Dedichiamo la campagna di Natale alle donne: bambine, adolescenti, adulte, anziane spesso costrette a portare i pesi maggiori nelle loro comunità. Per questo vanno protette, valorizzate e messe in condizione di generare il cambiamento verso società più eque.
Testo di Chiara Giovetti, foto AfMC
Mi chiamo Oyun,
ho dieci anni e vivo alla periferia di Ulan Bataar, la capitale della Mongolia. Sono arrivata qui insieme alla mia famiglia dopo l’ultimo dzud, l’inverno più freddo che c’è. Lo dzud fa diventare tutto bianco e gelido e fa morire moltissime bestie, a volte anche le persone@.
Noi, ad esempio, siamo dovuti venire in città perché avevamo perso tutto. Le nostre pecore, i nostri cavalli e i nostri yak. Erano tanti, io non so quanti, papà li conosceva tutti per nome. Papà è stato triste per tanti giorni, stava sempre in silenzio ed era strano, perché papà di solito è un tipo allegro. Una volta l’ho visto davanti a una pecora stesa a terra, anche lui stava immobile e piangeva. Lui dice di no, ma io l’ho visto che gli scendevano le lacrime.
Alla fine, una sera ha parlato a me, a mamma e ai miei tre fratelli. Ha detto che non si poteva più fare niente, che dovevamo prendere la nostra gher (la casa tenda tipica della Mongolia) e andare in città. I miei fratelli avevano delle facce tristi, io no, in città c’ero stata pochissime volte ed ero curiosa di vedere bene com’era. Ma adesso che sono qui da quasi due anni mi manca andare a cavallo nella steppa, aiutare papà e i miei fratelli a far guadare il fiume agli animali, vedere le volpi o le marmotte che sbucano all’improvviso e poi scappano via.
Dove abitiamo ora, le case sono troppo vicine, si sentono i rumori, a volte si sentono anche le persone litigare e dire cose brutte. E poi c’è un odore cattivissimo, tanta polvere e a volte vedo anche del fumo grigio che, quando lo respiri, ti fa bruciare il naso. Dove abitavo prima c’era solo l’odore dell’erba, delle pecore e del latte e quando respiravi non ti bruciava niente@.
Qui in città vado a scuola e, dopo la scuola, vado dai missionari. Anche loro hanno una gher e al pomeriggio noi bambini possiamo andare lì a giocare, disegnare, fare i compiti. Facciamo anche merenda. La mia amica Sarnai l’altro giorno mi ha detto che era contenta di fare merenda perché la sera, a casa, a volte non mangia niente. La sua famiglia era una delle quattro che teneva il proprio gregge insieme al nostro. Anche loro sono dovuti venire in città dopo lo dzud. Il papà della mia amica non ha un lavoro e certi giorni non può comprare da mangiare. Lui è molto arrabbiato per questo e una volta l’ho visto fuori dalla sua gher che urlava e faceva piangere la mamma di Sarnai. Altre volte l’ho visto che camminava in un modo strano, non riusciva a tenere dritte le gambe, sembrava che gli facessero male. Forse è malato.
Io sono più fortunata, perché mio papà ha trovato un lavoro. Un suo amico che viveva già in città gli ha insegnato ad aggiustare le macchine e adesso lavora nell’officina. Così noi abbiamo sempre da mangiare. Solo una volta che mio fratello si era ammalato la mamma ha dovuto comprargli delle medicine e per un po’ di giorni abbiamo mangiato solo pane e latte perché non c’erano abbastanza soldi. Questa è un’altra cosa che ho notato della città: i grandi parlano sempre di soldi. Quando eravamo nella steppa, invece, papà dei soldi non parlava quasi mai e parlava sempre di pecore. Forse i soldi sono le pecore della città.
Mi chiamo Naisula
e oggi si sposa mia sorella Regina. Sono tornata alla mia manyatta (recinto per gli animali di una famiglia nel quale ci sono una o più capanne secondo il numero delle mogli di un uomo, ndr) vicino a Maralal per un po’ di giorni. Perderò un po’ di lezioni all’università, ma ne vale la pena.
Prima di venire al villaggio sono passata a Wamba per far visita a sister Grace, la missionaria preside della scuola secondaria che ho frequentato: era commossa quando mi ha salutato. Lei sa bene che sono venuta a festeggiare qualcosa di più di un matrimonio ed è anche grazie alla sister se le cose sono andate così.
Era con lei che a scuola parlammo del cut (più esattamente Mgf, mutilazione genitale femminile, ndr), il taglio che le ragazze della nostra «tribù» devono farsi fare per poter essere considerate donne e sposarsi. In quei giorni la nostra preside era molto triste: una delle ragazze della scuola era morta da poco in conseguenza di un’infezione causata proprio dalla Mgf praticata durante le vacanze tra un anno scolastico e l’altro. E pensare che era stata lei a volere il taglio, per non essere trattata con disprezzo – da inferiore – dalle sue compagne di scuola già iniziate.
Noi eravamo spaventate, perché sapevamo che presto la cerimonia poteva toccare anche a noi, o alle nostre sorelle più piccole, come Regina. Allora sister Grace ci parlò della cosa con calma e delicatezza, ma anche con molta determinazione: «Non sono arrabbiata con nessuno – disse -, ma non voglio che questo succeda a un’altra di voi».
Insieme a lei c’era Catherine, una signora di un villaggio non lontano dal mio, anche lei aveva frequentato la stessa scuola anni prima e aveva poi iniziato a lavorare in un centro per la promozione delle donne.
La signora ci parlò a lungo; ci disse di non avere paura, che ci avrebbe aiutate e che sarebbe venuta nei nostri villaggi. Era necessario venire di persona per parlare con i nostri genitori, perché aveva visto che non bastava affrontare la questione solo con noi. Prima che la nostra amica morisse, alcune organizzazioni avevano iniziato a fare delle cerimonie di iniziazione alternative, senza il taglio. Ma le facevano lontane dai villaggi e senza la famiglia, senza il coinvolgimento degli anziani, perciò per la gente del villaggio non valeva niente. E alla fine le ragazze venivano «tagliate» comunque.
Noi sapevamo bene il perché. Nei rituali dell’iniziazione il taglio è solo il culmine più evidente di tanti altri gesti che preparano e celebrano la «nascita di una persona nuova» nella famiglia, nel villaggio, nel clan. E il padre, in tutto questo, ha un ruolo speciale, unico. Ogni padre ci tiene moltissimo, anche il mio. Le famiglie vogliono che sia fatta nella casa dove le ragazze sono cresciute e che la gente del villaggio partecipi alla festa. Anzi, questo è talmente importante che ogni quattordici anni circa, tutte le famiglie di un clan si spostano per mesi in un villaggio speciale, detto lorora, proprio per celebrare l’iniziazione e l’inizio di una nuova generazione.
Catherine venne al villaggio, parlò con la comunità e poi con le singole persone. Parlò anche con i miei tre fratelli e con i loro amici. Spiegò a tutti perché era morta la nostra amica e anche che cosa era successo ad altre ragazze che erano ancora vive ma avevano enormi problemi di salute: erano finite all’ospedale per un’infezione, avevano dolori continui e a causa di questo spesso non potevano lavorare o studiare. La sua proposta era semplice: la cerimonia sarebbe rimasta identica in tutto, tranne che nella parte in cui si faceva il taglio.
Ci volle un po’ perché la gente del villaggio smettesse di rifiutare l’idea. Molti padri e anche diverse madri all’inizio dicevano che, senza taglio, nessuno avrebbe più voluto le loro figlie come mogli. Qualcuno pensava anche che le ragazze avrebbero più facilmente preso malattie come l’Hiv o che sarebbero diventate prostitute.
Catherine rispose a tutte queste obiezioni, con pazienza, tornando al villaggio parecchie volte, anche con gli infermieri dell’ospedale e altre donne che lavoravano con lei al centro. Mio padre a poco a poco si convinse. Disse che non era d’accordo con tutti questi cambiamenti e non li capiva, ma che mia madre aveva ragione su una cosa: le sue figlie non potevano morire come la loro amica. Io e mia sorella ricevemmo il permesso di fare la cerimonia senza il taglio.
Tre anni dopo nostro padre annunciò che stava negoziando la dote con la famiglia di un ragazzo che voleva mia sorella in moglie, una famiglia importante che aveva molto più bestiame di noi. Regina era spaventata. Adesso era entrata anche lei alla secondaria e non voleva lasciarla. E non aveva idea di chi fosse il ragazzo che l’aveva chiesta in sposa. Raccontai tutto a Catherine che tornò al villaggio per parlare con mio padre e mia madre, spiegò loro che Regina era troppo giovane e che per il suo bene era meglio aspettare ancora qualche anno e lasciare che finisse la secondaria. Mio padre si arrabbiò moltissimo: «Ho già accettato la cerimonia come la volete voi», disse, «ora basta. A sposarsi non si muore. Se io non do mia figlia a una famiglia che me la chiede, qualcun altro rifiuterà la propria figlia a un membro della mia famiglia. I miei parenti soffriranno a causa mia e non mi vorranno più fra loro».
Papà sembrava inamovibile e Regina, che si era rassegnata, lasciò la scuola; dimagrì tanto, mangiava a stento e cominciò a non parlare quasi più.
Ma in quei giorni la figlia di un nostro parente perse il bambino che portava in grembo, finì all’ospedale e rimase in vita per un soffio. Aveva sedici anni e il suo corpo, semplicemente, non era pronto per una gravidanza. Mio padre fu molto colpito, credo abbia pensato che quello che era successo era un segno, un messaggio per lui. Non volle vedere nessuno per due giorni, poi chiese lui di vedere Catherine.
Rimasero tanto tempo seduti a parlare su un tronco al limitare della manyatta e quando ebbero finito, mio padre chiamò mia madre, Regina e i miei fratelli e disse a mia sorella che poteva tornare a scuola. Mia madre non mosse un muscolo del viso mentre mio padre parlava, ma Regina dice che appena lui girò le spalle per rientrare in casa lei fece un sorriso come non le aveva mai visto fare.
Regina ha continuato e finito la secondaria e mentre era a Wamba a studiare ha conosciuto Daniel, il giovane uomo smilzo diplomato in elettrotecnica che sta per diventare mio cognato. A dire la verità lo è già: lui e Regina si sono sposati la settimana scorsa in chiesa a Wamba ma hanno voluto fare anche il matrimonio tradizionale qui al villaggio, per rendere omaggio ai loro genitori e alla cultura dalla quale veniamo. La famiglia di Daniel ha anche pagato la dote, come vuole la tradizione.
Guardo il bel viso di mia sorella decorato con ocra rossa, il suo collo ornato di collari colorati, cerco di immaginare la sua gioia quando fra poco indosserà il mporro engorio, la collana delle donne sposate, e ringrazio Dio perché siamo qui.
Mi chiamo Milagros,
ma a scrivere questa lettera è mia nipote, Noellys. Io so leggere ma ho difficoltà a scrivere. Alle donne indigene della mia età non è stato insegnato bene.
Domani partiamo. Lasciamo la nostra terra e andiamo in Brasile. Qui a Tucupita non si può più stare. Il Venezuela ormai è troppo povero. Io ho il diabete e qui non riesco più a comprare le medicine. Mio figlio Raphael ha un lavoro, ma il suo salario di un mese basta appena per mangiare una settimana e niente altro.
Andremo prima in un posto che si chiama Pacaraima. Hanno fatto tutti così. Tutti quelli che sono partiti prima di noi. Sono tantissimi. Poi andremo a Boa Vista oppure a Manaus, così ha detto Raphael. Lui cercherà un lavoro e speriamo di poter stare meglio.
Sono preoccupata, molto preoccupata. Il viaggio è lungo e io sono vecchia. Farò molta fatica. Poi bisogna sperare che tutto vada bene. Che facciamo se i brasiliani non ci vogliono? Se ci cacciano? Se ci attaccano? A qualcuno partito prima di noi è successo@.
E quando saremo di là che cosa succederà? Mio figlio e mia nuora troveranno lavoro? Io potrò aiutarli? Certamente terrò i miei nipoti mentre i loro saranno al lavoro. Io so anche fare le amache e i cesti di moriche. Io e mia sorella Maria lo abbiamo insegnato a tante donne, eravamo le più esperte. Troverò la palma di moriche là dove andiamo? E qualcuno vorrà le mie ceste?
Chiara Giovetti
Queste storie, raccontate da donne immaginarie, non sono inventate, piuttosto le abbiamo messe insieme. Sia le donne che le storie. Le abbiamo ascoltate nella periferia della capitale della Mongolia, dove vivono le bambine come Oyun alle prese con il difficile adattamento alla città. Un’impresa per chi ha vissuto sempre all’aria aperta con le greggi e si trova ora a dover affrontare povertà, alcolismo, violenza ed emarginazione. E un inquinamento mostruoso, con quantità di polveri sottili 133 volte più alte di quelle che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) considera accettabili e una funzionalità polmonare dei bambini del 40% più bassa rispetto ai coetanei che vivono in aree rurali.
Le abbiamo incontrate in Kenya, dove organizzazioni locali – nelle quali spesso lavorano donne formate nelle nostre scuole – cercano di accompagnare le comunità a comprendere i danni causati dalla Mgf e trovare vie alternative all’iniziazione alla vita adulta e al matrimonio.
Le abbiamo intuite nelle parole delle anziane indigene come Milagros, che si trovano a vivere in un mondo capovolto dove nessuno le può più proteggere e accudire perché possano riposare dopo una vita passata a lavorare e prendersi cura della famiglia ma, al contrario, devono rimettersi in gioco e migrare – come a oggi stanno facendo centinaia di migliaia di venezuelani – o, bene che vada, cavarsela da sole@.
Chiara Giovetti
A tutte queste donne è dedicato il nostro Natale. Perché siamo convinti che prima dei doni da scambiarsi e da aprire venga il dono delle persone. E chi dice donna, dice dono.