Parlare di Isis ai bambini

Recensione di Luca Lorusso su libri riguardanti l’Isis |


Quando eventi traumatici, come gli attentati dell’Isis, irrompono nella vita quotidiana

Quando la vita di ogni giorno è toccata, a volte sconvolta nelle sue certezze, da notizie di eventi tragici come le violenze dell’Isis, s’impone ai genitori e agli insegnanti il dovere di andare in soccorso dei loro piccoli. Rassicurando, spiegando, infondendo fiducia. Per farlo, gli adulti devono lasciarsi interrogare, documentarsi, riflettere, senza il timore di apparire ignoranti, essi stessi in cerca di senso.

 

Terrorismo, stragi, violenze. Dobbiamo raccontarle ai nostri bambini? Dovremmo far conoscere ai nostri figli o alunni eventi traumatici come quelli causati dall’Isis in paesi lontani e vicini, o anche altri eventi come terremoti, catastrofi, incidenti aerei, che vengono raccontati da tutti i mezzi di comunicazione con toni e immagini allarmanti?

L’Isis uccide 25 persone, tra cui diversi bambini e 9 giornalisti, a Kabul, in Afghanistan, in un duplice attentato il 30 aprile. Boko Haram attacca una moschea e un mercato in una città del Nord della Nigeria provocando 86 morti il 2 maggio. Uomini armati uccidono 17 persone tra cui un prete cattolico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana lo stesso giorno.

Il racconto concitato di avvenimenti dolorosi irrompe nella tranquilla vita quotidiana delle nostre famiglie.

Il 14 luglio 2016 un camion fa strage sul lungomare di Nizza. Negli stessi giorni un uomo, armato di ascia ferisce diverse persone su un treno in Germania. Di nuovo in Germania, a Berlino, il 19 dicembre 2016 un altro camion travolge la folla al mercatino di Natale, uccidendo 12 persone. L’attentatore, Anis Amri, il 23 dicembre viene ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni, Milano, praticamente sotto casa di ciascuno di noi.

L’insicurezza entra in casa (tramite lo schermo)

«Il mondo che sembrava chiuso fuori dalla porta di casa, improvvisamente vi fa un ingresso irruento», scrive Alberto Pellai nel primo dei tre capitoli del volume Parlare di Isis ai bambini, edito da Erickson nel 2016. Se da un lato la fruizione di notizie come quelle sopra citate porta con sé una quota positiva di conoscenza, dall’altro porta anche il rischio di attivare nei bimbi un profondo senso di pericolo – anche all’interno delle mura domestiche – che l’adulto deve saper affrontare. «Gli adulti hanno il compito di comunicare ai più piccoli che loro sanno tenere il controllo della situazione». Ai volti spaventati di uomini e donne intervistati dai telegiornali sul luogo dell’accaduto deve fare da contrappeso lo sguardo attento e pacato, non allarmato, del genitore, la sua capacità di verbalizzare la paura con parole rassicuranti e, magari, con l’attenzione fisica di un abbraccio protettivo.

«Quando si assiste a un evento tragico in televisione si è dentro a un flusso di parole e immagini ad alto impatto emotivo. Spesso siamo noi adulti i primi a venire così attratti e spaventati che quasi ci dimentichiamo che nella stessa stanza c’è un bambino che sta osservando le medesime immagini. Ma che al contempo vede il nostro volto teso e spaventato, ascolta i nostri commenti sconcertati e atterriti».

L’adulto – scrive Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, nel suo testo pieno di esempi e utili suggerimenti – deve saper tranquillizzare senza negare le emozioni che la notizia, la foto, il servizio al Tg provocano. In questo modo aiuta il bambino a integrare la tempesta emotiva con la comprensione dell’evento e della sua condizione di protezione e sicurezza.

Genitori e insegnanti in ricerca

I genitori e gli insegnanti dovrebbero parlare anche dei motivi che stanno dietro alle violenze raccontate dai media? «Certamente», sostiene Dario Ianes, curatore del libro, «ma spesso non sanno bene quali sono le cause di quello che accade, non sanno documentarsi… e non vogliono apparire ignoranti, anche se sarebbe invece un ottimo insegnamento mostrarsi adulti che si attivano in una ricerca razionale, il più possibile libera da pregiudizi, di informazioni indipendenti». Quando l’Isis entra in casa da uno schermo, quindi, il nostro compito è quello di interrogarsi ad alta voce – provando a darsi delle risposte ragionevoli – sulle questioni che fanno da sfondo, da causa, da motore di quegli eventi. Accanto al compito di rassicurare i piccoli, c’è anche quello di dichiarare la nostra poca conoscenza e di impegnarci ad approfondirla.

Uno strumento per tutto ciò può certamente essere il libro di cui scriviamo, Parlare di Isis ai bambini. Al primo capitolo di Alberto Pellai, intitolato L’adulto competente aiuta emotivamente il bambino, ne seguono, infatti, altri due che inquadrano l’Isis da diversi punti di vista: la storia del Medio Oriente, la storia dell’Islam, la situazione sociale e culturale dei paesi musulmani, le relazioni internazionali, la riflessione filosofica, politica e militare sulla violenza. Il primo dei due, Geografia concettuale dello Stato Islamico è scritto dal funzionario internazionale Marco Montanari, il secondo, Cercare di comprendere l’Isis nella complessità, da Riccardo Mazzeo, editor di Erickson, con il filosofo e sociologo francese Edgar Morin.

Luca Lorusso




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione




I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara

più mito che mai

Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |


Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.

Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.

Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.

Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.

Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.

Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?

Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.

Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.

Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.

Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.

Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.

È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?

Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.

Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.

In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.

E cominciasti a lavorare come medico.

No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.

Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.

Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.

Quale movimento?

L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.

Avevano ottenuto risultati?

Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.

Ma Fidel non restò in prigione a lungo.

Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.

Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.

Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.

Qual era il vostro piano per liberare Cuba?

Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.

La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.

Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.

Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.

Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.

Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.

Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.

Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.


Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.

Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?

Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.

Don Mario Bandera




L’Odissea di Lula


Lula, il primo presidente di sinistra (e democratico) del gigante sudamericano, confermato per un secondo mandato, è oggi agli arresti. Contro di lui intrighi legati al petrolio, alla Confindustria brasiliana e ai vicini Usa. Lui aveva tentato di rompere la logica di dominazione e aveva varato il piano «Fame zero».

Quale sarà la conclusione della vicenda umana e politica di Luiz Inácio da Silva detto Lula, due volte presidente del Brasile (dal 2003 al 2010), a gennaio 2018 condannato senza prove a 12 anni di prigione (vedi articolo pag. 22) per un presunto affaire con Petrobras, la compagnia petrolifera di stato? Non si può negare che questo intrigo abbia tutte le fattezze del golpe. Una trama orchestrata da pezzi della Confindustria brasiliana, con la collaborazione delle famigerate multinazionali nordamericane e con l’appoggio vitale di Rede Globo, il più poderoso network radiotelevisivo del continente.

Questi potentati economici sempre al limite dell’onestà non avevano gradito il fatto che l’ex presidente brasiliano, dopo che la Petrobras aveva scoperto e messo le mani nella propria costa atlantica, sul più grande giacimento sottomarino del mondo, il Pre-Salt, avesse rifiutato di condividere la scoperta con gli Stati Uniti. Uno spettacolo già visto e messo in atto molte volte specie dal governo di Washington che, quando si tratta di petrolio, mette in cantiere guerre insulse e feroci come quella attuale in Siria, che va avanti, tra stragi, equivoci e menzogne, da più di 7 anni (vedi articolo pag. 58). Lula ha provato a rompere questa logica ed è stato punito.

D’altronde quel mondo che si autodefinisce civile e democratico, il mondo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, aveva un conto da saldare con lui e Dilma Rousseff, che gli era succeduta nella presidenza.

(archio Gianni Minà)

Lula era stato il primo presidente progressista eletto, e anche confermato, dopo gli anni lugubri della dittatura militare, in quello che, con 207 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’America Latina.

Agli occhi del governo di Washington, Lula era stato il complice dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez nel ricambio progressista che il continente a Sud del Texas aveva avuto negli ultimi vent’anni. Anni in cui alcune nazioni si erano consociate in scelte libertarie arrivando a fondare, sull’esempio della Comunità europea, perfino una banca e una televisione continentale, la Telesur, per controbattere l’informazione scorretta della Cnn e di altri network privati normalmente proprietà di caciques abituati a dire sempre sì agli yankee.

Ho conosciuto Lula, prima che diventasse presidente, grazie ad Antonio Vermigli, un generoso ex postino di Quarrata (Pistornia) che tiene in mano la Rete Radié Resch (una rete della sinistra cattolica).

Lula veniva in Italia invitato dai vari sindacati e avevo imparato ad apprezzarlo proprio per essere riuscito nel miracolo di fondare il Pt (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) che, insieme ai cattolici progressisti e al movimento dei Sem Terra (senza terra, ndr), lo avrebbe portato al governo del paese, smentendo chi aveva tentato di sostenere «che i comunisti stavano per prendere il potere in Brasile». Questo perché il Pt era diventato l’esempio del più efficiente movimento progressista in quella che all’epoca (dai primi anni 2000) è stata una vera e propria primavera dell’America Latina.

L’entusiasmo e la sincerità di questo ex operaio della Volkswagen, che al suo mestiere di tornitore aveva sacrificato perfino due dita, aveva permesso ai brasiliani di sognare anche per iniziative come il piano «Fame zero», messo in piedi dal teologo della liberazione Frei Betto che, su incarico di Lula, era riuscito nell’impresa di assicurare a 50 milioni di abitanti, i più poveri, tre pasti al giorno.

Era un nuovo mondo che si scrollava di dosso la dittatura militare e incominciava a diventare un esempio politico, mettendo in crisi perfino pezzi di socialismo occidentale.

Non potrò mai dimenticare una sera in cui, per presentare un libro di Rigoberta Menchù sulle stragi in Guatemala, alla festa dell’Unità di Modena, ero riuscito a riunire con Lula, lo scrittore guatemalteco Dante Liano, scampato ai massacri previsti dal Plan Condor benedetto da Nixon e Kissinger (piano Usa di destabilizzazione delle democrazie in America Latina, ndr), insieme a Frei Betto, frate domenicano e teologo della liberazione, carcerato e torturato dalla dittatura brasiliana, ed Eduardo Galeano, il più acuto saggista del continente latinoamericano.

Tutti avevano toccato le corde dell’emozione, ma il più appassionato era stato proprio Lula che, qualche anno dopo, sarebbe diventato per la prima volta presidente del Brasile. Ci avevano invitato i ragazzi della Fgc (Federazione giovani comunisti) felici di ricevere così tante figure profetiche del continente, oltretutto scampate all’estinzione. Non avevano però lo stesso entusiasmo i militanti più avanti nell’età e gli organizzatori della festa.

«Minà questa sera nella sala grande abbiamo il confronto tra Vitali e Guazzaloca, forse sarebbe meglio che con i suoi ospiti andasse in un ambiente più raccolto» (Giorgio Guazzaloca fu il primo sindaco di Bologna non di area centrosinistra nel dopoguerra e succedette a Walter Vitali nel 1999, ndr). Era il dibattito tra il sindaco della tradizione progressista della città e quello conservatore che gli sarebbe succeduto. Ricordo che mi scappò una frase sarcastica: «Non solo rischiate di far vincere ai vostri avversari le elezioni amministrative a Bologna, città rossa, ma gli preparate anche il terreno adatto». Quella sera rimanendo nel nostro spazio concerti, assegnatoci dai ragazzi della Fgc, spaccammo in due la festa. Un migliaio di spettatori per la sfida Vitali-Guazzaloca, e altrettanti per noi. Rigoberta firmò 500 libri in poco più di mezz’ora.

Qualche mese dopo Massimo D’Alema invitò a Firenze quasi tutti i leader socialisti delle nazioni più importanti. A sorpresa, però, per il Brasile, non si ricordò di invitare Lula Da Silva, il leader di 50 milioni di brasiliani che votavano a sinistra. Preferì trasmettere l’invito a Fernando Henrique Cardoso, leader della coalizione di centro destra che governava in quel momento. La giustificazione? Cardoso in gioventù era stato un sociologo progressista che D’Alema probabilmente aveva letto. Lula che con bonomia mi ha raccontato questa gaffe, ha ricordato che, quando era già succeduto a Cardoso, D’Alema era volato a Rio con Piero Fassino per il summit dell’Internazionale socialista e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere una mozione di censura per Cuba. È stato lo stesso Lula, che pure è un moderato, a ricordare alla delegazione italiana che «per la maggior parte dei latinoamericani la Revolución è un esempio indiscutibile».

Ora io non so perché, dopo il successo, il Pt si sia disfatto in un pugno di anni. So però che se Lula potesse, rispettando le regole, presentarsi come candidato per le prossime elezioni del paese (a ottobre, ndr), vincerebbe, secondo i sondaggi, senza discussione. Per equità ricordo anche che, l’ex vice di Dilma Rousseff, il presidente sostituto Michel Temer ha venduto l’anima ed è attualmente uno degli uomini più indagati e discussi della storia moderna del Brasile.

Basta leggere il suo curriculum dal quale, per esempio, apprendiamo che nell’inchiesta Operaçao Castelo de Areia, sulla corruzione all’interno dell’impresa di costruzioni Camargo Correa, il suo nome è citato ventuno volte nella lista desunta dalla contabilità parallela dell’impresa. È dunque grottesco che Dilma sia stata sospesa e invece Temer possa governare in sua vece.

Quello che più intristisce è che, ancora una volta, un qualunque Temer, pronto a qualsiasi intrigo, possa, con un colpo di stato moderno (rappresentato da compagnie subdole d’informazione di dubbia provenienza o da trame di servizi segreti o da logge massoniche) impedire a un popolo di vedere trionfare le proprie idee, le proprie scelte e i propri diritti e che tutto questo avvenga con la benedizione di istituti come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e le sette sorelle multinazionali del petrolio. Golpe che noi, farisei occidentali, spesso definiamo grottescamente come «atti di democrazia».

Gianni Minà

 




L’austerità neoliberista

Testo su austerità ed economia di Francesco Gesualdi |


La gestione finanziaria di uno stato non è equiparabile a quella di una famiglia. Lo stato dovrebbe poter spendere a debito per raggiungere alcuni obiettivi sociali. Con l’imposizione dell’austerità neoliberista è diventato quasi impossibile farlo. Un’austerità che l’Europa ha messo da parte soltanto per salvare le banche con 800 miliardi di euro dei contribuenti.

La decisione dell’Unione europea di adottare un sistema monetario che ha come unico obiettivo la tutela del valore dell’euro attraverso i meccanismi di mercato, ha creato non poche difficoltà ai governi e quindi all’intera economia.

Per cominciare bisogna precisare che la gestione finanziaria di uno stato non è equiparabile a quella di una famiglia. Quando si amministra una famiglia la priorità è mantenere le spese nel perimetro delle entrate perché non c’è nessun altro obiettivo da raggiungere se non quello di utilizzare al meglio i soldi che si hanno a disposizione. La differenza tra stato e famiglia l’ha spiegata un economista inglese di nome John Maynard Keynes (1883-1946).

Debito pubblico: prestiti o stampare moneta?

Keynes ci ha insegnato che oltre al compito di una buona gestione, lo stato ha anche quello di promuovere il miglioramento della vita dei cittadini e di stimolare l’economia quando è «imballata». Come dire che in certi contesti lo stato oltre che il diritto, ha il dovere di spendere in deficit, ossia senza corrispettivo di entrate tributarie, che poi significa spendere a debito. Ad esempio, se nel paese c’è un’alta disoccupazione, lo stato non deve limitarsi a spendere ciò che incassa, ma deve espandere i suoi servizi oltre i denari ricevuti dai cittadini in modo da offrire ai disoccupati un’occasione di lavoro e produrre un effetto positivo su tutto il sistema economico grazie all’aumento di spesa generata dai nuovi salari.

Certo, la preoccupazione di tutti nasce dal fatto che il debito è un’arma a doppio taglio: se nell’immediato genera sollievo per la possibilità di realizzare la spesa tanto agognata, in seguito è fonte di preoccupazione per la necessità di accantonare le cifre da restituire per interessi e capitale. Questa regola, però, vale solo in regime di schiavitù monetaria. Per tutte quelle situazioni, cioè, in cui non si ha altra possibilità di procurarsi i denari se non chiedendoli in prestito alle banche. Destino tipico di famiglie ed aziende, ma non dei governi che in condizioni di normalità godono di sovranità monetaria, della possibilità, cioè, di emettere moneta e quindi di finanziare le spese in eccesso con moneta stampata di fresco.

Nella storia del secolo scorso ci sono stati casi importanti di rilancio dell’economia tramite la spesa in deficit finanziata con emissione di nuova moneta. Valga come esempio il «new deal» degli anni Trenta negli Stati Uniti o la crescita economica del dopoguerra in molti paesi europei fra cui l’Italia, l’Inghilterra, la Francia. Ma come tutti gli strumenti, anche «la monetizzazione del debito» (così si definisce le spesa a debito finanziata con nuova moneta), va usato con discrezione perché il rischio è l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato dei prezzi. Ne sa qualcosa la Germania che nel primo dopoguerra si ritrovò con un’economia a pezzi e un prezzo da pagare ai vincitori a titolo di danni di guerra, così esoso da non sapere da che parte rifarsi. Tutto l’oro era stato utilizzato per le spese di guerra, le fabbriche erano distrutte, le case in macerie, la disoccupazione alle stelle. Non sapendo come venirne a capo, i governanti pensarono di risolvere il problema stampando carta moneta. Ma esagerarono e si scatenò un’inflazione impossibile perfino da misurare. Nel novembre del 1923 per comperare un chilo di pane ci voleva più di un chilo di banconote e il francobollo per una cartolina costava 50 miliardi di marchi. Carriole piene di carta moneta servivano a comprare un uovo o un biglietto del tram e se nel 1914 bastavano 4,2 marchi per comprare un dollaro, nel novembre 1923 ce ne volevano 4.200 miliardi. Alla fine molta gente preferì tornare al baratto e usò le banconote per accendere la stufa. La situazione si normalizzò nel gennaio 1924 con l’introduzione di un nuovo tipo di marco che riposizionò tutti i valori.

Memori di questa esperienza, ancora oggi i tedeschi continuano a vedere l’inflazione come il peggiore dei mali e la prima condizione che posero quando vennero avviate le trattative per l’istituzione dell’euro fu di assumere un’architettura organizzativa che evitasse la minaccia dell’inflazione. E convinti che il rischio principale provenisse dai debiti pubblici e dalla pretesa di ripagarli con l’emissione di nuova moneta, chiesero di risolvere il problema in maniera drastica togliendo ai governi qualsiasi possibilità di accesso all’emissione di moneta.

Numeri inventati: 60% e 3%

Per questo oggi ci ritroviamo con un euro governato dal sistema bancario privato capeggiato dalla Banca centrale europea, che ha un unico divieto: quello di prestare direttamente ai governi anche un solo centesimo.

Ma questa è solo una parte della storia. L’altra è che la Bce deve perseguire la stabilità dell’euro. In altre parole deve impedire ai prezzi interni di crescere oltre il 2% e deve garantire la stabilità di cambio con le altre valute straniere. Ed è quest’ultimo capitolo che chiama di nuovo in causa i debiti pubblici. La premessa è che nel sistema di oggi anche il valore delle valute è determinato dalla legge della domanda e dell’offerta. Per fare l’esempio pratico dell’euro, il suo valore cresce quando c’è un’alta richiesta di monete estere che chiedono di essere cambiate in euro, diminuisce quando succede il contrario. Gli elementi che determinano la richiesta di una valuta sono molti, ma i principali sono quelli di carattere commerciale e finanziario.

Sul piano commerciale la moneta di un paese si apprezza quando esporta più di quanto importa, mentre su quello finanziario si apprezza quando il capitale estero che entra è più alto di quello domestico che esce. Per assurdo, uno dei meccanismi che contribuisce a richiamare capitali esteri è la richiesta di prestiti da parte di famiglie, imprese, governi, per cui nessuno stato, nemmeno l’Unione europea, è contrario all’indebitamento. Ma tutto deve rimanere entro certi limiti, sia perché prima o poi i debiti vanno restituiti, sia perché generano interessi che impoveriscono il paese. Del resto chi si indebita troppo finisce per diventare inaffidabile e più nessuno sarà disposto a dargli nuovi prestiti. Tutto ciò spiega perché quando venne istituito l’euro vennero fissati dei paletti ben precisi rispetto all’indebitamento dei governi. Due sono le regole auree stabilite dal Trattato di Maastricht (febbraio 1992): la prima è che il debito complessivo dei governi non può superare il 60% del Prodotto interno lordo (Pil); la seconda è che il deficit, ossia l’eccesso di spesa sulle entrate riferito ad ogni singolo anno, non può andare oltre il 3% del Pil. Due numeri fissati su base politica senza alcun fondamento scientifico: l’uno perché rifletteva la posizione della Germania, l’altro quella della Francia. E a indicare che si trattava di numeri indicativi senza veri effetti pratici, basti dire che nel novembre 1993, quando entrò in vigore il trattato di Maastricht, il debito pubblico italiano era al 121% del Pil, mentre nel 2002, quando venne adottato l’euro, era al 105%.

Per salvare i banchieri

Tutto cambiò nel 2008. Accecati da prospettive di guadagno esose, i dirigenti di molte banche europee avevano impiegato i denari dei propri clienti per operazioni rischiose e azzardate che ora stavano provocando il loro fallimento. Era toccato all’inglese Northern Rock, all’irlandese Bank of Ireland, alla belga Dexia, alle tedesche Sparkasse e Commerzbank, all’italiana Monte dei Paschi di Siena. L’intero sistema bancario europeo stava scricchiolando, i governi potevano decidere di salvare solo i piccoli risparmiatori lasciando banchieri, speculatori e profittatori al loro destino. Invece decisero di farsi carico dell’intero risanamento e complessivamente, dal 2008 al 2014, i paesi dell’eurozona utilizzarono 800 miliardi di euro per salvare banche marce e corrotte: 238 miliardi in Germania, 52 in Spagna, 42 in Irlanda, 40 in Grecia, 8 in Italia. Ma quei soldi i governi non li avevano: per salvare le banche si indebitarono essi stessi. Dal 2008 al 2012 il debito pubblico dei paesi dell’eurozona passò dal 65 al 90% del prodotto interno lordo, il 30% in più di ciò che prescrive il trattato di Maastricht. Ora l’Europa temeva davvero per l’euro. Tanto più che la Grecia già nel 2010 aveva dichiarato di non riuscire più a onorare i propri impegni. Solo l’intervento degli altri stati europei, che fra il 2010 e il 2012 le avevano messo a disposizione 150 miliardi di euro, era riuscita ad evitare la bancarotta. La Grecia è una delle economie più piccole nell’ambito dell’eurozona, ma le autorità europee temevano che potesse rappresentare la classica mela marcia che poteva indurre gli investitori internazionali a ritenere putrido l’intero paniere europeo. Tanto più che tutti i governi avevano superato i livelli di guardia a causa dei salvataggi bancari. E che gli investitori stranieri cominciassero a dubitare della solidità finanziaria dell’eurozona non lo diceva solo il fatto che Irlanda, Italia, Spagna faticassero ad ottenere nuovi prestiti, mentre la Grecia non ci provava neanche più. Lo dimostravano anche gli attacchi speculativi che erano stati sferrati contro i titoli di stato di alcuni paesi europei, Italia compresa. Segno inequivocabile che i mercati stavano dichiarando guerra all’Europa.

Sacrifici e Fiscal compact

Che qualcosa andasse fatto è fuori di dubbio. L’Europa poteva scegliere di usare la propria autorità per disarmare i mercati, proibendo la speculazione sui titoli del debito pubblico e ordinando alla Banca centrale europea di entrare direttamente in gioco fornendo ai governi, se non tutto, parte del denaro che serviva per superare la crisi. Invece non fece nulla di tutto questo. Semplicemente accettò la legge del mercato e si organizzò per dimostrare ai creditori che i governi europei erano debitori affidabili capaci di sottoporsi a qualsiasi sacrificio pur di onorare i propri impegni. Strinse i suoi controlli sulla contabilità dei governi, li obbligò ad ottenere da Bruxelles l’approvazione preventiva dei bilanci pubblici e di qualsiasi altro provvedimento fiscale prima di presentarli ai propri parlamenti. Addirittura li obbligò ad inserire nelle proprie legislazioni condizioni più stringenti di quelle previste dal trattato di Maastricht.

Nel 2012 venne firmato il Fiscal compact, l’accordo che impegna gli stati a rispettare il pareggio di bilancio inserendolo addirittura in Costituzione come fece puntualmente l’Italia per dimostrare alle Borse mondiali che la priorità della Repubblica italiana non è il bene dei propri cittadini, ma il guadagno assicurato a chi lucra con la finanza. È la legge dell’austerità neoliberista che ormai contraddistingue l’Europa e che non saranno certo i don Chisciotte – di destra o di sinistra – a debellare, ma una forza politica consapevole che deve scegliere fra mercati e diritti. Chi pretende di servirli entrambi, finisce per servire i più forti.

Francesco Gesualdi

 




Allamano: Santità… alla mano

Testo su Santità… alla mano di Giacomo Mazzotti | pagine a cura di Sergio Frassetto |


Un bel dono quello di papa Francesco che, con la sua nuova, recentissima Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” ci ricorda: «Il Signore chiede tutto e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente».

Non ha voluto scrivere un trattato, il papa, ma stuzzicare ognuno di noi a non dimenticare che siamo stati chiamati a questa meta (cioè, essere santi), lasciandoci provocare «dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri del suo popolo, che sono i santi della porta accanto». Una santità popolare, allora, alla portata di tutti, «alla mano», ma che, pur crescendo mediante piccoli gesti, diventa feconda per il mondo.

Ed è proprio lui, l’Allamano, (ancora in attesa dell’ultimo balzo per essere proclamato santo) che parlava quasi con le stesse parole ai suoi missionari e missionarie. Erano nati di fresco dalla sua passione per l’Africa, per «i pagani» e, mentre si preparavano alla partenza per quella missione ancora sconosciuta, si sentivano ripetere: «Siete qui per essere missionari della Consolata, ma non potete esserlo se non vivendo e operando in conformità al fine dell’Istituto, che è la santificazione dei membri e la conversione dei popoli. È ciò che vi ripeto di continuo: le anime si salvano con la santità… Missionari sì, ma santi!».

Iniziava, così, l’avventura di tanti – preti, fratelli laici e suore – che, facendo tesoro delle esortazioni (ma ancor più dell’esempio di vita) del loro fondatore, intrecciavano il lavoro apostolico con la preghiera intensa, l’annuncio del vangelo con «la consolazione» e promozione umana, insaporendo ogni passo, ogni gesto, ogni momento con quello che sarebbe diventato il must (!) dei missionari della Consolata: «Prima santi e poi missionari».

La santità è, dunque, la molla, l’anima, il sogno di tutta la nostra vita… proprio come voleva Giuseppe Allamano e come stimola, oggi, papa Francesco, con queste parole così chiare: «Ci mette in moto l’esempio di tanti sacerdoti, religiose, religiosi e laici che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita e certamente a prezzo della loro comodità. La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante».

Chissà se riusciremo a lasciarci spiazzare proprio dall’esempio dei santi…

Giacomo Mazzotti

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Bangui, ferita, in cerca di eroi

Testo di Federico Trinchero – Notiziario da Bangui |


«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nella Repubblica Centrafricana per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinal Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.

Cos’è successo a Bangui? La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando morti e feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione ad un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni stessi musulmani del quartiere.

I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la Messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato – per giorni – in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee. L’episodio di Fatima, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani.

L’abbé Albert, settantun anni e tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale del Centrafrica, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.

In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione Africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione Europea, poi la Minusca, la grande missione dell’ONU (che, pur con tutti suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.

Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni, è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza. Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello Stato.

La guerra in Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo. Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.

Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il Cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.

Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafrica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.

Bwa Federiki
Notiziario dal Carmel di Bangui n° 21 – 8 Maggio 2018




COMIGI 2018, i giovani: “vogliamo una Chiesa libera, meno gerarchica”

Messaggio finale del COMIGI 2018 |


Terminato il Convegno Missionario Giovanile (Comigi), dal 28 aprile al 1 maggio a Sacrofano, i trecento partecipanti ritornano a casa col sogno di una Chiesa libera.

I giovani lo hanno scritto di proprio pugno nelle conclusioni: «Alla vigilia di un Sinodo che papa Francesco non vuole sia sui giovani ma dei giovani, vorremmo dire che se il mondo continuerà a tacere noi grideremo! E cominceremo a farlo nella Chiesa, che vorremmo più povera, più vicina alla gente, inclusiva, meno paternalistica, più misericordiosa e responsabilizzante».

Giovanni Rocca, 23 anni, Segretario nazionale di Missio Giovani, ha consegnato ai suoi coetanei un mandato: «porto via con me un sogno immenso: che da questo convegno possiamo uscire con le maniche rimboccate. Non più da spettatori ma da protagonisti. Ragazzi, abbiamo idee grandi, forti, ben chiare e definite, nulla ci impedisce di realizzarle. Spetta a noi ora!».

I ragazzi delle diocesi italiane che hanno seguito i quattro giorni di relazioni, laboratori, animazione missionaria, hanno scritto che sognano «una Chiesa coinvolgente, flessibile, dinamica, nomade e meno gerarchica».

Sono stati giorni intensi questi, fatti di lectio e relazioni anche da parte dei vescovi (mons. Arturo Aiello, vescovo di Avellino e mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, hanno trasmesso il loro messaggio incoraggiante), ma soprattutto sono stati giorni di incontri, scambio, musica, balli, preghiere.

I ragazzi hanno ascoltato il gruppo rock dei Medison, hanno parlato pubblicamente delle proprie esperienze di vita: sul palco sono saliti Clementa della Guinea Bissau, Barth dalla Repubblica Democratica del Congo, Emma e Sara da Treviso ed altri che hanno raccontato storie di amore condiviso; hanno preso aperitivi con i missionari (padre Claudio Marano ad esempio, ha raccontato cos’è stata la sua vita a Bujumbura, in Burundi).

Sui fogli si leggono desideri come questo: «che la Chiesa sia più umile, che non rinneghi se stessa e annunci al mondo la verità, che sappia sporcarsi le mani agendo concretamente. Che si lasci guidare dallo spirito santo, che ci garantisca di vivere come figli di Dio» e questi desideri verranno recapitati in qualche modo al sinodo.

Il Comigi – evento della fondazione Missio che si tiene ogni tre anni – è stato «la riconferma che siamo qui, ci siamo per davvero- ha detto Rocca-

Siamo pronti a dimostralo coi fatti, con la nostra presenza. La frustrazione e la rabbia resteranno sepolte sotto le macerie del muro del timore che abbiamo abbattuto mettendoci in gioco. Offrendo tutto noi stessi all’altro».

Giovanni Rocca ha parlato dei suoi progetti per «la costruzione di un futuro migliore. Progetti dei quali credevo capaci solo persone lontane da me come Maria e Giuseppe,  ma ho scoperto in questi giorni, che entrambi avevano timore di fronte all’incertezza dell’avvenire».




Fake news, internet, comunicazione … Usiamo la testa

Editoriale su Internet e fake news di Gigi Anataloni, direttore MC |


«La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace». Questo è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra il 13 maggio. È un messaggio di estrema attualità, da leggere con intelligenza e cuore. Nessun frequentatore dell’Internet dovrebbe ignorarlo.

Come direttore di una rivista missionaria, sarei tentato di dire «sono già a posto», quel messaggio «non mi riguarda», perché noi non cavalchiamo «fake news» e «già facciamo un giornalismo di pace» e cerchiamo di pubblicare notizie verificate senza scopi occulti o bramosia di guadagno, senza bombardare i nostri lettori, anzi, chiedendo loro di leggere tutto con la calma necessaria per digerire e controllare quello che scriviamo. Però le parole di Francesco sono un richiamo positivo anche per noi, perché – in verità – non siamo del tutto gratuiti, ma «esigiamo» molto dai nostri lettori: il loro tempo perché ci leggano senza fretta (slow news!), la loro intelligenza perché condividano con noi idee e valori, il loro cuore perché amino, gioiscano o piangano con noi, e la loro azione perché esprimano con i fatti solidarietà e sostegno al nostro servizio ai poveri, ai lontani, al Vangelo. Tutto questo non è poco. Non vi ringrazieremo mai abbastanza per la vostra vicinanza.

Certo è che stiamo vivendo un tempo molto bello per la comunicazione, la quale, grazie alla rete, gode oggi di opportunità, possibilità e servizi positivi e partecipativi, inimmaginabili solo qualche anno fa. È però anche un tempo di grande crisi, non solo quella cronica della carta stampata – libri e giornali -, ma anche dei social – Facebook, in primis – che sembrano aver tradito tutte le aspettattive vendendosi per profitto alla politica e ai gruppi di potere, senza alcuna considerazione per i propri utenti, se non quella del puro sfruttamento commerciale. Così, di colpo, cadono i miti, il re è nudo. Il «popolo della rete» si sente gabbato: siamo traditi, imbrogliati, usati, etichettati, classificati, analizzati, derubati della privacy, considerati come numeri, buoni solo per essere manipolati, sfruttati e rapinati dei soldi, del tempo, della buona fede.

Una visione troppo pessimista della situazione? Forse. Però bazzico nel mondo dell’Internet da troppo tempo per credere alle utopie della democrazia digitale, del tutto gratis, della privacy a tutti i costi, del puro idealismo che ci sarebbe in rete. Utopie che sono state smontate dal realismo dei costi di un sistema sempre più sofisticato e allo stesso tempo sempre più fragile, e dalla comprensione della sua potenzialità manipolativa ed economica. Non per niente alcune delle persone più ricche del mondo – certamente troppo ricche per i miei gusti – hanno a che fare con Internet e le cosiddette nuove tecnologie.

Non sono pessimista e non penso serva demonizzare o boicottare i social (o «quel» social in particolare). Credo invece sia più importante ricordarsi che ogni mezzo è solo un mezzo e come tale va usato, senza farne un idolo da adorare e servire o un mostro da temere. Quand’ero piccolo e mio nonno era l’unico e leggere il giornale nella nostra frazione, se lui diceva «l’ha detto il giornale», questo tagliava la testa al toro. Poi si è passati a «l’ho sentito alla radio», «l’ho visto in tv», fino all’idolatria o al terrore dei «like» dei nostri giorni. No, Internet e social «non tagliano la testa al toro», non ci esimono dal pensare con la nostra testa, dal verificare e dall’usarli responsabilmente.

La tentazione indotta dagli strumenti digitali è quella di farci «agire prima di pensare»: clicca, like, inoltra, condividi e così via. Ci vorrebbe calma, invece. Pensare prima di agire. Fare silenzio, ascoltare e ascoltarsi, verificare. Domandarsi «cui prodest?», chi ci guadagna? E poi chiedesi il perché aderisco a certe idee, diffondo notizie, immagini e filmati: lo faccio solo per puro divertimento personale o per creare e condividere felicità? Ho a cuore gli altri, l’ambiente, il mondo o penso solo a me stesso? Sono prudente o superficiale? Costruisco relazioni, comunione, armonia, gioia e pace o divido, istigo, provoco, alimento l’odio, diffondo paura e diffidenza, creo confusione? È importante mantenere il controllo del tempo, di cui i social vogliono l’esclusiva. Salvare tempo per se stessi, per gli altri e (perché no?) per Dio. A volte sarebbe anche meglio pregarci su prima di agire. No, non semplicemente dire una preghiera, ma pregare, cioè fermarsi nel silenzio, per confrontarsi con la Parola e con i valori, il modo di essere, di pensare e di agire di Gesù. Quel suo «ma io vi dico» (tipico in Mt 5) dovrebbe risuonare in noi, sempre. È l’invito a mettere al centro della nostra vita l’unica cosa che veramente costruisce umanità: l’amore. E l’amore si coniuga con la verità e solo la verità ci rende liberi. Liberi e fratelli. Senza le paure che ci fanno costruire muri, ci imprigionano nella menzogna e ci rendono schiavi di chi non ci considera persone ma numeri, consumatori, elementi di un algoritmo. Da che mondo è mondo con lo stesso strumento si può costruire o distruggere, dipende solo da chi lo usa. Solo la «verità nell’amore» ci rende liberi e liberatori.

Gigi Anataloni




Togo. Il piccolo paese nell’era di Faure Gnassingbé

Testo e foto di Grevisse Musema |


Già super ministro di miniere e telecomunicazioni, Faure diventa presidente nel 2005, dopo 38 anni di regno indiscusso del padre, Eyadema Gnassingbé. Nonostante le difficili premesse, in Togo si apre una nuova epoca. Ma le cose da fare restano molte. A partire da una riconciliazione nazionale sognata e tuttora cercata.

A 39 anni, Faure Gnassingbé succede al padre al potere. Non è certo uno sconosciuto nel suo paese natale, il Togo: ex gran tesoriere e consigliere del presidente, salvaguardava gli interessi della famiglia in seno a diverse imprese privatizzate e installate nella zona franca di Lomé.

Nel 2005, eredita un paese nel quale tutto è paralizzato: c’è un’economia in ginocchio, indebolita da una crisi politica interminabile, la diffidenza dei partner internazionali, un tessuto sociale sfilacciato e senza speranza. Potere d’acquisto, educazione, sanità, nessun settore è risparmiato. Le sfide sono immense.

Ma Faure Gnassingbé è diverso da suo padre: il 20 agosto 2006, sigla con gli attori politici togolesi e la società civile un Accordo politico globale (Apg). La riconciliazione nazionale è il cantiere prioritario, con due obiettivi: mettere i togolesi seduti a uno stesso tavolo di dialogo e aprire spazi per l’opposizione e la società civile, affinché tutti siano coinvolti nel nuovo processo di ricostruzione del paese.

Riconciliazione nazionale e riforme di là da venire

Nel 2009, un decreto del Consiglio dei ministri crea la Commissione Verità, Giustizia e Riconciliazione (Cvjr), un organo voluto per sondare le cause profonde delle violenze politiche nella storia recente del paese, soprattutto nei periodi elettorali, fra il 1958 e il 2005. Tre anni di lavoro permettono alla Cvjr di consegnare a Faure Gnassingbé un rapporto finale nell’aprile 2012.

Dal marzo 2015, il Togo dispone anche di un Alto Commissariato alla riconciliazione e al rafforzamento dell’unità nazionale (Hcrrun), incaricato di mettere in opera le 68 raccomandazioni della Cvjr.

Nel luglio 2016 l’Hcrrun organizza un atelier nazionale le cui conclusioni, affidate a Faure Gnassingbé, devono condurre alla realizzazione di diverse riforme, le principali delle quali, però, a oggi, restano ancora da affrontare: che si tratti della limitazione di un mandato, delle modalità dello scrutinio, della questione del contenzioso attorno al codice elettorale, le formazioni politiche si rimpallano a vicenda la responsabilità dello status quo. In dieci anni, «siamo diventati una curiosità tra i paesi che ci attorniano e che, a differenza nostra, avanzano», si lamenta Dodji Apévon, presidente del Comitato d’azione per il rinnovamento (Car). «Il mio auspicio, in quanto africano, è che questo dibattito sia condotto dai nostri intellettuali, e che essi possano darci piste di riflessione», afferma invece il capo dello stato.

Le riforme che restano lettera morta inducono le opposizioni, nel settembre 2017, a invitare la popolazione a scendere in piazza. Le proteste di portata storica hanno al centro la richiesta di limitazione dei mandati presidenziali a due e la rinuncia al potere da parte di Faure Gnassingbé. Le riforme previste dal governo prevedono in effetti un massimo di due mandati, ma non prevedono la retroattività, cosa che permetterebbe la permanenza al potere del presidente in carica.

Sei mesi dopo l’inizio delle proteste, il 19 febbraio viene avviato il dialogo politico, ben presto interrotto senza esiti.

Grandi sfide: l’impunità

Il Togo ha conosciuto atti di violenza a carattere politico soprattutto in occasione del processo elettorale del 2005. Dalla firma dell’Apg nel 2006, alcune organizzazioni della società civile, in particolare quelle che si occupano di difesa dei diritti umani, fanno della questione dell’impunità un tema centrale della loro lotta. Esse offrono, ad esempio, un accompagnamento giuridico alle vittime perché possano trovare giustizia.

«Le vittime che accompagniamo hanno sporto denunce presso i tribunali e sono ancora in attesa. Purtroppo, gli autori degli atti che deploriamo se ne stanno tranquilli», confida un responsabile di un’organizzazione di difesa dei diritti umani. Le critiche restano severe verso il governo, accusato di non promuovere «l’integrità e lo spirito d’indipendenza dei tribunali, della polizia giudiziaria e delle altre istituzioni che concorrono alla lotta contro l’impunità».

La Cvjr aveva raccomandato, nelle sue conclusioni, l’assunzione da parte dello stato di misure concrete ed efficaci di lotta contro l’impunità. Anche se il governo ha avviato numerose iniziative per promuovere i diritti umani, secondo Koffi Bakpena, militante dell’opposizione, esistono ancora difficoltà per i cittadini comuni nel chiedere giustizia, specialmente per «atti commessi da persone che rivestono incarichi pubblici».

Nuovo posto per l’esercito

L’esercito è spesso intervenuto nelle questioni politiche del Togo, almeno fino al 2006. Oggi, le forze armate si consacrano alla loro vocazione di messa in sicurezza del territorio. «Paragonato agli anni precedenti, il nostro esercito oggi ha un carattere repubblicano. Come vuole la Costituzione, non si immischia più nella politica», afferma un ex membro delle Forze armate
togolesi.

Il dialogo politico?

La messa in opera di un organo permanente di dialogo era una delle condizioni dell’opposizione per la firma dell’Apg. Ma è solo nel 2009 che viene adottato un decreto per creare il Cadre permanent de dialogue et de concertation (Cpdc). Il Cpdc raggruppa partiti che siedono nel parlamento, formazioni extra parlamentari (ordinate secondo criteri precisi) e rappresentanti del governo. Esso lavora in particolare sulle questioni delle riforme, su temi di ordine sociale, si occupa delle condizioni di stabilità delle istituzioni dello stato e offre la possibilità ai partiti politici e alle persone fisiche o morali di fare segnalazioni.

Ma l’impatto reale dei lavori di quest’organo resta un tema di dibattito in seno all’opinione pubblica e anche alla classe politica. Undici anni dopo la sua firma, si può affermare che l’Apg ha contribuito a migliorare la qualità del dibattito politico in Togo. Il panorama si è evoluto: nel 2006, il partito al potere è il Rassemblement du peuple togolais (Rpt), a esso succede nel 2012 la formazione Union pour la république (Unir). L’Union des forces du changement di Gilchrist Olympio è il principale partito dell’opposizione. Oggi all’opposizione spicca l’Alliance nationale pour le changement di Jean-Pierre Fabre, creata nel 2010, che si è imposta nei ranghi degli avversari del regime. Questa formazione invita i suoi militanti a manifestare per «ricordare al potere gli impegni non mantenuti da dieci anni».

Economia in movimento

La crescita economica è stimata al 4,5% per il 2017 contro il 5% del 2016. Proiettata per il 2018, potrebbe raggiungere il 5,3% nel 2019, a condizione che le precipitazioni atmosferiche siano favorevoli. L’agricoltura resta il fondamento dell’economia togolese, con un contributo di 1,7 punti percentuali alla crescita nel 2017, secondo la Banca africana di sviluppo. Nel 2018-2019, il settore terziario dovrebbe beneficiare della capacità del porto di Lomé, esteso grazie all’istallazione di moderni macchinari di trasbordo. La recrudescenza delle proteste politiche, che rallentano l’attività economica dall’agosto 2017, potrebbe comportare una revisione al ribasso delle stime di crescita per il 2018 e 2019.

Il Togo ha fatto progressi in materia di sviluppo, ma la maggioranza della popolazione non ne ha ancora ottenuto benefici. Un togolese su due non ha accesso all’acqua potabile e all’elettricità, il 55,1% della popolazione vive in povertà e il paese non conta che un medico ogni 14.500 abitanti. La formazione offerta dall’insegnamento superiore pubblico non risponde né ai bisogni del mercato del lavoro, né ai problemi di sviluppo del paese, che si classifica 162mo nell’Indice di sviluppo umano del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, secondo il quale il 51% della popolazione vive in una povertà multidimensionale. In un contesto segnato dalla recrudescenza delle manifestazioni politiche, l’organizzazione di elezioni legislative e locali nel 2018 ed eventualmente di un referendum sulla Costituzione potrebbero rallentare l’attività economica.

Apertura al mondo

Il paese si è dotato di infrastrutture moderne. L’immagine della capitale si apre al mondo. Le riforme avviate dal nuovo regime hanno spinto il Togo alla costruzione di un terzo bacino al porto autonomo di Lomé, il solo in acque profonde del Golfo di Guinea. Questo dinamismo si è tradotto in una crescita sostenuta che si è assestata, da cinque anni, ad una media del 5,6%.

Pur continuando a privilegiare le sue materie di esportazione tradizionali (fosfati, cemento, cotone), il Togo ha nello stesso tempo sviluppato altre risorse, nei settori agricolo, minerario e marittimo.

Faure Gnassingbé guarda al partner francese, presente al porto di Lomé con il gruppo Bolloré e sempre influente. Tuttavia, a differenza di suo padre, l’attuale presidente non coltiva reti in Francia e vira in direzione del Commonwealth, aprendo largamente il mercato togolese anche alle imprese cinesi. Questo non per sfidare l’ex potenza coloniale, ma piuttosto per una volontà d’indipendenza. Faure è di una generazione che si vuole disinibita rispetto all’Europa, che conosce bene.

Una diplomazia verticale

Il Togo è un paese nel quale le relazioni storiche con la Francia restano stabili, intense e fiduciose. Oltre 12mila togolesi vivono in Francia e oltre 3.500 francesi sono residenti in Togo. La Francia, in questo paese di 7 milioni di abitanti, è uno dei principali fornitori e detentori di investimenti diretti stranieri.

Nel 2012, il Togo è stato eletto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per due anni consecutivi. Faure Gnassingbé conta su una diplomazia del profitto e questa posizione d’influenza spinge la sua agenda ad avanzare contro la criminalità transfrontaliera nel Sahel e contro la pirateria marittima. Acquisisce fiducia presso i suoi pari della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) e dell’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest (Uemoa). Nel 2014, è stato designato per supervisionare il coordinamento della risposta contro l’epidemia di ebola.

Disoccupazione dei giovani

Secondo l’ultimo rapporto congiunto della Banca africana di sviluppo e dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, l’incidenza della povertà è diminuita del 5% in otto anni. Certo, la metà vuota della bottiglia è ancora ben visibile: «Tre giovani togolesi su dieci sono in situazione di disoccupazione o di sotto-impiego», la grande povertà continua nelle campagne. Malgrado la priorità accordata dal presidente Faure Gnassingbé agli strati più vulnerabili della società togolese il trittico tradizionale cotone-fosfati-porto sul quale si poggia l’economia togolese resta fragile.

D’altro canto, la crisi sociopolitica potrebbe ritardare il proseguimento della messa in opera dell’ambizioso programma di assestamento delle finanze pubbliche in Togo. Questa situazione, quindi, non fa presagire nulla di buono per l’economia togolese nei prossimi mesi.

La scuola

Nel 2008 Faure elimina le tasse scolastiche per le scuole primarie. È una decisione che favorisce l’apertura delle porte della scuola in particolare a migliaia di bambini provenienti dalle zone rurali.

Durante oltre due decenni il sistema educativo togolese ha affrontato enormi difficoltà generate dalle crisi sociopolitiche degli anni Novanta, che hanno provocato una sospensione della cooperazione internazionale. Questa sospensione dell’aiuto ha avuto come effetti quello di indebolire le capacità istituzionali dello stato, di ostacolare la fornitura di servizi di educazione e di erodere gravemente la qualità delle infrastrutture pubbliche di base. In città, se i genitori riescono bene o male a mandare i bambini a suola, la situazione è tutt’altra nelle zone rurali, dove la povertà dilaga. Malgrado la gratuità delle tasse scolastiche, altre condizioni spiegano la non scolarizzazione dei bambini. L’estrema povertà della maggior parte della popolazione, la mancanza di scuole in certi villaggi, la mancanza di personale qualificato in altre. A ciò va aggiunta la corruzione e la manipolazione delle coscienze da parte di certi insegnanti o capi d’istituto.

Alla fine dell’anno scolastico alcuni allievi passano alla classe successiva malgrado le loro insufficienze, cosa che causa preoccupazioni per i presidi e lacune perpetue per gli studenti.

Secondo un rapporto recente dell’Unicef, il Togo registra un tasso netto di scolarizzazione passato dal 75,7% al 90%, un netto miglioramento.

Un uomo poco comunicatore

Riguardo all’aspetto oscuro che il Togo offre sul piano politico in questi ultimi tempi, sull’esigenza di una alternanza politica ai vertici dello stato, Faure Gnassingbé non sviluppa la sua strategia di comunicazione. Secondo Jean-Pierre Fabre, l’oppositore radicale del regime, c’è una sola parola d’ordine: «Cinquant’anni bastano! L’alternanza, sola soluzione a tutti i mali del Togo».

Anche se messa sotto i riflettori della scena politica del suo paese, la personalità del presidente Faure Gnassingbé resta sempre difficile da comprendere.

Grevisse Musema