva messe in allarme. Non era un travaglio normale, si presentava sin dall’inizio molto difficile tanto che le alte grida della partoriente arrivavano lontano, si può dire, fino in foresta.

Così le vicine si diedero subito da fare e cercarono un mezzo di fortuna, una specie di furgoncino di un commerciante che abitava nelle vicinanze. Tra sobbalzi ripetuti su una strada impossibile e con condizioni atmosferiche non ideali, l’uomo del camioncino e il marito della partoriente arrivarono all’ospedale di Ikonda con la puerpera che, per il troppo dolore patito, era ammutolita e con lo sguardo inespressivo.

L’ospedale di Ikonda, nato ad opera dei Missionari della Consolata e dalla collaborazione fattiva di tanti benefattori, era il più vicino e l’unico della zona attrezzato per situazioni complesse come, appunto, lo era questo parto. E di parti a Ikonda se ne affrontavano e se ne affrontano tanti. E quasi tutti, ieri come oggi, vanno a buon fine.

Non mancarono ovviamente le dovute attenzioni anche al nuovo ingresso nel reparto di ostetricia da parte del medico incaricato di assistere la donna e degli altri sanitari. Tutti, accoglienti e comprensivi, si diedero un grande da fare senza risparmio di forze e di mezzi. Era urgente un parto cesareo, pena la perdita di madre e figlio. Ma, incredibile e fuori da ogni immaginazione, dall’utero della donna uscirono nientemeno che due gemelle siamesi, unite in un corpo solo dallo stomaco in giù. Inseparabili.

Si fece tutto il possibile per tenere in vita le due piccole e la mamma. Ma quest’ultima, qualche giorno dopo, non ce la fece e lasciò orfane le sue creature che neanche aveva avuto modo di vedere. La prostrazione dopo il parto non le consentiva, su consiglio dei sanitari, di sopportare un’emozione troppo forte e, manco a dirlo, una vista straziante. Che poi straziante, diciamocelo in sincerità, lo sarebbe stato per chiunque, fosse stato pure in perfetta forma fisica, se non dovutamente preparato.

Così le due bimbe, senza mamma e con il papà senza i mezzi necessari per occuparsi di loro, una volta superate le primissime difficoltà, furono battezzate subito con i nomi di Maria e Consolata e vennero affidate a suor Magda, una generosa missionaria della Consolata. E suor Magda non solo le allevò amorevolmente rispondendo a tutti i loro bisogni come alimentazione e igiene (gestione nient’affatto semplice), ma provvide anche ai primi rudimenti della loro formazione come solo avrebbe potuto fare la loro mamma. Quando tuttavia gli impegni del servizio missionario per suor Magda aumentarono, com’era inevitabile che fosse, e le bambine cominciarono a essere grandicelle, si pensò di trovare una famiglia a cui affidarle. E non fu difficile, grazie a quella solidarietà molto diffusa in Africa per cui i bambini che non hanno genitori spesso trovano abbastanza facilmente una famiglia che si prende cura di loro. Una donna, una madre di famiglia, residente nei pressi dell’ospedale si offrì e Maria e Consolata furono affidate a lei.

Non poteva essere diversamente perché anche il papà delle due bambine, dopo un certo girovagare nelle città vicine (lui diceva di andare alla ricerca del lavoro), provato nel fisico per gli stenti e per il troppo bere, dopo qualche anno dalla perdita della moglie morì.

Per Maria e Consolata, coccolate e conosciute da tutti, missionari e missionarie e amici vari di servizio o passaggio nella missione, a Ikonda ci furono gli anni della scuola materna e delle elementari vissuti con buon profitto. Ormai pronte per la scuola secondaria si pensò che le due, date le buone premesse quanto a impegno, avrebbero potuto continuare gli studi a Ilamba, in un collegio retto anch’esso dalle missionarie della Consolata. E quindi ecco il primo trasferimento per le sorelle Mwikikuti, che non ci stavano nella pelle all’idea di poter proseguire negli studi.

Tanto Maria che Consolata sono sempre state molto vivaci intellettualmente e tenaci nel prefiggersi obiettivi e poi raggiungerli, collaborando in piena armonia e guardando al futuro sempre con grande ottimismo, nonostante gli inevitabili limiti della loro fisicità.

Il Signore prende ma dà pure. Quello che Maria e Consolata non hanno rispetto alle loro coetanee, lo hanno ricevuto in dono, senza merito alcuno, in intelligenza e cuore. Sono sempre sorridenti e ottimiste. È raro vederle tristi. E la Provvidenza ha fatto il resto per loro. Quella Provvidenza che si chiama benefattori. Ossia uomini e donne che testimoniano Cristo e nella preghiera e nel concreto perché aperti alla fratellanza universale e capaci di gettare ponti.

La bella notizia è che Maria e Consolata Mwikikuti, finita con successo la secondaria, quest’anno stanno frequentando a Iringa l’università nella facoltà di Scienze della Formazione e intendono conseguire, a completamento del ciclo di studi, la laurea. Proprio come altri loro coetanei. Era il loro sogno, anche se non osavano immaginare che sarebbe potuto un giorno divenire, a tutti gli effetti, realtà.

Se oggi si domanda loro come stanno vivendo questa esperienza universitaria, prima si scherniscono un po’, cioè si nascondono timidamente dietro un sorriso che muove a tenerezza, consapevoli che si tratta di un’impresa che richiede tantissimo impegno, ma, tenaci quali sono, fanno poi capire con chiarezza che non hanno nessuna intenzione di mollare.

Auguri, allora, a Maria e a Consolata. Saremo felici d’essere assieme a voi, al traguardo, per fare festa. Una festa più che meritata.

Marianna Micheluzzi

Il Consolata Hospital Ikonda

Si trova nel distretto di Makete, trenta chilometri prima di Makete sulla strada da Njombe. Si tratta di uno dei tre ospedali del distretto. Gli altri sono l’Ospedale luterano di Bulongwa (distante cinquanta chilometri) e il Makete District Hospital (trenta chilometri).

È posizionato sugli altopiani meridionali della Tanzania, a 2.050 metri sul livello del mare, con inverni molto freddi ed estati afose. È un istituto cattolico privato, che appartiene fin dalla sua origine (1963) ai missionari della Consolata, ai quali il 25 febbraio 1961 il capo Kiluswa, il capo dei capi di quell’area dell’Ukinga, chiese loro di aprire un ospedale nella zona.

E il 7 ottobre 1968, ampliato di necessità, l’ospedale fu inaugurato dall’allora presidente del Tanzania, Julius Nyerere. L’obiettivo prioritario era quello di ridurre la mortalità infantile e di supportare le mamme in gravidanza, che spesso morivano di parto. La missione del Consolata Hospital Ikonda oggi resta quella di fornire assistenza sanitaria generale alla popolazione della zona, anche attraverso una clinica mobile, e di promuovere l’accesso alle cure sanitarie per coloro che sono bisognosi, con una particolare attenzione per i bambini, le donne e le persone affette da malattie croniche. È registrato dal 1997 presso il Ministero della Sanità tanzaniano e fa parte della Cristian Social Services Commission (Cssc). Ma da piccolo ospedale con sessanta posti letto nel 1968, il Consolata Hospital è diventato una grande struttura con 322 posti letto e 274 membri del personale. Nel 2016 ha effettuato oltre 85 mila visite ambulatoriali. I parti effettuati sono stati 1.600, 14 mila le ospedalizzazioni, circa 6.500 gli interventi chirurgici. Gli esami di laboratorio sono stati oltre 220 mila, le visite effettuate dalla clinica Hiv/Aids poco meno di 24 mila.

M.M.

Morning Star School – Ilamba

A un’ora di macchina da Iringa, passando per Ipogoro e risalendo l’altopiano, il viaggiatore si trova immerso in un verde che più verde non si può. Paesaggi mozzafiato si susseguono allo sguardo.

L’aria è gradevole. E non ricorda affatto l’afa insopportabile e il sole impietoso cui si è avvezzi in terra d’Africa. In mezzo a queste colline, a Ilamba, c’è una scuola secondaria, la Morning Star, gestita dalle suore missionarie della Consolata.

Con l’aiuto di generosi benefattori e di alcune associazioni umanitarie italiane e non solo, qui è stato possibile realizzare, a piccoli passi, ma con tenacia, una scuola professionale per i ragazzi e le ragazze del posto, quelli con poche possibilità economiche.

Nella scuola secondaria di Ilamba ci sono vari rami di specializzazione. Per i maschi c’è falegnameria, agricoltura e allevamento; per le ragazze, invece, corsi di maglieria e poi di taglio e cucito. Professionalità utili e di certo spendibili al termine dei corsi.

Ma, oltre alla scuola secondaria professionale, ultimamente è nato un corso di liceo ben frequentato. E, nelle vicinanze, c’è pure un asilo per più piccini.

Il liceo, quello stesso che hanno frequentato negli anni Maria e Consolata Mwikikuti, è il fiore all’occhiello. Aver impiantato il liceo, tra le altre cose, ha avuto, in particolare per la zona, un significato ben preciso. Molti ragazzi e ragazze di Ilamba, pur impegnandosi, non riuscivano a conseguire il titolo di studio frequentando le normali scuole statali cittadine. Tanti, troppi intoppi e di natura differente.

In questo modo si veniva a creare quella che da noi per definizione è la piaga della dispersione scolastica e, soprattutto, a seguire tanta emarginazione.

Cose non buone in un contesto difficile quanto a opportunità d’inserimento nel mondo del lavoro.

Nel liceo della Morning Star c’è disciplina certamente, come deve esserci, e c’è serietà professionale da parte dei docenti ma c’è anche tanta disponibilità ad accogliere e affiancare nel percorso scolastico coloro che, sulle prime, possono incontrare delle difficoltà nell’apprendimento.

Di casi del genere con esito positivo le missionarie possono raccontarcene tanti. Ragazzi e ragazze all’inizio in difficoltà, ben guidati hanno imboccato in seguito il percorso giusto e, dopo il liceo, hanno frequentato persino l’università a Iringa e si sono laureati. Proprio come oggi è nelle aspettative delle sorelle Maria e Consolata Mwikikuti.

Un’ultima nota: il liceo è gestito interamente da personale tanzaniano, dal preside fino all’ultimo insegnante e al personale non docente.

Tuttavia le suore della Morning Star, donne che non mollano, sono comunque attente vigilatrici di tutto l’andamento, affinché ogni cosa vada per il verso giusto. E i «frutti», almeno finora, sono buoni.

M.M.

 




Esportare la libertà religiosa


Testo di Luca Lorusso |


Gli Usa pensano di avere una missione da compiere nel mondo. È l’eccezionalismo americano che si manifesta con la politica estera statunitense.
Anche la libertà religiosa ne è strumento e fine. Altri – come l’Ue – ne hanno seguito l’esempio. Ma dopo anni di ascesa del modello Usa di tutela della
libertà religiosa, oggi si registra un declino. Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore presso l’European University Institute di Fiesole.

Sono le 12 di venerdì 24 novembre 2017. Una bomba esplode dentro una moschea uccidendo decine di persone. I fedeli sufi scappano, ma fuori ci sono miliziani del Daesh che sparano sulla folla. Rimangono a terra 305 corpi, tra cui 27 di bambini.

Il sufismo è la via mistica dell’Islam, considerato dagli islamisti come un’eresia da combattere. La moschea al-Rawdah si trova a Bir al-Abed, nel Nord del Sinai.

È la strage più sanguinosa degli ultimi anni in Egitto, è uno dei troppi esempi di violenza nel mondo contro chi professa un credo religioso.

Non passa giorno, infatti, senza che il diritto di libertà religiosa subisca violazioni in Medio Oriente come in Asia, in Africa come in Europa o in America. Si parla dei Rohingya del Myanmar, musulmani apolidi perseguitati in un paese buddista. Si è parlato dei Copti in Egitto, dei Testimoni di Geova in Russia, delle politiche restrittive di paesi come la Cina o la Corea del Nord o il Pakistan.

In questo scenario il diritto di libertà religiosa è diventato un fine e, più spesso, uno strumento di vere e proprie strategie di politica estera. In primis da parte degli Usa, ma anche dell’Ue e, con accenti piuttosto differenti, di altri paesi non appartenenti al blocco occidentale come la Russia o quelli riuniti nell’organizzazione della Conferenza islamica.

Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore dell’European University Institute di Fiesole, autore del volume Esportare la libertà religiosa, edito dal Mulino nel 2015 e ora in lingua inglese dalla britannica Routlege.

Prof. Annicchino, sembra che il pericolo per la libertà religiosa nel mondo aumenti. Anche lei ha questa impressione?

«È più di una percezione. Abbiamo dati scientifici a tal proposito dai quali non possiamo prescindere. Faccio riferimento soprattutto ai report del Pew Forum. I loro dati indicano che nel mondo sono aumentate le restrizioni alla libertà religiosa mediante gli interventi legislativi dei diversi stati e che sono ugualmente aumentate le ostilità sociali a sfondo religioso.

Per quanto riguarda le norme che restringono la portata delle attività dei gruppi religiosi o del singolo fedele possiamo fare diversi esempi: le restrizioni volute dal partito comunista cinese, non solo rispetto al tema delle nomine dei vescovi cattolici che devono essere per forza approvate dal Pcc; le leggi anticonversione indiane (a dimostrazione del fatto che questo non è un problema legato ai soli paesi islamici, come spesso si tende a credere); la messa al bando, in Russia, di interi gruppi religiosi come ad esempio i testimoni di Geova, quasi in nome della sicurezza nazionale».

Il suo libro propone una tesi di fondo: negli ultimi 20 anni gli Usa hanno messo il tema della libertà religiosa come punto focale della loro politica estera.

«Tenuto conto del mio profilo scientifico concentro la mia analisi sull’International religious freedom act (Irfa), la legge approvata dal Congresso degli Usa nel 1998 che riguarda proprio la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa nel mondo. Nel mio studio provo a mostrare come quel modello, nel bene e nel male, abbia avuto una sua diffusione. Tanto è vero che altri paesi, soprattutto occidentali, tra cui Canada, Ue, Inghilterra, Olanda, hanno provato a fare qualcosa di simile segnalando che la libertà religiosa è importante.

Anche il governo italiano lo ha fatto: ricordiamo il caso di Mariam Ibrahim che, in Sudan, era stata incarcerata e fatta partorire in carcere, perché accusata di essersi convertita dall’islam al cristianesimo. Ora vive negli Usa anche grazie all’Italia.

Ovviamente, non sostengo che il modello americano abbia sempre funzionato, anzi, nel libro faccio esempi di palesi doppi standard di applicazione da parte degli Usa: ci sono paesi che violano il diritto di libertà religiosa che, per ragioni di real politik, non vengono sanzionati.

Io penso, però, che non si possa pretendere che i paesi privilegino la libertà religiosa in qualsiasi loro azione nei confronti di altri paesi. Privilegiarla sempre potrebbe anche portare a delle reazioni che sul lungo periodo danneggerebbero la libertà religiosa stessa. Se uno stato sta sempre col dito puntato sulla Cina, o altri paesi, dicendo: “Noi non facciamo nulla con voi fin quando voi non garantite il nostro stesso livello di tutela della libertà religiosa”, io credo che si possa bloccare un processo di dialogo.

Bisogna guardare a questi temi nell’ottica di un processo e non di un singolo atto».

Nel suo libro, lei lega questa azione degli Usa all’eccezionalismo statunitense.

«Gli Stati Uniti hanno una precisa autorappresentazione di se stessi: si vedono come un modello di comportamento per gli altri paesi del mondo. Ed essendo un paese in cui la narrazione del valore della libertà religiosa è importante, un paese fondato da dissidenti religiosi, il dibattito interno sul tema ha sempre avuto una sua centralità. Gli Usa hanno vissuto un processo lungo e travagliato per garantire la tutela della libertà religiosa internamente. Poi hanno recuperato il tema anche in chiave di politica estera, dicendo: “Questo è per noi uno dei diritti fondamentali e pensiamo che anche altri paesi possano far assurgere questo diritto a elemento centrale delle loro politiche”.

Per gli Usa la libertà religiosa non è un diritto tra molti, ma il fondamento di tutti gli altri, tanto è vero che F. D. Roosevelt, quando viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel ‘48, identifica nella libertà religiosa una delle quattro libertà fondamentali (libertà di espressione, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura, ndr)».

Quali sono gli strumenti che si sono dati gli Usa con la legge del ‘98 per tutelare la libertà religiosa nel mondo?

«L’Irfa è una legge molto complessa. Ci sono due tipologie di strumenti fondamentali: la prima è quella diplomatica classica, con tutta un’attività di comunicazione del Dipartimento di stato su altri paesi, affinché vengano garantiti alcuni diritti, e con le sanzioni vere e proprie, cioè il riconoscimento di status economici più o meno vantaggiosi. La seconda è quella delle sanzioni su singoli individui violatori del diritto di libertà religiosa. Un esempio è quello di Narendra Modi: ai tempi in cui era governatore dello stato indiano del Gujarat, ci furono violenze contro la minoranza musulmana e fu accertata dal governo degli Usa la sua responsabilità. A Modi fu interdetto l’ingresso negli Usa. Sanzione su singolo individuo che fu revocata quando Modi fu eletto primo ministro dell’India».

Ci sono dei risultati positivi di questa politica estera?

«Gli esperti hanno una doppia valutazione: da una parte è vero che su singoli casi è stato possibile salvare delle persone, dall’altra però, come tendenza generale, questa azione non ha garantito un abbassamento dei livelli di violazione del diritto alla libertà religiosa. Secondo me anche perché, rispetto al ‘98, viviamo in un mondo molto diverso, nel quale sono aumentate soprattutto le ostilità sociali rispetto alle minoranze religiose. Nel ‘98, ad esempio, non avevamo il dibattito che abbiamo oggi sui populismi e il ritorno degli identitarismi nazionali. Quello che gli scienziati sociali misuravano nel ‘98 è molto diverso da quello che misuriamo oggi. Nel ‘98 la chiesa ortodossa russa non aveva il ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale che ha oggi in Russia. Nel ‘98 l’induismo indiano non era al governo e non premeva per la produzione di norme contrarie ai diritti delle altre minoranze religiose, e così via».

© European Union 2015 – European Parliament | Pietro Naj-Oleari

La politica degli Usa sulla libertà religiosa nel mondo è stata imitata da vari paesi, tra cui l’Ue. In cosa si è distinta dagli Usa?

«Si è distinta a livello burocratico. L’Ue ha approvato delle linee guida per un’azione di soft law, cioè senza la creazione di grandi apparati burocratici, ma inserendo la libertà religiosa nella politica estera già esistente dell’Ue. Negli Usa, con l’Irfa si è creata una vera e propria commissione specializzata che fa solo quello, la Uscirf, si è creato tutto un meccanismo all’interno del Dipartimento di stato, si sono previsti due rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, si prevedono dei meccanismi per indicare quali sono i paesi che violano seriamente il diritto di libertà religiosa… Anche nell’Ue si è creato pochi anni fa un intergruppo parlamentare per la libertà religiosa che produce un suo rapporto annuale (Forb, ndr), ma sono storie diverse, anche dal punto di vista della narrazione ideale. Il dibattito sulla libertà religiosa e sulla religione in quanto tale non ha, a livello istituzionale nell’Ue, la stessa centralità che ha all’interno dell’impianto costituzionale Usa, dove il diritto di libertà religiosa è garantito addirittura dal primo emendamento costituzionale (1791), quindi è il diritto che viene, almeno descrittivamente, prima degli altri».

L’arrivo di Trump ha cambiato qualcosa?

«Parzialmente. Obama, soprattutto durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato, non premeva molto per la tutela del diritto di libertà religiosa. Trump, essendo stato portato alla presidenza anche da tantissimi voti di gruppi religiosi, soprattutto evangelici, ha premuto molto su questo tasto e sono previsti nuovi fondi a favore del Dipartimento di stato per la tutela di questo diritto».

Sembra però che la grande attenzione degli Usa per la libertà religiosa sia più rivolta all’estero che all’interno.

«Da un punto di vista formale, questo è il mandato che l’Irfa dà al Dipartimento di stato. Non è prevista un’indagine interna sullo stato della libertà religiosa negli Usa. È prevista solo un’azione esterna. Questa è una delle obiezioni classiche: “Voi guardate solo fuori e non guardate dentro”. Però qui parliamo di una politica concepita come politica estera. Per l’interno ci sono altri dipartimenti, altri ministeri e altre istituzioni.

Un’altra obiezione che viene fatta, soprattutto dai russi e dai paesi musulmani, suona così: “Voi pretendete di vagliare con i vostri standard occidentali il modo in cui viene rispettata la libertà religiosa in altri paesi che non hanno i vostri standard o, addirittura, non hanno i vostri valori”. Questo porta alcuni studiosi a parlare di “impossibilità della libertà religiosa”. Qui sorge a mio modo di vedere un problema di relativismo. “Ogni paese ha i suoi valori e quindi è difficile avere un discorso universale sul diritto di libertà religiosa”. Ma se una persona viene incarcerata perché si converte, qualsiasi sia la sua fede, io credo che sia possibile essere universalmente d’accordo che è ingiusto. A livello di tutele minime credo che sia necessario un discorso globale su questi temi, e credo che sia legittima l’attività di pressione da parte di alcuni stati per garantire, appunto, almeno le tutele minime. Non credo che si possa essere accusati di imperialismo perché si salva una persona che altrimenti viene costretta a partorire in carcere a causa della sua conversione».

AFP PHOTO / THOMAS SAMSON

I paesi islamici e la Russia ortodossa criticano questo approccio degli Usa perché hanno un’idea di libertà religiosa differente. Ci può spiegare quali sono i distinguo fondamentali?

«Uno dei problemi principali con i paesi islamici (non con l’islam) è sicuramente quello relativo alla facoltà di conversione. In alcuni paesi ci sono addirittura delle norme penali che prevedono l’incarcerazione.

In Russia invece c’è una problematica che riguarda la tutela delle minoranze religiose e la loro facoltà di operare, soprattutto dal punto di vista del proselitismo. Ad esempio verso i testimoni di Geova c’è stata una notevole azione dei servizi di sicurezza della federazione russa. Queste azioni portano a rendere inoperative le minoranze religiose. Tutto ciò dipende anche da una certa evoluzione teologica interna alla chiesa ortodossa russa che è maggioritaria, territoriale e nazionale e che influenza le politiche legislative dello stato. Venuto meno il collante dell’ideologia comunista, infatti, tantissima parte della costruzione del dibattito pubblico nella federazione russa si basa oggi, a mio modo di vedere, solo su questa pseudo identità collettiva ortodossa».

A volte la libertà religiosa non viene osteggiata in quanto tale, ma presa e utilizzata per un uso contrario. Pensiamo all’esempio del Pakistan che per difendere le sue leggi sulla blasfemia ricorre al concetto di tutela della religione.

«Anche qui c’è un problema teorico. In questo caso, come in altri casi di paesi musulmani, il diritto umano alla libertà religiosa viene inteso come diritto della religione in quanto tale ad essere tutelata. Ma questo non risponde agli standard internazionali di tutela che prevedono che i diritti umani siano diritti degli individui, non delle idee. L’idea in quanto tale non gode di protezione, soprattutto in un’ottica di tutela della libertà di espressione. Se si legittimano sanzioni penali per la blasfemia, questo può portare a punire anche casi in cui non vi siano offese della religione, ma soltanto descrizioni ritenute non veritiere dal detentore del sapere teologico».

Sempre sull’utilizzo della libertà religiosa a fini politici, nel suo libro fa l’esempio della guerra in Siria nella quale la Russia dice di sostenere il regime anche per tutelare la libertà religiosa delle minoranze cristiane protette da Bashar al-Assad.

«Anche lì la dinamica è la stessa. La cosa interessante è che, mentre spesso la Russia critica gli Stati Uniti perché nei rapporti statunitensi viene indicata come paese particolarmente problematico, in questo caso ha una identica veduta d’insieme per quel che riguarda le violazioni anticristiane. C’è una scelta politica che non mi sorprende, essendo la Russia il primo alleato del regime siriano, essa trova nell’istanza della tutela delle minoranze religiose un altro argomento a supporto della sua posizione».

Stringer – Anadolu Agency

Il sottotitolo dell’edizione inglese del suo libro è «ascesa e declino del modello Usa». C’è una fase di «ritirata» della libertà religiosa dall’agenda globale?

«Quello che è cambiato, soprattutto dal punto di vista del dibattito interno Usa, è che non c’è più la stessa visione sul ruolo della libertà religiosa all’interno e all’estero. La legge del ‘98 è stata approvata sostanzialmente all’unanimità dal congresso, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’impeachment di Bill Clinton. Cioè, un congresso profondamente diviso come solo nel caso di un’impeachment può esserlo, è riuscito ad approvare quella legge quasi all’unanimità. Questo vuol dire che il sentimento rispetto alla libertà religiosa era profondamente condiviso. C’era una sua centralità. Oggi non è più così, perché la libertà religiosa viene etichettata come un tema repubblicano o di destra, mentre la tutela di altri diritti, soprattutto i diritti delle minoranze Lgbt, sono associate a istanze più progressiste. Questo rappresenta uno dei segnali più evidenti della polarizzazione che oggi vive il sistema democratico statunitense, ma anche tante democrazie occidentali. Il fatto che la libertà religiosa, da un’istanza condivisa sia trasformata in un’istanza partitica o addirittura identitaria, come alcune esternazioni di Trump lasciano presagire, ne provoca un declino. E poi c’è sempre il problema dei doppi standard, come avviene con l’Arabia saudita, che a lungo andare sottrae credibilità».

A questo punto l’ultima domanda: quale futuro per questo tema a livello internazionale?

«A livello internazionale sicuramente il dibattito non scemerà, anzi, io credo che sia destinato a rimanere centrale, anche grazie al fatto che le nostre società diventano sempre più complesse e sempre più, quindi, realiste, perché dovranno confrontarsi sepre più con diverse istanze religiose. Nel caso italiano basta pensare alle problematiche che pone la presenza oramai di quasi due milioni di fedeli musulmani i quali hanno spesso rapporti molto forti con i loro paesi d’origine.

Mi auguro che i paesi occidentali riescano ad affrontare il tema con un minimo di coerenza. Uno dei principi anche giuridici dell’impianto del diritto dell’Ue è quello della coerenza tra politica interna e politica estera: non si può essere credibili fuori se noi non garantiamo i diritti dentro. E poi spero che ci sia un dibattito anche a livello di organismi internazionali, le Nazioni Unite piuttosto che altri, devono riuscire a coinvolgere quanti più paesi possibile nonostante la diversità di vedute si stia inasprendo.

Luca Lorusso




Convivere con la sclerosi multipla


Testo di Rosanna Novara Topino |


Malattia neurologica del giovane adulto, la sclerosi non è mortale ma potenzialmente invalidante. In Italia si contano 3.400 nuovi casi all’anno. Oggi la diagnosi precoce e la ricerca scientifica stanno dando risultati importanti.

La sclerosi multipla (Sm), detta anche sclerosi a placche, è una malattia in aumento soprattutto nella popolazione femminile. Si tratta di una patologia infiammatoria su base autornimmune del sistema nervoso centrale (Snc), caratterizzata dalla comparsa di lesioni rotondeggianti e ben delimitate (placche) in molteplici aree dell’encefalo e del midollo spinale. Tali lesioni possono essere rosee e mollicce oppure grigiastre e dure. Le loro dimensioni variano da pochi millimetri a diversi centimetri e sono caratterizzate dalla scomparsa progressiva della mielina presente nella sostanza bianca e dalla proliferazione delle cellule della neuroglia. Queste ultime sono cellule connettivali, che formano l’impalcatura di sostegno dei neuroni e provvedono al loro mantenimento. Nel Snc coesistono la sostanza bianca e quella grigia.

Sostanza bianca e grigia

La sostanza grigia è costituita dai corpi cellulari dei neuroni, dal primo tratto del loro assone (fibra nervosa lunga, per il trasporto degli impulsi nervosi in uscita dal neurone; insiemi di assoni formano i nervi) e dai dendriti (fibre nervose brevi e ramificate per gli impulsi in ingresso nel neurone). È localizzata nella corteccia cerebrale e nella parte centrale del midollo allungato e spinale.

Si è visto che la degenerazione di alcuni assoni comincia presto, all’inizio della malattia, comportando la morte del neurone corrispondente e conseguente deficit funzionale, ovvero alterazione delle prestazioni sensitivo-motorie e, a lungo termine, compromissione cognitiva e comportamentale. All’inizio della malattia, tuttavia, gli assoni degenerati non sono numerosi, per cui i deficit funzionali sono dovuti soprattutto alla flogosi (infiammazione). Quando quest’ultima si risolve, il paziente recupera completamente o in parte le sue funzioni.

Evoluzione della Sm

Come colpisce questa patologia? La Sm evolve da una fase acuta infiammatoria iniziale ad una fase cronica, quindi, una volta insorta, sarà presente per sempre nella vita del paziente.

Questa malattia è caratterizzata dalla disseminazione spaziale e temporale delle placche, cioè le aree di demielinizzazione della sostanza bianca compaiono in zone diverse del Snc e in tempi diversi. Il danno mielinico, che caratterizza la Sm è conseguente ad un’anomala attivazione del sistema immunitario sia cellulare che umorale indotta da fattori genetici e ambientali. Questi ultimi sono probabilmente rappresentati da virus come quello del morbillo (verso il quale sono stati trovati anticorpi nel liquor dei pazienti in quantità superiore rispetto ai controlli), ma finora nessun virus è stato correlato con certezza alla Sm. Sicuramente i fattori genetici hanno un peso importante nella predisposizione ad ammalarsi, come è dimostrato dalla concordanza di casi tra i gemelli monozigotici (20-30%), che scende al 4% tra i gemelli dizigotici. I geni coinvolti sembrano essere numerosi. Tra questi ci sono quelli del maggior complesso di istocompatibilità (DR2, DQW1), quelli che codificano per gli interferoni, per le catene leggere dei linfociti T, per il Tnf (Tumoral Necrosis Factor). Recentemente è stata identificata una mutazione genetica del tipo «nonsenso» (in presenza della quale, anziché esserci la codifica di un aminoacido, viene dato il segnale di stop alla sintesi proteica), direttamente collegata alla Sm, localizzata sul gene NR1H3; tale mutazione causa la perdita di funzione del prodotto genico, la proteina LXRA, che controlla l’espressione di diversi geni coinvolti nell’omeostasi dei lipidi (costituenti della mielina, oltre alle proteine), nei processi infiammatori e immunitari. È chiaro quindi che, perché si sviluppi la malattia, è necessaria una predisposizione genetica, su cui devono intervenire dei fattori esogeni (grafico di pagina 63). Gli studi condotti sulle migrazioni di popolazioni hanno evidenziato che c’è un fattore ambientale (forse un virus), che predispone alla Sm e che agisce prima della pubertà (14-15 anni). Un soggetto emigrato prima di questa età acquisisce la prevalenza del paese in cui si è recato, mentre se emigra dopo mantiene la prevalenza del paese d’origine. Tra i virus maggiormente sospettati come parti in causa per la Sm ci sono i Coronavirus, i Papovavirus, come già detto il virus del morbillo, gli Herpesvirus, il Simian V5 e i Retrovirus. Altri fattori di rischio esogeni sono la carenza di vitamina D, per la sua regolazione del sistema immunitario e l’esposizione al fumo di sigaretta.

Giovani e donne

Si stima che al mondo vi siano 2,5-3 milioni di malati di Sm. In Europa essi sarebbero circa 600.000 e in Italia 110.000. Nel nostro paese ci sono oltre 3.400 nuovi casi all’anno. Si prevede che in media una persona su 1.000 avrà la Sm nel prossimo futuro. Il rischio di ammalarsi è maggiore per le donne rispetto agli uomini (2:1). Si sospetta che questo divario sia dovuto a fattori neuroendocrini, che influenzano a più livelli il sistema immunitario. Quest’ultimo, attivato in modo anomalo, colpisce la mielina dell’organismo considerandola come non-self, ovvero estranea (autornimmunità). Il coinvolgimento dei fattori ormonali nella prevalenza della Sm nelle donne è indirettamente dimostrato dal fatto che essa è più frequente in giovani donne in età fertile e dagli effetti della gravidanza e del parto sulle ricadute (queste ultime diminuiscono durante la gravidanza, in particolare nel 2°-3° trimestre e aumentano nel puerperio). Rischiano di ammalarsi 30-50/1.000 persone, se hanno uno dei genitori ammalato di Sm, mentre se sono ammalati entrambi i genitori, il rischio sale a 120/1.000.

L’età di esordio di questa patologia è tra i 15-50 anni e colpisce prevalentemente le persone di 20-30 anni, mentre si rileva raramente sotto i 12 anni e sopra i 55. Per frequenza, la Sm è la seconda malattia neurologica del giovane adulto, dopo i traumi al Snc derivati dagli incidenti stradali e la prima di tipo infiammatorio cronico.

Tipologie di Sm

Nel 1869 il neurologo Jean Martin Charcot definì i sintomi clinici della malattia e i primi criteri diagnostici, raggruppati nella triade che da lui prende il nome: nistagmo, tremore intenzionale e parola scandita.

Nonostante nel tempo la Sm presenti un’evoluzione diversa da persona a persona, è possibile classificare le varie forme di decorso clinico in quattro gruppi principali: a ricadute e remissioni (SmRR), secondariamente progressiva (SmSP), primariamente progressiva (SmPP) e progressiva con ricadute.

La forma di Sm più diffusa all’esordio è la recidivante-remittente o SmRR (circa 85% tra le 4 forme principali), la quale presenta attacchi ben definiti (pousses), che si risolvono completamente o parzialmente dopo diverse ore o giorni, seguiti da periodi di benessere (remissioni) di durata variabile. Tra i sintomi più frequenti ci sono i problemi alla vista (diplopia), la spasticità o rigidità, le funzioni sfinteriche e viscerali alterate, la minzione imperiosa o urgenza urinaria. Tra un attacco e l’altro, la malattia può rimanere inattiva per mesi o anni.

Il passaggio alla forma secondariamente progressiva (SmSP) avviene dopo circa 10 anni. In questa seconda fase, la malattia cambia gradualmente dal processo infiammatorio tipico della SmRR alla progressione costante, caratterizzata dallo sviluppo di disabilità progressive, che non escludono la sovrapposizione di recidive.

Nella Sm primariamente progressiva (SmPP) non ci sono vere e proprie ricadute. I malati di questa forma di Sm (meno del 10%) presentano fino dall’esordio della malattia dei sintomi, che progrediscono in modo graduale, senza fasi di remissione. Le persone colpite da questa forma hanno più lesioni a livello del midollo spinale che dell’encefalo, tendono ad avere maggiori problemi di deambulazione e il rapporto maschi / femmine colpiti è circa 1:1.

La Sm progressiva con ricadute (SmPR) è una forma poco comune in cui, oltre ad un andamento progressivo fin dall’inizio, sono presenti anche episodi acuti di malattia, con scarso recupero. Passando dalla forma remittente-recidivante a quella secondariamente progressiva, può essere presente questa forma per qualche tempo.

A queste forme principali si aggiungono la Sm benigna, che, al contrario di tutte le altre forme, non peggiora col passare del tempo, esordisce con uno o due episodi acuti, che si risolvono senza lasciare disabilità o quasi e la Sm maligna di Marbourg o Sm fulminante acuta o tumefattiva, una rara forma con decorso tumultuoso ed esito letale nel giro di un anno o due circa. Ultimamente questa forma è risultata sensibile ad alcuni farmaci antitumorali ed al trapianto di cellule staminali.

Alcuni ricercatori ritengono che le forme benigne di Sm siano il 20% di quelle con diagnosi clinica.

Conseguenze della Sm

Tranne la forma maligna di Marbourg, la Sm non è una malattia che porta a morte il paziente, ma purtroppo in molti casi a grave invalidità.

Nonostante la ricerca faccia costantemente nuove scoperte, la causa primaria della malattia resta sconosciuta. Si sa che il sistema immunitario attacca la proteina basica della mielina, considerandola estranea all’organismo, grazie alle sue cellule, che superano la barriera emato-encefalica di difesa e si dirigono nel sistema nervoso centrale, provocando infiammazione e perdita della mielina.

Anche se c’è una predisposizione genetica, tuttavia la Sm non è una malattia ereditaria. È quindi infondato il timore di trasmetterla ai figli (al massimo viene trasmessa la predisposizione ad ammalarsi, che però necessita, come visto, anche di fattori ambientali per dare origine alla malattia). Questo significa che per le donne con Sm, che lo desiderano, non è impossibile intraprendere una gravidanza. È però necessario valutare attentamente la necessità di essere aiutate nell’accudimento dei figli, nel momento in cui dovessero presentarsi ricadute della malattia.

Tra i sintomi della Sm, oltre a quelli già citati precedentemente, ci sono anche i problemi di equilibrio e di coordinazione (compromissione delle funzioni cerebellari), le sensazioni alterate (formicolii, parestesie, dolore), senso di affaticamento, disturbi della sfera sessuale come l’impotenza, disturbi affettivi, ansia, depressione (dapprima psicogena reattiva e successivamente biologica da squilibrio dei sistemi serotoninergici).

Dopo circa 20-30 anni di malattia, compare un decadimento cognitivo nella maggior parte dei pazienti.

Le terapie attuali e future

Le terapie attualmente usate sono sintomatiche per limitare i danni delle ricadute e di tipo immunosoppressivo per allungare il più possibile i tempi di remissione della malattia e rallentarne la progressione. Già da alcuni anni però sono in corso ricerche, che prevedono l’uso di cellule staminali, nel tentativo di stimolare la produzione di nuova mielina, per ridurre il danno assonale.

Per i malati di Sm è fondamentale l’aiuto dei loro cari o comunque di persone che se ne prendano cura non solo per la disabilità a cui vanno incontro, ma per gli stati depressivi in cui possono trovarsi e che possono portare a tentativi di suicidio (il rischio di suicidio tra i malati di Sm è di 1:15, rispetto alla popolazione normale). La depressione può ridurre l’aderenza alla terapia, le performance cognitive e aumentare il senso di affaticamento, quindi è fondamentale un suo trattamento, che si è osservato essere associato a una riduzione della produzione di citochine pro-infiammatorie nei pazienti con Sm recidivante-remittente.

Rosanna Novara Topino
(quinta puntata – continua)


Approfondimenti

LE?PLACCHE

Le placche possono formarsi in ogni punto del Snc, ma sono più frequenti attorno ai ventricoli degli emisferi e del tronco cerebrale, nelle formazioni ottiche, nei peduncoli cerebellari superiori e medi e nel midollo spinale. Al microscopio ottico, le placche rosee si presentano con segni di infiammazione e sono localizzate prevalentemente in zona perivenulare, contengono linfociti T e plasmacellule mentre la mielina si presenta rigonfiata e incapace di assumere la tipica colorazione istologica di Niessel. Inoltre essa risulta frammentata e i suoi frammenti vengono fagocitati dai macrofagi. Le placche grigie sono croniche, in esse la mielina è andata persa e sostituita dalla deposizione di fibre prodotte dalle cellule connettivali, con conseguente cicatrizzazione o sclerosi, che porta allo stiramento e alla frammentazione degli assoni. Finché questi ultimi non sono lesionati, è possibile una riparazione perché la mielina può rigenerarsi. Quando però gli assoni si lesionano, diventano incapaci di trasmettere l’impulso nervoso. Quest’ultimo peraltro rallenta moltissimo già con la perdita del rivestimento di mielina.

R.N.T.

 LA?DIAGNOSI

Caratteristica della Sm è la sintesi nel liquor cefalorachidiano di IgG (immunoglobuline G, cioè anticorpi) per cui, per porre la diagnosi di Sm, oltre alla valutazione dei segni clinici, alla risonanza magnetica nucleare (Rnm), ai potenziali evocati, si fa ricorso anche a un prelievo di liquor per verificare la presenza di abnormi quantità di IgG endogene.

R.N.T.

Siti web:

 




La Cina in Africa /2 – Miti e poca trasparenza

 


Testo di Chiara Giovetti |


Nel numero di ottobre abbiamo raccontato il rapporto fra Cina a Africa concentrandoci su investimenti e commercio. In questo numero parliamo invece dei tentativi di quantificare i cosiddetti flussi ufficiali e in particolare l’aiuto pubblico allo sviluppo cinese e di sfatare, o almeno ridimensionare, alcuni miti sul rapporto sino-africano.

Quanto dà la Cina all’Africa in aiuto allo sviluppo? Misurare questa grandezza è estremamente complicato.

Prima difficoltà: la Repubblica Popolare Cinese non presenta una relazione annuale all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) su questo tipo di flussi – come fanno invece trenta paesi membri dell’organizzazione e alcune economie emergenti, come la Russia, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti – e non pubblica i dati se non in modo irregolare.

Seconda difficoltà: non è chiaro quanto di ciò che la Cina etichetta come aiuto allo sviluppo corrisponda alla definizione dello stesso applicata dall’Ocse.

La ricordiamo: per l’Ocse, costituiscono aiuto pubblico allo sviluppo quei flussi provenienti dagli enti pubblici (dei paesi donatori) che hanno a) lo sviluppo economico e il benessere dei paesi in via di sviluppo come principale obiettivo, b) presentano carattere agevolato e c) comprendono una componente di dono di almeno il 25 per cento.

Date le due difficoltà dette sopra è impossibile fare un confronto diretto fra l’aiuto dei paesi Ocse e quello cinese. È per questo che alcuni centri di ricerca hanno messo a punto metodi molto complessi per raccogliere le informazioni sull’Aps cinese e renderle confrontabili con i dati Ocse.

Xinhua/Chen Yehua

La difficile raccolta dei dati

Uno di questi centri è Aiddata, laboratorio di ricerca del College di William e Mary, università pubblica statunitense con sede a Williamsburg, Virginia. Incrociando le informazioni disponibili nei documenti e nelle banche dati resi pubblici da Pechino, nei siti delle ambasciate cinesi, nei documenti ufficiali dei paesi riceventi e in articoli giornalistici, accademici e delle organizzazioni non governative, Aiddata@ ha quantificato in poco più di 30 miliardi di dollari l’aiuto pubblico allo sviluppo che la Cina ha fornito all’Africa fra il 2000 e il 2013. Nello stesso periodo, stando ai dati Ocse, l’Aps statunitense è stato quasi tre volte tanto. I paesi europei hanno speso in aiuto allo sviluppo due volte e mezzo quel che ha speso Washington e il dato mondiale assomma a 533 miliardi.

Questo significa che la Cina ha fornito circa il sei per cento dell’aiuto allo sviluppo complessivo, gli Usa intorno al quindici e un terzo la sola Unione Europea.

L’ordine di grandezza dei volumi individuati da Aiddata sull’aiuto cinese si discosta di molto da un precedente studio della Rand Corporation, secondo il quale nel solo anno 2011 l’aiuto cinese verso l’Africa sarebbe ammontato a 189,3 miliardi. Il motivo? Lo spiega Deborah Brautigam direttrice del China Africa Research Initiative – Cari – della Johns Hopkins University in un articolo del dicembre 2015 su Foreign Policy@: lo studio ha preso in considerazione gli impegni che la Cina ha preso, non i flussi reali. Di questi impegni – di solito sotto forma di accordi e memorandum di intesa – solo una minima parte si concretizza. Informazioni come queste, lamenta la studiosa statunitense, una volta diffuse continuano a circolare e ad essere riprese dai media, nonostante le smentite o le verifiche che ne mostrano l’inesattezza, alimentando così il mito per cui la presenza cinese nel continente è enorme e supera quella delle altre potenze mondiali, sia negli investimenti che nell’aiuto allo sviluppo.

Eppure per rendersi conto dell’errore della Rand basterebbe pensare che il totale globale dell’aiuto calcolato dall’Ocse per il 2016 è stato di circa 143 miliardi e chiedersi com’è possibile che la Cina abbia, cinque anni fa, superato da sola l’intero pianeta.

Miti e fatti

Brautigam individua altri quattro «miti sull’impegno cinese in Africa che la stampa ricicla con costanza».

Il primo mito

La Cina sta in Africa solo per estrarre risorse naturali. Che queste ultime attraggano molto la Cina non è in dubbio, precisa la ricercatrice, così come attraggono i giganti occidentali del petrolio e dell’attività mineraria come Shell, ExxonMobil e Glencore. Ma dire che la presenza della Cina ha questo come unico obiettivo è fuorviante. A confutazione di questa tesi Brautigam cita i 70 miliardi di dollari di contratti nel settore delle costruzioni che le compagnie cinesi hanno siglato con i paesi africani nel solo 2014 e la scuola di formazione aperta dal colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei ad Abuja, capitale della Nigeria, per formare ingegneri locali. Le elaborazioni Aiddata dei volumi fra il 2000 e il 2014 confermano questa lettura: sul totale di 354 miliardi di dollari di flussi cinesi diretti in Africa, a concentrarsi su attività minerarie, di costruzione e industriali sono stati 30 miliardi, l’8%. Al primo posto si trova la produzione e fornitura di energia, con 134 miliardi (38%) e, a seguire, le attività di trasporto e di stoccaggio, con 89 miliardi, un quarto del totale.

Il secondo mito

Forza lavoro: le compagnie cinesi impiegherebbero soprattutto cittadini cinesi. È vero, riconosce la direttrice del Cari, che in alcuni paesi – ad esempio l’Algeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola – i governi permettono a Pechino di inviare i propri lavoratori. Ma nel resto del continente il dato è opposto: la ricerca effettuata da due studiosi di Hong Kong su 400 aziende cinesi attive in 40 paesi africani mostra che, se la dirigenza è prevalentemente cinese, l’80 per cento dei lavoratori è invece locale. Conclusioni simili a quelle raggiunte dallo studio di McKinsey pubblicato la scorsa estate: nelle oltre mille aziende cinesi prese in esame il personale locale era l’89%, pari a circa 300 mila persone. E, suggeriva McKinsey, proiettando il risultato sulle complessive 10 mila imprese cinesi in Africa, è lecito ipotizzare che gli africani impiegati dalle aziende di Pechino siano ormai quantificabili in milioni. I contenziosi sul posto di lavoro sono indubbiamente presenti, conclude Brautigam, ma riguardano le condizioni salariali e lavorative, non il fatto che il lavoro venga negato ai locali.

AFP PHOTO / HABIB KOUYATE

Aiuti in cambio di minerali e land grabbing?

Il terzo mito

Il governo cinese baratta l’aiuto allo sviluppo con concessioni minerarie e petrolifere. Uno studio del 2015 effettuato dal gruppo di ricercatori di Aiddata, sostiene la studiosa della Johns Hopkins, raggiunge le conclusioni molto diverse: a determinare i flussi di Aps di Pechino verso l’Africa sarebbero piuttosto le scelte di politica estera – ad esempio l’allineamento dei paesi africani alle posizioni cinesi quando si tratta di votare all’Assemblea Generale Onu e l’adesione dei paesi riceventi alla linea politica «una sola Cina», che nega a Taiwan il diritto di ritenersi uno stato separato dalla Repubblica Popolare Cinese. «Il nostro studio», dicono gli accademici del gruppo di Aiddata, «non conferma le critiche alla Cina per cui il suo Aps sarebbe prevalentemente motivato dall’interesse per l’acquisizione di risorse naturali.  I flussi di aiuti cinesi sono fortemente orientati ai paesi più poveri, e questo mostra che Pechino fa anche considerazioni di carattere umanitario quando decide le allocazioni di aiuto allo sviluppo. Nel complesso, i risultati dell’analisi suggeriscono che la prassi cinese nell’attribuzione dei fondi non è dissimile da quella dei donatori occidentali».

Un ultimo mito

L’insaziabile appetito cinese per le terre africane e un presunto piano per inviare contadini dalla Cina in Africa a coltivare prodotti agricoli da spedire poi a casa. Esisterebbero, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, interi villaggi di agricoltori cinesi.

«Il mio team e io abbiamo esaminato 60 casi di investimenti cinesi passando tre anni a fare ricerca sul campo e interviste in oltre dodici paesi africani: su circa 15 milioni di acri di terra riportati come acquisiti da compagnie cinesi abbiamo trovato prove di tali acquisizioni per meno di 700 mila acri». Le aziende agricole cinesi più grandi individuate dal team Cari erano piantagioni di gomma, zucchero e agave e nessuna esportava cibo verso la Cina. E, conclude Brautigam, se è vero che paesi come lo Zambia ospitano oggi svariate decine di imprenditori cinesi che coltivano e allevano polli, non abbiamo trovato nessun villaggio di contadini cinesi.

Kenya, strada da Isiolo a Moyale in costruzione.

Cina «donatore canaglia»?

Un’ulteriore critica frequentemente mossa alla Cina è quella che la vede come un rogue donor, un donatore canaglia, che usa l’aiuto pubblico per finanziare progetti scadenti e privi di reale impatto, il cui ulteriore effetto è quello di minare i benefici, per i paesi riceventi, dell’aiuto fornito da altri donatori come gli Usa. Il più recente (ottobre 2017) rapporto di Aiddata@ smentisce questa lettura: dall’analisi dei dati raccolti dai ricercatori emerge che per ogni progetto di sviluppo finanziato dalla Cina, il paese beneficiario sperimenta un aumento del Pil pari allo 0,7 per cento nei due anni successivi al finanziamento, in linea con i valori relativi all’aiuto dei paesi Ocse-Dac.

Tutto bene, quindi?

No, ovviamente. Questi pur ambiziosi tentativi di tracciare i flussi cinesi da parte di prestigiose istituzioni accademiche sono stati avviati solo molto di recente e stanno ancora perfezionandosi, per cui non c’è certezza che le conclusioni raggiunte siano del tutto corrette. L’analisi si ferma al 2014, e ancora poco o nulla è in grado di dire sugli ultimi tre anni.

Inoltre, il fatto che la Cina non renda pubblici i dati rende molto più complicato coordinare gli interventi di aiuto allo sviluppo. Resta poi vero il fatto che, a livello globale – non solo rispetto all’Africa – i flussi ufficiali americani fra il 2000 e il 2014 sono stati al 90 per cento Aps mentre l’aiuto pubblico cinese si è limitato a un quarto del complessivo impegno economico di Pechino nella cooperazione allo sviluppo planetaria, con il 60% delle risorse dedicate invece a scopi più prettamente commerciali e il rimanente 16% costituito da flussi dei quali non è chiaro se siano aiuto o meno. Infine, le testimonianze su comportamenti poco corretti da parte dei cinesi non sono rare: il rapporto McKinsey citava ad esempio il caso kenyano (studiato da Cari), dove il confronto fra imprese cinesi e statunitensi mostrava come non tutti i dipendenti africani delle prime avessero un contratto, mentre i dipendenti delle aziende Usa fossero tutti assunti regolarmente. O il caso dei lavoratori zambiani che lavorano nelle miniere di rame in condizioni inumane: scarsa ventilazione che può provocare patologie a carico dell’apparato respiratorio, orari di lavoro eccessivamente lunghi, attrezzatura antinfortunistica non rinnovata, minacce ai pompieri che si rifiutano di intervenire in condizioni di sicurezza non adeguate@. È dello scorso novembre un articolo su Allafrica@ che racconta delle gravi difficoltà di diverse giovani donne costrette a crescere da sole i figli avuti dalle relazioni con gli operai cinesi della Sinohydro Construction Company che sta costruendo la diga di Karuma, in Uganda. I lavoratori hanno abbandonato le compagne dopo aver promesso loro di sposarle e portarle in Cina. Ma il punto non è tracciare una linea sulla lavagna e segnare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Certo, non è ancora da escludere che, un giorno, l’Africa si troverà invasa dai cinesi; ma quel giorno non è oggi. Il punto, nelle parole di Debora Brautigam, è che la diffusione dei miti e delle informazioni scorrette rende più difficile concentrarsi sui reali problemi che la presenza cinese in Africa comporta, come quelli descritti sopra. Ad essi vanno poi aggiunti la poca trasparenza sulle risorse, la mancata certificazione di sostenibilità di prodotti come il legname, il disinteresse per la protezione dell’ambiente. «Andare oltre la mitologia renderà forse meno elettrizzanti i contenuti dei media, ma aiuterà a creare una base più informata per il coinvolgimento occidentale nei rapporti con la Cina, in Africa come altrove».

Chiara Govetti

 




I Perdenti 31:

Umberto Nobile, l’uomo del Polo


Testo di Mario Bandera |


Nel mese di marzo 1928 il generale della Regia Aviazione Italiana, Umberto Nobile, al comando del dirigibile Italia, ritornò sull’Artico diretto al Polo Nord con una spedizione tutta italiana due anni dopo averlo trasvolato a bordo del dirigibile Norge, in una precedente spedizione guidata dal grande esploratore norvegese Roald Amundsen. Entrambi i dirigibili erano stati progettati da Nobile e costruiti in Italia. Purtroppo la seconda impresa fu funestata da un terribile incidente, le cui cause – a parte le condizioni meternorologiche estreme – non sono mai state chiarite.

Dopo aver raggiunto il Polo Nord, il 25 maggio, nel viaggio di ritorno il dirigibile Italia perse quota e urtò con la cabina di comando la superficie ghiacciata dell’Artico: dieci uomini, tra i quali lo stesso Nobile vennero sbalzati a terra, gli altri sei rimasero prigionieri dell’involucro del dirigibile che riprese quota e scomparve nell’immensità dei ghiacciai. Non appena si diffuse la notizia, per salvare i sopravvissuti ci fu uno straordinario impegno da parte di numerosi paesi europei. Si mobilitarono piloti, marinai ed esploratori di diverse nazioni: alcuni, come lo stesso Amundsen, morirono durante le ricerche. I naufraghi resistettero con mezzi di fortuna sul pack artico per 49 giorni (solo il meternorologo svedese Finn Malmgren, perse la vita per assideramento). Il dramma di questa tragedia, testimoniato dai superstiti, ci riportano ad un’epoca storica in cui la conquista di terre sconosciute era ancora una pagina meravigliosa da scrivere sul grande libro delle esplorazioni mondiali. Nella chiacchierata che segue con il generale Umberto Nobile, comandante della spedizione, cerchiamo di capire come si svolsero i fatti.

Generale, come prima cosa, ci parli un po’ di lei…

Venni al mondo a Lauro (Avellino) il 21 gennaio 1885. Dopo gli studi classici frequentai l’Università e la Scuola d’Ingegneria di Napoli, laureandomi come ingegnere industriale meccanico, a pieni voti e con lode nel 1908. Quando scoppiò la prima Guerra Mondiale venni nominato capo delle Officine dello Stabilimento Aeronautico a Roma. In questa sede iniziai la mia sperimentazione sui dirigibili.

Allora i dirigibili avevano una maggior considerazione rispetto agli aeroplani, perché risultavano più sicuri e più capienti…

Infatti, anch’io la pensavo così, pertanto mi dedicai anima e corpo al loro studio e costruzione. Al termine della Grande Guerra, nel 1923, entrai nei ranghi della Regia Aeronautica nel Corpo Ingegneri con il grado di Tenente Colonnello e in breve tempo diventai un buon progettista, portando i dirigibili italiani all’avanguardia nella loro funzionalità.

Onore al merito, c’è da dire che la sua fama nel campo dei dirigibili si diffuse rapidamente in tutta Europa…

Infatti, fummo molto sorpresi quando il famoso esploratore norvegese Roald Amundsen, che per primo esplorò i ghiacci dell’Artico, ci contattò affinché progettassimo un dirigibile per una spedizione polare che gli stati scandinavi intendevano realizzare.

Per realizzare questo importante progetto ci fu un contatto fra voi per mettere a punto i dettagli dell’impresa?

Si certo, esso avvenne con un incontro fra noi due in Norvegia. Amundsen voleva che progettassi un dirigibile il cui involucro avesse una capienza di 19.000 metri cubi, molto leggero e compatto, adatto per una spedizione polare. Fortuna volle che da poco fosse iniziata la costruzione di un dirigibile con quelle caratteristiche, così accettai la proposta di Amundsen e mi assunsi l’incarico di fare le debite correzioni per adattarlo ad una trasvolata polare.

Dal punto di vista economico chi si accollò tutte le spese del progetto e della spedizione?

L’organizzazione finanziaria fu assunta in toto dall’Aeroclub di Norvegia, che stipulò una convenzione con il governo italiano che a sua volta metteva a disposizione i tecnici, gli operai e tutte le attrezzature necessarie per la spedizione.

In più io godevo la fama di essere un abile progettista e le Aeronavi italiane avevano una tecnologia e sicurezza tali da non temere concorrenti. L’idea di un fallimento non ci sfiorava proprio.

Quali erano gli scopi della spedizione?

Lo scopo non era solo quello di realizzare una serie di voli di esplorazione tornando alla base di partenza di volta in volta, ma quello di vagliare la possibilità di realizzare un collegamento dalle isole Svalbard allo stretto di Bering passando per il Polo. Il problema da risolvere a quei tempi era quello di capire se, nella grande regione sconosciuta tra il Polo e le coste dell’Alaska, esistesse un continente o ci fosse solo ghiaccio.

Conscio quindi delle grandi potenzialità dell’aereonautica italiana e norvegese, spinti dall’ottimo risultato ottenuto con il Norge, decideste di realizzare una spedizione tutta italiana, per arrivare dritti al Polo Nord.

Verissimo. Come sempre però le grandi imprese trovano degli oppositori tenaci. Nel nostro caso Italo Balbo, eccellente aviatore e membro di spicco del Governo fascista di Mussolini, che fin dall’inizio fu molto avverso alla spedizione. In realtà egli era molto invidioso della nostra iniziativa specialmente nell’eventualità di un successo, soprattutto perché credeva che il futuro fosse quello dell’aviazione e non dei dirigibili che considerava tecnologia sorpassata. Comunque la decisione fu presa e sia pur in mezzo a mille difficoltà demmo il via ai preparativi.

La partenza quando avvenne?

Con il dirigibile Italia salpammo dal cielo di Milano il 19 marzo 1928 con destinazione le isole Svalbard che sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta dove arrivammo il 6 maggio. Dopo qualche settimana di sosta per ambientarci, il 23 maggio 1928 alle ore 4.28 con il dirigibile Italia ci dirigemmo verso il Polo Nord che sorvolammo il 24 maggio alle 00.20 circa. Vi fu subito grande festa, aprimmo il portellone e lanciammo sul Polo Nord una croce donata da Pio XI e la bandiera italiana.

Ma subito dopo avvenne l’imprevedibile…

Eravamo quasi arrivati al sicuro e ormai in vista delle Isole Svalbard quando il tempo peggiorò. Qualcuno suggerì di atterrare, ma il meternorologo svedese Malmgren ci avvertì che la tempesta sarebbe passata da lì a poche ore. Questo suo fatale errore purtroppo decreterà la tragica fine del viaggio.

Cosa successe dopo?

A causa del perdurare del cattivo tempo l’aeronave si appesantì di ghiaccio, i timoni si bloccarono e le valvole di scarico dell’idrogeno non funzionarono più. Intuita la gravità della situazione, feci subito i motori. Erano le 10.30 del 25 maggio del 1928. Dopo tre minuti il dirigibile Italia urtò la banchisa polare. Dieci dei membri dell’equipaggio furono sbalzati fuori sul ghiaccio, uno di essi morì sul colpo. Io riportai delle gravi ferite. Nello schianto la parte superiore dell’aeronave si staccò dalla cabina di comando e volò via portando con sé la maggior parte dei rifornimenti e sei membri dell’equipaggio, mai più ritrovati.

Una vera tragedia…

Fortunatamente, con l’impatto al suolo molte delle cose che erano nella navetta furono catapultate a terra. Tra queste c’erano casse di viveri, materiali vari e soprattutto la «tenda rossa», che ci servì da rifugio nelle seguenti sette settimane, e la radio da campo (dono di Guglielmo Marconi per la nostra trasvolata). All’inizio non riuscimmo a farla funzionare ma il nostro radiotelegrafista Biagi insieme al collega Troiani la ripararono egregiamente, rimettendola in funzione.

Da quel momento cominciaste a lanciare messaggi radio nell’etere nella speranza che qualcuno vi ascoltasse.

Ogni ora mandavamo un messaggio alla nave appoggio «Città di Milano» che era il nostro punto di riferimento durante la traversata artica. Ogni messaggio radio alternava in noi momenti di disperazione a momenti di euforia! 

La costanza con cui inviaste i vostri Sos alla fine fu premiata…

Nella città di Arcangelo, in Russia, ovvero a duemila Km dalla nostra tenda, un giovane radioamatore, Nicholaj Schmidt, intercettò i nostri appelli. Però, nel frattempo, era sorto un altro problema: la deriva del pack artico ci stava allontanando dalla terraferma e le nuvole non permettevano di individuare dal cielo la nostra tenda, anche se rossa.

Avevate però la percezione che il vostro dramma stesse per giungere alla fine…

Alla sera di mercoledì 6 giugno 1928, il Biagi intercettò un messaggio in cui si diceva che l’ambasciata dell’Unione Sovietica aveva consegnato al governo italiano il nostro Sos. Festeggiammo la notizia con un brindisi in onore del radioamatore russo. Inoltre captammo che il rompighiaccio russo Krassin stava partendo da Leningrado verso la zona del disastro, con a bordo un trimotore Junkers e un pilota per i voli di ricognizione.

Per venirvi a salvare ci fu una vera gara internazionale di solidarietà…

Si è vero ma non sempre con esito felice. Due aeroplani svedesi, guidati da Riiser Larsen e Lützow-Holm e partiti dalla baleniera Hobby domenica 17 giugno, vennero a cercarci. Quando li sentimmo, noi accendemmo subito un fuoco e sparammo dei razzi di segnalazione, ma fu tutto inutile, non riuscirono a vederci.

Lunedì 18 giugno 1928, alle ore 16.00 partì dalla città di Tromsö in Norvegia un aereo messo a disposizione del governo francese per i soccorsi: il Latham 47 condotto dal pilota René Guilbaud. A bordo c’era anche Roald Amundsen. Il grande esploratore norvegese, 55 anni, primo a raggiungere il Polo Sud (nel 1911-12), nonostante i contrasti avuti con me sulla spedizione del Norge, si era offerto fin da subito di partecipare alle ricerche. Purtroppo del suo volo, perso ogni contatto radio, non si è saputo più niente e con ogni probabilità si è inabissato nel grande mare del Nord.

Alla fine chi vi avvistò fu un idrovolante italiano…

Il capitano Umberto Maddalena il 20 giugno 1928 di mattino presto decollò dalla Baia dei Re, dove su ordine di Roma era ancorata la nave appoggio Città di Milano. Alle 7.35 il radiotelegrafista Biagi riuscì a stabilire un contatto radio con l’idrovolante. Le difficili condizioni atmosferiche non permettevano ai soccorritori di avvistare i naufraghi, ma Biagi riuscì a guidarli via radio fino alla posizione della tenda. Alle 8.15 percepimmo il rombo dei motori. Ma subito dopo Maddalena perse il contatto visivo. Solo dopo mezz’ora di disperata ricerca l’idrovolante riuscì di nuovo a sorvolare la nostra «tenda rossa». Vennero lanciati i primi aiuti: sei paia di scarpe, dei viveri, due barche pneumatiche, due sacchi a pelo. Alle ore 20.00 dalla «tenda rossa» inviammo un messaggio di ringraziamento: «Grazie per l’emozione che questa mattina ci avete procurata mandando su di noi i colori della Patria».

La vostra avventura stava per concludersi…

Si, sabato 23 giugno 1928 verso le ore 21.00 due aerei si avvicinarono alla «tenda rossa». Erano svedesi e avevano i pattini per atterrare sul ghiaccio. Dopo alcune prove per sondare il terreno, l’aereo al comando del capitano Lundborg finalmente atterrò. Fin dal giorno precedente avevo stabilito la lista di evacuazione in cui io ero ovviamente all’ultimo posto. Ma Lundborg fu irremovibile: «I have order to take you first» (ho l’ordine di prendere te per primo). La faccenda non mi piaceva per niente ma anche i miei compagni mi pregarono di partire subito. Mi fanno notare che a bordo della nave Città di Milano la mia collaborazione potrebbe essere di grande aiuto per organizzare i soccorsi.

E fu proprio così…

Non proprio. Una volta sulla nave appoggio fui molto limitato nei miei movimenti sia per le mie condizioni che per ordini da Roma. Fu soprattutto il capitano della nave a coordinare i soccorritori di varie nazioni. Determinante fu l’intervento della Marina Sovietica che inviò la nave rompighiaccio Krassin a recuperare i superstiti e il 12 luglio raggiunge finalmente il lastrone di ghiaccio ove i marinai russi tirarono in salvo i rimanenti uomini dell’equipaggio del dirigibile Italia, ormai allo stremo delle forze.

Martedì 31 luglio 1928, il generale Nobile e quello che restava dell’equipaggio del dirigibile arrivarono in Italia. Grandi folle si riversavano nelle stazioni dove il loro treno passava, gridando la loro ammirazione nei confronti dei membri della sfortunata spedizione al Polo Nord. Duecentomila persone li accolsero alla stazione di Roma. Nobile scoprì però che l’entusiasmo popolare non era gradito al governo fascista, verso il quale lui non aveva mai nascosto un certo scetticismo. Per volere dello stesso Mussolini venne istituita una commissione d’inchiesta tutta composta da accaniti avversari di Umberto Nobile, tra i quali – manco a dirlo – spiccava il gerarca Italo Balbo. Pochi mesi dopo la Commissione rese pubblici i suoi risultati, addossando tutta la responsabilità del disastro al Generale. La sera stessa Nobile rassegnò le proprie dimissioni all’Aeronautica rifiutando il congedo dal servizio attivo e la pensione che gli sarebbe spettata. E dopo qualche tempo andò a lavorare prima in Russia e poi negli Stati Uniti.

Con la pubblicazione di diversi libri sulla tragedia vissuta in prima persona, Nobile cercò di spiegare all’opinione pubblica italiana come fossero veramente andate le cose. Ma fu solo dopo il periodo fascista, nel 1945, che il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi ordinò di riesaminare il caso affidando l’incarico alla commissione superiore di avanzamento del ministero dell’Aeronautica, la quale espresse parere favorevole alla reintegrazione di Nobile col grado di maggiore-generale. Il 2 giugno 1946 Umberto Nobile venne eletto deputato all’Assemblea Costituente come indipendente del Partito Comunista Italiano. Morì a Roma
il 30 luglio 1978.

Don Mario Bandera

 




Il mercante e i suoi precetti


E la chiamano economia
prima la conosciamo, prima la cambiamo


Testo di Francesco Gesualdi |


Se sul titolo di questa nuova rubrica abbiamo dibattuto a lungo, non così è stato per scegliere a chi affidarla. Abbiamo pensato subito a una sola persona: Francesco Gesualdi detto Francuccio.  Nato nel 1949 nei pressi di Foggia, Francesco Gesualdi giunge a Barbiana (Firenze) nel 1956. Qui è allievo di don Lorenzo Milani fino al 1967, anno della sua morte. Assieme a lui partecipa alla stesura di «Lettera a una professoressa», probabilmente uno tra i più celebri libri di pedagogia. Dopo aver completato la formazione economica, fa l’insegnante e poi, per due anni, il volontario in Bangladesh. Nel 1982 pubblica «Economia: conoscere per scegliere», un testo di divulgazione economica destinato agli esclusi dalla lettura. Nel 1983 si trasferisce a Vecchiano (Pisa) per vivere un’esperienza semicomunitaria con altre famiglie decise a praticare concretamente la solidarietà. All’interno di questa iniziativa nasce il «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

Francesco Gesualdi è autore di molti libri, tutti aventi l’obiettivo di smontare pezzo per pezzo il sistema economico attuale e proporre un’alternativa di vita non soltanto sostenibile ma anche felice. In questa sua rubrica cercherà di spiegarlo anche ai lettori di Missioni Consolata.

Paolo Moiola


Il mercante e i suoi precetti

L’economia è come un carciofo: per conoscerla occorre saperla sfogliare. Partendo da un dato di fatto: essa non è una scienza «neutra». Nella prima puntata della sua rubrica Francuccio Gesualdi ci parla di ricchezza, lavoro, mercato, natura e stato, in un’analisi motivata e molto critica.

È opinione diffusa che l’economia sia una materia difficile. In realtà è molto semplice: basta saperla sfogliare come si fa col carciofo. All’esterno ci sono le foglie dure, coriacee e spinose, ma all’interno c’è il nucleo tenero, facilmente digeribile. Fuori di metafora, per capire l’economia bisogna liberarla da tutti gli aspetti specialistici caratterizzati da meccanismi rompicapo e da un linguaggio indecifrabile, per arrivare al nucleo centrale, ossia ai criteri chiave che ci rivelano la sua impostazione ideologica. Perché l’economia non è una scienza neutra, come si sforzano di farci credere. L’economia è una «roba» terribilmente di parte che cambia totalmente fisionomia a seconda dei valori su cui si fonda, della classe sociale che vuole difendere, degli obiettivi che si propone. Dal che si capisce che di economia non ne esiste una sola, ma tante, tutte diverse in base alle visioni da cui sono animate.

L’affermazione del mercante

L’economia in cui ci troviamo nasce attorno al 1100 d.C. quando inizia ad emergere la figura del mercante. Il capitalismo è il suo sistema, nato ed organizzato attorno alle sue convinzioni per permettergli di raggiungere i suoi obiettivi. Nel tempo, la figura del mercante si è trasformata assumendo le sembianze delle moderne imprese, ma al di là dell’aspetto, nel suo petto pulsa sempre lo stesso cuore che si muove all’insegna di sette capisaldi ideologici: il denaro come fondamento della ricchezza, il profitto come scopo immediato, l’accumulazione come obiettivo di fondo, il mercato come unico crocevia economico, la competizione come sola forma di rapporto con gli altri, la tecnologia e la crescita come massima espressione di progresso.

L’elemento di principale novità introdotto dal mercante, in totale rottura col sistema feudale, è la supremazia del denaro. Se nel castello la ricchezza è rappresentata dalla terra, nel mondo mercantile è rappresentata dal denaro e non tollerando che la nobiltà se ne appropri in nome del titolo nobiliare, il mercante pone a fondamento della sua società la «meritocrazia», il principio secondo il quale la ricchezza va conquistata tramite l’intraprendenza, l’inventiva, l’arguzia, la scaltrezza. Una nuova forma di saccheggio collettivo non più basato sul privilegio derivante dallo status nobiliare, ma dalla capacità di sapere organizzare gli affari anche se sconfinano nell’abuso, nel plagio, nel raggiro, nel furto, nello sfruttamento.

Il lavoro (tra disoccupazione e sfruttamento)

Le lotte popolari degli ultimi due secoli hanno introdotto il concetto di diritto come nuovo criterio di godimento della ricchezza pur non avendola prodotta, ma il mercante non è avvezzo a certe sottigliezze e continua a voler escludere chiunque non abbia dimostrato di «essersela guadagnata» anche se vecchio, inabile o bambino. Come un disco rotto continua a ripetere «che vinca il migliore», in una società delle cavallette in cui prevale la gara di tutti contro tutti per arrivare primi ad accumulare ricchezza in un crescendo senza fine. Perché il denaro, a differenza della terra, non pone limiti di crescita. Non a caso il Prodotto interno lordo (Pil) è diventato il nostro idolo.

Se il fine è l’accumulazione, la strategia è il profitto che il mercante ottiene creando una differenza fra costi e ricavi. Peccato che fra i costi sia compreso anche il lavoro, perché ciò è all’origine dello sfruttamento. Da quando il lavoro è stato degradato a costo, ha smesso di essere considerato la massima ricchezza a disposizione dell’umanità per la sua elevazione e ha smesso di essere considerato il diritto/dovere riconosciuto ad ogni adulto per permettergli di prendere parte alla distribuzione della ricchezza. Al contrario è stato trasformato in una zavorra monetaria da ridurre il più possibile. Da qui tutti i tentativi per eliminare il lavoro (disoccupazione) e pagarlo il meno possibile (sfruttamento).

La natura (o merce o bene senza valore)

Nella logica del denaro, l’altro grande perdente è la natura che è stata spontaneamente divisa in due grandi categorie: quella catturabile e quella non catturabile. La parte catturabile, costituita da terreni, foreste, minerali, acqua, è stata recintata e trasformata in merci su cui lucrare. In altre parole è passata da beni comuni a proprietà privata, da beni godibili gratuitamente a beni ottenibili solo a pagamento, da beni al servizio di tutti a beni per il profitto individuale. Come testimoniano le battaglie per l’acqua, le foreste, i parchi, le spiagge. Ancora oggi in molti punti del globo, le comunità sono in lotta con i mercanti per proteggere quel poco di beni comuni rimasti. Purtroppo con scarsi risultati dal momento che i mercanti hanno dalla loro parte la forza degli stati. Intanto sembra persa del tutto la battaglia per la parte di natura non recintabile. Non essendo catturabile, è stata declassata da bene di tutti a bene di nessuno. Non essendo vendibile, è stata degradata da bene non prezzabile a bene senza valore. Trascurata da tutti, è diventata un’enorme pattumiera in cui abbiamo riversato tutti i nostri avanzi: l’aria si è saturata di veleni, i fiumi sono stati inondati di sostanze chimiche, i mari sono stati riempiti di plastica.

Il mercato (e le sue regole)

Nello stesso tempo la logica dei costi e dei ricavi spiega perché viviamo in un sistema consumista. Dal momento che il guadagno del mercante dipende anche da quanto incassa, è logico che tenti di espandere il più possibile le sue vendite subissandoci di pubblicità tramite un impegno monetario che, a livello mondiale, vale 500 miliardi di euro. Così siamo stati scaraventati in un sistema materialista che propone alla gente come unico obiettivo quello di comprare, comprare e ancora comprare.

Non meno deleterie sono le conseguenze del fatto che il mercante concepisce la compravendita come unica modalità a disposizione del genere umano per soddisfare i propri bisogni. Il mercato, dobbiamo ammetterlo, è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola è che possiamo chiedergli di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Allora scopriamo che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi. Chi ha denaro da spendere è il grande accolto, il grande corteggiato, il grande riverito. Chi non ne ha, è il grande rifiutato, il grande escluso, il grande disprezzato. Per dirla con papa Francesco è il grande scartato.

Gli «scartati» e il ruolo dello stato

Gli scartati sono i vecchi, gli inabili, i disoccupati, i nullatenenti, in una parola tutti coloro che non guadagnano abbastanza da poter pagare beni e servizi costosi. Per tutta questa gente, che poi sono i più, l’alternativa è che i servizi fondamentali come sanità, istruzione, alloggio, comunicazioni, siano erogati gratuitamente, ossia da parte della comunità, l’unico soggetto capace di fornire servizi non attraverso il meccanismo della compra-vendita, ma della solidarietà. Ma questa prospettiva danneggia grandemente il mercato, perché ogni servizio offerto dalla comunità è un’occasione di affari in meno per le imprese private. Non a caso la classe mercantile ha sviluppato ed imposto la visione così detta neoliberista che nega alla comunità qualsiasi tipo di intervento in ambito economico per lasciare pieno spazio al mercato. Il tentativo in atto è quello di confinare lo stato ad occuparsi solo di strade, anagrafe, mantenimento dell’ordine pubblico difesa dei confini, magistratura (purché si occupi solo di ladri di polli e non tocchi i mafiosi e i corrotti). In fin dei conti si vuole limitare l’intervento dello stato ai soli servizi che fanno comodo anche alla classe dominante mentre si pretende che venga privatizzato tutto il resto: pensioni, sanità scuola, trasporti, comunicazioni. Un progetto in totale controtendenza con la nostra Costituzione che vieta l’iniziativa privata in contrasto con l’utilità sociale e che assegna alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Cerchiamo di farla rispettare.

Francesco Gesualdi


Il «Centro nuovo modello di sviluppo»

Trasformare l’utopia in realtà

Potremmo chiamarlo un «think tank» dell’economia alternativa e del pensiero nuovo. Di sicuro, pur partendo dal volontariato e da risorse sempre scarse, le sue ricerche e i suoi studi meritano una grande attenzione.

Il «Centro nuovo modello di sviluppo» (Cnms) di Vecchiano (Pisa) è nato per affrontare, da un punto di vista politico, i temi della povertà, della fame, del disagio nel Nord come nel Sud del mondo.

Una sezione importante del Centro è dedicata ai rapporti internazionali per capire attraverso quali meccanismi produttivi, commerciali, finanziari e tecnologici il Nord provoca emarginazione, impoverimento e degrado ambientale nel Sud del mondo. Il Centro diffonde i risultati delle sue ricerche attraverso corsi per insegnanti, seminari popolari, articoli e libri.

Oltre all’attività educativa e formativa, il Centro svolge anche un’attività di sensibilizzazione politica per indurre la gente del Nord a mobilitarsi a fianco della gente del Sud attraverso nuovi stili di vita e attuando varie forme di noncollaborazione e di pressione popolare di tipo nonviolento.

Da questo punto di vista l’attività del Centro si svolge in quattro direzioni:

  • Individua attraverso quali gesti quotidiani la gente collabora, suo malgrado, con una macchina economica che sfrutta il lavoro del Sud, che rapina le sue risorse, che distrugge il suo ambiente, che crea nullatenenti.
  • Indica come indurre le imprese e i governi a comportamenti più equi attraverso nuove forme di democrazia e di partecipazione (intervento sui parlamentari, lettere di dissenso, controconferenze) e attraverso l’uso di spazi di potere ancora non utilizzati nell’ambito del consumo e del risparmio (il consumo critico, il consumo alternativo, il boicottaggio, il risparmio alternativo, l’investimento etico).
  • Organizza campagne di pressione sulle imprese e sul potere politico a difesa dei diritti degli sfruttati e degli impoveriti. Tra le campagne passate più importanti promosse dal Centro ricordiamo la campagna Chicco/Artsana per garantire un indennizzo alle 87 vittime dell’incendio alla Zhili, la campagna Chiquita concordata con i sindacati del Centro America per garantire i diritti sindacali ai lavoratori delle piantagioni di banana, la campagna «Acquisti trasparenti» per ottenere una legge che induca le imprese a rispettare i diritti dei lavoratori e la campagna Del Monte per richiedere l’aumento dei salari e l’abbandono di pesticidi pericolosi nella piantagione di ananas in Kenya. Dal 2000 gestisce la campagna «Abiti puliti», assieme ad altre realtà italiane, per la difesa dei diritti dei lavoratori globali del settore abbigliamento e calzaturiero.
  • Elabora proposte di sistema per passare da un’economia organizzata sulla crescita ad un’altra organizzata sul senso del limite, capace di garantire a tutti una vita dignitosa pur producendo di meno.

Fonte: Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it).

I libri

Fra i numerosi testi pubblicati da Francesco Gesualdi e dal Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) ricordiamo: Sobrietà (Gesualdi), L’altra via (Gesualdi), Le catene del debito (Gesualdi), Guida al consumo critico (Cnms), Lettera a un consumatore del Nord (Cnms), Manuale per un consumo responsabile (Gesualdi), Gratis è meglio (Gesualdi),?Società del benessere comune (Gesualdi-Ferrara), Risorsa umana (Gesualdi).




Sogni di Capodanno


Testo di Giacomo Mazzotti |


Continuate a sognare»: lo ha detto papa Francesco ad alcuni giovani del “Piano dreamers” (sognatori), ossia figli di immigrati negli Stati Uniti, ai quali Barack Obama aveva concesso la cittadinanza (piano che, invece, Trump ha abrogato). E proprio ai giovani va il nostro pensiero all’inizio di questo nuovo anno che vedrà un sinodo dedicato tutto a loro sul tema: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Ha scritto il papa: «Mi vengono in mente le parole che Dio rivolse ad Abramo: “Vattene!” (Gen 12, 1)… Ma cosa voleva dirgli? Non certamente di fuggire dai suoi o dal mondo. Il suo fu un forte invito, una vocazione, affinché lasciasse tutto e andasse verso una terra nuova. Qual è per noi oggi questa terra nuova, se non una società più giusta e fraterna che voi desiderate profondamente e che volete costruire fino alle periferie del mondo?».

Giovani, dunque, chiamati ad uscire, a incontrare gli altri, a lasciarsi toccare dalle sofferenze e dalle speranze di coloro che sono ancora oggi emarginati, dimenticati o scartati… e ai quali annunciare la Buona Notizia del Vangelo. Giovani che, assordati da tante voci, forse hanno paura di sentire nel loro cuore l’invito a decidersi, a non sprecare tempo e doti, a sognare in grande… ma che sempre più scarseggiano e diminuiscono a vista d’occhio (almeno nella nostra vecchia e stanca Europa).

E ci viene in mente il nostro Fondatore che, attento al grido che veniva da lontano e avendo «sognato» un Istituto (giovane e di giovani) per l’Africa, così scriveva alle autorità romane: «Ho un certo numero di sacerdoti (i laici non mancheranno), che hanno da poco terminato la loro educazione, giovani di buona condotta e di belle speranze, ai quali avendo io lasciato intravvedere la speranza d’incominciare un istituto regionale di missionari, mi stanno giornalmente attorno, sollecitandomi di mettere mano a quell’opera, pronti a dedicarsi tosto con slancio e uno zelo del quale alcuni hanno dato buona prova».

Anche lui, dunque, un dreamer, che non si è accontentato di emozioni e sogni, ma è riuscito a spingere un bel grappolo di coraggiosi «a staccarsi con coraggio dal loro ambiente, dalle comodità della vita e, superando giudizi e motivi umani, sono entrati nell’Istituto per prepararsi alla missione» (sono parole sue).

Si ricordi, allora, il Beato Allamano di noi – suoi missionari – in quest’anno, ottenendoci ancora dal Signore il dono di giovani generosi e un po’ pazzi, capaci non solo di sognare in grande, ma di continuare sulle strade del mondo la stessa missione di Gesù.

Giacomo Mazzotti

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