È l’Amazzonia

Testi e foto di Paolo Moiola |


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

AMAZZONIA
I numeri, le ricchezze, le minacce

Da conquistatori a protettori
A colloquio con padre Angelo Casadei

«Essere custodi è la nostra responsabilità»
Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Questo dossier

Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

La «minga»?del?vicariato?di Puerto?Leguízamo-Solano

L’Amazzonia è una regione unica. Per millenni abitata solamente da popoli indigeni, oggi ospita anche altre popolazioni. Gli uni e gli altri debbono affrontare molti problemi, perché la foresta si è trasformata in un luogo ambito a causa delle sue ricchezze. Il giovane Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano ha invitato decine di persone dei tre paesi confinanti – Perù, Ecuador, Colombia – sui quali si estende il suo territorio, per discutere su come difendere l’Amazzonia dall’assalto degli sfruttatori. Ha chiamato quest’evento «Minga amazónica fronteriza».

Verso Puerto Leguízamo, Colombia. Nel piccolissimo aeroporto di Puerto Asís non è facile avere informazioni. Non ci sono né monitor né annunci. L’aereo della Satena, la compagnia colombiana gestita dai militari, che ci ha portato qui da Bogotà, è ora fermo sulla pista. Finalmente un addetto ci spiega che a Puerto Leguízamo, meta del viaggio, sta piovendo a dirotto e pertanto la partenza è rimandata finché le condizioni meternorologiche non miglioreranno. Di norma nelle zone equatoriali le piogge sono molto intense ma si esauriscono in poco tempo. In ogni caso non c’è alcuna protesta dei viaggiatori visto che nessuno desidera imbarcarsi su un volo rischioso. All’improvviso viene aperta la porta che conduce sulla pista dove è posteggiato l’aereo (l’unico aereo). Saliamo la scaletta fiduciosi di riprendere il viaggio. Mi sistemo accanto al finestrino con la macchina fotografica nella speranza di poter immortalare qualche immagine dall’alto. Il volo si svolge tranquillo, a parte qualche prevedibile scossone. Nuvole nere impediscono di vedere bene la terra sottostante. Tuttavia, non mancano squarci nel cielo che consentono di ammirare i luoghi sorvolati. È una visione che affascina ma che al tempo stesso fa riflettere e intristire. Sotto è Amazzonia e il verde domina ancora incontrastato, ma gli spazi disboscati o ridotti a pascolo sono ampi. L’elemento più appariscente sono i fiumi, tanti, lunghi e sinuosi. Le loro acque non appaiono blu o verdi, ma marroni come la terra che trasportano.

Il volo dura circa un’ora. Nonostante la pioggia, l’atterraggio è relativamente facile. L’aeroporto di Puerto Leguízamo è costituito da una pista malconcia in mezzo alla campagna e una casetta bassa e anonima verso la quale s’incamminano i passeggeri di Satena. La pista è delimitata da una rete metallica oltre la quale s’intravvedono alcuni mototaxi, veicoli a tre ruote che costituiscono il mezzo di trasporto di gran lunga più diffuso. E, subito dietro, un grande cartellone sbiadito da sole e acqua che dà il benvenuto a Puerto Leguízamo, cittadina allungata lungo le rive del Putumayo, con il Perù di fronte e l’Ecuador poco sopra.

Sul volo ho incontrato padre Francisco Pinilla, colombiano e missionario della Consolata che lavora da queste parti da sei anni e che sta andando proprio dove vado io. Ne approfitto subito per chiedere una descrizione del luogo.

«Siamo – spiega – più o meno al centro del 6% dell’Amazzonia che la Colombia possiede. Contando tutto il municipio, qui vivono all’incirca 40mila abitanti». Di cosa vivono? «Un tempo si producevano riso, frutta, platano, yuca, però ultimamente la gente preferisce produrre altre cose (il padre si riferisce alla coca, ndr) che danno più reddito. Quindi, i prodotti locali sono andati sparendo». Per arrivare fino a qui ci sono due modalità. «Sì – conferma il missionario -, come siamo venuti, in aereo, con la compagnia della Forza aerea colombiana, e attraverso il fiume da Florencia o da Puerto Asís in 8-10 ore di viaggio».

Il viaggio per fiume, molto più lungo ma molto meno costoso di quello aereo, fino a qualche mese fa non era accessibile a tutti per la presenza delle Farc, che potevano fermare o sequestrare le persone giudicate non gradite. Dopo la firma degli accordi di pace (novembre 2016), la situazione è divenuta assai più tranquilla.

Sotto una leggera pioggia saliamo su un mototaxi. Per conversare occorre parlare a voce alta perché il rumore del veicolo è assordante ed anche la strada – stretta e dissestata – non agevola il dialogo tra i due passeggeri. Il paese è cresciuto lungo quest’unica arteria. Nostro destino è la sede del giovane Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che ha organizzato un incontro internazionale sull’Amazzonia: la «Minga amazónica fronteriza». Minga è un termine kichwa che indica un lavoro collettivo e gratuito di carattere temporaneo.

Iscrizione dei partecipanti

L’Amazzonia, da cortile a piazza centrale

L’albero simbolo dell’Amazzonia

All’incontro sono iscritte 147 persone: 32 provenienti dal Perù, 11 dall’Ecuador e 103 dalla Colombia (più una dall’Italia: chi scrive), tutte ospitate nelle strutture del Vicariato. In ognuno dei tre giorni (6-8 novembre 2017) è prevista l’esposizione di un esperto che parlerà di Amazzonia alla luce del motto della minga: Somos territorio, somos pobladores, somos cuidadores. La minga prevede però la partecipazione attiva di tutti. Per questo gli iscritti sono stati divisi in 11 gruppi o tavoli di lavoro: dai contadini ai cacique e governatori, dai laici missionari ai vescovi. Ogni gruppo dibatterà sugli interventi ascoltati in sala partendo dalle risposte ad alcune domande. Le considerazioni verranno quindi esposte da un portavoce di ciascun gruppo davanti all’assemblea riunita in seduta comune.

Nell’aula magna del Centro pastorale del Vicariato, sullo sfondo di un suggestivo albero di cartapesta (opera del padre Carlos Alberto Zuluaga), vengono cantati gli inni nazionali di Ecuador, Perù e Colombia. È mons. Joaquin Pinzón, il padrone di casa, a dare il benvenuto agli ospiti e aprire il convegno. Ma sono due indigeni shuar ecuadoriani, Bosco Guarusha e il figlio Daniel Guarusha, a offrire un senso mistico all’inaugurazione della minga con una cerimonia di purificazione (la cosiddetta «limpia») molto coinvolgente e partecipata.

Il primo intervento è di Maurizio López, segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). «Per molti anni – spiega il relatore – l’Amazzonia è stata considerata come il “cortile sul retro”. Si parlava di “terra senza uomini per uomini senza terra”, di “territorio di indios da addomesticare”, di “inferno verde”. Oggi l’Amazzonia si è trasformata nella “piazza centrale”. E non si capisce cosa sia meglio visto che oggi ci sono tanti occhi e tanti pareri su questa realtà. Se prima era un luogo da addomesticare e civilizzare, adesso la si vede come dispensa per lo sviluppo del mondo. Il che conduce a un “estrattivismo” che si comporta come se qui non ci fosse nessuno. Come se questi territori non avessero una loro popolazione, identità, cultura ed anche una loro sacralità».

Per di più – spiega ancora – oggi l’Amazzonia viene distrutta non per ripartire in maniera equa le sue ricchezze, ma perché esiste una corsa all’accumulazione senza fine. «Come dice papa Francesco – conclude Maurizio López -, siamo davanti a una crisi che è ad un tempo sociale e ambientale».

In sala da pranzo

Dal «grande vuoto» ai selvaggi da umanizzare

L’antropologo peruviano Javier Gutiérrez Neira inizia il suo intervento citando dati archeologici che certificano la presenza umana in Amazzonia almeno da 12mila anni avanti Cristo. Smentita scientifica al mito del «gran vuoto amazzonico», successivamente sostituito da quello delle popolazioni selvagge da umanizzare. Azione che ebbe il suo apice con il genocidio avvenuto durante l’epoca del caucho (1840-1915), quando più di 30mila indigeni – principalmente Huitoto, Ocaina e Resigaro – vennero ridotti in schiavitù o sterminati. Rispetto al passato, oggi sono cambiate le condizioni generali (alle popolazioni autoctone si sono aggiunti gli abitanti meticci), ma non lo stato di conflitto.

I governi – spiega l’antropologo – hanno lottizzato l’Amazzonia dandola in concessione per molti anni a società minerarie e petrolifere, «senza considerare gli impatti sui territori indigeni e sulla stessa Amazzonia, la quale durante oltre 50 anni d’estrazione petrolifera ha conosciuto soltanto inquinamento e conflitti sociali». Nulla di più vero: in Perù, Colombia ed Ecuador, ad esempio, i conflitti ambientali in atto sono centinaia (Observatorio latinoamericano de conflictos ambientales, Olca).

Secondo l’antropologo peruviano, l’Amazzonia va pensata «da dentro» e non «da fuori». Dovrebbero cioè essere i popoli amazzonici ad avere la responsabilità di formulare una politica per l’Amazzonia e portarla all’attenzione degli stati nazionali.

Mons. Héctor Fabio Henao

La cancellazione del limite e la creazione delle necessità

Mons. Héctor Fabio Henao, direttore nazionale della Pastorale sociale della Caritas colombiana (e dal 17 dicembre anche presidente del Comitato del Consiglio nazionale per la pace, la riconciliazione e la convivenza) inizia il suo discorso dal concetto di limite. «La teoria è che la gente abbia necessità che non si saziano mai e per questo occorra produrre al massimo. È il produttivismo, cioè produrre illimitatamente per creare consumismo. Un consumismo che, a sua volta, ci porta verso uno sviluppo patologico, che chiameremo sviluppismo».

«Veramente abbiamo necessità illimitate? È sicuro che le necessità dell’essere umano non abbiano limiti? In verità, sono i sogni, i desideri a essere illimitati, mentre le necessità sono limitate». Ma come si inserisce in tutto questo l’Amazzonia? Il capitalismo, che mons. Henao definisce «uno stato dell’anima», vuole controllare completamente l’essere umano e la natura. Per questo ha messo gli occhi sull’Amazzonia. Concretamente: il capitalismo selvaggio spinge per l’estrazione delle materie prime (estrattivismo) del bioma amazzonico per alimentare una produzione senza limiti.

Mons. Henao vede il cambio corretto nelle proposte fatte da papa Francesco nella sua Laudato si’. Qui si parla di ecologia integrale e di rivoluzione della tenerezza. «Dobbiamo – conclude Henao – bandire la frase “Tutto è lecito”, visto che essa non include il futuro, non pensa cioè ad assicurare una vita dignitosa a chi verrà dopo di noi».

Gruppo di lavoro

«Cosa abbiamo capito, cosa vogliamo fare»

Dopo tre giorni di relazioni, dibattiti e incontri conviviali, l’8 novembre giunge il momento di tirare le somme. Tutti i gruppi partecipano alla stesura di un Manifesto rivolto agli abitanti dell’Amazzonia e a tutti coloro che hanno a cuore la sua causa. La dichiarazione prende atto dei grandi problemi che coinvolgono il bioma amazzonico: dallo sfruttamento petrolifero a quello minerario e boschivo, dalle monocolture all’allevamento, dal narcotraffico all’insufficiente presenza dello stato.

Quindi, richiama le autorità nazionali, internazionali e locali a comportamenti adeguati alle particolari necessità dell’Amazzonia: adottare piani di sviluppo che siano realmente amazzonici; garantire la consultazione preventiva dei popoli indigeni per qualsiasi progetto; educare le comunità locali a un trattamento adeguato dei rifiuti; incentivare le autorità accademiche allo studio scientifico della realtà amazzonica, nonché alla formazione e divulgazione delle conoscenze maturate; spingere gli agenti pastorali ad avere una parola più profetica e decisa in difesa dell’Amazzonia.

Infine, il Manifesto afferma la volontà degli estensori di partecipare attivamente alla realizzazione del Sinodo amazzonico del 2019*, accompagnare le comunità amazzoniche nella ideazione ed esecuzione di progetti sostenibili e di contrastare con determinazione tutto ciò che attenta alla vita in Amazzonia.

Un Manifesto – per propria intrinseca natura – contiene indicazioni generali e a volte generiche, soprattutto su una materia complessa com’è la realtà dell’Amazzonia. Tuttavia, esso è importante come base di partenza concettuale, per produrre una fotografia del problema e ipotizzare soluzioni, modalità d’azione, comportamenti.

Vista sul Rio Putumayo

La minga è terminata. Il giorno seguente seguo padre Fernando Florez, uno degli organizzatori più impegnati, mentre accompagna al porto di Puerto Leguízamo il gruppo di partecipanti – paiono tutti allegri – che torneranno in Ecuador e in Perù. I primi salgono su una lancia a motore per passeggeri che lascia subito la banchina e inizia a solcare le acque calme del Rio Putumayo in direzione Nord. I secondi si accontenteranno di un vecchio barcone di legno senza finestrini e con tavolacci al posto delle sedute. Il motore tuttavia pare a posto. Dato che il viaggio verso San Antonio del Estrecho durerà due giorni e non ci sono posti di rifornimento lungo il tragitto verso Sud, occorre fare il pieno di carburante. Il distributore sta sulla strada, qualche metro più in alto rispetto alla riva. Il comandante collega allora il suo barcone con la pompa di benzina attraverso un lungo tubo di gomma. Ci vuole oltre un’ora per completare il rifornimento. Alla fine il barcone prende il largo docilmente con la logora bandiera peruviana che sventola nell’aria, tra i cenni di saluto di chi è rimasto a prua e il rumore ripetitivo dei peke peke – le piccole barche a motore – che gli passano a fianco. L’Amazzonia è (anche) questo.

Paolo Moiola


AMAZZONIA

I numeri, le ricchezze, le minacce

DEFINIZIONE

Si chiama Amazzonia la regione sudamericana che ospita la maggiore foresta tropicale umida del pianeta e la più grande riserva di acqua dolce del mondo.

DATI?GEOGRAFICI

  • SUPERFICIE: 7.989.004 km2 divisi su 9 paesi;
  • PAESI: Brasile (64%), Perù (9,7%), Bolivia (7%), Colombia (6,6%), Venezuela (5,9%), Guyana (2,1%)*, Suriname (1,9%)*, Ecuador (1,6%), Guyana francese (0,8%)*; (*): paesi con territorio amazzonico posto fuori del bacino idrografico del Rio delle Amazzoni.
  • FIUMI: Río delle Amazzoni (6.992 Km, il più lungo del mondo), con migliaia di affluenti tra cui il Río Negro (2.000 km), il Río Madeira (3.240 km), il Río Putumayo (1.813 km), il Río Napo (1.130 km), il Río Marañón (1.600 km). (Fonte: Gutierrez-Acosta-Salazar, Instituto Sinchi, Colombia 2004)

DATI?DEMOGRAFICI

  • POPOLAZIONE: 38 milioni di cui 25 in Brasile e 3,7 in Perú;
  • CITTÀ PRINCIPALI: Manaus (Brasile), Belém (Brasile), Iquitos (Perú), Santarém (Brasile);
  • POPOLI?INDIGENI: circa 420 popoli indigeni (60 in isolamento) per un totale approssimativo di 1,5 milioni di persone; sono 433mila (per 240 popoli) nell’Amazzonia brasiliana e 333mila (per 52 popoli) nell’Amazzonia peruviana.

RICCHEZZE

Foreste, acqua, fauna, flora, biodiversità, risorse del sottosuolo, popoli indigeni.

MINACCE?ANTROPICHE

Attività petrolifere, attività minerarie (oro, in primis), allevamento bovino estensivo, monocolture (soia, in primis), industria del legname, coltivazioni di coca, sfruttamento delle acque dei fiumi (centrali idroelettriche), biopirateria.

(Paolo Moiola, 2018)


Da conquistatori a protettori

A colloquio con padre Angelo Casadei

Per l’Amazzonia colombiana sono mutate molte cose. I missionari, presenti dalla metà del XVI secolo, già da tempo avevano cambiato le proprie modalità di lavoro. Scegliendo di schierarsi (con convinzione) a fianco dei popoli indigeni e in difesa di un ambiente unico.

Puerto Leguízamo. «Forse anche noi missionari arrivammo con uno spirito di conquista e per accompagnare la colonizzazione di questo territorio. Oggi c’è quasi una visione opposta. Prima si parlava di conquista dell’Amazzonia, oggi si parla di protezione e conservazione. Oggi l’Amazzonia non è più soltanto la sua ricchezza ecologica, ma anche quella dei popoli che in essa vivono. C’è stato – conclude padre Angelo – un cambio di visione rispetto a quando arrivammo».

I primi missionari arrivarono da queste parti a metà del XVI?secolo, i missionari della Consolata nel 1952, padre Angelo Casadei da Gambettola nel 2005. «Però in Colombia ero già stato durante gli studi, dal 1989 al 1990», precisa.

Padre Angelo Casadei

Dalla guerra agli accordi di pace

Padre Angelo non si separa mai dalla sua Canon. Fotografa e filma tutto. E quando lo fa non passa inosservato dall’alto dei suoi 186 centimetri d’altezza. Avendo operato in Caquetà (a Remolino e San Vicente del Caguán) e in Putumayo (prima a La Tagua, oggi a Solano), il missionario è un testimone privilegiato di questa parte dell’Amazzonia che per anni è stata un feudo quasi inaccessibile delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia», le Farc.

«Era una guerra civile. All’interno di uno stesso paesino potevi trovare persone che appartenevano all’esercito e altre alla guerriglia.

Per questo dico che l’accordo di pace è stato un bene per i colombiani. Anche se permangono gruppi dissidenti, per esempio a Solano. Oggi il vero problema nasce dall’assenza dello stato. L’unica presenza sono queste grandi basi militari (il riferimento è alla base che sta accanto alla sede del Vicariato, ndr). Prima dell’accordo tra il governo e le Farc, i soldati uscivano in gruppo e rientravano in gruppo per ridurre i rischi. C’erano però vasti territori dove i militari non entravano mai e dove l’ordine pubblico era gestito dalla stessa guerriglia. Oggi, con la consegna alle autorità della gran parte dei guerriglieri, molti di questi territori sono rimasti scoperti. Se lo stato non darà segnali di presenza, il rischio è che gli spazi vuoti possano essere occupati da bande criminali o dalla delinquenza comune e le persone inizino a farsi giustizia da sé. Com’è già accaduto».

La coca e le (difficili) alternative

Il problema è reale. Le bande criminali – una delle più conosciute è La Constru – si dedicano all’attività mineraria illegale e soprattutto al narcotraffico, che è in costante aumento. Il Putumayo è il secondo dipartimento colombiano per coltivazione di coca: si stimano 25.162 ettari coltivati, il 17% del totale (146.000 ettari nel 2016, stando ai dati Simci-Unodc). Più coca significa più danni ambientali (disboscamento e sversamento di sostanze chimiche nell’ambiente) e più danni sociali.

Un chilo di coca – quella più grezza prodotta sul posto di raccolta delle foglie (pasta básica de cocaína) – vale oggi quasi 3 milioni di pesos (circa 870 euro).

La media di produzione per ogni ettaro coltivato è di chilogrammi 1,45 di pasta base (dati Simci-Unodc). I raccolti sono tre all’anno. I piccoli contadini che la coltivano non diventano ricchi, vivono o semplicemente sopravvivono (cosa ancora più vera per i raspachines, i braccianti giornalieri che raccolgono le foglie).

«È difficile trovare un’alternativa alla coca, soprattutto in territori isolati come questi. Un chilo di coca, che sono milioni di pesos, lo metti in uno zainetto e lo trasporti facilmente dove vuoi. Se coltivi mais o yuca o altri prodotti, la commercializzazione risulta molto più difficile. I missionari hanno proposto vari prodotti in alternativa alla coca – soprattutto cacao e caucciù -, anche se non esiste un prodotto sostitutivo perfetto. Il nostro è però anche un lavoro di coscientizzazione, per far capire alla gente cosa comporta produrre cocaina».

Se si esclude la coca, le alternative economiche praticabili ed ecosostenibili non sono molte. L’allevamento – che qui è sempre di tipo estensivo – ha effetti devastanti perché implica disboscamento. Tanto disboscamento: la media attuale è di una vacca per ogni ettaro. Quanto alle altre colture sono, almeno per il momento, troppo poco redditizie. «La foresta offre però varie ricchezze – precisa padre Angelo -. Penso alle piante medicinali. Penso alla noce amazzonica, che ha mercato e che viene coltivata da alcune comunità indigene. Penso al caucciù (caucho natural), che un tempo era una ricchezza. Penso al cacao. Penso al turismo, che qui non esiste anche se abbiamo due grandi parchi naturali, La Paya e Chiribiquete. Ovviamente dovrebbe essere un turismo con limiti ben precisi».

Militari al porto lungo il fiume

Oro e petrolio, una maledizione

Altro fattore di distruzione è stato l’espansione dell’attività mineraria illegale, in particolare quella legata alla ricerca dell’oro alluvionale. I danni prodotti dalla ricerca del prezioso metallo riguardano soprattutto la contaminazione delle acque con il mercurio. «Anche le Farc – spiega padre Angelo – usavano l’attività mineraria illegale per avere delle entrate. In particolare, chiedevano una percentuale sull’oro estratto. Oggi però la situazione pare fuori controllo».

La fine della guerra civile ha dato nuovo impulso anche all’esplorazione petrolifera nell’Amazzonia colombiana. Ecopetrol (Colombia), GranTierra (Canada), Monterrico (Perù), Amerisur (Gran Bretagna) sono alcune delle compagnie che hanno aperto campi petroliferi in Caquetà e Putumayo.

«Per le compagnie petrolifere la scomparsa delle Farc è un vantaggio perché entrano nelle zone di ricerca con più facilità. La guerriglia era contraria alla loro attività perché essa porta strade e comunicazione, rompendo l’isolamento». Contrarie sono anche la maggior parte delle comunità indigene che si trovano direttamente coinvolte nei progetti petroliferi.

«Lungo il fiume Putumayo e lungo il Caquetà ci sono molte comunità indigene di vari gruppi etnici, che da sempre vivono in questi territori. Mantengono la loro lingua e tradizioni, anche se sono comunità che sono venute a contatto con l’uomo e la cultura occidentali. E spesso sono state violentate, come all’epoca del caucciù quando moltissimi indigeni furono schiavizzati».

«Noi ci siamo assunti il compito di accompagnarli in una riflessione sul trauma subito. Per molto tempo siamo stati gli unici ad avvicinarli e aiutarli nelle loro lotte. Per questo i popoli indigeni ci guardano con rispetto».

Paolo Moiola

Mons. Jaoquín Pinzón


«Essere custodi è la nostra responsabilità»

Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Al centro dell’Amazzonia colombiana si trova il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, cinque anni a febbraio. Il vescovo Joaquín Pinzón e i suoi collaboratori hanno scelto di percorrere la strada della sostenibilità ambientale per difendere un territorio unico ma ambito e molto fragile. Un impegno complicato: gli sfruttatori dell’Amazzonia sono tanti (minatori illegali, compagnie petrolifere, coltivatori di coca, commercianti di legname, ecc.) e non paiono intenzionati ad arretrare. Approfittando anche dell’assenza dello stato.

Puerto Leguízamo. Le sei e trenta del mattino sono un buon orario per un’intervista all’aperto. Non ci sono ancora i chiassosi alunni della scuola attigua e la temperatura è ideale.

Mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza è giovane all’anagrafe e giovanile nell’aspetto. Colombiano del dipartimento di Santander, missionario della Consolata, egli ha visto nascere, crescere e cambiare il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che regge fin dalla sua fondazione, avvenuta nel febbraio del 2013. Da allora sono trascorsi 5 anni e tutt’attorno le cose sono cambiate: in primis, ci sono stati gli accordi di pace con le Farc e qui, a Puerto Leguízamo, molto più che nelle città (che infatti raccolgono la maggioranza dei contrari), i cambiamenti sono fatti quotidiani, concreti e visibili.

Monsignor Pinzón, il suo vicariato comprende municipi di tre diversi dipartimenti: Putumayo, Caquetá e Amazonas. Come descriverebbe questo territorio?

«Siamo ubicati nel cuore dell’Amazzonia colombiana. Ma allo stesso tempo siamo ai confini dell’Amazzonia peruviana e di quella ecuadoriana. In altre parole, noi non solo ci troviamo in un contesto amazzonico ma anche di frontiera. Per molti il Rio Putumayo ci divide, ma per noi non è così. Come dice padre Gaetano Mazzoleni, missionario della Consolata che ha lungamente vissuto qui, il fiume ci unisce. Il fiume ci dà la possibilità di muoverci, di trovare i prodotti per alimentarci. È la nostra “autopista fluvial”…».

Interessante la terminologia che lei usa: autostrada fluviale, autostrada d’acqua…

«In questo contesto amazzonico dove non esistono strade, il rio è la nostra autostrada. Il fiume è la possibilità per spostarci e metterci in comunicazione con altre popolazioni e altri contesti. È il nostro spazio di vita che ci mette in comunione con gli abitanti di questa Amazzonia sudcolombiana, nordperuviana e nordecuadoriana».

Popoli indigeni e non solo

Per molto tempo – per motivi politici, economici e culturali – si è sostenuto che l’Amazzonia fosse spopolata anche se era abitata dai popoli indigeni. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’Amazzonia è soltanto foresta e fiumi. Invece ci sono anche i suoi abitanti.

«Quando parliamo di pobladores (abitanti) dell’Amazzonia dobbiamo parlare di popoli, culture e famiglie da integrare. Siamo tutti pobladores di questo territorio, ma con caratteristiche molto particolari e precise. In questo Vicariato, ad esempio, ci sono molti popoli ancestrali, come i Murui (della famiglia Huitoto), gli Inga, i Koreguaje, i Siona, i Kichwa».

I popoli indigeni sono gli abitanti originari, oggi però non ci sono più soltanto loro.

«Sì, nel corso della storia, per diversi motivi e circostanze, qui sono arrivate altre persone: per cercare migliori condizioni di vita o per sfuggire alla violenza presente in altri territori. Oggi li chiamiamo campesinos, un tempo erano detti colonos. Definizione questa rifiutata dagli interessati: “Non siamo coloni. Non siamo venuti a colonizzare. Siamo abitanti di questo territorio”. Nello stesso tempo, sono cresciute le dimensioni delle città e le loro popolazioni. Insomma, l’Amazzonia odierna ospita differenti esperienze umane».

Gli accordi di pace e il vuoto di potere

Fino a pochi mesi fa Puerto Leguízamo e tutta questa regione erano sotto il controllo delle Farc. Gli accordi di pace hanno cambiato la situazione?

«Sì, l’hanno cambiata. La maggioranza degli appartenenti al movimento se ne sono andati nei luoghi di concentrazione fissati dal governo. In due territori del Vicariato rimangono piccoli gruppi dissidenti. In particolare, un gruppo venuto dall’Oriente – conosciuto come la dissidenza del Frente Primero – e altri gruppetti locali fuoriusciti dal Frente 48. Però, possiamo affermare che la situazione è cambiata perché i guerriglieri non esercitano più quel controllo sociale che avevano in gran parte di questo territorio. Quello che manca ora è una risposta del governo centrale. Le persone si domandano: oggi chi esercita l’autorità in questi luoghi? Chi comanderà d’ora in avanti? C’è incertezza. C’è paura che possano arrivare altri gruppi fuorilegge e che essi possano assumere il controllo che prima esercitavano le Farc.

Insomma, nella gente da una parte c’è contentezza per il cambiamento, dall’altra c’è sconcerto per la mancanza di risposte da parte del governo rispetto al vuoto di potere che si è creato».

Sempre più coca

Gli accordi di pace non pare abbiano cambiato l’economia della coca, che continua a essere prodotta in quantità.

«È vero: la produzione di coca prosegue. In ciò è cambiato poco. Anzi, secondo alcuni, la produzione è aumentata. Occorre riflettere sul fatto che le persone continuino a coltivare e la produzione a crescere. Il problema oggi è la commercializzazione. Anteriormente le Farc facevano da intermediarie, oggi manca questo passaggio. Pertanto, è aumentata la produzione ma è diminuita la commercializzazione. Le persone continuano a considerare la produzione di coca un’attività vitale, ma sono preoccupate per l’aspetto commerciale. Per tutto questo sulla questione della coca occorrerebbe fare una riflessione ad hoc».

È molto difficile vivere facendo i contadini. Al contrario, con pochi ettari di terra – si parla di tre – coltivati a coca si può vivere. A volte anche bene.

«Con tre ettari di coca si può vivere se le famiglie hanno esigenze limitate. È anche vero che il movimento di denaro generato dal narcotraffico ha incrementato le esigenze. Il problema vero è che non esiste una politica di sostituzione, un’alternativa che consenta alle famiglie di lasciare la coltivazione della coca per dedicarsi ad altre attività che consentano non soltanto di vivere ma di vivere degnamente».

Il porto sul fiume

Oro e petrolio sono incompatibili con l’ambiente

Altro problema che pare allargarsi è legato all’attività mineraria, in particolare quella illegale connessa alla ricerca dell’oro.

«L’attività mineraria illegale è un problema piuttosto serio, perché essendo illegale non esiste alcun controllo. Costoro arrivano e si stabiliscono in luoghi dove si possano nascondere da sguardi indiscreti. Questo genera una situazione molto difficile perché essi praticano l’attività senza preoccuparsi di usare metodi che riducano gli effetti sull’ambiente. A queste persone interessa soltanto estrarre il minerale, in questo caso l’oro, senza alcuna precauzione che consenta di mitigare l’impatto ambientale».

Già da alcuni anni si parla di tonnellate di mercurio riversate nei fiumi colombiani (Estudio Nacional del Agua 2014). Il problema riguarda anche il río Putumayo?

«Sì, nel río Putumayo si utilizza il mercurio. Questo ha generato e continua a generare problematiche. Contaminando il fiume, contaminano il pesce e quindi coloro che lo consumano. A poco a poco, le persone si caricano di questo metallo che l’organismo non è in grado di trattare».

Nel vicino Ecuador e nel Nord del Perù le imprese petrolifere stanno distruggendo l’Amazzonia e inquinando i fiumi. Com’è la situazione qui in Colombia?

«Rispetto alle compagnie petrolifere, al Nord del Putumayo – nella zona di Puerto Asís, in particolare – stanno avvenendo delle esplorazioni per capire se c’è la possibilità di estrarre petrolio. In questo momento sono in corso dialoghi con le comunità interessate, anche se alcuni di questi sono viziati da interessi economici. Le persone non sono state sufficientemente preparate e così accade che, con un po’ di denaro, a volte vengono comprate. Le persone non hanno la possibilità di raggiungere la consapevolezza dell’impatto che le attività petrolifere possono produrre».

I perché di una minga amazzonica

Il suo Vicariato ha organizzato – novembre 2017 – una «minga amazónica fronteriza». Perché avete usato il termine «minga»?

«Minga è parola kichwa che significa offrire qualcosa in cambio di qualcos’altro. Nella pratica, si traduce in un’esperienza di lavoro comunitario che porta beneficio a tutti e nel quale tutti apportano ciò che hanno. In altre parole, tutti mettiamo i nostri sforzi in una causa comune per ottenere un beneficio comune. Per questo noi abbiamo voluto dare al nostro incontro di riflessione la categoria della minga. Creare uno spazio di riflessione comune».

Lo slogan continuamente richiamato durante la minga è stato «Amazonia, contexto de vida que une orillas», un contesto di vita che unisce le sponde. Ci spieghi meglio in cosa consiste questa unione.

«Qui a Puerto Leguízamo si è unito un buon gruppo di persone della Colombia, del Perù e dell’Ecuador. Abbiamo avuto come ospiti i vescovi di San Miguel del Amazonas (Perù), di San Vicente e di Florencia. Abbiamo avute persone che si muovono da diverse prospettive rispetto a quella ecclesiale: persone delle amministrazioni (come il sindaco di Puerto Leguízamo), di organismi ecuadoriani, di organizzazioni ambientaliste.

Tutte istituzioni e persone a cui interessa la cura di questo contesto di vita. Tutti riuniti per una causa comune: come essere abitanti responsabili che cercano uno sviluppo sostenibile, cioè che non danneggi ma al contrario protegga il contesto amazzonico in cui ci ritroviamo a vivere.

Dalla minga siamo usciti tutti contenti e desiderosi di trasformarci in difensori di questo territorio e di questo spazio di vita. Le istituzioni pubbliche, quelle ambientali e quelle ecclesiali. Tutti desiderosi di trasformarci in piccoli cuidanderos».

Quindi, in epoca di sfruttamento dell’Amazzonia, voi volete esserne curatori, difensori, protettori: una bella responsabilità.

«Il motto completo della minga era: “Somos territorio, somos pobladores, somos cuidanderos”. L’ultima parola non è in un castigliano perfetto: in realtà, dovrebbe essere cuidadores. Ma abbiamo usato questa perché è un termine che usano le persone di qui quando affidano il loro campo a qualcuno perché lo curi bene. Dunque, non explotadores, ma al contrario cuidanderos».

il gruppo di lavoro dei vescovi a Puerto Leguízamo; da sinistra in senso orario: il padrone di casa, mons. Jaoquín Pinzón, mons. José Travieso (San José del Amazonas, Perú), mons. Francisco Múnera (San Vicente del Caguán, Caquetá), mons. Omar Giraldo (Florencia, Caquetá).

Dalla «Laudato si’» al Sinodo amazzonico

Per il novembre del 2019 è stato convocato un sinodo per l’Amazzonia. Si può dire che la vostra minga lo abbia anticipato?

«Potremmo dirlo ma sarebbe una risposta un po’ superba. Abbiamo sognato e progettato quest’esperienza di minga nel febbraio 2017. Potremmo dire che abbiamo anticipato il sinodo. Ma la vera risposta è che papa Francesco ci ha sfidati con il contributo della Laudato si’.

L’enciclica è stato un regalo per l’umanità. Sappiamo che essa è una proposta del papa non soltanto per la chiesa ma per l’umanità tutta.

Vivendo in questo territorio noi ci siamo sentiti molto in sintonia. Non soltanto con la Laudato si’, ma con la sensibilità ecologica di questo papa».

Monsignor Pinzón, la porta qui accanto è quella di una scuola elementare. Quanto è importante l’istruzione nella difesa dell’Amazzonia?

«Abbiamo bisogno di un sistema educativo che ci aiuti. Finora ci hanno abituato non soltanto al consumo, ma al consumo senza limiti. Necessitiamo di un’educazione nuova, basata su un’altra mentalità, che ci renda persone responsabili nell’uso delle risorse. Il mondo ci chiede di essere responsabili con il pianeta, con la nostra casa comune, con la natura che Dio ci ha regalato».

Paolo Moiola

Vescovi partecipnati alla minga


Questo dossier:

• Approfondimenti

Il manifesto della Minga di Puerto Leguízamo è leggibile a questo link (clicca su questa linea).
Sul canale YouTube sono invece reperibili vari documentari di padre Angelo Casadei.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=UUG7cIYkOIY?feature=oembed&w=500&h=281]

• Prossimamente

Il nostro reportage lungo il río Putumayo proseguirà in terra peruviana fino alle comunità di Soplín Vargas e Nueva Angusilla.

• Dedica

Questo dossier è dedicato a padre Antonio Bonanomi, scomparso domenica 7 gennaio. Per molti anni padre Antonio – una vita in Colombia, soprattutto tra gli indigeni del Cauca – è stato assiduo informatore dell’autore sulle cose colombiane, nonché guida durante il primo viaggio in quel paese. Mancherà a tanti. (Pa.Mo.)


Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano

·      FONDAZIONE

Il 21 febbraio 2013. Da allora è retto da mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza.

·      GEOGRAFIA

Si estende in tre dipartimenti colombiani: Caquetá, Putumayo e Amazonas. È caratterizzato dalla presenza di due grandi fiumi: il río Caquetá e il río Putumayo, più i loro affluenti. In esso si trovano il Parco nazionale naturale La Paya, il Parco nazionale naturale Chiribiquete e la Zona di riserva forestale dell’Amazzonia. I centri urbani principali sono Puerto Leguízamo (Putumayo), Solano (Caquetá) e Puerto Alegría (Amazonas).

·      POPOLI?INDIGENI

Kichwa (Quechua), Koreguaje, Siona, Huitoto (ramo Murui), Inga, Nasa, Andoque.

·      ALTRE?POPOLAZIONI

Meticci (campesinos) e comunità di afrodiscendenti.

·      DATI

  • SUPERFICIE: 64.912 km2;
  • POPOLAZIONE: 46mila abitanti;
  • RELIGIONE: 36mila cattolici.

Rio Putumayo




Tunisia: di nuovo in strada (ma non è primavera)

Testo di Angela Lano |


Dopo le rivolte del 2011, a gennaio 2018 i tunisini sono tornati in piazza per una rivolta eminentemente economica. Il partito (laico) al potere sta deludendo le aspettative e tutti i problemi sono rimasti insoluti. Il partito islamico (Ennahda), accusato di essere filoterrorista dai suoi detrattori, rimane in attesa.

I tunisini sono scesi nuovamente per strada, a manifestare la loro rabbia contro le ingiustizie sociali ed economiche, e la mancanza di prospettive e di futuro. La «primavera» del 2011 sembra un lontano ricordo o forse, soprattutto, una grande delusione.

Il bilancio della sommossa popolare di gennaio 2018 è di oltre 800 persone arrestate, centinaia di altre ferite, e negozi saccheggiati, veicoli danneggiati, caserme di polizia incendiate.

Le misure finanziarie dettate al governo dal Fondo monetario internazionale per il prestito di 2,8 miliardi di dollari, hanno scatenato la rivolta: aumento del costo della vita, licenziamenti nel settore pubblico, tagli alle pensioni, inflazione che supera il 6%, disoccupazione giovanile al 30%. La corruzione è dilagante e investe ogni settore, sia pubblico sia privato. La «casta» Ben Ali non è stata estromessa con la rivoluzione del 2010-2011: sono state allontanate le figure più in vista, ma l’estesa rete di «famigli» e «clientes» è rimasta e continua a gestire, in pretto stile mafioso, gran parte degli affari politici ed economici del paese.

Da Ennahda a Nida’a Tunis

Attualmente alla guida del paese c’è un governo del movimento Nida’a Tunis1. Si tratta di un partito laico, ma composto da personaggi dubbi coinvolti nel regime di Ben Ali e riciclati in funzione anti Ennahda, che accusano di appoggio al terrorismo.

«Tuttavia – ci hanno spiegato Kais e Debora, le nostre due interlocutrici -, i dirigenti di Ennahda sono persone colte e con progetti intelligenti. Si sono occupati anche di questioni sociali ed economiche, di diritti individuali, che altri non hanno avuto il coraggio di affrontare: interruzione del digiuno in pubblico, omosessualità, diritti personali. È dalla fine del 2012 che l’opposizione, anche di sinistra, delegittima questo partito. In Tunisia, come era avvenuto anche in Egitto, la sinistra aveva chiesto, paradossalmente, l’intervento dell’esercito per destituire Ennahda. La situazione si era risolta grazie al “Quartetto per il Dialogo nazionale”2». Il sindacato Ugtt si era offerto come mediatore politico per far uscire il paese dalla crisi.

Era stato dunque nominato un nuovo governo provvisorio, con un rimpasto di ministri, e si era evitata la guerra civile, come invece era accaduto in Egitto e in Libia. Nel 2014 Ennahda ha perso le elezioni, e anche il consenso interno. Le decisioni successive sono andate contro «lo spirito rivoluzionario», di cambiamento, richiesto dal popolo, soprattutto dagli strati sociali più giovani: è stata messa in atto una strategia di auto conservazione dei vecchi partiti filo Ben Ali che si sono infiltrati nel processo di cambiamento in corso, dando vita a una contro rivoluzione. E gli effetti si sono visti: disoccupazione, crisi economica, disperazione, fino alle sommosse di gennaio 2018.

In realtà questa fase di «restaurazione» era scattata già subito dopo la fuga di Ben Ali: il vecchio establishment si era subito messo in moto per rimanere all’opera nonostante la rivoluzione.

Ora Ennahda è di nuovo il primo partito, dopo la spaccatura di Nida’a. Nonostante abbia apportato importanti cambiamenti politici e sociali, negli anni di governo, dal punto di vista economico rimane neoliberista, come il resto della Fratellanza musulmana da cui trae le proprie radici politico ideologiche. «Sul fronte del centrosinistra, invece – hanno aggiunto Kais e Debora -, c’è il vuoto: gli attivisti o sono andati all’estero o sono stati assorbiti dalle Ong internazionali. Una parte della popolazione giovanile rivoluzionaria, dopo il 2011, ha iniziato a dedicarsi ad altro, e non più alla politica, perché ne è stata delusa».

Un contadino vicino a Sejnane. (© Arne Hoel)

Tuttavia, ci hanno fatto notare gli attivisti incontrati, qualcosa di positivo è stato messo in atto, ed è la cosiddetta «Istanza della Giustizia di transizione»: un processo sociale, politico e giuridico per accertare le responsabilità del regime dittatoriale e dei suoi esponenti. La «riconciliazione nazionale» deve passare attraverso il riconoscimento dei crimini commessi durante la dittatura e l’ascolto delle storie delle vittime, per evitare che si ricreino le stesse dinamiche. Per questo motivo nel dicembre del 2013 è stata promulgata la legge sulla Giustizia di transizione che ha creato l’«Istanza Verità e Dignità», con mandato fino al 2019: vengono raccolte e valutate le denunce dei cittadini che hanno subito violazioni dei diritti umani dal 1956 in poi.

Sono 63.000 i dossier raccolti – hanno aggiunto Debora e Kais -, e sono relativi a vari tipi di violazione dei diritti – civili, economici, politici – e comprendono anche torture, stupri, sparizioni, decessi in carcere e altre morti sospette, impedimento dell’accesso all’istruzione, matrimoni forzati. I responsabili sono diversi: lo stato e i singoli individui. Nei casi di corruzione viene chiesto ai responsabili la restituzione delle somme rubate. Il processo serve più alle vittime: «è un flusso della coscienza», una rielaborazione della memoria. Le vittime hanno la libertà di nominare pubblicamente i torturatori, gli oppressori, di raccontare le loro storie, durante udienze mandate in onda anche in Tv e che durano diverse ore. Ci sono state anche le testimonianze di membri di Ennahda imprigionati per anni dal regime di Ben Ali.

La Tunisia ha dinamiche europee anche sul fronte della società civile c’è molto attivismo: radio comunitarie, organizzazioni femminili, alternative economiche e lavorative finanziate da Ong, cooperative e donatori internazionali. È molto attiva la cooperazione internazionale, che ha parecchia influenza sulla società: alcune Ong europee o statunitensi orientano determinate politiche, quindi, di fatto, rappresentano una forma di controllo esterno.

L’economia nazionale è improntata sugli investimenti esteri. L’establishment nazionale pone infatti molti ostacoli agli investimenti locali, in quanto, come accennato sopra, rimane dominato dalla corruzione. Se a tutto questo aggiungiamo anche il crollo del turismo, che costituiva una delle risorse economiche tunisine, a seguito degli attacchi terroristici, la situazione è tornata esplosiva, come dimostrano le proteste di gennaio. Le regioni interne del paese, dove la disoccupazione e la povertà sono più forti, sono in continua agitazione, con molte manifestazioni antigovernative.

Al museo del Bardo: da 500 a 10 visitatori giornalieri

Dal centro di Tunisi aspettiamo un taxi che ci porti al museo del Bardo, nell’omonimo quartiere periferico. Dopo più di mezz’ora di vana attesa, si ferma un’auto con due giovani donne a bordo, velate, e ci offrono un passaggio. Sono madre e figlia, ma sembrano due sorelle. La ragazza è una studentessa universitaria di Scienze tecnologiche. L’apparente contrasto è forte: abiti islamici, radio sintonizzata su sure del Corano, e l’aria di due donne indipendenti, aperte al prossimo e molto cordiali, a dimostrazione che esistono tanti e variegati modi di vivere l’islam. Ci lasciano davanti al museo, quasi stupite che vogliamo visitarlo. Le guardie all’ingresso perquisiscono le borse, e blocchi di cemento impediscono l’accesso ad auto e moto. Sono le misure di sicurezza adottate dopo l’attentato terroristico del 18 marzo del 2015, che costò la vita a 25 persone, straniere e locali. Quel giorno i terroristi ebbero facile accesso, sembra. Ora ci sono controlli, ma non ci sono più turisti. In piena estate siamo in tre in tutto il museo. Una tragedia sia per il Bardo sia per lo stato tunisino.

Al-Mat?af al-wa?an? bi-l-B?rd? è l’ampio, modernissimo, organizzato e famoso museo archeologico, situato nella residenza (secolo XIX) del bey (re), che raccoglie reperti di età preistorica, punica, romana, cristiana e arabo-islamica. Si possono ammirare opere come «Ulisse e le Sirene», «Il poeta Virgilio con le muse Calliope e Polimnia», «Il Trionfo di Nettuno» e altre meraviglie. Le sale di arte arabo-islamica sono altrettanto affascinanti.

Prima dell’attentato, i turisti erano almeno 500 al giorno, secondo quanto ci hanno raccontato gli operatori del museo. Dal 2015 in poi, se va bene, ne arrivano 10. Fuori dal complesso, i venditori di souvenir, disperati, svendono per pochi spiccioli le loro mercanzie. Nell’ingresso, una lapide accoglie i visitatori con i nomi delle vittime. Il piano terra è dedicato all’archeologia preislamica: cartaginese, pagano-berbera, ebraica e cristiana. Dal primo piano si accede alle belle sale dell’ex residenza del bey e poi all’ala che ne ospitava il fratello e l’harem.

Ala’ Eddine Hamdi, giovane guida del Bardo e studente di lingua e letteratura russa, ci accompagna nelle sale dove avevano cercato riparo, invano, un gruppo di turisti inseguiti dai terroristi. Quel luogo è carico di contrasti, tra la magnifica estetica degli intarsi, degli azulejos e delle ambientazioni, e la morte di cui sono stati palcoscenico. Ne rimaniamo profondamente colpiti: alcune colonne e pareti portano ancora i segni dei fori, degli sfregi e dei vetri rotti provocati dai proiettili. Due «islam», qui, sono a confronto: quello portatore di civiltà, arte, cultura, scienza, e quello dell’estremismo politico-religioso-ideologico seminatore di morte. Ma questo paradosso è retaggio di tutte le religioni, purtroppo.

Ala’ Eddine ci dice che la presenza del Daesh in Tunisia è iniziata con Ennahda al potere, nel 2011. «Non intendo dire che siano loro i terroristi, ma che hanno fatto entrare predicatori, reclutatori di combattenti, e hanno permesso a molte ragazze di diventare delle prostitute dei jihadisti. Migliaia di giovani si sono uniti al Daesh per andare ad addestrarsi in Libia e poi a combattere in Siria, passando dalla Turchia. C’era una rete ben organizzata, quella della Fratellanza musulmana, che ha funzionato come “distributore di terroristi”. Da qui sono partiti 3.000 combattenti, dai 18 ai 30 anni». Dichiarazioni forti, che noi non possiamo verificare, ma che fanno parte di una diffusa vulgata.

Per questo e altri giovani, la rivoluzione tunisina è stata un disastro, in quanto ha eliminato un tiranno corrotto per sostituirlo con tanti altri. È uno dei tanti delusi che ha perso la speranza di vedere cambiamenti politico-sociali del paese, e come altri, è un forte oppositore dei gruppi islamisti, che vengono percepiti, nella secolare Tunisia, come portatori di arretratezza sociale, in particolare verso le donne.

Piazza del 14 gennaio 2011, a Tunisi. (© Arne Hoel)

Attentati e terrorismo

Dalla rivoluzione del 2011, la Tunisia è stata oggetto di attentati da parte del Daesh: oltre al già citato attacco al Bardo, ricordiamo quello dentro a un resort turistico a Marsa al-Qantawi, nei pressi di Sousse, il 26 giugno del 2015, e rivendicato sempre dal Daesh, nel quale 39 persone vennero uccise a colpi di kalashnikov e altre 39 ferite; quello del 24 novembre 2015, contro un autobus con a bordo guardie presidenziali, che percorreva una strada di Tunisi, sempre rivendicato dal Daesh. A seguito di quella strage, il governo tunisino impose un severo controllo sulle moschee, chiudendo quelle che non risultavano rispettare una normativa che impone agli imam di essere autorizzati dal ministero per il Culto. L’11 maggio 2016, alcuni sospetti terroristi furono uccisi e altri arrestati durante scontri armati con le forze di sicurezza tunisine nel distretto di Mnihla, nella grande Tunisi. Quattro guardie nazionali furono uccise in un attacco suicida durante un’operazione di sicurezza a Tataouine, nel Sud del paese. Infine, quella nota come la «Battaglia di Ben Guerdane», al confine con la Libia, il 7 marzo 2016: forze del Daesh tentarono di mettere sotto assedio la cittadina tunisina, ma furono respinti dai militari. Gli scontri proseguirono anche nei giorni successivi. L’attacco jihadista causò la morte di 52 persone, tra cui 35 aggressori che erano entrati dalla Libia, quattro dei quali erano cittadini tunisini.

La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da «al-Qa’ida nel Maghreb Islamico» (Aqmi) e da estremisti libici collegati allo Stato islamico (Daesh).

La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile e densa di conflitti, e con una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici.

Le forze di sicurezza tunisine sono state ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.

Va ricordato che i tunisini costituiscono il gruppo più numeroso del multietnico e globalizzato Daesh: dalla Tunisia, negli ultimi anni, si sono arruolati nelle fila dello Stato islamico migliaia di giovani. Secondo dati ufficiali rilasciati dal governo tunisino nel 2013, circa 3.000 giovani si sono uniti ai gruppi takfiri dello Stato islamico, mentre i rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni parlano di 5.000 – 7.000 combattenti.

Inoltre, è balzata tristemente alle cronache la vicenda del Jihad al-Nikah, il «jihad sessuale» chiesto dal Daesh alle giovani donne arabe. Dalla Tunisia ne sono partite diverse decine, destinate alla prostituzione tra i combattenti in Siria. A sostenere l’esistenza di questa tratta ci sono anche le dichiarazioni di politici tunisini, tra cui il ministro dell’Interno Lofti Bin Jeddo.

Il ritorno dei jihadisti tunisini

A settembre 2017, secondo quanto riportato da vari giornali arabi, il governo di Tunisi ha avviato un piano di deradicalizzazione delle diverse migliaia di «jihadisti di ritorno», cioè giovani tunisini che hanno combattuto a fianco di formazioni del Daesh in Libia, Siria, Iraq e in altri paesi. Si tratterebbe di un progetto che prevede la «riabilitazione» dei foreign fighters, o combattenti stranieri. In Tunisia, come in Marocco, la gente non vuole che questi soggetti radicalizzati ritornino a casa, poiché sono un pericolo, una fonte di destabilizzazione e di potenziale terrorismo. Infatti, in occasione degli attacchi sopracitati sono state organizzate diverse marce di protesta. La Tunisia, diversamente dalla Libia postregime di Gheddafi, e dall’Egitto (con una storia notevole di islamismo politico, dal quietista al violento, e formazioni attualmente molto attive nel Sinai), non permette lo sviluppo interno del jihadismo. Dunque, chi si sente attratto da questa visione politica violenta sceglie di andare a combattere fuori dal paese. Ecco perché i jihadisti tunisini del Daesh sono il gruppo nazionale più numeroso, seguito da libici e algerini.

Come abbiamo spiegato su questa rivista in precedenti articoli , a spingere verso la radicalizzazione è, in genere, un insieme di cause. Nel contesto tunisino agiscono l’emarginazione sociale, politica ed economica, la mancanza di prospettive; la delusione provocata in certi strati sociali dalla decisione di Ennahda di limitare i propri riferimenti all’ambito politico: questo ha portato alcuni a rifugiarsi in altre realtà dell’islamismo ideologico per trovare punti di riferimento e motivazioni. Inoltre, non va dimenticato che molti islamici radicali tunisini arrivano dalle aree di confine con Algeria e Libia.

Angela Lano
(sesta puntata – continua)

Note

(1) ?araka Nid?? T?nus, Movimento dell’appello della Tunisia, è stato fondato nel 2012 dal premier di allora, Beji Caid Essebsi. Alle elezioni presidenziali del 2014 diede vita a una coalizione elettorale con il Partito repubblicano: l’Unione per la Tunisia. Le elezioni parlamentari del 2014 furono vinte da Nid?? T?nus (85 seggi su 217). Ennahda ne ottenne 69.

(2) Al-?iw?r al-Wa?an? al-T?nus? è composto da quattro organizzazioni della società tunisina: l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt); la Confederazione tunisina dell’industria (Utica); la Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo (Ltdh); l’Ordine nazionale degli avvocati (Onat). Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la pace «per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia, sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011».

La signora Bargua Mechergui, artista vasaia di Senjane. (© Arne Hoel)




Don Vincenzo Molino: Musica e Missione

Kenya – Italia | Testo di Lorenzo Tablino |


Appassionato di musica sacra, missionario nel Nord del Kenya per 24 anni, don Vincenzo Molino ha fatto parte del folto gruppo di missionari fidei donum della diocesi di Alba che hanno evangelizzato le aree aride sopra l’Equatore, tra il lago Turkana a Ovest, l’Etiopia a Nord e la Somalia a Est.

Lunedì 9 ottobre 2017 è mancato a Santo Stefano Roero (Cn) don Vincenzo Molino. Aveva 88 anni e dal 1994 era parroco del paese citato. Al funerale, celebrato due giorni dopo, erano presenti due vescovi con i sacerdoti della diocesi di Alba (Cn) e tutta la comunità del piccolo paese del Roero. Oltre a numerosi amici e conoscenti.

Don Vincenzo Molino fu ordinato sacerdote nel 1953, dopo gli studi in teologia presso il seminario diocesano di Alba. Fu curato nella chiesa di San Giovanni in Alba e in seguito parroco a San Giuseppe di Castagnito. Seguì in particolare negli anni del Concilio Vaticano II alcuni gruppi giovanili e diverse cantorie parrocchiali. Appassionato di canto e musica sacra, grazie agli stimoli dei suoi insegnanti di musica, don Boella e canonico Varaldo e all’interessamento del rettore del seminario maggiore mons. Musso, si diplomò in «Organo e Canto Gregoriano» presso la diocesi di Milano.

Ma vorremmo ricordarlo sulle pagine di questa rivista per il suo grande e instancabile impegno missionario (1970-1994). Infatti, con don Bartolomeo Venturino, don Paolo Tablino, don Pietro Pellerino, don Giacomo Tibaldi, don Giovanni Rocca, don Giovanni Asteggiano e don Bartolomeo Rinino ha contribuito, in veste di missionario fidei donum, all’evangelizzazione della desertica regione del Nord Kenya.

Occorre evidenziare che gli anni Sessanta del secolo scorso furono contrassegnati, per la diocesi di Alba, da una grande apertura missionaria. Nel 1958, don Bartolomeo Venturino, primo sacerdote fidei donum di tutta Italia, iniziò la sua attività a Nyeri in Kenya, l’anno seguente lo seguì don PaoloTablino; alla fine degli anni Sessanta i sacerdoti missionari albesi erano presenti in tre missioni nell’esteso territorio del Nord Kenya: a Marsabit (la cittadina sede della diocesi), a Maikona e a North Horr, coprendo un vasto territorio verso il Lago Turkana.

Nel settembre del 1970 si aggiunse don Vincenzo Molino.

L’opera di tutte le missioni cattoliche, nell’esteso e desertico territorio denominato Northern Frontier District, facente parte della diocesi di Marsabit sotto la guida del vescovo mons. Carlo Cavallera, missionario della Consolata, fu orientata su due precise direttive pastorali. Infatti, all’evangelizzazione e all’apostolato si affiancarono subito poliedriche opere a carattere sociale, sanitario e educativo. Inoltre, sin dai primi anni, i nostri missionari studiarono la cultura e le tradizioni del popolo Gabbra, con cui convissero per decenni.

Per tanti motivi: a seguito dei nuovi orientamenti missionari del Concilio Vaticano II, i vescovi africani chiesero a religiosi e laici impegnati in terra africana di percorrere la difficile strada affinché «l’offerta della rivelazione alle culture e religioni indigene non le privasse della loro originalità». In sostanza occorreva conoscere al meglio la complessa società africana, per svolgere una pastorale missionaria attenta e rispettosa dei valori originali delle popolazioni locali.

Missionari fidei donum di Alba in servizio nella diocesi di Marsabit. Da sinistra: don Rocca, don Venturino, don Astegiano, don Tablino e don Molino.

Notevole la mole di studi pubblicati: dal «Dizionario Borana – Italiano» di don Bartolomeo Venturino (1973), al testo «I Gabbra del Kenya» a cura di don Paolo Tablino (1980, Emi, Bologna).

Non sono mancati sussidi e testi a carattere pastorale, religioso e musicale. Su questi ultimi è stato determinante l’apporto di don Vincenzo Molino. Sin dai primi anni Settanta, nelle missioni diocesane albesi di Marsabit e Maikona, studiò a lungo i canti che accompagnavano le danze tribali delle popolazioni Gabbra, Borana e Rendille. In seguito rielaborò e trascrisse molti canti – sia quelli classici in latino che quelli nuovi in kiswahili – nella lingua locale.

Nella lingua borana «Sirba» significa contemporaneamente canto e danza. Ambedue fanno parte delle tradizioni ancestrali delle popolazioni nomadi del Nord Kenya. Infatti, i Gabbra cantano in molte occasioni: tirando su l’acqua dai pozzi, accompagnando i cammelli nel recinto, attorno allo sposo in attesa che arrivi la sposa, nel ricordare fatti di guerra del passato. Ogni occasione è buona.

Santa messa nella cappella di lastre zincate di Marsabit nel 1970.

Don Molino, dopo avere ascoltato a lungo le melodie tribali africane, cercò di inserire in esse parole o frasi prese dalla liturgia cattolica, ovviamente nella lingua locale.

Compito non facile: non sempre le regole della composizione musicale lo permettevano, ma in alcuni casi i suoi sforzi e la sua determinazione portarono a ottimi risultati per una nuova e rinnovata liturgia nelle chiese di tutto il Nord Kenya.

Alcuni esempi tratti da un testo in archivio al Centro missionario diocesano di Alba: «Una gioia immensa per i primi nove battesimi di adulti nel deserto di Maikona con il nuovissimo canto di resurrezione “Alleluia, Alleluia, gioia, lui è morto, lui è risorto e noi siamo testimoni”.

Una ragazza di Marsabit tornando da scuola ci ha portato una nuova melodia (in lingua kiswahili, ndr) per la notte di Natale: Tukufu, tukufu, kwa Mungu juu (Gloria, gloria a Dio nell’alto). L’hanno cantata tre volte per la pura gioia di cantarla. L’indomani lo cantavano al mercato e in varie botteghe. Penso lo cantassero anche nella… moschea».

Lorenzo Tablino

Si ringrazia don Gino Chiesa, direttore del Centro missionario della diocesi di Alba, per l’aiuto fornito.




È notte fuori

Amico | Testo di Luca Lorusso |


È notte fuori e tu non riesci a riposare. Ti senti inquieto. C’è qualcosa che spinge dentro di te, che ti turba, e non sai cos’è. Vorresti contenerlo, come hai sempre fatto, controllarlo. Questa notte non ce la fai. Vorresti parlarne con i tuoi cari, con i tuoi maestri, ma ti vergogni della tua confusione, e poi ora dormono tutti.

È notte fuori, ma è notte anche in te.

Cerchi, allora, una risposta nella legge, prendi la Scrittura, ma sei distratto. Niente frena il galoppo del tuo cuore e dei tuoi pensieri. Poi ti si presenta alla memoria un salmo: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Sal 136). E il fiume in piena di una nostalgia che non conoscevi rompe gli argini: anche tu hai appeso le tue cetre, i tuoi canti di gioia ai salici di un paese straniero. E ti ricordi di quell’uomo che oggi hai visto compiere segni nel tempio.

Non sai perché pensi a lui, ma sai che devi uscire a cercarlo.

Lo trovi grazie alle informazioni che durante il giorno hai raccolto dai suoi discepoli. Quando entri da lui hai l’impressione che ti stesse aspettando. Ha, infatti, in mano le chiavi della tua inquietudine: per due volte parla del Regno. Quella condizione di cui hai nostalgia. Abitare libero e autentico la tua vita, e suonare la cetra dei tuoi desideri profondi, messi in te, come semi, da Dio. «Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 1-21).
Il nodo che stringe le tue viscere si allenta. Le parole che quell’uomo pronuncia rispondono alle domande del tuo cuore pur senza rispondere a quelle della tua bocca.

E se uno potesse rinascere davvero? Rinascere da vecchio? Venire di nuovo sollevato, come da bimbo, alla guancia di Dio?

Tu sei maestro a Gerusalemme, Nicodemo, sei stimato per le cose che sai, per le tue risposte sagge alle domande più difficili. Tu sai qual è il tuo compito. E anche lui lo sa. Eppure ti chiede di ridiventare bambino, di ritrovare la meraviglia della domanda tralasciando la sicurezza della risposta, di aprirti a un Dio inatteso, diverso da come lo attendevi.

Quando ti parla del Figlio dell’uomo che deve essere innalzato come il serpente di Mosè nel deserto «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna», rimani interdetto. Non capisci. Ti sembra che la luce intravista poco fa si smorzi in una nuova confusione. Ma non è più come quella di prima. Questa è una confusione carica dell’attesa di un mistero. La prospettiva della fede e della vita eterna in una vita rinnovata ti ha rapito. Anche se non sapresti spiegarla a nessuno.

Esci di nuovo nella notte quando inizia a fare luce. Ti senti come ritornato nel grembo di tua mamma.

Quando vedrai il Figlio dell’uomo
innalzato, rinascerai.

Buon cammino verso la luce, da amico.

Luca Lorusso

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Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




I Perdenti 32. Carlos Paez: scelte estreme per la vita

Cile | Testo di Don Mario Bandera |


Era il 13 ottobre 1972. L’aereo sul quale viaggiava la squadra di rugby uruguayana degli Old Christians Club si schiantò sulle Ande argentine. A bordo, oltre alla squadra che si recava in Cile per una partita amichevole, c’erano anche allenatori, parenti e amici, 45 persone in tutto. Diciotto morirono subito, altre undici persero la vita pochi giorni dopo a causa delle ferite e del freddo. Sedici sopravvissero, ma furono ritrovati solo il 22 dicembre dopo una lunga sospensione delle ricerche. Il 23 ottobre infatti le autorità le interruppero dando per sicura, dopo 10 giorni in condizioni estreme, la morte degli eventuali scampati all’incidente.

La salvezza per i sopravvissuti arrivò grazie alla tenacia di alcuni di loro che si avventurarono nel freddo giù per il pendio fino all’incontro con un uomo che poi diede l’allarme per far ripartire i soccorsi, e anche grazie a una scelta estrema che dovettero fare per non morire di fame. Ce ne parla quello che allora era il più giovane tra i giocatori della squadra, Carlos Paez.


(Avvertenza: come sempre in questa rubrica, il dialogo con Carlos Paez, che oggi ha 64 anni, è immaginario, compilato sulla base delle conoscenze che si hanno degli eventi)


Carlitos, se non sbaglio, l’aereo sul quale tu viaggiavi con la tua squadra e alcuni famigliari e amici era un aereo militare, come mai?

«Negli anni Settanta l’aeronautica militare uruguayana per incrementare i propri introiti, dava in affitto alcuni dei propri aeroplani ed equipaggi per operare voli charter su diverse rotte nel Sudamerica. Il nostro era il numero 571, decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall’aeroporto «Carrasco» di Montevideo, in Uruguay, diretto all’aeroporto «Arturo Merino Benitez» di Santiago del Cile. A bordo si trovava l’intera squadra di rugby degli Old Christians Club del Collegio Universitario «Stella Maris» di Montevideo. Stavamo andando in Cile con allenatori, parenti e amici a disputare un incontro amichevole. L’aereo era un Fokker Fairchild FH-227D, pilotato dal tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, sotto la supervisione del colonnello Julio César Ferradas».

Il tempo però non era dei migliori per volare.

«La nebbia fitta e le perturbazioni di quelle ore costrinsero l’aereo ad atterrare in serata all’aeroporto «El Plumerillo» di Mendoza, città argentina in cui pernottammo.

I regolamenti aeronautici argentini vietavano agli aerei militari stranieri di rimanere più di 24 ore sul territorio nazionale, sicché il giorno dopo ripartimmo. Di tornare a Montevideo non se ne parlava. Primo perché, in caso di ritorno, l’aviazione avrebbe dovuto rimborsare i biglietti, secondo perché gli stessi passeggeri non volevano annullare la tournée della squadra in Cile. Per questi motivi, ed essendo le condizioni del tempo cattive ma non tempestose, dopo aver consultato altri piloti provenienti dal Cile, fu presa la decisione di proseguire verso la destinazione».

Come avvenne l’incidente?

«La rotta di volo del Fokker era stabilita a 8.540 metri, un’altezza che non permetteva di attraversare con sufficiente sicurezza la catena delle Ande, che in quel tratto raggiungono altezze superiori ai 6.000 metri. L’aereo doveva quindi necessariamente attraversare un passaggio più basso tra i monti.

Alle 15.24 il pilota chiamò inspiegabilmente la torre di controllo di Santiago, comunicando di essere entrato nello spazio aereo cileno e di aver iniziato l’avvicinamento all’aeroporto. Fu autorizzata la discesa e a quel punto ci fù la virata fatidica che fece dirigere il velivolo dritto nel bel mezzo della Cordigliera.

Forse il pilota fu indotto in errore da un malfunzionamento degli strumenti di bordo (originato da interferenze magnetiche dovute alle perturbazioni), ma non si potrà mai sapere cosa sia realmente successo perché le apparecchiature del Fokker, che non erano state danneggiate dall’incidente, le rendemmo inutilizzabili noi superstiti nel tentativo infruttuoso di usare la radio di bordo per chiamare i soccorsi.

L’aereo iniziò la manovra di discesa mentre si trovava tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca. Dopo qualche minuto, incontrò una fortissima turbolenza che gli fece perdere quota. A quel punto le nuvole si erano diradate e, sia il pilota che i passeggeri si accorsero che stavano volando a pochi metri dai crinali rocciosi delle Ande.

Alle 15.31, a circa 4.200 metri di altitudine, l’aereo colpì la cima di una montagna con l’ala destra che, nell’urto, si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo. La coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri. Priva di un’ala e della coda, la fusoliera precipitò. Colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l’ala sinistra e toccò infine terra su una ripida spianata nevosa. L’aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi».

Quel giorno era il 13 ottobre. Siete stati raggiunti dai soccorritori solo il 22 dicembre. Come vi hanno trovati?

«A bordo eravamo in 45. Diciotto morirono subito nell’impatto che spezzò in due la fusoliera. Altri undici persero la vita pochi giorni dopo per le ferite e per il freddo. Sopravvivemmo in sedici e venimmo salvati il 22 dicembre perché due di noi, Roberto Canessa e Fernando Parrado, intrapresero una marcia che durò due settimane per raggiungere il fondo valle. Dopo tanto camminare un pomeriggio essi videro un «gaucho» a cavallo dall’altra parte di un fiume e riuscirono a lanciargli un pezzo di carta avvolto intorno a un sasso nel quale spiegavano chi erano. Le ricerche che erano state interrotte due mesi prima, in quanto era escluso che in quelle condizioni qualcuno potesse sopravvivere più di qualche giorno, furono subito riprese e venimmo recuperati nei giorni seguenti».

A questo punto, Carlos, arriviamo a uno degli elementi più delicati della vostra vicenda: come riusciste a sopravvivere per 72 giorni a quasi 4000 metri sulle Ande?

«Man mano che passavano i giorni la situazione diventava sempre più disperata e ci sentivamo più debilitati. Fu in quel momento che cominciò a farsi strada un pensiero fra noi superstiti: se volevamo continuare a vivere, non avendo cibo a disposizione, dovevamo nutrirci con i corpi delle vittime del disastro. Quella era la nostra unica possibilità di sopravvivenza e, credimi, tutto ciò che noi volevamo in quei giorni era sopravvivere, sopravvivere a qualsiasi costo!».

Come prendeste la decisione?

«Avevamo una radio, quella dell’aereo, che funzionava solo in ricezione. Potevamo ascoltare ma non chiamare. La sera del 23 ottobre sentimmo che le autorità avevano deciso di interrompere le ricerche. Per loro eravamo ufficialmente morti! Ricordo che stavamo sdraiati in quel che restava della fusoliera per proteggerci dal freddo e che Fernando si alzò e disse: “Ok, allora vado a mangiarmi il pilota”. In realtà ci stavamo pensando tutti da giorni, ma nessuno aveva avuto il coraggio di rompere il tabù, di dirlo. Fernando e Roberto, che studiavano medicina, uscirono e dopo qualche minuto tornarono con dei pezzetti finissimi di carne. All’inizio fu orribile, qualcuno si rifiutò di inghiottirli».

Tra i morti c’erano i vostri amici, gli altri giocatori della squadra degli «Old Christians», e anche alcuni famigliari.

«Da quasi cinquant’anni c’è un patto che nessuno di noi ha mai violato. Non riveleremo mai con quali corpi ci nutrimmo e con quali no».

Avete mai ripensato alla vostra scelta?

«Ho ripassato nella mia mente molte volte ciò che successe in quei giorni, non faccio altro. Mi convinco sempre più che non avevamo altra scelta. Noi eravamo morti per tutti e per uscire da quella situazione dovevamo resistere a qualsiasi costo».

Che cosa avete detto ai familiari dei vostri amici che non ce l’hanno fatta?

«Niente. A volte ci vediamo, parliamo. Ma c’è un tabù che anche loro rispettano. Sapere sarebbe inutile. Posso raccontare un particolare che può aiutare a capire la nostra determinazione: tra le vittime lassù c’erano la mamma e la sorella di Fernando Parrado. Quando Fernando partì insieme a Roberto Canessa per andare a cercare qualcuno che potesse aiutarci, si avvicinò a me e mi disse: “Carlitos, se non torno a salvarti devi nutrirti anche con il corpo di mia madre e con quello di mia sorella. È il tuo compito, Carlito, almeno tu devi sopravvivere”. Ecco che cosa mi disse».

Quando siete tornati a Montevideo, vi accolsero come degli eroi. Poi, quando rivelaste la vicenda più spinosa e delicata – quella di essere sopravvissuti cibandovi di carne umana – ci fu un momento di smarrimento nell’opinione pubblica sia uruguayana che internazionale, sbaglio?

«No, non sbagli. I giornalisti ci assillavano. Era terribile. Non puoi immaginare le domande insulse che ci fecero e la morbosità che alcuni di loro avevano. Una rivista brasiliana arrivò a scrivere: “Adesso possiamo perdonare i nostri calciatori che nel 1950 allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, perdettero la finale mondiale contro l’Uruguay, perché ora sappiamo chi sono gli uruguayani: dei cannibali!”».

Non sarebbe stato più umano lasciarsi morire?

«Assolutamente no. Noi eravamo vivi, i nostri amici erano morti! Facendo una valutazione strettamente religiosa, papa Paolo VI al nostro ritorno ci inviò un telegramma di sostegno, mentre un editoriale dell’Osservatore Romano, l’autorevole quotidiano della Santa Sede, dava una lettura positiva del nostro comportamento, vissuto – non dimentichiamolo – in una situazione terribile e del tutto eccezionale».

Come avete fatto per l’acqua?

«Facevamo sciogliere la neve al sole sui pezzi di lamiera. In quelle settimane abbiamo inventato molti oggetti impossibili riciclando quel poco che avevamo. Siamo persino riusciti a costruire degli occhiali per proteggerci dai raggi solari con la plastica dei finestrini dell’aereo».

Grazie a che cosa vi siete salvati?

«Un miracolo? Forse, ma non solo. Penso che riuscimmo a sopravvivere perché eravamo un gruppo affiatato, una vera squadra, non solo sportiva ma anche cristiana. Pregavamo insieme ogni giorno. Il rosario era un appuntamento fisso. Eravamo tutti giovani benestanti e un po’ viziati, ma costretti a sopravvivere in una situazione estrema diventammo tutti dei veri uomini».

Nonostante siano passati tanti anni continuate a raccontare la vostra storia, non vi pesa il ricordo?

«La nostra è una vicenda esemplare e unica. Ciò che abbiamo vissuto sta a dimostrare che gli esseri umani pur di sopravvivere sono capaci di superare qualsiasi tabù. Quando ci invitarono a raccontare la nostra esperienza in diverse occasioni la gente alla fine applaudiva. Tutti si complimentavano per la nostra determinazione e la nostra voglia di vivere, che in fondo alberga nell’animo di tutti».

Carlos Paez con il suo lavoro da pubblicitario ha passato la vita a insegnare ai manager delle multinazionali che cosa vuol dire trovare motivazioni per raggiungere obiettivi impossibili in situazioni estreme. Su questi temi qualche anno fa ha partecipato negli Stati Uniti a una serie di conferenze insieme ai pompieri di New York sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre 2001.

Il gruppo dei superstiti della tragedia delle Ande è ritornato più volte sul luogo dove si consumò il loro dramma, che nel frattempo è diventato meta di escursioni da parte di chi, attratto e affascinato da un’avventura unica e irripetibile, vuole ripercorrere quei sentieri.

Don Mario Bandera




Dal protezionismo alle multinazionali

Testo di Francesco Gesualdi |


Il capitalismo fece i suoi primi passi nel 1200 con la comparsa – a Genova – dei banchieri. Si rafforzò con le grandi compagnie commerciali e con le macchine. Poi arrivarono le multinazionali che oggi dominano il mondo (insieme alle imprese finanziarie).

Una caratteristica del capitalismo è la sua dinamicità, la capacità cioè di cambiare continuamente strategia pur di raggiungere l’obiettivo prefisso, che al contrario rimane sempre lo stesso: il profitto. Ed è proprio questa sua costante trasformazione organizzativa a renderlo poco afferrabile. A questo mondo non c’è però niente di indecifrabile se si trova la giusta chiave di lettura. Nel caso del capitalismo, la pista da seguire è l’evoluzione delle imprese: dimmi come cambiano le imprese e ti dirò come cambia il capitalismo.

Banchieri, commercianti, imprenditori, finanzieri

Il capitalismo si struttura attraverso un processo lento che muove i primi passi con i banchieri genovesi del 1200. Ma la sua vera storia possiamo farla cominciare nel 1600, con la strutturazione delle grandi compagnie dedite al commercio internazionale, tra cui una delle prime è la «Compagnia delle Indie orientali» (East India Company). Il secolo successivo, l’avvento delle macchine nel processo produttivo fa entrare il capitalismo in una fase nuova, caratterizzata da un cambio di ruolo dei mercanti. Se prima si limitavano a comprare e vendere prodotti già pronti, con l’avvento delle macchine trovano più vantaggioso organizzare essi stessi la produzione. Così nasce la classe dei mercanti imprenditori che ottengono i loro prodotti all’interno di stabilimenti attrezzati di macchinari fatti funzionare da uno stuolo di lavoratori salariati. Per due secoli il capitalismo sarà dominato dalle imprese produttive e, anche se oggi un nuovo tipo di impresa, quella finanziaria, sta allargando i propri tentacoli, il mondo in cui viviamo è ancora quello modellato da loro. Ciò è particolarmente vero per l’assetto internazionale.

Le imprese, lo sappiamo, sono strutture organizzate per fare profitto attraverso la divaricazione fra costi e ricavi. La battaglia delle imprese avviene sul terreno della riduzione dei costi e dell’aumento delle vendite. E se la questione costi sta alla base di temi come il progresso tecnologico, il colonialismo, il conflitto sociale, la questione vendite sta alla base delle alleanze, delle ostilità e più in generale delle relazioni fra stati.


L’appartenenza delle prime 200 multinazionali del mondo.

Multinazionali:
i numeri (2016)

  • ?Gruppi censiti: 320.000
  • ?Totale società controllate: 1.116.000
  • ?Quota di partecipazione al prodotto lordo mondiale: 35-40%
  • ?Fatturato lordo complessivo: 132mila miliardi di dollari
  • ?Profitti lordi complessivi: 17mila miliardi di dollari
  • ?Quota di commercio estero gestito: 80%
  • ?Occupati: 300 milioni (15% della mano d’opera salariata a livello mondiale)

Fonte:

Cnms, Top 200. La crescita di potere delle multinazionali, Vecchiano 2017; il lavoro è scaricabile – gratuitamente – dal sito del «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

 

 


Perché il libero scambio

Il sogno di ogni impresa è espandere le vendite in maniera infinita, per questo la crescita è un caposaldo del capitalismo. E poiché le possibilità di vendita sono tanto più ampie, quanto più vasto è il mercato, il capitalismo – almeno a parole – ha sempre fatto professione di fede nel libero scambio, nel mantenimento, cioè, di frontiere aperte per permettere a merci e servizi di fluire liberamente tra uno stato e l’altro. In realtà le imprese hanno sempre oscillato fra protezionismo e liberismo in base allo stadio evolutivo in cui si trovano. Un’ambivalenza che appare più chiara se facciamo un paragone con i tori. Quando sono ancora vitelli si sentono più al sicuro in pascoli protetti da staccionate che impediscono ai tori, più forti di loro, di entrare. Crescendo, cominciano ad avvertire la staccionata come un limite perché alzando la testa vedono tanta buona erba di là dalla palizzata: sarebbe bello poterla brucare! Ma poi si guardano nello stagno e, benché cresciuti, si vedono ancora creature acerbe incapaci di fronteggiare i tori adulti che si trovano nel pascolo aperto. Per cui sognano una situazione intermedia: lo spostamento della staccionata un po’ più in là per disporre di un recinto più ampio in cui l’erba sia contesa solo fra tori della stessa età e delle stesse dimensioni. Più tardi, quando hanno raggiunto l’età adulta ed hanno superato ogni paura di confrontarsi con gli altri, rivendicano l’abbattimento di qualsiasi staccionata (anche di quella costruita per proteggere i nuovi vitelli) per scorrazzare liberi nell’infinita prateria.

Fuori di metafora, quando l’industria è ai suoi albori, le imprese chiedono protezione agli stati. Non senza ragione. L’esperienza dimostra che solo in una situazione protetta, l’industria nascente ha garanzia di sviluppo.

In caso contrario rischia di essere sopraffatta dalle imprese straniere che, in virtù della loro forza tecnologica e finanziaria, possono inondare il paese di beni a prezzi così bassi da sgominare l’industria locale. Per questa ragione molte nazioni africane sono riluttanti a firmare l’accordo di scambio alla pari proposto dall’Unione europea. Il famoso Epa, Economic Partnership Agreement, ossia «Accordo economico di partenariato», che propone di applicare tariffe zero sui prodotti del Sud del mondo esportati verso l’Unione europea e tariffe zero per i prodotti europei esportati verso i paesi del Sud del mondo. Il tutto sotto l’ipocrisia della reciprocità dimenticando, come si dice in Lettera a una professoressa, che non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali.

Perché il protezionismo

Tornando alla storia è un fatto che il capitalismo nasce protezionista. Le imprese manifatturiere di ogni nazione chiedevano ai propri governi di metterle al riparo dalla concorrenza estera tramite dazi doganali e ogni altro provvedimento utile a ostacolare l’ingresso di manufatti esteri. Ma il protezionismo a cui le imprese aspiravano era a senso unico: porte chiuse alle merci straniere, ma possibilità di collocare le proprie nei mercati degli altri. Una pretesa non di rado soddisfatta con le armi. Valgano come esempio le guerre dell’oppio di metà Ottocento fra Cina e Gran Bretagna per la pretesa da parte di quest’ultima di commercializzare in Cina l’oppio coltivato in India. La stessa annessione dell’India all’impero britannico aveva come obiettivo non solo quello di impossessarsi delle materie prime indiane, ma anche di garantire un ampio mercato alle manifatture tessili inglesi. Non a caso Gandhi fece dell’autoproduzione tessile uno dei simboli della resistenza contro il dominio britannico.

In principio fu la Singer

È in questo contesto di amore-odio per il protezionismo, che a fine Ottocento le imprese di grandi dimensioni mettono a punto una nuova strategia di espansione. La formula si chiama colonizzazione dall’interno e si basa su un ragionamento semplice: se non si può entrare nei mercati degli altri con prodotti che vengono da fuori, ci si può entrare producendo da dentro. Così nel 1867 l’americana Singer si paracaduta in Gran Bretagna e dopo aver fondato una società, di proprietà sua, ma giuridicamente inglese, apre a Glasgow una fabbrica di macchine da cucire autorizzate ad invadere l’isola perché made in England.

Singer apre ufficialmente il corso moderno delle multinazionali, più propriamente dette gruppi multinazionali dal momento che non si tratta di imprese singole ma di tante società imparentate fra loro per il fatto di appartenere a una medesima società che sta a capo di tutte. Oggi i gruppi multinazionali sono 320mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutti insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come le sementi, i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo globale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.

Famiglie, azionariato e fondi d’investimento

Internazionalizzazione delle filiali, ma anche della proprietà della capogruppo, questa è un’altra caratteristica della maggior parte delle multinazionali. E mentre alcune, come Ikea, Mars, Barilla, Ferrero sono ancora controllate dalle famiglie di origine, tutte le altre appartengono a un azionariato diffuso, sparso a livello mondiale. Spesso è inutile cercare persone in carne e ossa: salvo eccezioni, i proprietari sono banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento, istituzioni che di mestiere raccolgono capitali fra il grande pubblico, dal giovane lavoratore che risparmia per farsi una pensione, al vecchietto che affida i propri risparmi al fondo perché gli è stato promesso un alto rendimento. A livello mondiale 225 istituti finanziari gestiscono una ricchezza pari a 26mila miliardi di dollari e riecheggiano le parole di Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939: «Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose».

Francesco Gesualdi


Geografia delle multinazionali – Chi sono, dove sono

Gli Stati Uniti guidano la classifica delle multinazionali, ma la Cina avanza rapidamente.

Se compiliamo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriamo che 66 sono multinazionali. La prima compare al 10° posto ed è Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India
(vedi il grafico Cnms a sinistra).

Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.

Fra.G.

 

 




Grecia: Ripresa economica sulla pelle dei poveri


Il governo di Alexis Tsipras promette la fine della durissima politica di austerità che da anni mantiene la Grecia dentro l’Ue a costi altissimi per i greci. La fine dell’emergenza e degli «aiuti» della Troika è probabile, grazie al miglioramento dell’economia, ma la popolazione vive oggi livelli di povertà, disparità, esclusione sociale che non si vedevano da decenni.

Conto alla rovescia per il debito greco. Dopo sette anni di dure politiche di austerità, entro la fine dell’estate Atene potrebbe dire addio ai programmi finanziari europei di salvataggio. «L’accordo con i creditori è dietro l’angolo, presto riprenderemo a camminare sulle nostre gambe», ripetono da mesi fonti governative.

La data è quella del 20 agosto prossimo, giorno nel quale scadrà il piano di bailout (salvataggio del paese insolvente, ndr) in corso. Tra maggio e giugno però la Grecia dovrà sottoporsi agli ultimi e determinanti test sui progressi fatti in materia di riforme strutturali interne, così come stabilito negli accordi con la Troika. E, benché una rondine non faccia primavera, le premesse lasciano ben sperare.

La kolotoumba di Tsipras

L’esecutivo di Alexis Tsipras si presenterà alle verifiche decisive della primavera forte del parere favorevole incassato a Bruxelles il 22 gennaio scorso. «Atene sta facendo bene», è stato il giudizio positivo dei ministri dell’Economia riuniti in eurosummit, tale da permettere lo sblocco della terza tranche di aiuti – pari a 5,5 miliardi di euro – accordata al paese nell’estate del 2015.

Il lungo braccio di ferro con i falchi della finanza internazionale che si consumò proprio in quel 2015 sembra oggi solo un ricordo lontano.

Dalla mirabolante kolotoumba (capriola, ndr) di Tsipras in poi, in effetti, i rapporti tra la Grecia e il resto dell’Europa si sono fatti via via più distesi. E non poteva essere altrimenti, visto che sotto i ponti della minacciata Grexit sono passate finora tutte quelle misure di austerità cui il leader di Syriza – ricevendo espresso mandato da parte del suo popolo – aveva giurato ferma resistenza.

Di fatto, la capitolazione del premier ellenico punta dritto a un altro traguardo, ossia la ristrutturazione generale del debito greco accordata già nel 2012. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha lasciato uno spiraglio aperto, a patto che la Grecia continui a rispettare tutte le condizioni date.

Shock economy senza opposizione

Esauritosi il ciclo dell’opposizione sociale e delle grandi manifestazioni di piazza che aveva fatto seguito al primo periodo di applicazione della shock economy, la strada per il governo di Atene si presenta ora meno in salita. Basti pensare che persino il fronte compatto e combattivo della «nessuna negoziazione» sulle privatizzazioni si è sgretolato come un muro di sabbia, lasciando dietro di sé frustrazione, delusione e malumori. Sotto la scure dell’addio ai monopoli statali, nel dicembre scorso sono finite infatti la Deh, il colosso pubblico dell’energia elettrica, la Hellenic Petroleum, la società di raffinazione e distribuzione petrolifera pubblica, e la Depa che gestisce il trasporto del gas naturale oltreché la sua vendita all’ingrosso e la distribuzione.

Il plauso dei mercati non si è fatto attendere: i tassi decennali sui bond greci sono calati fino al 4,8% (a luglio 2015 erano schizzati al 18%); «il graduale miglioramento della liquidità» a disposizione delle banche elleniche ha fatto sì che la Commissione europea prorogasse, per una volta senza quasi battere ciglio, il regime di garanzie pubbliche fino a marzo 2018; altrettanti segnali di ripresa economica, lenti ma significativi, sono arrivati la scorsa estate dal settore del turismo, con un +7% rispetto all’anno precedente.

Una nuova stretta allo stato sociale in vista

L’esecutivo guidato da Alexis Tsipras difficilmente riesce a nascondere un certo ottimismo, e assicura «un’uscita pulita» del paese dall’austerity entro la data stabilita.

Senza troppo frenare gli entusiasmi, dal canto suo, la Troika continua a ribadire che, per completare con successo la revisione finale del programma di aiuti, Atene deve provvedere entro giugno all’implementazione di ulteriori «difficili misure». Ottantadue, per l’esattezza, divise tra provvedimenti di natura fiscale e nuovi tagli al welfare.

All’uscita dal tunnel mancano ancora importanti tasselli quali l’adeguamento di una legislazione fiscale favorevole all’industria marittima, una nuova normativa sul valore degli immobili che assegni loro l’effettivo prezzo di mercato e non quello stabilito in maniera autonoma dalle autorità fiscali locali (con un conseguente aumento dei tassi e/o della base imponibile per i proprietari in sede di dichiarazione dei redditi annuale), la riduzione – e l’anticipazione al 2019 anziché al 2020 – della soglia del reddito esentasse, un nuovo taglio alle pensioni, la revisione dei benefici sociali, degli assegni familiari e delle prestazioni di invalidità, la riforma della contrattazione collettiva, la definizione di criteri più severi in materia di pignoramenti e di confische per i debitori insolventi. Vale a dire, un altro giro di vite allo stato sociale per una popolazione già stremata e stritolata da sette anni di sacrifici.

E i greci se la passano male

Se in termini di disavanzo primario la Grecia comincia a stare meglio, i greci invece non se la passano affatto bene. Un recente rapporto della Caritas locale parla di «una fase molto buia» e di «un paese vulnerabile», e i dati sono impietosi a riguardo: a causa della recessione negli ultimi quattro anni i salari hanno subito una contrazione tra il 10% e il 40%, perdendo fino al 24,9% del loro potere d’acquisto per i lavoratori adulti e del 34,5% per i giovani fino a 25 anni. Nonostante un lieve calo negli ultimi due anni, il tasso di disoccupazione continua a essere il più alto in Europa (21%), mentre la metà dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni non risulta essere impiegata. Questi ultimi, assieme ai lavoratori sopra i 50 anni, costituiscono la fascia di popolazione che ha risentito maggiormente della crisi, a fronte della mancanza di misure sociali di supporto e di politiche dedicate al loro inserimento nel mondo del lavoro.

Si calcola inoltre che nel 2015 solo un greco su cinque abbia lavorato per più di dodici mesi e questo spiega in parte perché almeno mezzo milione di persone – su 10 milioni di abitanti totali – negli ultimi anni ha preferito lasciare il paese e tentare fortuna altrove. Per la maggior parte si tratta di professionisti e di personale ad alta formazione – dottori, ingegneri e scienziati -, con almeno un titolo postuniversitario, master o dottorato, nel proprio curriculum.

© Kohlmann Sascha

Povertà ed esclusione sociale

La fotografia scattata dalla Caritas locale trova pieno riscontro in un altro studio recentemente condotto dall’Unione europea, secondo il quale il 22,2% della popolazione greca si trova in «una situazione di grave povertà» (nel 2010 era stimata al 18%), ossia non è in grado di pagare un mutuo o un prestito, di stare al passo con le bollette, di permettersi il riscaldamento e di far fronte a spese inattese. Circa 3,8 milioni di persone, pari al 36% della popolazione, è invece severamente a rischio esclusione sociale. In Europa riescono a fare peggio solo Romania e Bulgaria. Piuttosto allarmante anche il numero di bambini che vive sotto la soglia di povertà (40%). Non meno preoccupante la condizione degli anziani, le cui pensioni hanno subito una riduzione del 50-60%, raggiungendo la cifra media di circa 665 euro mensili, spesso utilizzate per mantenere un intero nucleo familiare. In generale, le criticità maggiori provengono da problemi di lavoro (60,9%), dalla mancanza di soluzioni abitative adeguate (36,7%) e dai bisogni legati allo stato di salute (il 39,9% dei greci, ossia una persona su tre, ha dichiarato di avere difficoltà nel sostenere le cure mediche necessarie).

L’ipoteca sul futuro rimane

Non solo numeri. La conferma di quanto la sofferenza sociale nel paese abbia raggiunto un livello di esasperazione si ha dalle immagini arrivate lo scorso novembre dal tribunale di Atene, dove, durante la prima giornata di vendita all’asta delle case dei greci morosi nei confronti delle banche – per inciso, altra condizione richiesta al governo di Tsipras nell’imminente revisione – si sono verificati scontri con la polizia all’interno dell’edificio che hanno costretto i notai alla fuga attraverso un’uscita laterale.

Che il debito ellenico abbia tecnicamente i giorni contati è dunque uno scenario verosimile e auspicabile. Che la Grecia sia invece in procinto di liberarsi definitivamente dalla morsa dell’austerità è più facile a dirsi che a farsi. La fine degli aiuti comunitari non significherà difatti il ritorno alla normalità per un paese che ha pagato caro il prezzo della crisi e che, con ogni probabilità, continuerà a farlo anche nei prossimi anni, quasi fosse un’ipoteca sul presente e sul futuro del paese.

Monia Cappuccini

© Jan Wellman

 


Le tappe della crisi greca

2009 A ottobre il neoesecutivo socialista di Georges Papandreu rivela che il governo precedente ha falsificato i bilanci e che il deficit della Grecia supera di quattro volte il limite Ue. Vengono declassate le banche elleniche.

2010 L’Ue, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale (Fmi), cioè la cosiddetta Troika, accordano il primo programma di salvataggio: 110 miliardi di euro per l’attuazione di un piano di austerità che provoca una violenta opposizione sociale.

2011 Titoli declassati a livello «spazzatura», vola lo spread. L’esecutivo dimissionario di Papandreu sostituito dal governo di unità nazionale del tecnocrate Lucas Papademos, già vicepresidente della Bce. Varata altra finanziaria «lacrime e sangue».

2012 Approvate nuove misure di austerity in vista del secondo piano di aiuti di 130 miliardi di euro. Piazze in subbuglio, guerriglia nelle strade. A marzo arriva l’ok per la ristrutturazione del debito. Dal voto di maggio non esce nessuna maggioranza, si torna alle urne a giugno, il leader di Nuova Democratia, Antonis Samaras, diventa Primo ministro. Nella finanziaria tagli per 10 miliardi di euro.

2013 Crollo del 23% del Pil dal 2008, disoccupazione record al 28% e giovanile al 60%, altri 15mila posti di lavoro tagliati nel settore pubblico. Antonis Samaras chiude nottetempo la tv di stato Ert e licenzia 2.700 dipendenti. Uccisione di Pavlos Fyssas: il leader di Alba Dorata, Nikolaos Michaloliakos, assieme ad altri 17 deputati, sono trasferiti in carcere con l’accusa di appartenere a un’organizzazione criminale. Era dalla caduta del regime dei Colonnelli che non si verificava l’arresto di parlamentari.

2014 Atene torna sui mercati finanziari e incassa quasi 4 miliardi dalla vendita di titoli di stato. I creditori esigono nuove misure di austerità per l’ultima tranche di aiuti. Il partito Syriza di Alexis Tsipras vince le elezioni europee e guadagna terreno nei sondaggi. Crisi di governo dopo la nomina del presidente della Repubblica, si torna alle urne.

2015 Il leader della sinistra radicale, Tsipras, vince le elezioni promettendo di rinegoziare il piano di salvataggio e di porre fine all’austerità. I conti peggiorano: indebitamento per 330 miliardi di euro, debito pubblico al 180% del Pil, insolvenza del prestito Fmi di 1,5 miliardi. Tsipras accusa i creditori di «saccheggio» e annuncia un referendum sulle nuove misure di austerità. Il 5 luglio il 61,3% vota oxi (no). L’Europa lancia l’ultimatum per evitare la Grexit. Riprendono i negoziati con un braccio di ferro di 17 ore: Atene capitola e riceve un terzo piano di aiuti.

2016 La Banca greca annuncia la ripresa dell’economia entro l’estate. L’Ue eroga altri 7,5 miliardi di euro utilizzati per pagare gli interessi sul debito. Il Parlamento annuncia un largo piano di privatizzazioni e vota la riforma delle pensioni e del sistema fiscale.

2017 Nonostante i segnali incoraggianti, il paese è ancora a rischio inadempienza. Atene prosegue sulla strada dell’austerity e approva la riforma del lavoro e nuovi tagli al welfare. La Germania si oppone alla rinegoziazione dei debiti esistenti avanzata da Alexis Tsipras.

2018 Potrebbe essere l’anno della fine dei programmi di aiuti ma non del controllo sul debito greco e sui piani di austerità da parte dei creditori internazionali. Atene prevede un rimborso di almeno il 75% entro il 2060.

M.C.


Intervista al professor Vassilis Arapoglou

Tra emarginati e poveri invisibili

«Parliamoci chiaro, l’austerità accompagnerà la Grecia ancora a lungo per una semplice ragione: il debito deve essere ripagato, pena l’applicazione di sanzioni disciplinari. Tra due anni il paese sarà chiamato a saldare enormi tassi d’interesse e le politiche di austerità serviranno a fare cassa. Probabilmente assumerà forme diverse e non sarà più così dura, una sorta di austerità postsalvataggio».

Una previsione nient’affatto rosea quella di Vassilis Arapoglou, professore di sociologia all’Università di Creta e autore, assieme a Kostas Gounis, del volume Contested Landscape of Poverty and Homelessness in Southern Europe, pubblicato di recente per Palgrave (pp. 149, euro 54,99).

Professor Arapoglou, qual è stato l’impatto della crisi finanziaria in Grecia?

«Il drammatico deterioramento delle condizioni di vita iniziato nel 2010 ha subito un’interruzione solo due anni fa ma, di fatto, siamo di fronte a un arretramento sociale di dimensioni epocali. Ovviamente non si tratta di una situazione sanabile, almeno per com’è organizzato il capitalismo europeo oggi. Nel 2016 il tasso di povertà era calcolato in base agli standard del 2008 e si avvicinava al 50% della popolazione. Volendo utilizzare i criteri attuali, il quadro non cambia: soprattutto la fascia sotto i 25 anni risulta per metà disoccupata o precaria. Sostanzialmente la Grecia ha conosciuto un aumento impressionante della disuguaglianza sociale. Ad Atene, ad esempio, sono cresciuti sia i “poveri invisibili”, ossia gente già tagliata fuori dai diritti basilari e da un adeguato sostegno pubblico, sia la divisione tra “nuovi poveri invisibili”, il cittadino appartenente alla classe media, e gli altri emarginati (tossicodipendenti, malati mentali, migranti illegali e in transito). Seppur nelle differenze, tutti condividono il rischio di un comune destino di miseria».

Come si posiziona la Grecia nella mappa delle povertà nel Sud Europa?

«Il caso greco è più unico che raro. Oltre all’improvvisa riduzione del reddito disponibile, alla disoccupazione, all’espansione della precarietà e dei posti di lavoro a basso reddito, si è verificata un’escalation del costo delle case, su cui hanno pesato l’aumento dell’energia, la tassazione sulle proprietà e le difficoltà nel garantire un’adeguata manutenzione. Tali fattori, ad esempio, differenziano le città greche da quelle spagnole, colpite dallo scoppio della bolla speculativa immobiliare, o da quelle italiane, parimenti impoverite dalla crisi. Penalizzati dal mercato del lavoro e dal caro alloggi, nonché da una politica europea sull’accoglienza piuttosto ostile, i migranti in particolare hanno potuto fare affidamento su iniziative di solidarietà locale, che in linea generale hanno contribuito a drenare e a impedire lo scoppio delle marginalità sociali. Ciò deve essere un motivo di orgoglio per i popoli del Sud Europa, nonché una risposta concreta al tentativo di stigmatizzare i loro comportamenti come irresponsabili».

A proposito di queste iniziative, in che modo la crisi ha rimodellato il panorama locale dell’assistenza sociale?

«Dopo aver smantellato ogni forma di welfare, i programmi di austerità hanno indirizzato nuovi canali di supporto verso la privatizzazione delle disposizioni pubbliche e la promozione della beneficenza. Paradossalmente Atene è oggi un esempio di “importazione” in Grecia di un inedito modello di assistenzialismo, in cui le agenzie locali istituzionali giocano un ruolo importantissimo non solo in termini organizzativi e di coordinamento, ma anche di orientamento delle misure da implementare fino al coinvolgimento di filantropi internazionali per la loro realizzazione. Le iniziative di solidarietà dal basso rischiano così di finire strozzate da questo meccanismo. Bisognerebbe invece affrontare lo stato di necessità attraverso un sistema di misure che garantiscano nell’insieme un adeguato sostegno al reddito, un’occupazione stabile, alloggi sociali e una copertura sanitaria. In pratica, l’esatto contrario del progetto di devoluzione sociale perseguito dal neoliberismo».

M.C.




Don Ciotti: mettere vita nella vita

Testo di Ludovico Chiappari, foto di Ludovico Chiappari e Daniele Giolitti |


L’invito ad andare alla Certosa di Pesio il 18 febbraio per partecipare all’incontro con i giovani che Don Luigi Ciotti terrà in occasione della Festa del Beato Allamano, arriva inaspettato, ma decido di andare.

Il viaggio in una domenica completamente nebbiosa, non promette nulla di buono. Nebbia, nebbia e nebbia fino a Chiusa Pesio dove piano piano fa capolino un raggio di sole, per arrivare alla Certosa dove il sole splende creando un paesaggio davvero pittoresco con il contrasto della neve.

Non ero mai stato alla Certosa di Pesio e davvero non sapevo cosa aspettarmi!

La Certosa

Il primo impatto è stato per me davvero bellissimo perché come sono arrivato ho visto un grande numero di giovani, di animatori e ragazzini che parlavano, cantavano e per me, animatore di gruppi giovanili di oratorio e di estate ragazzi, è stato davvero una forte emozione.

Poi è venuto ad accogliermi p. Daniele Giolitti, il superiore della Certosa di Pesio. Gentilissimo, allegro, pieno di vitalità che cercava di stare dietro a tutto e a tutti: i ragazzi dei gruppi di Asti che facevano il ritiro, i visitatori della Certosa, l’organizzazione del pomeriggio con Don Ciotti. Il tutto sempre con il sorriso nonostante le corse che faceva a destra e a manca.

Ho iniziato così ad esplorare la Certosa di Pesio. E sono rimasto davvero stupito e ammirato da quanta storia racchiuda questa costruzione da quando è stata fondata a quando è passata nelle mani dei Missionari della Consolata in poi. Nelle cappelline, nel chiostro, nei vari passaggi si respira ancora un’aria di passato colmo di spiritualità. E anche se c’erano circa 80 ragazzini che correvano per la caccia al tesoro, per preparare la messa, per cantare tutto era in una sorta di aurea.

Don Ciotti e il beato Allamano

Dopo il pranzo finalmente alle due e mezza l’atteso incontro con Don Lugi Ciotti che arriva scortato dai suoi 4 uomini di guardia (visto che ha già avuto molte minacce di morte), ma che già dal primo sorriso dimostra la sua semplicità e disponibilità.

Dapprima il saluto di padre Daniele e poi una breve presentazione della vita di don Ciotti da parte di padre Ugo Pozzoli (responsabile Missioni Consolata Onlus a Torino) e di padre Michelangelo Piovano (superiore dei missionari della Consolata in Italia).

Appena Don Ciotti parla, il suo carisma esplode e cattura l’intera platea di giovani! Racconta della sua vita, delle sfide che quotidianamente lo interpellano, delle difficoltà e dei sogni che vive ogni giorno. E parla del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata con il quale sente molta sintonia di pensiero e di cuore.

Invita noi animatori e giovani a credere ai sogni, a non lasciarci vivere, a fare “squadra”, a non essere isole nel mondo, ma collaborare, coordinare, condividere la vita quotidiana fra noi, con gli altri per lottare e prenderci cura delle persone che hanno più bisogno da quelle più vicine a noi a quelle più lontane (citando proprio il beato Allamano). Ci invita a non farci fagocitare dall’indifferenza e dai nuovi padroni che spesso noi giovani abbiamo e cioè internet, cellulare, social che, pur se importanti, rischiano di isolarci.

Dobbiamo creare nuovamente relazioni personali, viso a viso, per riuscire insieme a modificare le cose e illuminare la vita delle tante situazioni belle e di bene, che ci sono nel mondo ma di cui nessuno parla. Ci invita ad essere, in modo particolare, per la nostra nazione l’Italia, dei «cittadini responsabili» che hanno il coraggio di dire le cose che non vanno ma sempre collaborando con le istituzioni, non limitandoci solo alle lamentele ma attivandoci. Ci racconta molti aneddoti della sua vita e di grandi figure che ha conosciuto e che hanno lottato e pagato spesso con la vita per cambiare il mondo. Ci parla di papa Francesco e di nuovo del beato Allamano. Risponde alle domande che alcuni giovani fanno sempre con il sorriso e grinta. L’incontro termina alle 17.00 circa con la santa messa animata con canti bellissimi dai gruppi di giovani.

Squarcio di sole nella nebbia

Alle 18 si finisce e si è pronti per ritornare a casa.

Che dire è stata davvero una giornata indimenticabile che racconterò in parrocchia al mio Don, ai miei amici animatori, ai miei animati, al gruppo di coordinazione giovanile zonale che spero di portare presto in Certosa. Questa giornata mi ha permesso di conoscere un luogo di spiritualità nel quale ci si sente davvero come a casa propria! È stato davvero bello scambiare idee con altri animatori e giovani che come me si danno da fare per tentare di portare avanti un cammino di fede personale e per i ragazzi più piccoli di loro. L’incontro con don Ciotti ha dato una carica e nuova linfa vitale da trasmettere a tutti noi.

Un grazie grande a padre Daniele e ai giovani che hanno animato la giornata.

Sono le 18, 15 mi preparo per tornare a casa. C’è di nuovo la nebbia che avvolge la Certosa e la strada, ma questa volta so che davvero tra la nebbia si apre sempre uno squarcio ed esce il sereno.

È questo il messaggio che mi ha lasciato la Certosa e che porterò ai miei amici!

Ludovico Chiappari




Questo Brasile non è un buon esempio

di Paolo Moiola |


Esaltato o vituperato, anche in Brasile si è chiuso il Carnevale 2018. Assieme al calcio, esso rappresenta la religione laica del paese. È una festa collettiva che esalta la voglia di vivere e divertirsi dei brasiliani, soprattutto di quelli delle classi più popolari. Ma il Carnevale è anche una rappresentazione tangibile di quello che gli antichi definivano «panem et circenses». Il Brasile vive infatti un periodo storico tra i più travagliati e pericolosi della sua storia recente. Il paese del futuro, del miracolo economico stenta a uscire da una recessione durata due anni (2015-2016).

Accanto alle problematiche economiche ci sono poi quelle della violenza, della corruzione e di una crisi politica che pare interminabile. Questioni ancora più difficili da risolvere perché non legate a cicli storici (com’è per l’economia), ma connaturate nel Dna del paese.

Sulla violenza è sufficiente una cifra: 786.870 persone sono state assassinate in Brasile tra gennaio del 2001 e dicembre del 2015, secondo dati ufficiali del ministero della Salute. In pratica, un omicidio ogni 10 minuti («A guerra do Brasil», O Globo).

Quanto alla crisi politica, essa è legata a doppio filo al cancro della corruzione, diffusa a ogni livello istituzionale ed economico. L’elenco è lungo: Mensalão (compravendita di voti parlamentari), Lava Jato (corruzione centrata su Petrobras, il gigante petrolifero nazionale), Carne Fraca (vendita di carne avariata da parte dei maggiori produttori ed esportatori brasiliani) e, da ultimo, la corruzione più grande, ramificata e internazionale di tutte, quello scandalo Odebrecht (la prima impresa di costruzioni del paese), che ha messo in guai seri anche i governi di molti paesi latinoamericani.

L’attuale presidente brasiliano Michel Temer, subentrato a Dilma Rousseff dopo un golpe parlamentare (agosto 2016), è finora riuscito a evitare di essere processato per varie accuse di corruzione.

Nel frattempo, lo scorso 24 gennaio 2018, un tribunale di Porto Alegre ha condannato in secondo grado l’ex presidente Lula (che ben governò il Brasile dal 2003 al 2010) a 12 anni e un mese di reclusione per corruzione. Le prove a carico del fondatore del Partito dei lavoratori (Pt) sono meramente indiziarie. Lula è nettamente in testa a tutti i sondaggi per le elezioni presidenziali dell’ottobre 2018. Ma non è affatto sicuro che potrà candidarsi.

Paolo Moiola