Nel cuore di Torino c’è un eremo nato dentro l’ex carcere della città. Incontriamo l’uomo che l’ha fatto nascere, Juri Nervo, laico, operatore sociale nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri. Piccolo fratello secolare che abita la quotidianità e le povertà urbane partendo dalla sua relazione liberante con Dio.
Testo e foto di Luca Lorusso
«Non ho tempo. Le giornate volano e non riesco mai a fermarmi. Cerco di mettere ordine in casa, ma abbiamo troppi oggetti, sembra che si moltiplichino». A chi non succede di sentire dire o di pronunciare queste parole?
La vita quotidiana incalza, e il desiderio di fermarsi è messo da parte. Viviamo in una continua tensione tra opposti: da un lato andiamo di fretta, con superficialità, facciamo gesti automatici svuotati di senso, siamo immersi nel rumore, ci sentiamo soli; dall’altro sentiamo il richiamo della lentezza, della profondità, il desiderio di compiere gesti che nascano da un senso e si orientino a un senso, il bisogno di silenzio e di relazioni autentiche.
A dicembre, nel periodo natalizio, questa tensione cresce. Gli stimoli aumentano di numero, mentre il Natale richiama a un evento singolo, a una persona; cresce il pericolo del consumismo, degli acquisti compulsivi, mentre il richiamo dell’incarnazione è al gustare le cose e alla consapevolezza del dono; ci troviamo a planare su giornate costellate di cose da fare, mentre l’invito è a scendere in profondità; siamo spinti all’azione, mentre il richiamo è alla contemplazione; veniamo colpiti da bagliori intermittenti e violenti, mentre sentiamo di aver bisogno di luci tenui che non feriscano gli occhi.
Un eremo in città
Veniamo a scoprire che c’è un luogo a Torino che richiama al silenzio e alla profondità fin dal suo nome: l’Eremo del silenzio.
Un eremo in città. Subito pensiamo che l’idea ci piace: la città è un luogo dove si cercano relazioni ma si sperimenta la solitudine; in un eremo, all’opposto, si va in cerca di solitudine, e si fa esperienza di non essere soli.
Incuriositi, andiamo a bussare alla sua porta nella speranza di trovare qualche risposta alle tensioni di cui parlavamo sopra.
Arrivati in via Paolo Borsellino 3, siamo sorpresi dal luogo: ci troviamo nella zona centrale, a due passi dalla stazione di Porta Susa e dal palazzo di giustizia, di fronte al nuovissimo grattacielo di una nota banca. Ma, soprattutto, ci troviamo davanti al muro alto e scuro dell’ex carcere «Le nuove», fondato a metà Ottocento e attivo fino al 2001.
Accanto a un pesante portone carrabile c’è un portoncino verde, piccolo ma dall’aspetto altrettanto pesante. Un’insegna ci dice che siamo di fronte al museo del carcere di Torino.
L’unico indizio sull’Eremo sta nella scritta incollata sopra una delle due buche per le lettere a sinistra del portoncino.
Ad accoglierci viene Juri Nervo, l’uomo che ha dato vita nel 2011 all’Eremo del silenzio dentro la piccola palazzina interna al carcere dedicata alle donne terroriste: occhi vivaci dietro un paio di occhiali tondi dai colori brillanti, barba brizzolata più folta dei capelli, indossa un giubbotto sportivo sopra un maglioncino grigio. All’anulare sinistro porta la fede nuziale. Si definisce un «ricercatore», un cercatore di silenzio, ma anche un cercatore di pratiche sociali, d’iniziative di aiuto nei confronti di persone in difficoltà: a scuola, in carcere, in ospedale.
Il luogo
Oltrepassato il portoncino del muro perimetrale, ci troviamo di fronte a un altro portone nel secondo muro che circonda tutte le strutture dell’ex carcere. La vista è piuttosto desolante: muri spessi e alti, macchiati dall’umidità e dallo smog, con pezzi d’intonaco staccati, tubi che scorrono lungo le pareti. In più oggi è una giornata senza sole.
Più avanti, attraversando un cortile, un’altra porta conduce dentro la struttura. Alla sua destra, alcuni finestroni lasciano intravedere l’ambiente nel quale le persone recluse ricevevano le visite dei famigliari. Ora è la biglietteria del museo: un muretto di circa un metro di altezza con lastre di vetro di 30-40 cm sulla sua sommità separa la stanza in due. Di qua sedevano i famigliari su delle specie di panche in muratura, di là i detenuti. Oggi, negli orari di apertura del museo, di là c’è il bigliettaio, di qua le persone, spesso studenti accompagnati dai loro insegnanti, che vogliono visitare il carcere.
Juri è attivo sia nel mondo carcerario che in quello della scuola. Ed è stato proprio grazie alle visite al museo delle classi accompagnate da lui che un giorno, otto anni fa, ha scoperto, nella sezione femminile, un piccolo ambiente abbandonato. Lì avrebbe fatto sorgere l’Eremo.
«Ero arrivato in anticipo. Conoscevo da tempo il direttore del museo del carcere, quindi mi sentivo libero di girare nella struttura. Mentre aspettavo che arrivasse la classe che dovevo accompagnare, ho scoperto questa palazzina abbandonata». Attraverso qualche corridoio e diverse porte, Juri ci ha condotti in un piccolo cortile con un po’ di orto, di prato e qualche pianta. Indica di lato, a sinistra, una piccola struttura di due piani. «Negli anni Settanta c’era bisogno di posto per le detenute terroriste, e allora hanno costruito questo fabbricato. Era il loro 41bis. Quando l’ho scoperto, era in condizioni di completo abbandono. Era da un po’ che riflettevo su un luogo nel quale potermi “ritirare”, allora ho parlato con il direttore del museo che mi ha concesso l’utilizzo di quegli spazi, e di lì a poco ho iniziato a venire per risistemarli. Non c’era riscaldamento, luce e nemmeno acqua. Il tetto era bucato e pioveva dentro. Un po’ per volta, con tanto lavoro manuale, sono riuscito a risistemare tutto. Sono stato spesso aiutato da amici e volontari. Molte volte venivo da solo».
Sarà per il tau presente nel logo dell’Eremo, sarà per i quadri e le icone francescane appesi ai muri, ma questo racconto di Juri ci fa pensare a san Francesco che ristruttura la piccola chiesa di san Damiano.
Le celle
Quando entriamo nell’Eremo ci sembra di entrare in un piccolo palazzo di edilizia popolare: oltre il portoncino ci si trova di fronte a una scala che porta al primo piano. Del piano terreno vediamo solo un breve corridoio accanto alla scala che porta a una stanza dove Juri ci dice che stavano gli agenti. Ora fa da magazzino.
L’Eremo vero e proprio si trova al piano superiore: cinque celle che si affacciano su uno stretto corridoio. Tutto qui. Due celle usate come uffici: uno da Juri, uno da Matteo, l’amico e collaboratore con il quale ha fondato «Essere Umani Onlus», l’ente attraverso il quale lavorano nelle scuole, nelle carceri e ospedali. Una cella è stata trasformata in cappella, una in sala incontri e l’ultima in uno spazio da usare per scopi vari.
Sembrerebbe un posto come un altro se non fosse per le sbarre che chiudono (o aprono) ciascuno dei cinque ambienti.
Perché un eremo in città
L’Eremo del silenzio è un luogo appartato ma aperto, difficile da trovare, ma accogliente: «Alla gente piace perché non è bello, perché qui senti più il calore umano che non il calore della struttura», dice Juri Nervo.
Tutti i giovedì dalle 19 alle 20,30 un gruppo di circa 20 persone si trova per pregare, riflettere, condividere. Una volta al mese la preghiera prende la forma di un’adorazione silenziosa. Anima degli incontri è lo stesso Juri accompagnato dal francescano padre Zeno.
Altra figura importante fino a qualche tempo fa è stata suor Silvia, domenicana di Betania la cui congregazione fu fondata da un sacerdote francese di metà Ottocento dopo aver predicato gli esercizi spirituali in un carcere ad alcune detenute. È stata lei a introdurre all’Eremo il giovedì di adorazione silenziosa.
Oltre alle persone che partecipano agli incontri comuni, diverse altre arrivano all’Eremo in orari e giorni diversi per fermarsi, entrare nella cella della preghiera e lì confrontarsi, ciascuna, con la propria cella, il proprio carcere personale di fronte a Dio.
«Le celle, che prima erano di segregazione obbligatoria, diventano celle di segregazione volontaria. Qui sta la follia», dice con risolutezza Juri. «Esci da casa, vieni qui, ti chiudi in un ex carcere perché vuoi trovare la libertà. Chi ti vede pensa che sei matto. Oppure si domanda se c’è una ragione che ancora non vede. Le suore di clausura fanno la stessa cosa. Nel carcere posso trovare la libertà? Secondo me sì, in tutte le carceri. Ad esempio, i genitori con un figlio disabile che vivono in modo sereno quello che ai nostri occhi è un carcere; oppure chi è malato: ad esempio Chiara Corbella (giovane donna malata di tumore che ha rifiutato le cure per portare a termine la gravidanza e morta un anno dopo il parto, ndr), in quello che noi vediamo come il suo carcere, ha trovato la libertà. Ci sono tante carceri che possono essere luoghi di libertà. Certo è che uno deve fare i conti con se stesso: le proprie ferite, lo sbagliare in continuazione e rialzarsi. Senza, ovviamente, arrivare a dire che il carcere, o la malattia, abbiano un senso». E chiosa: «Sapere che io ho un carcere, abitarlo, è già una cosa diversa dal dire “io non ho un carcere e non so dov’è”. No. L’invito è a iniziare a entrarci, a farci i conti. Sei già molto più libero».
Vivere l’eremo per vivere la città
La sfida rappresentata dall’Eremo del silenzio, per Juri, è quella di vivere la preghiera continua e il silenzio anche fuori dall’Eremo. «Anche quando sei nel mondo puoi vivere una dimensione di silenzio e di preghiera. Anche se non sei dentro un eremo», ci dice mentre ci sediamo uno di fronte all’altro attorno a un tavolino nel suo «ufficio». «Ecco che qui entra il discorso della preghiera del cuore del pellegrino russo, della preghiera silenziosa, del konboskini, il rosario ortodosso. Se sei sul pullman, preghi. Se sei all’ufficio postale e stai facendo la fila, hai due opzioni: o ti arrabbi perché l’impiegata è lenta, oppure vedi la fila come una benedizione perché ti stanno dando del tempo per pregare». Per Juri è così: l’Eremo è il luogo dove si ricarica al mattino e dove ritorna nel pomeriggio a ruminare tutto ciò che vive durante la giornata. Nel suo libro scritto a quattro mani con Chiara M., intitolato La cella e il silenzio, afferma: «Sono come un’ape che va in giro nel mondo, a prendere il polline per poi riportarlo nell’alveare e così trasformarlo». A voce aggiunge: «Al mattino esco da casa presto, vado a messa, vengo qui, prendo un caffè nel silenzio, mi organizzo la giornata, poi esco e vado a lavorare in giro, a seconda delle cose che ho da fare nella scuola, negli ospedali… e poi ritorno per ricaricarmi. È bello avere qui il mio ufficio e sapere che oltre il muro c’è la cappella. Ma questo significa che tutti devono avere un eremo? No, io sono convinto che l’eremo non deve essere per forza uno spazio fisico. Per me è un percorso di santità».
Carceri vere
Quando Juri esce dall’Eremo per il suo lavoro, va negli angoli più disparati di Torino: «La mia attività di lavoro coincide con l’attività di Essere Umani, la onlus che ha preso forma con Matteo che collaborava con me già quando io lavoravo in un altro ente». Juri, da sempre impegnato in ambito sociale, quando sentiva che l’organizzazione per la quale lavorava iniziava a stargli stretta si licenziava. L’ha fatto due volte, fino a creare la sua. «Il nome della onlus, Essere umani, ha a che fare con i ragionamenti che ci sono dietro: mi devo ricordare che ho a che fare con gli esseri umani e devo essere umano io stesso. Nelle scuole vado a parlare attraverso le campagne: ad esempio parlo di mediazione dei conflitti in risposta al problema del bullismo. Andiamo a parlare di carcere perché abbiamo l’esperienza del lavoro nelle carceri. Facciamo “didattica sociale”, cioè andiamo a parlare di quello che abbiamo vissuto in prima persona. Ad esempio, parliamo di carcere nelle scuole perché tutti e cinque gli operatori di Essere Umani hanno vissuto e vivono il carcere. Da poco parliamo anche di ospedale: da quando è nato con il Cottolengo un tavolo di lavoro per costruire un percorso di accompagnamento delle persone malate e delle loro famiglie. Siamo partiti con la nostra presenza nel reparto di oncologia dove seguiamo le donne che vengono raggiunte dalla diagnosi di cancro e le loro famiglie, fino a dopo l’operazione. Nel frattempo siamo presenti anche in altri due reparti di lunga degenza fornendo relazioni d’aiuto».
Le carceri sono l’ambito storico di impegno di Juri: «La onlus è giovane, ma l’équipe è vecchia. Matteo lavora con me da 10 anni. Io lavoro al Ferrante Aporti (carcere minorile di Torino, nda) da 18 anni. Inizialmente andavo per proporre attività sportive, poi con il tempo abbiamo iniziato a fare altro, ad esempio lavoriamo con i ragazzi reclusi per i servizi alla struttura, le pulizie interne, la lavanderia, abbiamo fatto un laboratorio sul miele, facciamo accompagnamento allo studio. Nel frattempo, ragioniamo molto se cambiare delle cose, se sviluppare nuovi progetti, nuovi approcci. L’esperienza educativa nella lavanderia funziona così: un operatore sta con un ragazzo per tre ore, tre volte alla settimana. Nove ore alla settimana in un rapporto individuale. Anche il progetto del miele era pensato uno a uno: apicoltore-ragazzo, così anche il sostegno allo studio. Questi però sono progetti complicati da portare avanti, perché nel carcere non ci sono soldi».
Dio abita la quotidianità
Nella ricerca di una dimensione più umana, più profonda, più essenziale del Natale, ci pare che l’Eremo del silenzio, con il suo essere dentro la città, possa forse dirci qualcosa: è un luogo di silenzio immerso nel cuore del baccano quotidiano. La quotidianità qui non è rifiutata o fuggita, ma accolta e abitata attraverso il silenzio che apre la strada a un livello più profondo. Sembra evocare in qualche modo l’incarnazione: l’umanità contraddittoria e dispersa, la città confusa, diviene dimora di Dio.
Così come l’eremitaggio urbano – ci pare di capire – non è il rifiuto dell’urbanità, ma il tentativo di viverla riempiendola di senso, così l’essenzialità del Natale, forse, non sta nel rifiuto superficiale di fare o ricevere regali, di partecipare a banchetti e feste, ma nel vivere tutto questo partendo dal suo senso profondo, compreso nel silenzio, nell’ascolto, nell’accoglienza. Lì si può capire anche quali sono le cose davvero superflue da abbandonare.
Questo eremo sembra evocare l’incarnazione anche per il luogo in cui è sorto. Dio s’incarna, nasce dentro la condizione di uomo, per liberare ogni persona che si trova ristretta in prigioni di ogni tipo.
Chiediamo a Juri un commento sul Natale: «Quando arriva il Natale, con il presepe, il silenzio, la culla, l’asinello, il bue, siamo tutti lì che ci gongoliamo, ma poi facciamo “punto e a capo”, e partiamo con “che cosa regaliamo a tua madre? Che cosa facciamo per i miei genitori? E per i bambini? E per l’amico?”. Io penso che dobbiamo cercare il modo di fare del Natale un momento di vero silenzio. Silenzio personale. Se ci si riesce, è un silenzio che inquieta. Quando tu entri in questo eremo, ed entri in un’ex cella – che rappresenta la tua cella personale, ed è come una “pseudo mangiatornia” -, quando vieni, ti prendi il tempo, stai lì chiuso e stai in silenzio, lì iniziano i problemi, l’incontro con te stesso, cominci a sentirti, con tutti i tuoi pasticci, i pensieri, i problemi… dopo un po’ di decantazione, inizi a capire dove ti trovi, e poi avviene il tuo incontro con Lui.
Il presepe lo vedi quando riesci finalmente a far tacere tutto. La libertà dell’eremita passa dal fare i conti con se stesso. Il Natale dovrebbe essere anche questo: fermarsi realmente, fermarsi per ripartire. Il Natale è l’evento scatenante che rigenera, e non è un caso se nella liturgia c’è tutti gli anni. Perché noi abbiamo bisogno tutti gli anni di ricordarci chi siamo e da dove veniamo e soprattutto cosa abbiamo scelto: Gesù».
Luca Lorusso