Cari Missionari
Lettere dai Lettori
In memoria di padre Luigi Palumbo
Una gloria del clero dell’arcidiocesi di Otranto (Le)
Padre Luigi Palumbo nasce il 2 gennaio 1935 a Castrì, Lecce, e va in cielo il 14 aprile 2018, a Boa Vista, Roraima, Brasile. Ordinato sacerdote nel 1963, parte subito per il Brasile e nel 1965 arriva a Roraima. 55 anni di sacerdozio, 55 di Brasile.
Ho avuto la fortuna di conoscere questo coraggioso missionario della Consolata e di trascorrere le più belle giornate della mia vita durante la mia permanenza a Roraima nei mesi di collaborazione vissuti lì dal 1996 al 2001.
La sua gamba era stata accorciata di 10 cm dopo essere stato investito da un fuoristrada su una via di Boa Vista nel 1968, ma il suo spirito emanava un profumo di virtù, che ti afferrava, e di fraternità vissuta in comunione con i suoi confratelli missionari e con il popolo, a incominciare dai poveri, sperduti nelle misere capanne della inospitale savana, lavoratori della terra assegnata dal governo nelle fattorie e masserie dell’immensa Amajarì.
Padre Luigi non lavorava per essere remunerato con denaro o con premi di riconoscenze e onorificenze. Una volta, il proprietario di una fattoria gli chiese: «Padre, ma chi ti paga per il lavoro che stai facendo in questa regione? Il Governo, il Papa, il Vescovo?». Padre Luigi rispondeva sempre con un secco: «No. Io lavoro per la diffusione del Regno di Dio sulla terra».
In un suo viaggio missionario in Venezuela, il vescovo di Bolivar gli offrì ospitalità in una stanza di lusso dell’episcopio, nella speranza di trattenerlo nella sua diocesi bisognosa di clero.
Quella stanza addobbata sfarzosamente con tutte le comodità non era di suo gradimento, per cui padre Luigi ringraziò il monsignore e gli disse: «Me ne vado, perché non mi piace vivere nel lusso».
Padre Luigi era abituato a viaggiare con la bicicletta, con il cavallo, con la moto e con la canoa per stare vicino alle persone, istruirle, celebrare battesimi, matrimoni e, soprattutto, la santa messa per formare comunità cristiane.
Dovunque è passato ha lasciato i segni delle sue opere, ha progettato e costruito chiese fatte di legname e paglia, di mattoni ed eternit, dove non solo si celebravano i sacramenti, ma si insegnava il catechismo e, talvolta, anche discipline scolastiche governative per ragazzi analfabeti.
Il ministero dell’Educazione di Roraima stimava tanto questo giovane missionario, da nominarlo ispettore delle scuole governative, dove i professori risultavano quasi sempre ammalati e invece di svolgere il loro lavoro scolastico, si assentavano per andare alla capitale Boa Vista per i loro affari.
Guarito dopo la frattura della gamba, di ritorno a Boa Vista da São Paolo dove era stato curato, il vescovo don Servilio Conti lo ha nominato primo parroco di Mucajaì, dove ha costruito la nuova chiesa parrocchiale, due saloni, aule catechistiche e due campi sportivi, uno per i ragazzi e uno per le ragazze.
Risale al tempo di padre Luigi l’ampia piazza della Passione, ai piedi di un alto colle, dove il Venerdì Santo, nel pomeriggio, si svolgono alcune scene della Via Crucis con attori del posto, sino alla Crocifissione e alla conclusione con il canto dell’Ave Maria.
Questa celebrazione annuale è diventata una delle manifestazioni folcloristiche nazionali dello stato di Roraima.
A Mucajaì c’erano soltanto le prime classi delle scuole elementari e gli studenti non avevano la possibilità di frequentare il ginnasio nella capitale Boa Vista, distante 60 km e con impervie strade di collegamento.
Padre Luigi non solo ha ottenuto l’istituzione del ginnasio di Mucajaì, ma in mancanza di docenti, ha insegnato religione, morale e storia, dopo aver ottenuto la indispensabile cittadinanza brasiliana.
I miei accenni sulla vita di padre Luigi sono poca cosa rispetto a quello che ha saputo realizzare con le persone da lui avvicinate, formate, istruite e riappacificate.
Padre Luigi è stato un costruttore di chiese materiali e vive. Ha costruito numerose chiese e opere parrocchiali non solo nei villaggi, ma anche nelle città dove è vissuto.
Ha formato, visitando gli abitanti dell’immensa regione Amajarì, e avvicinando tra di loro le comunità cristiane praticanti e operanti nella chiesa.
Non sarei completo se non accennassi alla vena poetica e musicale di padre Luigi.
Io gli ho regalato una chitarra e un mandolino, portandoli dall’Italia, perché era un abile suonatore di questi strumenti musicali.
Durante le celebrazioni liturgiche in qualsiasi parte del Brasile il popolo canta e sa cantare. I cori parrocchiali e gli strumenti musicali, chitarre, tamburi e tamburelli, accompagnano il canto dell’assemblea, non lo escludono, come avviene spesso nelle nostre parrocchie.
Padre Luigi è stato un bravo compositore di canti, soprattutto per la liturgia, autore del testo e della relativa musica.
Ha composto anche un inno ai santi Martiri di Otranto, che io ho tradotto in italiano e pubblicato.
Padre Luigi è stato un uomo di Dio, libero; una voce limpida, un missionario doc, una realizzazione di progetti, un pellegrino fermato solo dalla morte corporale.
Il tuo spirito vibra nelle terre della sua missione, nella sua città natale di Castrì e nell’intera arcidiocesi degli Eroi e dei martiri del 1480 e di ogni tempo.
Mons. Paolo Ricciardi
Otranto, ottobre 2018
Il sole splende negli occhi dei bambini di Bangkok
Il sole splende sulla calda e caotica Bangkok, una megalopoli di 12 milioni di abitanti. Ma, insieme al sole, splende sulla capitale thailandese un’altra luce: il dottor Amporn con suoi 50mila bambini orfani.
Il dottor Amporn viene incontro a mia moglie Paola, a me e ai nostri quattro figli con un sorriso. Uomo semplice e umile, ci fa sentire subito a casa. Piccoli gesti, delicati, poche parole, una conoscenza iniziata con una mail. Grazie all’associazione «Insieme si può», di cui facciamo parte, abbiamo avuto l’onore e fortuna di conoscerlo. […]
Rimasto orfano a cinque anni in un remoto villaggio della Thailandia rurale, Lek (questo è il suo nome da bambino) deve lottare tutta la vita per trovare il suo posto nel mondo. Solo e impoverito, sopravvive chiedendo cibo nei mercati di Surin finché non è reclutato per combattere come bambino soldato nella giungla della Cambogia.
La disperazione e la povertà lo portano a tentare il suicidio finché non incontra padre Alfred Bonningue, prete cattolico francese che lavora nella chiesa di san Francesco Saverio a Bangkok. Il prete si prende cura di lui, le suore gli insegnano l’inglese e i padri gesuiti gli parlano di Gesù e Maria. «Avevo perso mia madre a cinque anni», racconta, «e conoscere Maria, che è gentile e vuole bene a tutti, me l’ha fatta subito amare». Amporn dice di «voler passare l’amore ricevuto da padre Bonningue (morto in Francia nel 2001) ai bambini in difficoltà del paese».
Inizia così il viaggio di Lek per diventare il dottor Amporn, uomo noto come padre adottivo di bambini malati, poveri e indigenti della Thailandia.
Il dottor Amporn Wathanavongs, «il padre adottivo di 50mila bambini», grazie alla sua Ong, la Fondazione per la riabilitazione e lo sviluppo di bambini e famiglie (Fordec), guida oltre 80 attività che mirano al miglioramento delle loro condizioni.
Dopo un lungo periodo Amporn si converte al cattolicesimo e trova la sua strada. Diventa rappresentante per la Thailandia del Fondo cristiano per i bambini, una Ong americana nella quale opera per 25 anni, e, una volta concluso il suo impegno, non va in pensione ma prende i suoi risparmi e fonda nel1998 la Fordec.
Il dottor Amporn Wathanavongs è ora un esperto di pediatria che spesso tiene seminari internazionali. Il «dottore» che precede il suo nome, deriva da una laurea ad honorem conferitagli da un ateneo americano per il suo impegno sociale. Ha pranzato con la famiglia reale thailandese, con i banchieri che reggono il paese e con l’ex presidente Usa Jimmy Carter. Ha conosciuto il defunto papa Giovanni Paolo II, il papa emerito Benedetto XVI ed è fiero dei 19 pellegrinaggi compiuti al santuario di Lourdes, in Francia.
Al momento, la sua Ong supporta circa 15mila fra bambini, poveri, disabili, drogati e persone affette da Hiv.
Accompagnati dal dottor Amporn arriviamo alla scuola materna gestita da Fordec. Duecento bambini, tutti ordinatamente seduti, ci aspettano per accoglierci. Un canto gioioso ci avvolge come avvolgente è l’amore e il senso di famiglia che si respira qui. Bambini, maestre, volontari, cuoche, Amporn: una famiglia che ci fa sentire accolti, indipendentemente dal colore della nostra pelle, dal nostro linguaggio e dalla nostra cultura.
Emanuele, Tommaso, Filippo, e anche il piccolo Francesco, i nostri figli, sono subito impiegati per servire il pranzo ai bimbi della scuola materna. Paola, con le cuoche, distribuisce il cibo nei piatti, io asciugo le mani di tanti bimbi, prima del pasto.
Tante sensazioni e pensieri si affollano nei nostri cuori, l’emozione sale fino agli occhi, e qualche lacrima compare. Un’esperienza, fatta di piccoli gesti quotidiani, che ha un valore inestimabile, che ci fa porre domande, che ci dice: «La vita è bella se è donata, se è condivisa» e, come recitava lo slogan di un nostro weekend missionario della associazione Colibrì di cui facciamo parte: «Non muri ma ponti!».
Luigi Montanari
08/07/2018
Cambogia e Vietnam
Gent. padre Gigi,
ho letto con tantissimo interesse gli articoli relativi a Cambogia e Vietnam.
Sono due stati che mi hanno profondamente colpito per gli orrori che dominazioni, guerre e dittature hanno inflitto alle popolazioni. Nel 2009 ho passato quasi due mesi in quelle zone partendo dal Nord Vietnam, arrivando fino a Ho Chi Min (ex Saigon) e entrando poi in Cambogia dal Delta del Me Kong per risalire fino al sito archeologico di Angkor ai confini con la Thailandia. Buona parte del viaggio l’ho fatto sui fiumi per avere contatti, il meno possibile contaminati dal turismo, con gli abitanti dei piccoli villaggi a ridosso dei fiumi (vedi foto di apertura e qui sotto).
Dagli anziani, soprattutto, ho raccolto testimonianze terribili, difficili a volte anche solo da ascoltare per la crudezza, per l’orrore dei contenuti. Una fra tutte, che non potrò mai dimenticare anche per la partecipazione con cui è stata raccontata, quasi stesse ancora vivendo quella tragedia, è di un pescatore cambogiano. Nel quadriennio terribile dei Khmer Rossi con a capo Pol Pot, paesi e città vennero svuotate con la forza. La capitale Phnom Penh, che contava oltre un milione di abitanti, alla fine del quadriennio ne aveva a mala pena cinquantamila e in buona parte militari. Milioni di persone, compresi vecchi e bambini, vennero ammassati in località decentrate e costretti a lavori massacranti in un clima di terrore. Bastava che qualcuno venisse accusato di tradimento, anche in mancanza di prove, perché venisse torturato e ucciso davanti a tutti. Ma il racconto del pescatore, con le lacrime agli occhi, mi ha sconvolto. La sorellina di 10 anni, affamata come può essere un bambino senza cibo, aveva visto delle mele e ne aveva presa una. È stata picchiata, denudata, legata a un palo dopo che le era stato spalmato sul corpo qualcosa di appiccicoso per attirare formiche e altri insetti. È rimasta così una notte intera per essere poi ammazzata, ormai in fin di vita, con un colpo di pistola la mattina seguente. Questa è la più terribile storia descritta, ma tante altre, soprattutto da parte di mutilati da mine, come è ampiamente raccontato negli articoli, non erano facili da ascoltare. In particolare quando si trattava di bambini. Gli americani, che si vantano di essere i depositari della democrazia (da dove poi abbiano maturato questa convinzione ricordando la segregazione razziale fino agli anni ‘60), hanno lasciato in Vietnam e Cambogia conseguenze disastrose inimmaginabili. Città e paesi rasi al suolo, villaggi dati alle fiamme, vecchi, donne e bambini uccisi come bersagli da tiro a segno, per non parlare poi delle tonnellate di prodotti chimici sganciati dagli aerei (anche questo ben descritto negli articoli) che hanno reso praticamente incoltivabili i campi, comprese le risaie, importantissimo settore di quelle zone, provocando povertà insanabile e morti di fame. Si calcola che in quel periodo, solo in Cambogia, vi furono non meno di due milioni di morti, senza contare i mutilati, gli intossicati dalle esalazioni chimiche, i nati con gravi handicap. Un vecchio mi diceva che ogni famiglia aveva avuto almeno un morto e lui era riuscito a scamparla per una serie di circostanze incredibili.
Purtroppo, sembra che tutto questo non abbia insegnato nulla poiché vediamo ancor oggi gli stessi orrori perpetrati in Medio Oriente.
Mario Beltrami
05/10/2018