Imprese Unite d’Europa

Testo di Francesco Gesualdi |


La storia dell’integrazione economica europea inizia nel 1948 con la nascita del Benelux. Dopo vari passaggi, nel 1993 nasce l’Unione europea (Ue), il cui organismo principe è la Commissione. È questa che propone le leggi, gestisce le politiche e assegna i finanziamenti. È su di essa che le lobby lavorano.

La strategia utilizzata dalle imprese statunitensi per penetrare i mercati altrui in tempo di protezionismo fu – lo abbiamo visto nella precedente puntata – l’«invasione» dall’interno. Quelle europee, invece, preferirono seguire vie più istituzionali. La prima iniziativa in tal senso venne assunta, nel secondo dopoguerra, da parte di Belgio, Olanda e Lussemburgo, tre stati che, a causa delle loro piccole dimensioni, avvertivano più di altri il limite di mercati ristretti.

Avrebbero potuto seguire la strada dell’area di libero scambio, la forma più blanda di alleanza economica che si limita ad abbattere le barriere doganali e regolamentari per facilitare gli scambi fra stati. Invece optarono per l’unione doganale, una formula che oltre a impegnare gli stati aderenti ad abbattere gli ostacoli fra loro, li impegnava ad adottare le medesime tariffe doganali verso il resto del mondo.

L’unione doganale fra i tre stati europei divenne operativa nel 1948 ed assunse il nome di Benelux. Ma contemporaneamente si erano messi in moto altri processi che di lì a poco avrebbero reso quell’accordo obsoleto. La Francia che, al pari della Germania, disponeva di una forte industria del carbone e dell’acciaio, propose a quest’ultima un’alleanza specifica per questi prodotti, giustificata, più che da ragioni economiche, da quelle politiche.

Le proposte di Robert Schuman e Altiero Spinelli

La proposta venne ufficializzata il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con un discorso che rimase famoso: «L’insieme delle nazioni europee esige che l’opposizione secolare fra Francia e Germania sia superata […]. Il governo francese propone di mettere la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’Alta autorità comune, nell’ambito di un’organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi europei. Nell’immediato la gestione condivisa del carbone e dell’acciaio assicurerà le basi per uno sviluppo comune, prima tappa della Federazione europea che cambierà il futuro delle nostre regioni per troppo tempo votate alla produzione di armi di cui sono rimaste vittime. La solidarietà produttiva renderà non solo impensabile, ma materialmente impossibile che Francia e Germania tornino a farsi la guerra».

La proposta di Schuman si concretizzò il 18 aprile 1951 con la firma di un accordo denominato Ceca («Comunità economica del carbone e dell’acciaio») a cui aderirono non solo Francia e Germania, ma anche l’Italia e i tre paesi del Benelux. Intanto, Altiero Spinelli, un antifascista perseguitato da Mussolini, aveva messo a punto una proposta di integrazione europea che non si limitasse ai soli temi economici. Ma la proposta di costituire una federazione europea unita anche da un punto di vista politico e militare incontrò ampie resistenze e l’unica alleanza che venne perseguita fu quella economica.

Nel giugno 1955 nel corso di una riunione tenuta a Messina da parte dei sei paesi aderenti alla Ceca, Henri Spaak, ministro degli esteri belga, propose un rapporto di collaborazione non più limitato al carbone e all’acciaio, ma esteso a ogni altra attività produttiva e commerciale. Il suo progetto, tuttavia, non prevedeva un puro e semplice allargamento dell’unione doganale già formata fra Belgio, Olanda e Lussemburgo. La sua idea era di costituire un mercato comune europeo che, se per certi versi era una formula sovrapponibile all’unione doganale, per altri la superava perché avrebbe esteso la libera circolazione anche a capitali e persone. La proposta di Spaak incontrò il favore degli altri partner che vollero addirittura fondare una «Comunità economica europea» (Cee). Un’alleanza che si distingueva dal mercato comune perché, oltre ad istituire un’area di libera circolazione di merci, capitali e persone nella quale applicare una medesima politica doganale e commerciale nei confronti degli stati terzi, prevedeva anche l’impegno ad armonizzare le scelte dei 6 paesi in ambito agricolo, energetico, dei trasporti, della concorrenza.

Il Trattato di Roma (1957)

Il trattato che istituiva la Comunità economica europea passò alla storia come il Trattato di Roma, perché venne firmato in quella città il 25 marzo 1957. Un caposaldo dell’accordo era la gradualità del processo, e il tempo concesso per realizzare il mercato comune venne fissato in dodici anni. In realtà l’integrazione procedette a più velocità. Mentre il percorso che portò all’abolizione delle barriere doganali tra gli stati membri e a istituire una tariffa esterna comune si concluse addirittura con 18 mesi di anticipo, il processo di libera circolazione dei capitali e delle persone si completò invece nel 1993, anno in cui venne ufficialmente annunciata l’unificazione (economica) europea. Il 1993 fu un anno di svolta anche per l’entrata in vigore di un nuovo trattato, quello di Maastricht, che sanciva la nascita della moneta comune, di cui, però, ci occuperemo in altre puntate di questa rubrica.

Come vedremo, dal 1957 a oggi il Trattato di Roma è stato modificato a più riprese, ma l’impalcatura organizzativa dell’integrazione europea è rimasta pressoché immodificata. Purtroppo non ispirata a principi di democrazia parlamentare, come mostra il fatto che il Parlamento europeo verrà eletto a suffragio universale solo a partire dal 1979.

Nel condominio Europa

In effetti in Europa l’assetto organizzativo è più simile a un condominio che a uno stato. E come nei condomini le decisioni sono prese dai capifamiglia d’accordo con l’amministratore, allo stesso modo in Europa le decisioni sono prese dai governi (i capifamiglia) assieme alla Commissione europea (l’amministratore). Negli ultimi tempi sono state introdotte varie novità che danno più potere al Parlamento europeo. Ma nonostante le riforme, l’organo che continua a svolgere una funzione strategica è la Commissione europea, formata da 28 membri (uno per ogni paese dell’Unione), 27 commissari e un presidente. Quest’ultimo viene eletto dal Consiglio europeo, che è composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri. La funzione della Commissione è del tutto paragonabile all’amministratore di condominio. Apparentemente l’amministratore svolge solo una funzione di supporto tecnico. Di fatto è il vero gestore degli affari condominiali perché suggerisce le decisioni da prendere e le trasforma in ordinanze. Analogamente, la Commissione mette a punto le «proposte» che il Consiglio dell’Unione europea (composto dai ministri di ciascun paese competenti per la materia in discussione) e il Parlamento europeo dovranno discutere. Una volta approvate, le trasforma in provvedimenti legislativi, di cui i «regolamenti» sono l’espressione massima in quanto vincolanti per tutti.

La Commissione europea

Proprio per questa sua funzione, al tempo stesso di proponente e gestore delle decisioni assunte, la Commissione europea è l’organismo che esercita più potere in Europa. Un potere che, senza troppi sotterfugi, condivide con le imprese in nome di un principio per certi versi lodevole: la Commissione ammette di non avere competenza su tutto, perciò ogni volta che deve affrontare un tema, istituisce una commissione consultiva denominata «Gruppo di esperti». Ad esempio, nel 2013 ha convocato 38 Gruppi di esperti sulle tematiche più disparate, dagli Ogm alle regole bancarie, dal doping sportivo, agli additivi alimentari. Talvolta piccole commissioni formate da non più di 10 persone. Talvolta gruppi affollatissimi, addirittura con 80 membri. Tuttavia, la domanda importante non è quanti sono, ma chi sono i componenti dei gruppi. Perché i loro pareri diventeranno proposte che, con buona probabilità, saranno trasformate in regolamenti validi per tutta l’Ue.

Un esercito di 25mila lobbisti

Le indagini condotte attraverso gli anni dall’organizzazione Ceo (Corporate Europe Observatory: corporateeurope.org) hanno sempre messo in evidenza una predilezione per i rappresentanti d’impresa. E il rapporto pubblicato il 9 aprile 2014 sui Gruppi di esperti istituiti per tematiche finanziarie, ne è un’ulteriore conferma. Il 70% dei loro componenti sono rappresentanti di banche, fondi di investimento, istituti assicurativi.

Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro: rappresentanti di imprese e associazioni del mondo degli affari, con l’unico scopo di intrufolarsi negli uffici della Commissione europea ed ottenere decisioni favorevoli agli interessi della propria categoria. Il settore finanziario da solo tiene a libro paga 1.700 lobbisti. Gente pagata fra i 70 e i 100mila euro all’anno per una spesa complessiva di circa 123 milioni di euro.

Con tanta potenza di fuoco, la finanza si sta infiltrando anche nel Parlamento europeo. Centinaia di esponenti di istituzioni bancarie e finanziarie – fra cui JP Morgan, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Unicredit – hanno libero accesso al Parlamento europeo e quando sono in discussione provvedimenti di loro interesse, si danno da fare in tutti i modi possibili per convincere i parlamentari ad assumere posizioni a loro gradite. E i risultati si vedono. Ceo cita il caso di un provvedimento di regolamentazione finanziaria su cui vennero presentati 1.700 emendamenti, 900 dei quali scritti di sana pianta dai lobbisti della finanza.

Francesco Gesualdi


Politica e affari

Le porte girevoli

Per molti politici europei, chiusa la storia politica, inizia quella degli affari. Un fenomeno per nulla etico.

(© European Union 2013 – European Paliament)

Goldman Sachs da una parte, José Manuel Barroso (foto) dall’altra. La prima è una delle più grandi banche d’investimento del mondo, una banca cioè che non fa attività ordinaria di deposito e prestiti, ma finanza d’azzardo a vantaggio dei propri azionisti e clienti. Il secondo è un politico portoghese, presidente della Commissione europea dal 2004 al 2014. Nel luglio 2016 i loro destini si incrociano: Barroso diventa presidente non esecutivo e consigliere di Goldman Sachs. «La sua esperienza e capacità di giudizio saranno di grande aiuto per noi e i nostri azionisti», afferma Goldman Sachs a giustificazione della sua scelta. E c’è da starne certi: per i ruoli che ha ricoperto, Barroso saprà ben consigliare come arrivare a chi conta nell’Unione europea e come sfruttare le lacune della legislazione europea a tutto vantaggio della banca.

Quello di Barroso è un caso classico di porta girevole, di passaggio, cioè, dalla politica al mondo degli affari con chiare funzioni di lobby. Un fenomeno abbastanza diffuso che permette alle imprese di infiltrarsi sempre di più nelle istituzioni politiche e indirizzarne le scelte. Fra i casi più clamorosi: Gerhard Schröder che diventa presidente dell’azienda russa Gazprom dopo avere dismesso il ruolo di capo del governo in Germania e Viviane Reding che assume incarichi nella Fondazione Bertelsmann e Agfa-Gevaert dopo aver lasciato il posto di Commissaria alla giustizia della Commissione europea.

Fra.G.

 




Allamano:

Beata Leonella Sgorbati,

Morire per dono

Beato Giuseppe Allamano, dalla Chiesa al mondo | Testi di Giacomo Mazzotti, Francesco Pavese e Mario Bianchi |


Beata Leonella Sgorbati: Morire per dono

Missionarie e missionari della Consolata, ancora una volta stiamo vivendo giorni intensi di attesa e di grazia: la nostra suor Leonella Sgorbati sarà, infatti, proclamata Beata il prossimo 26 maggio, a Piacenza, come martire per la fede. Colpita a morte a Mogadiscio (Somalia – 17/09/2006) mentre prestava il suo servizio di carità tra i fratelli dell’islam, riusciva ancora a sussurrare, con l’ultimo soffio della vita: «Perdono, perdono, perdono». Una vita donata, una morte come quella di Gesù.

Le missionarie della Consolata fanno, dunque, il bis, con due sorelle entrate a pieno titolo nel calendario dei santi. E, a pennello, ritornano in mente le parole di papa Francesco ai partecipanti al Capitolo generale, il 5 giugno scorso: «La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare i vostri confratelli e le vostre consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti e tutte a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa».

Funerale di sr Leonella Sgorbati (21 settembre 2006). Mons. Giorgio Bertin accoglie la bara nel Consolata Shrine di Nairobi.

Come non vivere, allora, questi giorni di «avvento» con l’emozione e la gioia del nostro Beato Allamano che, dopo suor Irene, vede un’altra missionaria salire «all’onore degli altari»? Si realizza infatti, uno dei sogni che il nostro fondatore, ancora vivente, portava nel cuore: «Tre cose desidero prima di morire: vedere il mio zio don Cafasso beatificato; vedere un sacerdote indigeno delle missioni e sapere che un missionario o missionaria è morto martire».

Assieme all’Allamano, che già in Paradiso avrà accolto con gioia di padre questa sua figlia martire, anche noi vogliamo ringraziare il Signore per il dono grande e prezioso, fatto alla nostra famiglia missionaria, di suor Leonella «che ha saputo ascoltare lo Spirito, cogliere il “dono pasquale” che le veniva offerto e viverlo con intensità e passione, personalmente e comunitariamente fino alla fine, per l’avvento del Regno di Dio, Regno di pace, giustizia e fraternità». La sua beatificazione diventa l’occasione per riscoprire la bellezza e la radicalità della nostra vocazione, che ci spinge a essere missionari con energia, zelo, gioia e coraggio, secondo l’insegnamento del Fondatore: senza sconti e con sconfinata generosità. Proprio come la nostra sorella Leonella, esempio luminoso per tutti noi, suoi fratelli e sorelle, figli e figlie di Giuseppe Allamano che speriamo di vedere presto nella gloria dei santi.

Giacomo Mazzotti

 



Scherzi della provvidenza

La vocazione missionaria dell’Allamano, come si sviluppò, sembra oggetto di qualche benevolo scherzo della Provvidenza. Per convincere i giovani che il suo ardore missionario non era qualcosa di improvvisato, ma era fortemente collegato con la sua vocazione di sacerdote, fece questa confidenza: «Ero chierico e già pensavo alle missioni». Non solo ci pensava, ma aveva già programmato come realizzare il suo sogno. Sarebbe andato al Collegio Missionario Brignole Sale di Genova che, dopo un’opportuna preparazione, lo avrebbe messo a disposizione di Propaganda Fide per essere inviato alle missioni. Sembrava che non ci fossero ostacoli. Anche la mamma, già ammalata, era dalla sua parte, rassicurandolo di non preoccuparsi di lei. Un ostacolo, però, e addirittura insormontabile, venne dal seminario stesso. I superiori, che lo conoscevano bene, lo convinsero che la sua fragile salute sarebbe stata un sicuro impedimento per una seria vita missionaria. Non sarebbe riuscito. Accettò, come era suo solito, il consiglio dei superiori, ma in cuor suo sentiva che il fuoco missionario era rimasto intatto. Si trattava solo di non lasciarlo spegnere. Il futuro, poi, non lo preoccupava, perché era nelle mani della Provvidenza.

La sua interpretazione

In concreto, l’Allamano intuì che il Signore non lo voleva missionario da solo, ma Padre di missionari, con tanti figli e figlie. Se accese quel fuoco nel suo cuore fin da giovane era perché lo coltivasse e, a suo tempo, lo trasmettesse a tanti altri giovani. Da lui stesso sappiamo come seppe interpretare e realizzare la propria vocazione missionaria. Più di una volta ritornò su questo argomento. Accennando alla fondazione dell’Istituto e al suo sogno giovanile non realizzato, disse semplicemente: «Il Signore nei suoi imperscrutabili disegni aspettò il giorno e l’ora. Io ho sempre raccomandato al grande missionario martire S. Fedele da Sigmaringa la mia vocazione, che era di partire, ma egli me l’ottenne in altro modo questa grazia. Vedete, non potendo essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via».

Riflettendo su questo cammino interiore dell’Allamano, si ha l’impressione che la Provvidenza abbia quasi scherzato con lui, prospettandogli un grande ideale, quello della missione, per poi inserirlo in un altro progetto più grande ancora, quello di diventare Fondatore di due istituti e Padre di missionari e missionarie. Così la sua vocazione si moltiplicò più di mille volte.

Lo scherzo continua

Ormai Rettore del Santuario della Consolata e del Convitto dei sacerdoti, l’Allamano maturò il progetto di un istituto missionario. In questo fu anche assecondato da alcuni di quei convittori che intendevano dedicare la loro vita sacerdotale alle missioni e si erano resi conto che l’Allamano stava progettando qualcosa di interessante. L’allora arcivescovo di Torino, il Card. Giacomo Alimonda, al quale l’Allamano prospettò il progetto, per diversi motivi, non si mostrò favorevole. L’Allamano, che preferiva seguire la volontà di Dio manifestatagli dall’obbedienza, accettò, senza scomporsi, di accantonare l’idea. La sospese, senza sapere per quanto tempo, ma non l’abbandonò. Purtroppo la sosta durò dieci anni. In seguito, quando il progetto stava prendendo forma concreta, assicurava al Card. Prefetto di Propaganda Fide di aver continuato a «coltivare nello spirito della loro vocazione quei sacerdoti che volevano dedicarsi alle missioni».

La Provvidenza volle che fosse nominato arcivescovo di Torino il Card. Agostino Richelmy, compagno di seminario e amico dell’Allamano. Spirito apostolico aperto, questo Pastore della Chiesa torinese comprese che il progetto dell’Allamano era valido e fattibile. Anzi, poteva diventare motivo di orgoglio per la diocesi. Fu subito d’accordo.

Ma ecco, il nuovo scherzo della Provvidenza. Quando tutto sembrava sul punto di partire, l’Allamano si ammalò improvvisamente di broncopolmonite doppia, tanto grave da portarlo sull’orlo della tomba. Aveva solo 49 anni.

Ricordando quella malattia, l’Allamano raccontava: «Il Cardinale veniva a trovarmi quasi tutte le sere, e siccome avevamo già parlato di questa istituzione, gli dissi: “Sicché all’Istituto ormai penserà un altro”, e lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi tale peso. Egli però mi rispose: “No, guarirai, e lo farai tu”. E sono guarito e fu decisa la fondazione». Era il 29 gennaio 1900.

Durante la convalescenza nella villa che un sacerdote gli aveva lasciato a Rivoli, in vista della fondazione scrisse una lunga lettera al Cardinale. La tenne sull’altare durante la Messa e poi la spedì. Di ritorno a Torino, si recò dall’arcivescovo che, al vederlo, «Eh – gli disse -, nella tua lettera hai messo più contro che in favore della fondazione. Tuttavia devi farla tu, perché Dio lo vuole». «Ebbene, Eminenza, nel tuo nome getterò le reti». S. Pietro aveva detto queste parole a Gesù, dopo una notte infruttuosa sul lago, e così fece una pesca miracolosa. L’Allamano ripeté le stesse parole, ben sapendo a quale precedente si ricollegava, e così iniziò l’Istituto dei missionari della Consolata.

Un curioso particolare

Il primo biografo dell’Allamano, così concluse la descrizione del fatto: «Il mattino seguente, mentre il giornale cattolico dava il laconico annunzio dell’imminente catastrofe, sì che alcuni sacerdoti celebrarono la Messa in suffragio dell’anima dell’amato rettore, questi invece era fuori pericolo. Non si può fare a meno di riconoscere una grazia speciale della Consolata». E continuava: «Raccontandoci il particolare delle Messe celebrate in suo suffragio, l’Allamano aggiungeva sorridendo di averli già ricompensati tutti quei sacerdoti, celebrando la Messa in suffragio delle loro anime, quando sono deceduti».

L’esatta realtà

È certo che l’Allamano non interpretò la sosta di dieci anni imposta dal poco interesse dell’arcivescovo al suo progetto missionario, né la malattia improvvisa come scherzi della Provvidenza. A noi, sì, oggi paiono quasi scherzi per provare la sua tenacia. Per lui, invece, che sapeva giudicare ogni evento sul piano della fede, erano espressioni di come Dio voleva che procedesse la fondazione del nuovo Istituto missionario. «Voglio che lo sappiate – chiarì un giorno durante una conferenza ai missionari -, è per colpa vostra che sono guarito e sono qui. Dovevo già essere in Paradiso. Avevo l’età del Cafasso, senza averne i meriti… ma il Signore non ha voluto. Ero proprio già spedito, ma il Signore mi ha conservato per voi».

Padre Francesco Pavese

 



Il nostro ideale di missionari della Consolata

Si era concluso da poco l’importante Capitolo Generale Speciale del 1969. Padre Mario Bianchi, Superiore Generale, avviò la visita a tutte le comunità d’Europa per studiarne la situazione e prospettare loro cammini di vita e di lavoro in consonanza con le linee conciliari e capitolari. La lettera da cui sono tratte le seguenti riflessioni porta la data del 9 novembre 1971.

I valori che formano il «religioso» e il «missionario» sono parte viva ed essenziale dell’Istituto e della nostra vocazione di «Missionari della Consolata». Tuttavia, ritengo opportuno invitare tutti a sviluppare in sé un più forte amore per la nostra Famiglia e un impegno reale e serio per formarsi al suo spirito.

Noi sappiamo quanto il Fondatore insistesse su questo: è una nota che traspare da tutto il suo insegnamento. Basti qualche richiamo: «L’Istituto non è un collegio od un seminario in cui possano avere il loro svolgimento varie vocazioni; ma solamente quella di missionario, e questi della Consolata». «Dall’amore alla propria vocazione scaturisce spontaneo ed ugualmente forte l’amore al proprio Istituto. Stimarlo e amarlo più d’ogni altro; sentirsi santamente orgogliosi di appartenervi, di essere non solo missionari, ma Missionari della Consolata». «La forma che dovete prendere nell’Istituto è quella che il Signore mi ispirò e mi ispira».

Secondo il Fondatore, vi è amore per l’Istituto quando c’è impegno a formarsi al suo spirito: «Dovete avere lo spirito dei Missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole e nelle opere», diceva.

Il Capitolo, con sobrietà ha delineato il carisma del Fondatore e quello dell’Istituto: carisma missionario ecclesiale, carisma religioso in funzione della Missione, nonché le caratteristiche della nostra spiritualità, sintetizzate nella caratteristica eucaristica e in quella mariana. Si tratta di «uno stile di vita spirituale, robusta e lineare, ardente, aperta, straordinaria nell’ordinario».

Vorrei, ora, richiamare a tutti i confratelli alcune espressioni del nostro stile di Missionari della Consolata, secondo le attuali situazioni ed esigenze.

– La caratteristica eucaristica del Fondatore dà importanza alla preghiera di adorazione, privata o comunitaria, dell’Eucarestia: è un tratto, una finezza che merita di essere continuata, forse riscoperta da molti di noi.

– La caratteristica mariana, oltre la speciale devozione alla Santissima Vergine Consolata, nelle raccomandazioni del Fondatore e, secondo la sana tradizione dell’Istituto, confermata dal Capitolo, comporta l’amore e la recita quotidiana del S. Rosario.

– Il senso di dignità, educazione e decoro era amato dal Fondatore nella liturgia, nella chiesa, nella persona e nel comportamento. Su questo punto, il suo insegnamento era preciso ed esigente.

– Infine, desidero ricordare un tratto della personalità del Fondatore che egli ha desiderato trasmettere ai suoi figli. Egli fu uomo di azione, e questo appare anche dal suo insegnamento incentrato sempre sulla realtà, l’esperienza, l’autorità e l’esempio dei Santi.

Appartenne al gruppo di santi e zelanti sacerdoti torinesi che, alla fine del secolo scorso, contestarono la poco felice situazione religiosa e politica del tempo, non con discorsi ma con iniziative e opere di valore, di visione per il futuro della Chiesa e della società (così Don Bosco, Cottolengo, Cafasso, Murialdo, Albert, Faà di Bruno; così il nostro Fondatore).

Volle che i suoi missionari fossero decisi e costanti nell’azione, ma non amò il chiasso, la loquacità (la pubblicità, diciamo oggi, il sensazionale). Non è questa una contestazione valida e necessaria per l’Istituto anche oggi?

Termino con una frase del Fondatore che desidero applicare ai nostri morti del 1971: «Se un giorno lo spirito dell’Istituto avesse a venir meno, spero di farmi sentire dal Paradiso» (VS, p. 79).

Prendiamo questa affermazione, incoraggiante e nello stesso tempo grave, del Padre Fondatore come un invito alla vigilanza e all’impegno; ma, poiché parla di Paradiso, ritengo bene applicarla ai nostri Confratelli che ci hanno lasciato. Con dolore li abbiamo visti partire per l’eternità; con l’affetto e la preghiera, restiamo in comunione con loro che Dio ha chiamato, quasi in fretta, a ricevere il premio della loro fedeltà; il loro esempio ci sia d’ispirazione e incoraggiamento per perseverare nella vocazione e nella dedizione per la Missione.

Se da parte di tutti vi sarà l’impegno a riscoprire e realizzare questi valori, in cui si esprimono gli ideali della nostra vocazione, l’Istituto conoscerà un periodo di autentico rinnovamento. La vita delle nostre comunità creerà quella comunione di amicizia, di preghiera e di collaborazione fra i membri, che renderà possibile ai giovani e ai meno giovani o anziani comprendersi e completarsi nelle idee e nel lavoro.

Allora, la nostra Famiglia avrà la condizione e lo spazio spirituali perché possa aversi l’entusiasmo di cui essa ha oggi bisogno: l’entusiasmo dei giovani e l’entusiasmo per i giovani.

Mario Bianchi, Imc
(Superiore Generale /9/11/1971)

 




GHOUTA, SIRIA: CHIAMIAMO LE COSE CON IL LORO NOME. QUESTO E’ L’INIZIO DELLA PACE.

Lettera delle Sorelle Trappiste in Siria |


Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Lettera pubblicata su Avvenire
su CIVG (Centro di Iniziative per la Verità e la Giustizia)
e su Ora Pro Siria

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Ghouta, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Ghouta che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Ghouta dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Ghouta: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? Violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato)

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria..

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

Le sorelle Trappiste in Siria  – marzo 2018

Chi sono Le Monache Trappiste in Siria?

Da “Più forti dell’odio Visita alle monache trappiste in Siria”

“Da Tibhirine ad ‘Azeir. Dall’Algeria, passando per la Toscana alla Siria. Questo è l’itinerario che ha portato nel 2005 alcune trappiste dal Monastero di Valserena vicino Cecina a scegliere la Siria, una delle culle del monachesimo antico, per fondarvi un monastero di vita contemplativa. Nel 1996 c’era stato l’eccidio dei sette monaci trappisti a Tibhirine in Algeria, un fatto tragico verso religiosi innocenti che aveva colpito l’opinione pubblica mondiale. L’ordine cistercense nonostante l’efferatezza del delitto volle continuare l’esperienza in terra islamica e custodire l’eredità spirituale dei sette monaci. L’appello fu accolto dalle trappiste di Valserena, una comunità che avevo conosciuto e frequentato durante gli anni del Seminario e dove feci gli Esercizi spirituali prima della mia ordinazione sacerdotale nel giugno del 1984. Le monache, dopo una prima esperienza ad Aleppo scelsero di installarsi nel villaggio maronita di ‘Azeir fra Homs e Tartous al confine settentrionale tra Siria e Libano. Fino al marzo 2009, la Siria era stata una nazione fiorente e pacifica dove anche le varie componenti religiose convivevano tranquillamente. Anzi, negli anni terribili della guerra e dei massacri le differenze religiose non sono state mai un problema. In questa regione ci sono, uno accanto all’altro, villaggi cattolici maroniti, armeni, greco ortodossi, greco cattolici e villaggi mussulmani, sunniti e alawiti: la convivenza tra islamici e cristiani delle varie confessioni era normale, fatta di rispetto e dialogo sincero. Il regime di Assad aveva le sue rigidità e i suoi limiti, racconta madre Marta la priora, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza e si viveva tranquillamente.”

don Sandro Lusini

Per saperne di più sulle suore leggi anche l’articolo di Rodolfo Casadei, Un giorno nel monastero delle suore trappiste italiane in Siria.




Uomo, donna e robot

di Gigi Anataloni |


Siamo alla fine degli anni Sessanta a Tuuru, sulle colline vulcaniche che dal Monte Kenya scendono verso l’Oceano Indiano. Si sta costruendo un acquedotto per un centro di bambini poliomielitici. L’acqua è a 25 km di distanza, nella foresta dello Njambene. Arrivano fondi da donatori. Il progetto prevede l’acquisto di un grosso scavatore per accelerare i tempi. Ma l’uomo che è la mente e il cuore del progetto non è convinto. Si siede e fa due conti. Uno scavatore, una decina di operai, tre mesi di lavoro da una parte. Zappe e carriole, cento operai, tre anni di
lavoro dall’altra. Costo: invariato. Sceglie le zappe. Cento operai sono cento famiglie. E poi lo scavo fatto da un uomo con la zappa attraverso un campicello di mais è certo meno distruttivo di quello fatto con uno scavatore. Risultato? Dopo quasi cinquant’anni quell’acquedotto è ancora là e disseta quasi mezzo milione di persone e animali. Altri progetti coevi, fatti con «lo scavatore»,
sono da tempo spariti nel nulla, ingoiati dalla foresta.

La storia che vi ho raccontato non è nuova. Tante volte su questa rivista vi abbiamo parlato dell’acquedotto di Mukululu e di fratel Mukiri, Giuseppe Argese, il silenzioso.

Ho pensato a lui leggendo i numerosi articoli di giornali e riviste che di questi tempi informano entusiasti o, al contrario, suscitano paure a proposito dei robot e dell’intelligenza artificiale destinati a soppiantare il lavoro degli uomini. Come se a «rubarci il lavoro» non bastassero i «disperati» che provengono «da zone in cui il valore della vita umana è pressoché uguale a nulla» (come ha scritto un esimio professore). Ci si mettono pure i robot.

Davvero i robot? Non sono certo loro che decidono dove e come lavorare, in quali fabbriche, in quali settori, in quali aree. Il robot che gestisce in automatico gli acquisti e le vendite di azioni in borsa, non si attiva da solo, ma qualcuno ha scelto di usarlo così per guadagno, anche se rovina tantissimi altri. Il drone che sgancia la bomba su una festa di nozze in Afghanistan, è programmato e mandato da un uomo, non agisce autonomamente. Anche il fantastico robot che esegue operazioni chirurgiche di alta precisione, non agisce di sua iniziativa. L’algoritmo (oggi con «l’algoritmo» si spiega tutto!) che nei social controlla tutto e tutti alla faccia della privacy non si è creato da solo, ma è perfezionato da uomini controllati da altri uomini che in testa non hanno certo il bene-essere dell’umanità ma il denaro. È un caso che un gruppo ridottissimo di individui diventi sempre più ricco proprio mentre la maggioranza impoverisce? E non solo impoverisce, ma diventa sempre più litigiosa e spende sempre di più in muri e barriere e armamenti (che non portano maggiore pace e sicurezza, ma certo arricchiscono chi li produce e vende).

Non sono contro i robot e il progresso. Tutt’altro. Ma mi preoccupa l’erosione della libertà e il sempre maggior controllo che dobbiamo subire attraverso robot e programmi usati per condizionare la nostra vita. Vorrei poter usare la tecnologia, non essere usato attraverso di essa.

Come qualcuno ben più importante di me insegna, se al centro delle nostre scelte politiche, economiche e sociali non c’è l’uomo, la sua dignità e il suo bene-essere, rischiamo davvero di costruirci un mondo invivibile, sempre più diviso, ingiusto e meno umano.

Uomo al centro, come «adam», uomo e donna uniti.
In occasione dell’8 marzo si scrive e parla molto di «donna». Ed è bello e giusto che lo si faccia. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo di quelle donne che hanno il coraggio del «Metoo!». Oltre alle tante, troppe vittime della violenza di chi dice di amarle, non dimentichiamo le donne Rohingya, le Yazide, le madri siriane, le donne sudanesi, somale, nigeriane, congolesi, centrafricane e di tanti altri paesi. Non si chiudano gli occhi sulle donne, sempre più giovani, costrette a contendersi i nostri marciapiedi, a esibirsi sulle nostre spiagge, a illuminare le nostre strade; donne trafficate, vendute, sfruttate da mafie nostrane e internazionali. Donne oggetto, usate da gente perbene, da italianissimi padri di famiglia, lavoratori, impiegati e professionisti. Gli stessi italianissimi che con la bandiera tricolore sulle spalle sparano (o applaudono a chi spara) su presunti pushers e magnaccia di colore, i quali, quelli che lo sono davvero, esistono e prosperano perché italianissimi giovani e meno giovani cercano e consumano quanto essi vendono sfacciatamente.

Nel mondo si è fatto e si fa tanto per difendere, aiutare e promuovere le donne. Tanto rimane ancora da fare. Ma non basta pensare solo a loro. Gli uomini, i maschi intendo, che spesso sono la causa prima di violenze e abusi, hanno anche loro bisogno d’aiuto per ritrovare se stessi, la propria dignità, il proprio ruolo nella società, non separati o sopra le donne, ma insieme, come ci ha sognati il nostro Creatore che ha fatto dei due, insieme e inseparabili, la sua immagine.

Gigi Anataloni




Lettere dai lettori: cari missionari

Bombe italiane in Yemen

Riguardo agli ordigni prodotti in Sardegna, venduti all’Arabia Saudita e usati dalla coalizione a guida saudita per bombardare lo Yemen, il ministro Roberta Pinotti ha assicurato che l’Italia ha osservato scrupolosamente tutte le norme nazionali e internazionali in materia di produzione e vendita di armi. Io dico invece che la differenza tra un sistema democratico e una dittatura la fa anche la disponibilità ad ammettere i propri errori, la fa anche la voglia di chiedere scusa, la fa anche il desiderio di rimediare ai danni fatti, più o meno consapevolmente, più o meno legalmente.

Uberto Zumpanesi
31/12/2017

Gambo, Etiopia

Buongiorno, io e mio marito siamo appena tornati da un viaggio in Etiopia del Sud, dove abbiamo avuto l’opportunità di stare tre giorni alla missione di Lephis Forest, Ospedale di Gambo. È stata un’esperienza straordinaria, anche se non era la prima volta che visitavamo una missione africana. Vogliamo soprattutto ringraziare Abba Alvaro che, nonostante tutto il daffare che ha, ci ha dedicato il suo tempo prezioso per accompagnarci all’ospedale e alla fattoria. Anche i due volontari italiani presenti e l’infermiera Gabriella ci hanno fatto sentire a casa, ed è stato bello brindare all’anno nuovo alle 20,30 (prima che il generatore si spegnesse dato che il governo non è troppo attento ai bisogni della zona e la corrente è un optional). A breve invieremo una piccola offerta: ci sono tante spese, non guasterebbero dei pannelli solari e delle galline per la fattoria, utili per le uova che sono carissime e servono per nutrire i molti bambini del reparto di pediatria dell’ospedale! Ancora grazie e cari saluti.

Gianna Masoero  e Guido Porta
05/01/2018

Permacultura

Sono un vostro abbonato da anni e vi posso dire che la vostra rivista missionaria è una delle più interessanti che arrivano in casa. Ho letto sul numero di novembre l’articolo «Una prospettiva per guardare il futuro». Un articolo interessante i cui contenuti andrebbero giustamente diffusi in ogni comunità. Vorrei però fare un appunto, se mi permettete, non ho trovato nessun accenno alla nostra alimentazione (riduzione o eliminazione delle proteine animali) non solo per il nostro benessere ma per il benessere di tutti i fratelli del mondo e del pianeta Terra. Una proposta interessante nata negli anni Novanta è la campagna dei «Bilanci di Giustizia».

Il mio sogno da anni è che questi argomenti siano presi a cuore dalle nostre comunità cristiane e inseriti in un vero cammino di fede e di amore dei fratelli. Tanti saluti e buon lavoro.

Daniele Engaddi
10/01/2018

Abbiamo inoltrato l’email all’autrice dell’articolo che ha risposto subito.

Gentile Daniele,
in primis La ringraziamo per essere un fedele lettore e per aver mostrato interesse verso l’articolo incentrato sulla Permacultura. Proprio perché lo scritto, in particolare, verteva sulla progettazione, conservazione consapevole degli ecosistemi e su quelle tecniche agricole più rispettose degli equilibri degli habitat del pianeta, non abbiamo ritenuto opportuno aggiungere un argomento così vasto e complesso come quello dell’alimentazione.

Il rapporto tra tutela dell’ambiente e riduzione/eliminazione delle proteine animali è indubbio, ma questo sarebbe necessario approfondirlo in un altro articolo e uno solo non sarebbe nemmeno esaustivo. Ringraziandola ancora per la sua attenzione, porgiamo cordiali saluti.

Silvia C. Turrin
11/01/2018

Grazie

Caro padre,
non smetta di scrivere e punzecchiare le nostre anime! Io scrivessi come penso, sarei già radiato! Si vede che lei ha superiori più clementi. Tutta la vostra rivista è un dono per noi in questo tempo in cui «anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare».

Don Vincenzo F.
15/12/2017

A proposito di apparizioni e veggenti

Caro Direttore,
[…] nel numero di novembre 2017 avete ospitato la risposta di don Paolo Farinella ad una lettera pervenuta. Sono rimasto basito! È sicuramente degna di rispetto la posizione di don Paolo, ma che un sacerdote parli in questo modo delle apparizioni di Maria, beh, sinceramente fa male; credo che se il beato Giuseppe Allamano avesse visto questa «ospitata» non ne sarebbe rimasto affatto contento… […] Fa veramente male sentire parlare così da parte di sacerdoti delle apparizioni di Maria e mi ha fatto male vedere pubblicato sulla rivista questa posizione.

Benedetto N.
13/12/2017

Prima del sig. Benedetto anche un altro lettore aveva scritto sull’argomento, «sconsolato» dalla stessa risposta, chiedendomi di inviare a don Farinella la sua email (da non pubblicare) nella quale, a sostegno del suo pensiero, citava diversi passaggi dai Quaderni della mistica Maria Valtorta. Don Paolo ha risposto immediatamente con una email che ho inoltrato subito al lettore interessato.

Tenendo conto però dell’importanza dell’argomento, mi permetto di riportare qui la risposta di don Paolo, omettendo tutte le parti più personali. Le scritte tra parentesi quadre sono redazionali per rendere comprensibile il testo nei punti omessi o tagliati.

Ecco la risposta di Don Paolo Farinella.

[…] Rispondendo a una lettera di una lettrice [in MC 11/2017 p.6] scrivevo letteralmente: «Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni. […] Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli, solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: “Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes” non sarebbe meno cattolico di chi afferma di credervi». Questa è la posizione ufficiale e costante della Chiesa.

Lei [dissente dalla mia posizione e], per dare forza alla sua critica, cita un passo della Valtorta da «I Quaderni» del 1943, come se fosse «Parola di Dio».

Mi permetta di dirle sinceramente che mi cadono le braccia perché se siamo ancora alla Valtorta, significa che la Chiesa ha ancora un lungo cammino da fare sulla via della purificazione dall’idolatria. La Valtorta non dice nulla di diverso di tutte le altre pseudo e sedicenti apparizioni mariane, come fossero fotocopie e invano papa Francesco ripete, riguardo a Medjugorje, che «la Madonna non è una postina». Se siamo ancora a questo punto, è stato vano il concilio Vaticano II, a cui mi attengo scrupolosamente perché è il magistero più alto della Chiesa cattolica. I Padri conciliari hanno posto rimedio a una stortura teologica che poneva la Madonna al di sopra di Dio stesso anche pastoralmente (prima del concilio ogni domenica c’era una festa della Madonna, cui si sacrificava il senso dell’ottavo giorno in sé, memoriale della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore). Il concilio ha posto Cristo al centro della vita, della spiritualità, della preghiera, della liturgia, della morale, e ha ricollocato Maria al suo posto, quello splendidamente descritto da Dante: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», diversamente Maria non è la Madre di Gesù, ma un idolo separato perché più comodo da gestire, anche a livello sentimentale.

Quanto alla Valtorta […] sappia che, in questo modo, lei si pone fuori della Chiesa che ha condannato due volte quelle fantasiose e romanzate visioni definendole pericolose per la fede. Il 16 dicembre 1959, dall’allora Sant’Uffizio, i volumi usciti furono inseriti nell’«Indice dei libri proibiti» e il 6 gennaio 1960 «L’Osservatore Romano» li definì: «Una lunga prolissa vita romanzata di Gesù… Anzitutto il lettore viene colpito dalla lunghezza dei discorsi attribuiti a Gesù e alla Vergine SS.ma», e aggiunge che è tutto l’opposto dei Vangeli, dove regna la sobrietà.

Evidentemente la condanna ufficiale della Chiesa, quella cui la Madonna della Valtorta dice di ubbidire, ma alla quale la visionaria non ubbidì affatto, non bastò se il 31 gennaio 1985 il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Fede (ex Sant’Offizio), dovette dare la stroncatura definitiva.

Dopo avere ripreso e confermata la condanna del 1959, concluse: «Avendo poi alcuni ritenuta lecita la stampa e la diffusione dell’Opera in oggetto (Il Poema dell’Uomo Dio, ndr) … non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu presa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti (sottolineatura mia) … Joseph cardinale Ratzinger». La condanna si estende a tutti gli scritti della Valtorta. […]

Paolo Farinella
06/12/2017

A questo proposito, ricordo che quando iniziai a lavorare in questa rivista nei primi anni Ottanta, trovai in redazione un intero scaffale pieno di libroni di centinaia di pagine dai titoli come questi: «Lo Spirito Santo parla al cuore di…», «La Madonna ai suoi diletti figli», «Le rivelazioni di Gesù a…» e via dicendo. Ricordo di aver tirato fuori il Vangelo tascabile che portavo con me. La piccolezza di quel libricino – che pure aveva rivoluzionato il mondo – a confronto con quei volumoni era impressionante. Tenni il Vangelo. I libroni finirono nel container della carta per le missioni.

Da Roraima: fratel Carlo Zacquini

I mezzi di comunicazione mi permettono di mantenere con una certa regolarità contatti con molte persone. Mi considero molto fortunato di annoverare un numero piuttosto grande di veri amici che si interessano sovente della mia salute e delle mie attività, e in modo speciale poi degli Yanomami e dei popoli indigeni nel Brasile.

Mi sento un po’ incapace di alimentare – come sarebbe mio dovere – questa catena di persone che sempre si chiedono e mi chiedono se possono fare qualcosa per le finalità a cui mi dedico. Come è difficile poter rispondere con chiarezza; come è difficile fare chiarezza anche dentro di me su quel che sarebbe meglio fare!

Ho l’impressione che in questi ultimi tempi l’attività principale che svolgo stia prendendo una bella piega. In un modo o nell’altro, al momento siamo già in quattro persone fisse a lavorare al Centro di Documentazione Indigena (Cdi). Sembrano molte, ma … pur volendo dedicarci esclusivamente a questo lavoro, per ora siamo lontani dal riuscirci.

Certamente non è per mancanza di lavoro! Ultimamente abbiamo dovuto fare una pausa nelle attività più importanti, non perché stiamo prendendola alla leggera, ma, come sovente capita da queste parti, per le difficoltà e gli imprevisti che ci obbligano a ridurre la velocità dei nostri passi.

Abbiamo sempre più materiale importante che non ci sta nell’attuale edificio che ospita il Cdi. Ci è stato offerto altro materiale da varie parti per arricchire la nostra documentazione. Questo vuol dire che altre persone e enti hanno notato l’importanza del Cdi, e stanno dando credito alle nostre intenzioni e iniziative. Alcuni ci suggeriscono anche di guardare avanti con fiducia e ottimismo, includendo anche altre attività che per ora non sono previste. Io credo che dovremo andare avanti con prudenza, ma anche con fiducia nella Provvidenza. Essa ci farà vedere al tempo giusto come proseguire.

Certamente non sarà mai facile competere con gli avversari dei popoli indigeni; né possiamo illuderci di trasformare i popoli indigeni in società perfettamente adattate a resistere a tutti gli attacchi mossi contro di loro. Sta a noi tutti fare la nostra parte, e dare a loro i mezzi migliori per farsi le ossa!

La situazione attuale di invasione della Terra Indigena Yanomami da parte dei cercatori d’oro è veramente brutta. Si parla di varie migliaia di invasori che portano con sé violenza, droghe, corruzione di minorenni, contaminazione col mercurio, trasmissione di malattie veneree, impunità! Il villaggio degli indigeni isolati è accerchiato ormai da almeno tre gruppi di garimpeiros che hanno già sparato almeno a uno di essi.

Guardando un po’ oltre, è palese lo sfacelo della giustizia a tutti i livelli; e gli esempi più sconvolgenti vengono dalle più alte autorità del paese. Oltre 60mila morti violente in un anno; caos nei servizi pubblici (sanità, scuola, prigioni, …).

Nel nostro piccolo, nella discarica di immondizie della città di Boa Vista, a metà ottobre, sono stati trovati più di cento bambini che vi lavoravano, cibandosi anche di rifiuti.

Adesso la discarica è controllata. Ma durerà?

Con l’afflusso di decine di migliaia di venezuelani (si parla di settantamila, tra cui un buon numero di indigeni Warao e altri) che fuggono dalla violenza, dalla miseria e dalla fame vera e propria, si accentua la situazione di caos negli ospedali, negli ambulatori medici, nelle scuole, col contrabbando, nelle prigioni, …

Pare che anche la natura voglia collaborare al caos; recentemente ci sono già stati almeno 60 casi di bagnanti aggrediti da piranha nelle spiagge del rio Branco, a Boa Vista. Alcuni esperti hanno suggerito che la causa potrebbe essere l’inquinamento delle acque.

Guardandoci attorno si ha l’impressione che si voglia distruggere il pianeta per favorire una piccola minoranza.

Le statistiche dicono che gli otto «uomini» più ricchi del mondo sono padroni di ricchezze maggiori di quelle della metà degli uomini, e 800 milioni di esseri umani fanno la fame.

In Brasile si producono enormi quantità di cibo (granaglie, carne, caffè, frutta, vini) usando con abbondanza diserbanti tossici proibiti in Europa (Combate Racismo Ambiental, 28 nov. 2017). Buona parte di questi cibi va a finire sulle vostre tavole. Tempo fa, ho suggerito che si organizzasse un boicottaggio ai prodotti alimentari provenienti dal Brasile. Chi non lo ha fatto, probabilmente si è alimentato con pericolosi veleni.

Le mie e le nostre speranze sono rafforzate dalla vostra indefessa attività in favore dei popoli indigeni e di altri dimenticati dagli uomini. Con affetto e riconoscenza,

Fratel Carlo Zacquini
da Boa Vista, Roraima, Brasile, 07/12/2017

Le 99 pecore

Carissimo Direttore,
nel riprendere in mano il n.10 del mese di ottobre, ho letto la lettera di Andrea Sari e la sua risposta in un giorno non penso casuale (martedì 12 dicembre). Nel commentare le letture del giorno  (il Vangelo di Matteo 18,12-14 che ricorda il pastore che lascia le 99 pecore per cercare quella perduta), il nostro curato ci ha lasciato questo bel pensiero: «Il Signore non è che abbandona le 99 pecore per cercare quella perduta perché sa che il gregge non si allontanerà dal posto dove le ha lasciate. Le 99 sono consapevoli di essere al sicuro e non vanno in cerca di pericoli, mentre quella perduta non era cosciente dei pericoli che poteva incontrare abbandonando il gregge». Ecco, con questo spirito don Luciano ci ha invitati a «sentirci vicino il Signore» anche quando sembra che si allontani per ricercare la pecorella smarrita. Penso che senza tanti lunghi ragionamenti valga l’invito del nostro curato di «vivere con serenità il nostro rapporto con il Signore in ogni momento della giornata» anche quando il Signore si allontana.

Pino Candiani
parrocchia di Loreto,  Bergamo, 12/12/2017

 




Niger, frontiera d’Europa

Testi e foto di Marco Bello |


Per la sua posizione strategica il Niger è diventato il principale paese di passaggio di ogni traffico illecito, in particolare quello dei migranti. Oggi chi non è riuscito a traversare il Mediterraneo – e non è morto – fugge dalle persecuzioni dei libici, e tenta la via del ritorno. Ma spesso si trova bloccato a metà strada senza soldi. Qui l’Unione europea vorrebbe fermare il flusso di gente verso Nord. E per farlo utilizza soldi ed eserciti.

Niamey. La città di sabbia con le sue case basse color ocra pare sempre uguale. Tranquilla e lontana dalla frenesia di molte metropoli africane, più che una capitale di uno stato potrebbe essere un grande villaggio. Ogni tanto nei quartieri si incrocia un cammello che procede dondolando dietro al suo padrone inturbantato. Eppure qualche novità c’è. Negli ultimi anni il traffico automobilistico è aumentato notevolmente, e questo nonostante siano stati costruiti due svincoli stradali, uno dei quali sulla centralissima rotonda che dà accesso al ponte Kennedy, quello storico dei due che collegano le due sponde del fiume Niger. Il più recente è stato realizzato dai cinesi – grandi amici del Niger – nel 2011 e un terzo è in previsione, sempre ad opera dei cinesi, per quest’anno.

Ma le novità sono anche altre, meno visibili.

Ci avviciniamo al centrale Rond-point de la Liberté (rotonda della libertà), nei pressi del Grand marché, il mercato principale della capitale. Qui abbiamo l’appuntamento con Cheick Ahmed Touré, che si presenta come agente consolare della Guinea Conakry in Niger. Il signor Touré, guineano, ha già una certa età e ha passato gli ultimi 40 anni della sua vita in questo paese. Pacato e gentile, indossa una giacca grigia che gli conferisce una certa autorevolezza. Il suo sguardo sereno ci scruta da dietro le lenti di vistosi occhiali.

Oramai da alcuni anni Touré è diventato il punto di riferimento dei migranti guineani, ma anche senegalesi, ivoriani, maliani in transito per la capitale nigerina. In maniera totalmente volontaria e gratuita, Touré si è organizzato per aiutare in tutti i modi possibili questi giovani, oggi in fuga dalla Libia, ieri in viaggio verso quel paese.

Il nostro uomo ci aspetta per portarci in uno dei tre «Foyer» (o centri) nei quali accoglie migranti di passaggio. Lo seguiamo. Dietro al rond-point imbocca una stradina, quasi un vicolo. Ci fa parcheggiare. A piedi ci conduce in un viottolo tra case in banco (pronuncia bancò: fango e paglia essiccato al sole, materiale di costruzione tradizionale, molto usato in ambito rurale e ancora, talvolta, nel centro della capitale). Accediamo a un cortile che sembra quello di un quartiere periferico o di un villaggio: terra battuta, frammenti di muri in fango scrostati, qualche panca di legno grezzo, un via vai di persone.

Qui siamo subito circondati da alcuni giovani che ci squadrano con sguardi tra il curioso e l’ostile. Ma noi siamo con «ton ton», lo zio, come i ragazzi chiamano Touré, l’appellativo che da queste parti è assegnato a persone più anziane, di cui si ha grande rispetto.

Centro Liberté (libertà)

I giovani del centro hanno storie terribili. Qualcuno accetta di raccontarle. «Avevo dei soldi della mia famiglia, ma ho perso tutto nel tentativo di andare in Europa, senza riuscire ad arrivarci. Ora sono a Niamey da due anni». Chi parla è Mohammed, 37 anni, di Faranah, in Guinea Conakry. «Qui mi arrangio, faccio il parrucchiere per guadagnare qualcosa. Sono il responsabile di questo Centro. Se in giro vedo un migrante sperduto, lo avvicino e gli chiedo se vuole venire a Liberté. In questo momento siamo circa 28. Al mattino usciamo tutti alla ricerca di qualche lavoretto. C’è qualcuno che sa fare un mestiere. Poi ci ritroviamo qui al pomeriggio, condividiamo qualche soldo per comprarci del riso da cucinare insieme e mettiamo da parte una quota per pagare l’affitto di questo posto».

Mohammed, occhiali da sole e faccia furba, parla un francese di base, ma sciolto, gesticola e ha un  modo di fare spigliato, di chi è a proprio agio. Ha tentato due volte di andare in Libia. La prima volta ha raggiunto il Sudan, ma in Ciad si è procurato una pallottola che gli ha trapassato il torace, senza ledere organi vitali. Ci mostra le due cicatrici (entrata e uscita) e dice che sono stati quelli di Boko Haram, la setta terrorista molto attiva nella regione del lago Ciad (Sud Est del Niger). Ma non spiega le circostanze. È stato operato a Ndjamena, capitale del Ciad, dove un connazionale lo ha aiutato economicamente. «Mi sono scoraggiato e ho deciso di tornare verso casa, ma preferisco guadagnare qualche soldo qui e non rientrare a mani vuote».

Circondati da giovani in piedi che ci scrutano, siamo seduti su una panca di legno, perché in Africa gli ospiti sono sacri. Il signor Touré ci racconta: «Cerco di assistere i miei compatrioti ma anche altre persone della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, ndr) in difficoltà. Li indirizzo subito verso uno dei tre centri di accoglienza che seguo, dove oggi ci sono un totale di oltre 70 persone. Quando ho qualche soldo lo do loro per le prime necessità. Inoltre cerco di metterli in contatto con associazioni e Ong internazionali. Ad esempio ho portato qui la Croce rossa danese, che ha fornito loro medicine, e ci ha promesso un aiuto in cibo e soldi per l’affitto.

Chi vuole rientrare nel proprio paese lo accompagno all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Ma alla gente non piace il loro sistema, perché l’agenzia (dell’Onu, ndr) organizza dei bus per riportarli nei propri paesi, dando loro solo 60.000 franchi (circa 91 euro, ndr), che è una miseria rispetto a quanto hanno speso per tentare la traversata, e pure una cifra insignificante per iniziare una nuova attività economica.

Per quelli che restano nei centri, verifico chi sa svolgere un mestiere e cerco di indirizzarlo in uno dei vari cantieri della città».

Niger, caput mundi

Il Niger, paese sconosciuto in Europa fino a qualche anno fa, è oggi balzato alla ribalta delle cronache a causa di due elementi chiave: è diventato uno dei principali paesi di passaggio, e traffico, di migranti dagli stati subsahariani verso la Libia, da dove si tenta il salto verso l’Italia; è centrale nella lotta al terrorismo jihadista in Africa (vedi box).

Solo i francesi lo conoscono da tempo perché, oltre ad averlo colonizzato, fin dall’indipendenza (1960) sfruttano i suoi giacimenti di uranio (di cui è terzo produttore al mondo), indispensabile per le centrali termonucleari che producono oltre il 72% dell’elettricità transalpina.

Il Niger è come un imbuto dove si incrociano due flussi migratori principali. Quello dall’Ovest (Senegal, Mali, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, ecc.) in passaggio da Niamey, e quello dal Sud (Nigeria, Camerun, Centrafrica, ecc.) di passaggio da Zinder o altre località. I due flussi si incontrano ad Agadez, ultima città nel deserto, dove poi i migranti si dividono tra chi passa in Algeria a Tamanrasset per entrare in Libia da Est e chi passa da Dirkou e Madaua ed entra in Libia dalla frontiera Sud (vedi cartina). Per questo il Niger è diventato il primo paese a Sud del Sahara, dove i governi europei, Italia compresa, vogliono stabilire una nuova frontiera per bloccare gli africani. L’Italia sta investendo nel paese, con l’invio, per la prima volta nella storia, di un ambasciatore (Marco Prencipe) nel 2017 e l’inaugurazione della nuova ambasciata, avvenuta lo scorso 3 gennaio con l’intervento del ministro degli Esteri Angelino Alfano in persona. È del gennaio di quest’anno l’approvazione in parlamento dell’invio di militari italiani in Niger, ufficialmente per la lotta alla migrazione clandestina e al terrorismo (vedi box qui sopra).

Proprio per il contrasto ai flussi migratori, il Niger ha firmato degli accordi con l’Unione europea alla Valletta (novembre 2014), grazie ai quali il paese riceve dei finanziamenti. Così nel 2015 l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Niger ha votato una legge (la 36 del 2015) che, entrata in vigore a fine 2016, ha reso illecita qualsiasi attività connessa con la migrazione. Tale legislazione prevede anche un grande dispiego di forze militari e di polizia per il controllo delle frontiere, delle città e delle direttrici di transito dei migranti.

Chiediamo al signor Touré conferma degli effetti della legge: «Ci sono ancora migranti che tentano di andare in Libia, ma sono rari, perché c’è una politica di contenimento, per cui fin dalla frontiera si impedisce loro di entrare in Niger. Prima (della legge, ndr) qui era pieno di migranti sugli autobus di linea delle tre principali compagnie che viaggiano nel Nord. Stavano a Niamey anche una o due settimane, il tempo necessario per ricevere i soldi dalle famiglie e continuare il viaggio, oppure che i passeur (coloro che organizzano i viaggi, o trafficanti) si organizzassero per farli partire. Ora è diventato tutto clandestino, perché sanno di essere ricercati. Prima non si nascondevano».

Migranti di ritorno

Un altro aspetto che ha fatto invertire il flusso, ovvero non solo ridurre quello di andata verso Nord, ma incrementare quello verso Sud dei cosiddetti «migranti di ritorno», è il cambiamento del trattamento che i libici, le varie milizie, riservano da qualche anno ai migranti subsahariani.

«Sono partito per la Libia due volte». Ci racconta Alì Diubate, un ragazzone di 32 anni, di Kankan, Guinea, incontrato al Centro Liberté. «La prima è stata il mese di gennaio 2017. Mi hanno preso molti soldi sulla strada. Sono passato da Agadez e Arlit in Niger, poi da Tamanrasset in Algeria. Lì abbiamo preso una macchina 4×4 per la Libia. I passeur ci hanno messi in un foyer, un posto dove ci hanno chiesto i soldi. Siamo poi passati in un altro foyer, stesso sistema. Appena siamo arrivati a Tripoli ci hanno rinchiusi. Ci hanno legati e torturati, dicendo di chiamare i famigliari, altrimenti ci avrebbero uccisi. Mi hanno fatto un video con il mio cellulare mentre mi maltrattavano e mi hanno imposto di metterlo su Facebook, affinché lo vedessero parenti e amici, per chiedere loro un riscatto. La famiglia ha mandato 3.500 euro che i carcerieri si sono spartiti e poi mi hanno liberato. Sono arrivato al porto, dove si parte con i barconi, ma lì era anche peggio. Hanno preso tutti i soldi che mi erano rimasti. Con altri siamo stati obbligati a fare i lavori forzati. Poi ho deciso di ritornare, sono fuggito e sono arrivato qui a Niamey. Dopo quattro mesi sono ripartito, sono tornato a Tripoli, ma è stato di nuovo terribile». Alì ci mostra dei vistosi segni sulle braccia, le cicatrici prodotte dalle torture. «Ho fatto altre due settimane nella loro prigione, ma sono riuscito a scappare e sono tornato qui».

Alì vive al Centro Liberté da due mesi e lamenta che mancano i soldi per pagare l’affitto del tugurio dove ci troviamo, che però è il solo riparo per lui e i suoi compagni. «Se andassi all’Oim mi aiuterebbero a raggiungere Conakry (capitale della Guinea). Ma io sono il primogenito della mia famiglia, ho preso tutta l’eredità e l’ho persa. Due volte. Ho tre sorelle e due fratelli più piccoli. Quando ero in prigione, l’ultima volta, mi hanno mandato ancora dei soldi. Hanno venduto le vacche, il terreno della casa, per farmi liberare. Tutto è perso. Devo riuscire a mettere qualcosa da parte prima di tornare e ricominciare un’attività in Guinea».

I migranti di ritorno si ritrovano nella capitale nigerina, che è la prima grossa città sul loro percorso di ripiego. Sono fuggiti dalle persecuzioni e dalle torture dei libici, ma hanno impoverito le loro famiglie di origine. I più, invece di rientrare a casa, restano bloccati in questo paese, uno dei più poveri del mondo, alla ricerca di qualche lavoro, che difficilmente permetterà loro di mettere da parte le cifre che hanno dissipato per pagarsi il viaggio.

Se vuoi tornare a casa

L’ufficio dell’Oim di Niamey, vista la sua posizione strategica, ha acquisito negli ultimi anni sempre più importanza e ottenuto fondi. Una giovane funzionaria italiana ci racconta: «A partire dal 2016 sono cresciute le domande di assistenza per il ritorno, mentre prima c’erano molti passaggi per andare verso Nord. Adesso vediamo una frammentazione delle rotte, perché quelle principali sono presidiate dalle forze dell’ordine. I passeur hanno continuato in modo nascosto creando nuove rotte secondarie, evitando i centri e talvolta anche i pozzi nei deserti».

L’Oim Niger può contare su cinque centri di transito, ad Arlit, Dirkou, Agadez nel Nord e due a Niamey, dove se ne sta aprendo un terzo. Qui, chi chiede assistenza all’Oim, viene identificato, rifocillato, aiutato psicologicamente e attende di essere rimpatriato con un mezzo dell’agenzia. I casi vulnerabili, come i minori o donne con particolari problemi, e le persone dei paesi più lontani, sono rimpatriati in aereo. «Nei centri la maggior parte sono migranti di ritorno, ma ci sono anche quelli che, in viaggio verso Nord, decidono di non proseguire», continua la funzionaria.

L’Oim fornisce anche sostegno al governo del Niger, come formazione e fornitura di attrezzature alle autorità consolari.

Capita, al signor Touré, di entrare in contatto con giovani subsahariani che stanno tentando l’avventura verso la Libia. L’anziano agente consolare cerca di dissuaderli: «Quando li incontriamo li portiamo in questi centri e li facciamo parlare con quelli che hanno subito sevizie e torture (in Libia, ndr) in modo che si scoraggino nel continuare. Molti dicono: “Dobbiamo partire, preferiamo morire nel deserto che morire a casa nella miseria”. Una volta è venuto qui l’ambasciatore della Guinea e l’ho portato a incontrare i migranti. Uno di loro era originario dello stesso villaggio dell’ambasciatore. Lui ha cercato di convincerlo, gli avrebbe pagato un volo per tornare a casa, ma l’altro continuava dicendo che era partito con l’intenzione di riuscire. Abbiamo fatto di tutto, ma il ragazzo è partito. Tre mesi dopo mi hanno chiamato per dirmi che era morto. Nel suo gruppo erano sei, tre di loro hanno accettato che pagassimo loro il bus e sono ritornati al paese. Ogni tanto mi chiamano per dirmi che stanno bene, hanno dei piccoli progetti e si sono reintegrati. Come uno che ha realizzato un pollaio e la cosa funziona per lui».

Chi vende chi

Boubacar Oullaré è appena arrivato al Centro Liberté. Ha 28 anni e parla un ottimo francese. Ci dice di essere laureato in giurisprudenza. Aveva un grande sogno, quello di arrivare in Europa. A casa, in Guinea, ha lasciato una moglie e due figli piccoli. Ci spiega i meccanismi del viaggio: «La transazione passa prima attraverso passeur africani (qui l’intervistato intende i subsahariani, ovvero africani di carnagione scura, ndr). Con loro si fa Agadez, Arlit, Tamanrasset. Questi ti vendono ai Tuareg. Da Tamanrasset a Djanet, che è la frontiera tra Algeria e Libia, ti portano i Tuareg, che poi ti vendono ai Tubu (toubou) della Libia. Essi ti portano fino a Tripoli. Qui ti mettono in un foyer, dove chiedono delle somme ai tuoi genitori, per farti traversare oppure per liberarti. Si tratta in realtà di prigioni clandestine, non hai libertà, e ti propongono con la forza degli affari loschi che non puoi rifiutare. Se paghi la somma richiesta ti portano sulla costa. Qui ti prendono tutto, i tuoi abiti, anche la cintura, perché si viaggia su gommoni, e non si vuole rischiare di forarli. Si parte, ma ci sono spesso battelli che si rovesciano nell’acqua. In questo caso, se ti recuperano le navi internazionali sei salvo, perché ti portano in Italia. Se invece sei in acque libiche ritorni in Libia. Noi non abbiamo avuto fortuna – dice con un’enorme delusione sul volto -. Siamo naufragati in acque libiche. Tornati sulla costa avevo speso tutti i soldi. Ho dovuto di nuovo chiamare i miei genitori affinché mi aiutassero. Per questo motivo in Guinea non abbiamo più nulla. Tutti i beni di famiglia sono andati in fumo».

E conclude sconsolato: «Io adesso ho vergogna di presentarmi al mio paese, sono partito e ho preso una somma colossale per il viaggio. Tutto è perso. Siamo qui, e la nostra unica speranza è in Dio».

Lasciando il Centro Liberté i ragazzi, inizialmente ostili, sembrano patire il distacco con questi visitatori stranieri che, in qualche modo, rappresentano la loro terra promessa. Qualcuno di loro parla ad alta voce nella propria lingua, qualcun altro ci dà la mano e ci guarda negli occhi tristemente, sembra dire: «Italiano, domani tornerai in Europa in poche ore con l’aereo. Io ci ho provato e ho perso tutto. Ho rischiato pure la vita. Ti prego, non lasciarmi qui».

Marco Bello

Aqmi, Isis nel Sahara e Boko Haram

Nella morsa jihadista

Il Niger ha un ruolo centrale nella lotta al terrorismo in Africa Occidentale. È in guerra da anni con diversi gruppi armati, appoggiato da eserciti stranieri che ne approfittano per tenere un piede sul suo territorio.

Il Niger è anche al centro della geopolitica della guerra contro i jihadisti. A Nord e Nord Ovest si confronta con le formazioni terroristiche del Sahara e Sahel. Sono i gruppi come Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e Stato Islamico nel Grande Sahara, una realtà costituita da una galassia di gruppi armati che ora si alleano, ora si combattono e imperversano in Mali e in Burkina Faso. In Mali dal 2012 è in corso una guerra, in cui sono intervenuti l’esercito francese, quello tedesco (con la sua più grande missione militare all’estero) e la Missione delle Nazioni Unite Minusma (13.000 uomini di 26 nazionalità), oltre alle Forze armate maliane (cfr. MC giugno 2017).

In Niger questi gruppi compiono attacchi sporadici, a volte anche incisivi – l’ultimo di rilievo risale al 4 ottobre 2017, quando morirono 5 soldati nigerini e 3 statunitensi -, ma non presidiano alcuna area specifica. Il governo di Mahamadou Issoufou, al potere dal 2011, e rieletto nel 2016, ha infatti sempre avuto un buon controllo del vasto territorio nigerino.

L’altro nemico è a Sud Est, dove la setta fondamentalista Boko Haram impegna sul campo di battaglia diversi eserciti nell’area delle quattro frontiere del lago Ciad. Qui Niger, Ciad, Nigeria e Camerun sono riuniti nella Forza multinazionale mista. In questo contesto intervengono anche i francesi e i droni statunitensi (cfr. MC ottobre 2016 e dicembre 2015) in partenza dalla base franco-statunitense nei pressi dell’aeroporto di Niamey, dove anche l’esercito tedesco sta costruendo la propria base. In tre anni di guerra aperta contro Boko Haram sono centinaia le vittime nigerine (civili e militari) e migliaia gli sfollati nella regione di Diffa. Lo scorso 17 gennaio c’è stato un attacco a una base militare nigerina a Toumour nei pressi di Diffa con almeno 7 morti, al quale sono seguiti bombardamenti aerei della forza multinazionale. Circa un mese prima, fonti militari confermavano l’uccisione di 387 presunti integralisti da parte delle forze armate con l’appoggio dei droni (questi solo recentemente sono stati armati). Il 2 luglio, invece, il villaggio Nguelewa, sempre nei pressi del lago Ciad, era stato attaccato: nove abitanti uccisi e 39 donne e bambini presi in ostaggio. Il primo rapimento di massa nel paese.

Il Niger fa anche parte della coalizione militare G5 Sahel con Mauritania, Mali, Burkina Faso e Ciad per combattere i gruppi jihadisti presenti nella regione. Forza che opera in stretta collaborazione con l’operazione Brakhane (4.000 militari francesi con mezzi, dispiegati nei paesi saheliani contro i jihadisti dal 2014). I governi hanno deciso la creazione di un fondo fiduciario per i finanziamenti necessari a operare, circa 423 milioni di euro per il primo anno. A marzo la forza dovrebbe diventare operativa sul terreno lanciando l’operazione Pagnali, come definito dall’incontro di Parigi, tra i 5 ministri della Difesa africani e quello francese, Florence Parly.

Marco Bello

 

Militari italiani in Niger: addestrare o occupare?

Operazione «scarponi» nella sabbia

Anche l’Italia si appresta a inviare militari e mezzi in Niger. L’ottica è quella di bloccare i migranti in Africa, ma con i numeri previsti è impossibile controllare le frontiere. Mentre i costi rischiano di lievitare.

Il parlamento italiano ha approvato nel gennaio scorso la missione militare in Niger (contestata dal mondo missionario italiano, ndr). Nell’arco di sei mesi, nel paese saheliano potrebbe essere schierato un contingente di 470 uomini. Quale sarà il suo compito? Il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore della Difesa, ha affermato che non sarà una missione di combattimento. I nostri militari dovranno «addestrare i militari nigerini per renderli capaci di contrastare efficacemente il traffico di migranti e il terrorismo». «In realtà – afferma Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa -, la missione partirà in sordina con lo schieramento di 120 uomini che saranno impiegati per la costruzione di una base logistica a Niamey e per compiti addestrativi. Sarà poi il governo che uscirà dalle elezioni di marzo a decidere se mantenere la missione in questo assetto o ampliarla, affidandole anche i compiti di controllo della frontiera con la Libia dalla quale passano i traffici di uomini, droga, sigarette, ecc.». Indiscrezioni parlano dell’invio dei nostri militari a Madama, in mezzo al Sahara, al confine libico, postazione attualmente occupata da truppe francesi.

Facendo un passo indietro, da dove nasce l’esigenza di questa missione? «La missione – prosegue Gaiani – vuole rispondere alle richieste del Niger di avere un supporto nel contenimento del fenomeno dell’immigrazione. Non è un’esigenza nuova. Nel 2014 ero in Niger e l’allora ministro degli Esteri, oggi ministro dell’Interno, Mohammed Bazoum mi disse: “Con l’Italia c’è un rapporto storico, perché Roma non ci aiuta, formando i nostri uomini e fornendoci i mezzi, per contenere l’immigrazione bloccandone le rotte?”. Nel 2014 però, l’Italia era impegnata nell’operazione Mare Nostrum e non era interessata a inviare uomini in Niger. Oggi le condizioni di politica interna ed estera in Italia sono cambiate e c’è un rinnovato interesse da parte di Roma nel contenere l’immigrazione direttamente in Africa. Il Niger diventa quindi la prima linea sulla quale combattere il traffico di esseri umani, ma non solo».

Il 27 settembre 2017, Niamey e Roma hanno firmato un’intesa che prevede aiuti per 50 milioni di euro e l’invio immediato di 120 uomini. «Da giugno – osserva Gaiani -, la missione potrebbe crescere ulteriormente. Sarà il nuovo governo a stabilire se mantenere un contingente ridotto oppure se aumentarlo e quali missioni affidargli. A mio parere, se la missione sarà quella di controllare i confini tra Niger e Libia, 470 uomini potrebbero essere pochi per presidiare un’area così vasta. I militari sul terreno dovrebbero infatti avere il supporto di elicotteri, droni, mezzi di terra, apparati elettronici, ecc. Ciò aumenterebbe il costo della missione e lo sforzo logistico e operativo delle nostre forze armate».

In Niger gli italiani collaboreranno con altri contingenti? «I militari italiani – conclude Gaiani – lavoreranno insieme alle forze armate francesi che sono impegnate in Niger nella lotta al terrorismo. La presenza di soldati italiani, insieme a quella di militari tedeschi e spagnoli, permetterà a Parigi di ridurre il proprio contingente (e quindi di contenere le spese in bilancio) ma, allo stesso tempo, la Francia avrà la possibilità di mantenere una forte presenza nell’area».

Enrico Casale




Crateús, dove Dio è donna

Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |


Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús

«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.

All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.

Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.

Teologia incarnata

Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.

Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.

Puntare sui giovani

La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.

Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.

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Il business della siccità

La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».

Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».

La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».

Pescatori su un laghetto nei dintorni di Crateús

La salvezza è donna

Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.

La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».

Stefania Garini

suor Francisca Erbenia de Sousa su uno dei laghetti attorno a Crateús


La filosofia del Bem Viver

Anche oggi si può essere felici

Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.

«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.

Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».

Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».

S.G.


La lettura femminista della Bibbia

Chi decide la storia

Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.

Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».

Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.

Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».

Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».

S.G.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús




A 50 anni dal primo trapianto di cuore

Sudafrica | testi di Ernesto Bodini |


Da sempre l’idea del trapianto affascina l’umanità. Nel 1967 un cardiochirurgo del Sudafrica riuscì nell’intento di trapiantare addirittura il cuore. Riviviamo la storia di un evento che entusiasmò il mondo.

«Le opere meravigliose di Cosma e Damiano», quadro anonimo del 1515 conservato nel Landesmuseum Württemberg di Stoccarda in Germania. | Cosma e Damiano erano fratelli gemelli, nati a Costantinopoli nel III sec. Si dedicarono alla cura dei malati dopo aver studiato l’arte medica in Siria. Furono dei medici speciali, poiché prestarono la loro opera gratuitamente, e per questo erano noti come medici anargiri (anárgyroi – dal greco ana argiria, senza argento, senza denaro). Furono martirizzati pare sotto l’impero di Diocleziano intorno al 303. Il culto di Cosma e Damiano è attestato con certezza fin dal V secolo.

I trapianti di parti del corpo umano da un individuo all’altro affascinano l’uomo da tempo immemorabile. Assai noto, ad esempio, è un dipinto del XVI sec. che raffigura la storia di un presunto miracolo operato dai due santi e fratelli Cosma e Damiano (medici anargiri del III secolo che visitavano e curavano i malati senza farsi pagare, ndr) i quali, secondo la tradizione, presero una gamba sana da un etiope deceduto e la posero al posto di una gamba affetta da cancrena di un uomo bianco.

Non sorprende quindi che l’evoluzione della medicina moderna sia stata accompagnata da continui tentativi di trapianto, che hanno evidenziato al tempo stesso le difficoltà operative e i limiti delle conoscenze biologiche alla base delle tecniche impiegate, soprattutto nell’ambito della cardiochirurgia. Nel suo libro del 1896 sulla chirurgia, il chirurgo inglese Stephen Paget (1855-1926) scriveva: «La chirurgia del cuore ha probabilmente raggiunto il limite impostato per natura a tutti gli interventi chirurgici; nessun nuovo metodo e nessuna nuova scoperta possono superare le difficoltà naturali che attendono una ferita del cuore».

Una tappa fondamentale nella trapiantologia si è raggiunta nel 1967, quando il cardiochirurgo sudafricano Christiaan N. Barnard (1922-2001), suo fratello Marius (1927-2014) e uno staff di 30 operatori tra medici, infermieri e perfusionisti all’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, effettuarono il primo trapianto cardiaco al mondo. Un mondo che subito si chiese chi fosse questo chirurgo anonimo, divenuto in poco tempo un idolo, adorato ovunque.

Christiaan Neethling Barnard nacque in uno dei sobborghi più poveri di Johannesburg, secondo di quattro fratelli (il padre, Adam, era un pastore della comunità bianca). Dopo la laurea in medicina nel 1946 e un tirocinio di tre anni al Groote Schuur, fece pratica come medico di famiglia dal 1948 al 1951, per poi trasferirsi negli Usa dove conseguì la specialità in chirurgia generale con il prof. Owen H. Wangensteen (1898-1981), ottenendo il riconoscimento di un livello superiore e un dottorato di ricerca per esercitare in Sudafrica. Il prof. Wangensteen gli fece avere una borsa di studio e una macchina cuore-polmone che permise a Barnard di portare la chirurgia di by pass cardiopolmonare a Città del Capo, dove tornò nel 1954 per far parte del Dipartimento di chirurgia come aiuto. Da quel momento in poi si dedicò alla chirurgia sperimentale intervenendo su cavie (prevalentemente cani), quale presupposto per agire poi sull’uomo, grazie alla tecnica acquisita da due cardiochirurghi americani della Stanford University, Norman Shumway (1923-2006) e Richard Lower (1929-2008) che Barnard visitò nel 1966.

Dai suoi esperimenti si convinse sempre di più che, nonostante la disponibilità dei farmaci, l’unico vero trattamento per l’insufficienza cardiaca fosse il trapianto.

Il primo ostacolo che Barnard dovette affrontare fu quello di trovare il paziente adatto per il primo trapianto di cuore: doveva essere un malato terminale sul quale fosse inutile ogni cura conosciuta e anche un intervento chirurgico tradizionale.

Louis Washkansky e Denise Darvall

Il 10 novembre 1967 Louis Washkansky si rivelò essere il paziente ideale in quanto affetto da «respiro di Cheyne-Stokes» a causa di insufficienza cardiaca, diabete e cellulite agli arti inferiori. Nel pomeriggio del 2 dicembre 1967 la giovane Denise Darvall subì un incidente stradale con conseguente grave trauma cranico, e giunta al pronto soccorso dell’ospedale le fu riscontrata la morte cerebrale. Il capo della cardiologia, il dottor Schrire, acconsentì di considerare come donatrice Denise Darvall e come ricevente Louis Washkansky. Seguì il consenso del padre della giovane appena deceduta, il quale, rivolgendosi a Barnard, disse: «È una bella fortuna, se non puoi salvare mia figlia, devi provare a salvare quest’uomo».

Sulla questione etica del decretare la morte cerebrale come irreversibile, Barnard nella sua autobiografia scrisse: «La maggioranza dei cardiochirurghi sono d’accordo con il pontefice Pio XII il quale, già nel febbraio 1957, disse a un gruppo di medici che non vi è l’obbligo morale di usare mezzi artificiali e straordinari per resuscitare un corpo, purché sia esclusa ogni speranza di ripresa» (facendo riferimento a un discorso del papa del 24 febbraio 1957 su tre quesiti della «Società Italiana di Anestesiologia», ndr). Ciò valeva per Denise Darvall il cui cervello era stato distrutto.

1967 Christiaan Barnard durante il primo trapianto di cuore

Il grande evento avvenne il 3 dicembre 1967. Nel reparto di cardiochirurgia era già tutto predisposto nella sala B. Il giovane Barnard, coadiuvato dai dott. Rodney Hewinston e Terry O’Donovan, asportò parte del cuore della ragazza; simultaneamente, nella contigua sala A, un’altra équipe asportò parte del cuore del paziente ricevente. Bloccando i grossi vasi, Barnard estrasse il cuore di Denise e lo depositò per un istante in una bacinella tenuta dall’infermiera Peggy Jordan. Ora cominciava la parte più delicata dell’intervento. Prendere il cuore di Denise e trapiantarlo nel petto di Washkansky. Barnard, rifacendosi al metodo ingegnoso ideato da Shumway, procedette alla saldatura: non si asportava tutto il cuore, ma se ne lasciava in situ la «calotta», ossia la parte superiore. Immerso in una soluzione ghiacciata di acido lattico, sembrava molto piccolo accanto a quello del ricevente. Non si vedevano segni di attività, ma Barnard sapeva che vi era una scintilla di vita, e sapeva che l’organo si sarebbe messo a battere non appena le prime gocce di sangue caldo ossigenato fossero arrivate attraverso le arterie coronariche. E solo allora il cuore avrebbe ripreso vita salvando l’uomo che Denise Darvall non conosceva. L’intervento raggiunse la fase cruciale. Il cuore di Denise, privato della sua «calotta», venne accollato al «residuo» del cuore di Washkansky. In pratica, circa i due terzi inferiori del cuore della ragazza vennero accostati e suturati al terzo superiore del cuore del ricevente. Quasi un «gioco ad incastro». Terminato l’intervento, seguirono lunghi minuti di silenzio, nella trepidante attesa che il cuore trapiantato desse i primi segni di un’attività autonoma. Il giovane cuore di Denise riprese a battere nel petto di un uomo di trent’anni più anziano. Il più bel tramonto del mondo al giovane cardiochirurgo non sarebbe sembrato altrettanto stupendo. Diciotto giorni dopo il paziente subì un’infezione polmonare che lo portò al decesso.

Ma Barnard non si scoraggiò e il 2 gennaio 1968 effettuò il suo secondo trapianto su Philip Blaibertg. «Questa – spiegò – è stata un’operazione veramente importante. È stato in questo caso che il mondo ha conosciuto il trapianto cardiaco. Abbiamo dovuto dimostrare che un paziente sottoposto a un trapianto di cuore era in grado di riprendersi dall’intervento, di lasciare l’ospedale e di condurre una vita normale». Infatti, il paziente sopravvisse 593 giorni (19 mesi) dopo il trapianto. Il famoso clinico effettuò altri 51 trapianti prima di «depositare» il bisturi a causa di una grave forma di artrite. Morì il 2 settembre 2001 a Cipro in seguito ad un attacco acuto di asma, e non per arresto cardiaco come divulgato da alcuni mass media.

Ernesto Bodini

Louis Washkansky dopo il trapianto.




Insegnaci a pregare 12.

Pregare Dio senza dargli riposo

Di Paolo Farinella |


Dopo il successo della moltiplicazione dei pani, leggiamo nel vangelo di Matteo: «Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo» (Mt 14,23). In appena un versetto c’è tutta la vita di Gesù: la folla, il monte, la preghiera, il tempo, la sera, la solitudine. Solo «sul finire della notte, cioè all’alba, egli andò verso di loro camminando sul mare» (Mt 14,25). Per tutta la notte, Gesù ha vissuto l’esperienza del salmista: «In te si rifugia l’anima mia / all’ombra delle tue ali mi rifugio», perché all’alba possa danzare la vita nascente: «Svegliati mio cuore / svegliatevi, arpa e cetra / voglio svegliare l’aurora» (Sal 57/56,2.8-9). La preghiera di Gesù è notturna, la prospettiva è diurna; prega da solo, ma per andare «verso di loro».

Il ritmo della notte

La notte è silenzio e raccoglimento, nella notte rallentano le distrazioni, aumenta il bisogno di tenerezza da condividere, «si amoreggia» (fratel Arturo Paoli) o con il partner o con Dio. Gesù prega, «amoreggia» col Padre per prepararsi a non essere neutrale nel cuore della storia che tutti i giorni ricomincia all’alba. In lui nessuna traccia d’intimismo o di ripiegamento su se stesso, al contrario, la sua preghiera è un trampolino di lancio verso il mondo, l’umanità, verso la vita. Dopo avere cercato Dio ed essere rimasto con lui per tutta la notte, ora è pronto per annunciare la nuova umanità: «Beati i poveri»! Chi ha pane e sta con Dio, non può non spezzarlo con tutti. Si fa presto, però, a dire «cercare e trovare» Dio! Tutte le forme di spiritualità e i movimenti hanno la pretesa di insegnare a cercare Dio e garantiscono anche la via per trovarlo. In verità molti cercano proseliti, non testimoni del «Dio a perdere». Somigliano a coloro che promettono risultati mirabolanti di diete senza digiuno o sudore, o a chi garantisce l’apprendimento di una lingua in «tre settimane». Dio ridotto a un tecnicismo.

Non siamo sicuri che sia così semplice. Se per cercare e trovare Dio bastasse entrare in un movimento o scegliere una specifica spiritualità o «tre settimane», neppure residenziali, il mondo sarebbe un Eden di mistici e beati «stiliti», dritti e immobili su una colonna, glorificanti e pacificati. Nemmeno i monasteri di clausura sono «luoghi» certi della presenza di Dio; a volte possono anche essere luoghi della negazione non solo di Dio, ma anche della comunione fraterna. Stare insieme fisicamente, circoscritti in uno spazio, con i tempi contingentati, non significa di per sé «essere comunità», sacramento visibile della Gerusalemme celeste (vedi approfondimento più sotto).

Tutte le comunità corrono sempre il rischio di essere «mucca da mungere», da cui ognuno succhia il proprio latte, ma che nessuno si preoccupa di nutrire. Perché la comunità, la famiglia, il matrimonio, la coppia, il gruppo, siano segno della Gerusalemme celeste «visibile», è necessario che siano coniugati sullo stesso registro tre pilastri: l’individualità, la comunità e la Trinità come metro di misura. Altrimenti, ci troviamo dentro una qualsiasi associazione d’interesse e di sfruttamento.

Nota esegetico spirituale

Cercare Dio è un «ritorno al principio», bisogno primario della persona e biblicamente si coniuga con l’altro termine «trovare»; insieme formano un binomio essenziale: «cercare-trovare». Noi cerchiamo Dio, ma lui si fa trovare? Donna Sapienza ci assicura di lasciarsi trovare da coloro che la cercano (cfr. Pr 8,17), mentre l’amante donna del Cantico dei Cantici per ben tre volte cerca l’amato del suo cuore, ma senza riuscire a trovarlo, anzi afferma espressamente: «Non l’ho più trovato» (Ct 3,1.2;5,6). Eppure il binomio «cercare-trovare» è tipico dell’innamoramento; la stessa donna innamorata del Cantico dei Cantici non si rassegna e corre per le vie di Gerusalemme alla ricerca dell’amato: lo trova, lo smarrisce e lo ritrova. Noi credenti, se innamorati, possiamo cercare e trovare nella Parola il volto di Dio e il riflesso del nostro cuore che si rispecchia in lui per apprendere orizzonti, comportamenti e atteggiamenti.
Il salmista, dal canto suo, mette in moto il cuore per cercare il volto del Signore e ne fa un vanto di gloria (cfr. Sal 27/26,8; 105/104,3). Per Amos (sec. VIII a.C.) «cercare il Signore» è vivere e nutrirsi della sua Parola che però non è facile trovare se non si conosce già ciò che si vuole (cfr. Am 5,4.6; 8,12). Il profeta Michèa (sec. VIII a.C.) ribalta la questione: è il Signore che cerca noi e da noi vuole solo giustizia, tenerezza e comunione (cfr. Mic 6,8). A essi risponde il 1° Isaìa (sec. VIII a.C.) dicendo che cercare il Signore è sinonimo di prendere coscienza dello stato di desolazione in cui da soli ci siamo ridotti (cfr. Is 26,16). Il 2° Isaìa nel VI sec. a.C. descrive la volontà di Dio che è sempre reperibile perché non gioca a nascondino per farsi cercare nel caos/vuoto (cfr. Is 45,19), mentre il 3° Isaìa, nel sec. V-IV a.C., ha una prospettiva più universalistica e ci assicura che il Signore si fa trovare anche da coloro che non lo cercano affatto (cfr. Is 65,1).

Sant’Agostino sintetizza tutto questo percorso con le parole insuperabili delle Confessioni che rispecchiano la sua esperienza personale, ma anche l’anelito di ogni vivente: «Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te – Ci hai creati per te e il nostro cuore sta inquieto finché non trova riposo in Te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1, 1, 1: CCL 27, 1 [PL 32, 659-661]).

 

L’idolatria sempre in agguato

Occorre stare attenti perché Dio può anche essere un «idolo» che noi scambiamo per Dio. Spesso sono le persone religiose che trasformano Dio in un idolo, dando così il fianco a chi ritiene di avere ragioni per negare la serietà di Dio e l’inutilità dei monasteri di clausura o dei conventi o delle congregazioni religiose, visti dall’esterno come comodi rifugi per una vita senza preoccupazioni: pasto, letto, tetto, e (forse) cultura sono assicurati, che piova o faccia freddo, perché è garantita la sicurezza dell’oggi e del domani. Il «voto di povertà» può diventare la massima garanzia «previdenziale» e assicurativa della vita: «Nihil habentes et omnia possidentes» (2Cor 6,10), capovolgendo la prospettiva del Vangelo e dell’apostolo Paolo. Noi credenti dobbiamo stare attenti a non fare di Dio il nostro «idolo» perché si può essere religiosi atei, si può essere atei e laicisti devoti per interesse, si possono osservare tutte le regole della vita religiosa e vivere nella totale assenza di se stessi a Dio. Gli idoli sono necessari agli impiegati della religione per semplificare la vita, trasformando Dio in un «tappabuchi» (Bonhöffer) sostitutivo della nostra incapacità di essere veri e autentici nella trasparenza evangelica della verità di Dio.

La preghiera, lo abbiamo visto e anche ripetuto molte volte, non è macinare parole o ingurgitare sospiri, ma purificare ciò che noi pensiamo di Dio, illimpidire lo sguardo per imparare a vedere e scrutare con gli occhi di Gesù, esercitarsi a pensare come lui in ogni circostanza, non secondo questa o quella filosofia, questa o quella ascetica, questa o quella convinzione o morale. Il concilio Vaticano II ci ha messi in guardia dal rischio che il Dio in cui diciamo di credere sia veramente il Dio di Gesù Cristo (Gaudium et Spes, nn. 19-20). Il comandamento di «non nominare il nome di Dio nel vuoto» (Es 20,7) non è rivolto ai bestemmiatori, ma ai credenti che impudicamente usano Dio come una merce o peggio una clava per ammazzare, distruggere, annichilire, mettere a tacere gli altri, identificandolo come sponsor della propria ragione e del torto altrui.

Vigilare la consuetudine

Pregare è un’altalena: «Lui deve crescere e io diminuire» (Gv 3,30). Nella preghiera occorre fare spazio al Signore che non è mai invadente e proporzionalmente diminuire i preconcetti, le certezze, le sicumere, le durezze che, come spazzatura, occupano spazi che meritano migliore distribuzione. Siamo talmente abitudinari nel nostro rapporto con Dio da averne perso completamente la memoria: viviamo per forza d’inerzia, andiamo avanti per schemi, senza nemmeno pensare o capire o accorgerci che inerzia e schemi hanno preso il posto dell’incontro. Quando qualcuno dice: «Vivo un tempo di aridità spirituale», oppure «mi distraggo quando dico le preghiere», che cosa significa se non che si sono smarriti nel dedalo dell’usuale, del convenzionale e delle formule? Dire «le» preghiere, ecco il punto. L’uso del plurale è sintomatico perché esprime l’idea che si tratti di una pratica acquisita, come prendere una medicina, a orari fissi (mattina, sera) per togliersi il pensiero. Non c’è la passione della vita o dell’intreccio della relazione. Si recita. Come in un piccolo teatro personale. Pregare, invece, è lasciarsi restituire da Dio la vita insieme alla nostra responsabilità e alla nostra dignità di testimoni della sua Presenza (Shekinàh).

Gesù si ritira in preghiera perché deve riordinare le coordinate dopo essere stato con la folla che ha appena sfamato, moltiplicando il pane con l’obiettivo di invitarla a cercare il pane che non perisce (cfr. Gv 6). La folla non capisce perché «cerca» un «utile» immediato. Per capire il nesso degli eventi e la direzione della sua vita, deluso da questo atteggiamento, Gesù prende una decisione drastica: congeda la folla, se ne stacca e si libera dall’ossessione del risultato. Di fatto, è il primo fallimento di Gesù. Da questo momento, egli si dedica alla formazione dei discepoli ai quali impartisce una serie di lezioni per educarli a vedere oltre i segni, oltre le apparenze, come ha appreso lui nell’intimità orante col Padre. Non insegna loro come raggiungere un risultato, ma come devono essere loro e quale metodo devono utilizzare per essere sempre se stessi, fedeli alla loro missione che coinvolge direttamente il nome e il volto di Dio.

Gesù si preoccupa che i discepoli si stacchino dalla logica della folla, come se volesse proteggerli dal virus mortale del consenso e del successo: li manda all’altra riva, anzi li «costrinse a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva» (Mt 14,22). Come una mamma che difende i suoi piccoli, resta lui da solo a fare da scudo, preservandoli dalla folla. La folla non è mai popolo e i discepoli non possono mondanizzarsi, devono vedere le cose da un altro punto di vista, dall’alto, e per questo devono imparare a ragionare, a pensare come Dio, cioè a pregare per illimpidirsi lo sguardo del cuore per potere vedere nel profondo della realtà. Non è facile, per questo Gesù insegna loro come fare. Scrive Madeleine Delbrêl (1904-1964), una tra le più grandi mistiche di ogni tempo:

«La fede non è forse vita eterna impegnata nel temporale? Noi ci vediamo costretti a raccordare la nostra vita di cristiani con tutto ciò che per noi è attuale: accelerato, momentaneo, immediato. Non è che questo ci costringa a credere diversamente, ci costringe a vivere diversamente» (Madeleine Delbrêl, È stato il mondo a farci così timidi? Uno scritto inedito, Editrice Berti, Piacenza 1999, 16-17).

Matteo riporta in 14,22-33 il racconto di Pietro che rischia di affondare in mare. Dopo il fallimento con le folle, Gesù si prende cura dei suoi discepoli, impartendo loro la prima lezione di vita di fede. L’evangelista mette in evidenza di proposito l’attenzione particolare di Gesù verso Pietro (cfr. anche Mt 16,16-21; 17,24-27), legato ai propri schemi limitati e non ancora libero di gettarsi al collo di Dio. È vero che si lancia fuori dalla barca, ma rischia di affondare perché lo fa con riserva e non con l’abbandono che Gesù esige con il suo «Vieni!». D’altra parte come può avere paura uno che pensa di essere «afferrato» dal desiderio di raggiungere l’amore? Per non sprofondare, Pietro ha bisogno di una «mano tesa» che lo «afferri» (Mt 14,31), salvandolo dalla povertà della sua «poca fede». Gesù è già lì, pronto col braccio teso, prima ancora che Pietro possa invocare: «Salvami!».

Nota linguistica.

L’espressione: «Dopo avere steso la mano, lo afferrò», è un’espressione idiomatica semita, che dimostra come spesso gli autori del NT pensano in aramaico/ebraico e scrivono in greco. Le lingue semite sono descrittive per eccellenza: l’azione della mano, infatti, è osservata dall’inizio alla fine dell’opera di salvamento: per afferrare Pietro, occorre prima stendere la mano verso di lui (cfr. Gen 22,10), azione che denota la volontà decisa d’intervento.

 

Solo superando le ipotesi su Dio Pietro riesce a invocare Dio

© Gigi Anataloni

Nonostante il Signore si faccia riconoscere e infonda coraggio, la paura permane e genera diffidenza; Pietro, infatti, insicuro, mette alla prova il Signore: «Signore, se sei tu…» (Mt 14,28) che è la stessa richiesta del diavolo nelle tentazioni: «Se tu sei figlio di Dio…» (Mt 4,3.6). Durante la passione ritroveremo Pietro che rinnegherà tre volte l’identità di Gesù, sconfessando la sua, negando cioè di essere quello che è: suo discepolo (cfr. Mt 26,69-75; cfr. Gv 18,17.25-27). Tra tutti i discepoli, Pietro è il più fragile, il più pauroso e il più insicuro: non sempre l’autorità brilla per chiarezza, coerenza e dignità. Egli di fronte a Gesù che cammina sulle acque, ubbidisce alla parola materiale del Maestro che lo chiama a dominare le acque con lui, ma nel suo cuore vacilla, dubita e non fidandosi non si affida alla Parola che lo sostiene: egli vuole «fare come Gesù», ma basta la contrarietà del vento per dargli la sensazione del pericolo. Un discepolo non è mai la fotocopia del maestro altrimenti non somiglierebbe a colui che costruisce la casa sulla sabbia (cfr. Mt 7,26-27) e frana in mezzo all’acqua da cui viene travolto, come i carri e i cavalli del Faraone (cfr. Es 14,26).

Solo l’affidamento e la consapevolezza di essere salvati pone nella condizione esistenziale di essere veri discepoli: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Con questa invocazione Pietro rinasce come «l’anti Àdam» perché non usurpa l’identità di Dio, ma si lascia afferrare dalla mano forte e sicura del Signore che lo reintegra nella fede sufficiente: «Uomo di corta fede» (Mt 14,31). La nostra corta fede spesso c’impedisce di vedere la Parola e la mano che si protende a noi! All’arrivo del Signore, salito sulla barca (nei vangeli è sempre simbolo della Chiesa), il vento cessa. Gesù domina gli elementi della natura come Yhwh governa e comanda i fenomeni naturali che fanno da sfondo alle sue apparizioni teofaniche. Gesù si presenta assumendo su di sé il Nome stesso di Dio rivelato nella maestosa teofania del Sìnai a Mosè che vive l’esperienza del roveto ardente: «Io-Sono – Egô Eimì» (Es 3,14).

Nota esegetica.

Purtroppo anche la nuova traduzione della Bibbia (Cei-2008) usa l’anonimo «sono io» e non la pregnanza teologica della rivelazione di Gesù sulle acque del mare di Tiberìade che deve essere reso solo con «Io-Sono–Egô Eimì», richiamo esplicito alla rivelazione del Dio di Mosè che si mette all’opera per la liberazione attraverso le acque del Mare Rosso.

La prova di questo si ha nel vangelo di Giovanni, dove l’espressione ricorre in dieci forme diverse: «Io-Sono» (Gv 4,26; 6,20; 8,24.28.58; 9,9; 13,19; 18,5.6.8);
«Io-sono il pane» (Gv 6,35.41.48.51); «Io-sono il pane della vita» (Gv 6,35.48); «Io-Sono la luce» (Gv 8,12); «Io-Sono il testimone» (Gv 8,18); «Io-Sono la porta delle pecore» (Gv 10,7.9); «Io-Sono il pastore bello» (Gv 10,11.14); «Io-Sono la risurrezione» (Gv 11,25); «Io-Sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1); «Io-Sono la vite» (Gv 15,5). La somma totale di tutte queste affermazioni di identità, «Io-Sono», in Gv fa ventisei che, secondo la scienza dei numeri o ghematrìa, è la somma dei numeri corrispondenti alle lettere che compongono il nome di «Y_H_W_H» (=10+5+6+5). Per Giovanni, usando l’espressione «Io-Sono», Gesù è consapevole d’identificarsi con il Dio della rivelazione ebraica, il Dio dell’esodo e, come Yhwh dominò le acque del Mare Rosso, salvando il suo popolo, così ora Gesù domina il mare, salvando Pietro.

 

Pregare: non dare tregua a Dio

Il Terzo Isaia (sec. V-IV a.C.), degno discepolo del suo maestro, l’Isaia vissuto nel secolo VIII, deve avere una buona frequentazione con il Dio d’Israele perché non esita a invitare le sentinelle di Sion, (la città) sede della gloria di Yhwh, all’insubordinazione:

«Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai. Voi, che risvegliate il ricordo del Signore, non concedetevi riposo né a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e ne abbia fatto oggetto di lode sulla terra» (Is 62,6-7).

L’orante è colui che sta sulle mura della città di Dio «per tutto il giorno e tutta la notte» che è richiamo diretto alla «necessità di pregare sempre senza mai venire meno» (Lc 18,1). Compito dell’orante è risvegliare «le memorie del Signore» (l’ebraico usa il plurale di «zikkaròn-memoriale») che richiama la sua presenza viva e sperimentabile. L’idea che Dio possa dormire ci rimanda a Gesù che si addormenta simbolicamente nella barca: «Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono» (Mc 4,38). A questo punto la preghiera si fa questione di vita: «Non concedetevi riposo né a lui date riposo». Non bisogna concedere riposo a Dio e lo si può fare solo non concedendosi riposo. Un amico, plasticamente, diceva che per lui pregare era «mettere Dio con le spalle al muro», esattamente come fa Mosè, quando ricatta Dio, minacciandolo di abbandonarlo e di farsi cancellare dal libro dell’alleanza, se Dio non perdonerà il suo popolo: «Se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32).

Per arrivare a queste vette di profondità non si può essere improvvisatori, ma bisogna avere un’esperienza lunga, assidua e ininterrotta di convivialità con Dio, di fraternità con uomini e donne, di purificazione dell’essere e liberi da ogni ritualità che, immergendoci nel ripetitivo rassicurante, ci impedisce di volare sulle ali della preghiera per essere ben piantati sulle strade della storia.

Dal prossimo numero passeremo ai testi.

Paolo Farinella, prete
(12, continua)

Nota.

Per l’approfondimento, cfr. Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella vita della Chiesa, EDB, Bologna 2012.




Carta d’identità: taiwanesi

Testo Mirco Elena |


La grande maggioranza degli abitanti della «provincia ribelle» (come Pechino definisce l’isola) si sente taiwanese. E il dato è ancora maggiore tra i giovani. Tuttavia, sono una minoranza coloro che vorrebbero l’indipendenza dalla Cina, opzione giudicata troppo rischiosa, e pochissimi quelli che vorrebbero l’unificazione. Per il momento, a Taiwan pare meglio il mantenimento dello «status quo»: né unificazione, né indipendenza.

Un recente studio, pubblicato dal quotidiano United Daily News1, sostiene quanto segue: il 73% della popolazione dell’isola dichiara di sentirsi taiwanese, mentre cinese solo l’11%2. Un’analoga inchiesta effettuata vent’anni prima, trovava valori rispettivamente del 44% e del 31%. Se ne può quindi dedurre come un certo spirito indipendentista si sia molto rafforzato. Ancora più impressionante appare il cambiamento se si considera che, nella fascia d’età 20-29 anni, questo dato sale addirittura all’85%. Per completare il quadro, si noti che il 10% della popolazione si sente sia taiwanese che cinese, mentre il 6% delle persone si è rifiutato di rispondere alle domande dell’indagine. Una domanda più politica ha infine riguardato l’indipendenza del paese, con il 46% della popolazione che si è dichiarata in favore della prosecuzione indefinita dell’attuale situazione, mentre il 19% preferirebbe muovere velocemente verso l’indipendenza e solo il 4% vorrebbe invece una rapida unificazione con il continente. Il 17% è infine a favore dell’indipendenza, ma preceduta da un lungo status quo. Considerando tutti quelli in vario modo a favore dell’indipendenza, si nota infine che il loro numero è aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente.

Essendo chiaro a tutti che il processo di distacco formale dall’idea di una Cina unificata potrebbe comportare gravi rischi, l’indagine ha anche esaminato il prezzo che i cittadini sarebbero disposti a pagare, pur di ottenere l’indipendenza formale. Ne è risultato che il 43% della popolazione complessiva taiwanese potrebbe accettare un drastico calo dei turisti provenienti dalla Cina; per un 20%, l’isola potrebbe sopportare la perdita della maggior parte dei suoi circa 20 alleati diplomatici all’Onu, e addirittura una guerra. Il 16% affronterebbe un blocco economico. Infine poco più del 20% della popolazione pensa invece che l’indipendenza dell’isola non meriti alcun sacrificio.

Tsai Ing-wen, prima donna presidente di Taiwan, osserva l’addestramento dell’esercito taiwanese (25 maggio 2017/ AFP PHOTO / SAM YEH

Più giapponesi che cinesi

Quando si arriva a Taipei, capitale di Taiwan, ci si potrebbe attendere di trovarsi in un ambiente tipicamente cinese. Certamente lo è, per gli ideogrammi presenti ovunque, per la simbologia religiosa, per le decorazioni, ma basta poco per rendersi conto che ci sono alcune notevoli differenze rispetto alla Cina continentale. Se la popolazione di quest’ultima è, per certi aspetti e modi di fare, molto simile a quella italiana3, i taiwanesi sono in un certo senso molto più «tedeschi» (ma, per ragioni geografiche e storiche, meglio sarebbe dire «giapponesi»). La capitale taiwanese è più pulita rispetto alla media cinese; la gente ha un maggior civismo e senso dell’ordine.

Da quanto detto in precedenza, risulterà facile capire come questa differenza si possa probabilmente far risalire all’effetto del mezzo secolo di colonizzazione giapponese, durata dal 1895 al 1945. Con tipica efficienza nipponica l’amministrazione isolana di quel periodo operò in modo da inculcare nella popolazione locale i modi ed i valori propri dell’arcipelago del sol levante: pulizia, ordine, efficienza, senso del dovere. Quando subentrarono i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek, questi portarono con loro alcune tradizionali caratteristiche cinesi antitetiche a quelle giapponesi: burocrazia arrogante, familismo, corruzione diffusa, disorganizzazione, individualismo anarcoide ed egoistico. Non proprio quello cui erano stati abituati i taiwanesi. Aggiungiamoci l’esercizio della violenza per reprimere ogni protesta e dissenso ed ecco che l’origine dell’insoddisfazione di molti taiwanesi diventa comprensibile. Se ciò non bastasse, ricordiamo come un ruolo non trascurabile debba averlo giocato anche la notizia delle atrocità e delle distruzioni perpetrate dalle guardie rosse al tempo della rivoluzione culturale scatenata da Mao sulla terraferma.

Taipei, © Tsaiian

Piccoli esempi di quotidianità taiwanese

Quanto ancor oggi ci sia di «giapponese» nella società taiwanese lo possiamo dedurre da qualche episodio, successo direttamente all’autore di queste righe o riferitogli da fonti affidabili. Iniziamo da quel che capita un sabato quando alle quattro di mattina mi trovo a dover attraversare una strada cittadina a quattro corsie per prendere l’autobus che avrebbe dovuto poi portarmi all’aeroporto di Taipei. Traffico zero. Nessuno in giro. O quasi. Quando arrivo al semaforo che regola l’attraversamento pedonale c’è lì un signore che disciplinatamente attende che diventi verde. La tentazione di attraversare, pur col rosso, è forte. Mi pare illogico e inutile aspettare in quelle condizioni; oltre a noi due non c’è anima viva né traccia di autoveicoli nei dintorni. Lui, tranquillo, aspetta; io fremo. Mi dà però fastidio l’idea di mostrarmi un ospite cafone, che arriva in una nazione e ne viola le regole. Allora attendo anch’io. Il silenzioso e paziente signore, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato una lezione di civismo.

La disciplina dei taiwanesi appare chiara anche al momento di salire su un mezzo di trasporto pubblico, o di avvicinarsi ad uno sportello. Anziché gettarsi all’assalto, come tende ad avvenire sulla terraferma, i cittadini dell’isola si dispongono in fila e pazientemente attendono il loro turno. Come gentlemen inglesi.

Cyril, un francese stabilitosi sull’isola dopo aver sposato una ragazza locale, mi racconta che qui tantissime persone usano moto e motorini. Ma non era necessario che me lo dicesse lui; me ne ero già accorto, girando per la città. Quel che mi sorprende è invece la sua assicurazione che tutti usano lasciare il casco (che si deve obbligatoriamente indossare quando si è sul mezzo) semplicemente appoggiato sulla moto, quando questa viene parcheggiata; anche quando la si lascia per la notte a lato della strada. Nessuno lo fissa con un lucchetto, dato che non c’è chi pensi di rubarlo. O quasi. Cyril mi confessa che, in dodici anni di permanenza sull’isola, gliene hanno involato solo uno, nuovissimo e rosso brillante, proprio il giorno in cui lo aveva comperato. Il commento del filosofico Cyril è semplicemente «era troppo bello, avrebbe fatto gola a chiunque!». Ancora in fatto di furti, mi dice che, per la sua esperienza di insegnante di lingue, se uno scolaretto trova per terra una banconota da cento dollari, la prima cosa che fa è andare dalla polizia o da un vigile a consegnarla. Non proprio il tipo di comportamento che ci si aspetta di trovare in Cina continentale (ma nemmeno in Italia, a essere sinceri).

Da questi piccoli esempi non possiamo certo trarre nulla di più che qualche modesta indicazione sull’animo, la cultura, i modi di fare dei taiwanesi. Resta il fatto che, come si è visto un poco anche alle ultime elezioni, l’insofferenza per Pechino è forte in ampi settori sociali.

© Mirco Elena

Preservare lo «status quo» (per evitare il peggio)

Come si esce da una situazione in cui potrebbe bastare un errore di valutazione, una dichiarazione azzardata, un intervento esterno mal progettato e peggio eseguito per scatenare uno scontro militare di ampie e imprevedibili proporzioni? Abbiamo già detto che gli Usa sono da tempo impegnati a difendere Taiwan nel caso venisse attaccata dalla Cina. Data anche la loro tendenza storica ad usare la forza per risolvere intricati problemi politici, questo potrebbe facilmente portare ad uno scontro tra le due grandi potenze4, che potrebbe sfociare in uno scambio nucleare. Nonostante la disparità di forze in campo (la Cina ha circa 300 ordigni, mentre gli Usa oltre 5.000, di cui «solo» 1.500 operativi) gli esiti sarebbero certo pesanti per entrambe le nazioni e l’intero quadrante geopolitico Est asiatico (se non addirittura quello mondiale) potrebbe venirne stravolto.

© Mirco Elena

La modalità più sicura per evitare problemi così seri sarebbe certo quella di ridurre la tensione e la probabilità del ricorso ai mezzi militari. Potrebbe risultare decisiva una ribadita adesione taiwanese all’idea di una sola grande Cina, immaginata, almeno in prospettiva, riunificata. In subordine potrebbe bastare, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo, in cui Taiwan non si esprime chiaramente né a favore né contro l’unificazione o l’indipendenza.

Un utile passo avanti si potrebbe poi avere se lo speciale regime autonomo vigente a Hong Kong5 continuasse ad avere successo nel garantire le libertà politiche, economiche e sociali. In tal modo assicurando i taiwanesi che, anche nell’ipotesi di una riunificazione con Pechino, le caratteristiche fondamentali della loro democrazia sarebbero preservate e protette.

Positiva sarebbe anche una maggior comprensione da parte americana delle sensibilità della Repubblica popolare, così da evitare mosse interpretate come provocatorie ed offensive. Purtroppo, specie in epoca Trump, questo appare niente più che un evanescente sogno.

Non si dimentichi tuttavia che proprio la Cina ha bisogno di una situazione di perdurante pace, per poter continuare il proprio ambizioso programma di ammodernamento e di miglioramento degli standard di vita di tutta la popolazione. Inoltre la sua attuale forte inferiorità militare può e deve indurre Pechino ad essere prudente, anche nel caso debba ingoiare qualche indigesto rospo a stelle e strisce.

Sulla base di queste considerazioni, e ricorrendo abbondantemente all’ottimismo, possiamo confidare che, nonostante le periodiche tensioni e le loro accentuazioni, non si giunga a scontri militari potenzialmente in grado di portare a una situazione catastrofica. Questo detto, forse è meglio che chi ha fede, preghi che davvero sia così. E chi non crede, incroci le dita.

Mirco Elena
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Giornale che si caratterizza per una posizione fondamentalmente a favore dell’unificazione con la Cina.

(2) Rilevazione compiuta tra il 15 e il 19 febbraio 2016, su un campione di 1.019 persone, con un margine di errore dichiarato del +/-3,1%.

(3) Si veda il libro «Cina e Italia allo specchio», di Mirco Elena e Yu Jin, pubblicato nel 2015 dal «Centro studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina» di Trento.

(4) Certo si potrebbe pensare che la promessa americana costituisca nulla più che un bluff, dato che la Cina ha la capacita di lanciare missili con testata nucleare in grado di raggiungere il territorio statunitense, con ciò disponendo di un potente strumento di dissuasione nei confronti degli statunitensi.

(5) Riassunto nel motto «Un paese, due sistemi».

© Mirco Elena


La situazione religiosa

La libertà è un mosaico

Dalle religioni d’origine cinese al cristianesimo, a Taiwan il mosaico religioso è composto di molti tasselli.

Al contrario che nella Cina continentale a Taiwan la libertà religiosa è assicurata. Questo ha generato un mosaico di fedi assai variegato.

L’ultima inchiesta pubblica – condotta dalla sezione affari religiosi del ministero dell’Interno – sulla situazione a Taiwan risale al 2005. Secondo questo studio, il 35% della popolazione taiwanese si considera buddhista e un 33% taoista. Di rilievo sono anche alcune religioni sincretiche di origine cinese come il Yiguandao (I-Kuan Tao), che attinge da buddhismo, taoismo e confucianesimo, ma anche dal cristianesimo. Questa religione è illegale nella Cina continentale.

La ricerca del 2005 evidenzia anche la presenza di circa un milione di aderenti al Falun Gong, la disciplina spirituale che utilizza elementi della cultura tradizionale cinese (ma che in Cina è fuorilegge dal 1999).

Il cristianesimo arrivò a Taiwan (allora nota come Formosa, dal nome affibbiato all’isola dai marinai portoghesi) con gli spagnoli (1626-1642) e con gli olandesi (1624-1662), che alla fine prevalsero. I primi vi portarono il cattolicesimo, i secondi il protestantesimo. Oggi si contano più di 900mila cristiani, di cui 600mila protestanti e 300mila cattolici. I cristiani – pari a circa il 3,9 per cento della popolazione totale – sono soprattutto tra le popolazioni aborigene (appartenenti queste al gruppo austronesiano) e tra gli immigrati filippini. Anche l’islam è presente, ma quasi esclusivamente tra gli immigrati indonesiani.

Pa.Mo.

Comunita? filippina nella cattedrale di Hsinchu. © Ugo Pozzoli