Il (Burkina Faso) paese che ha vissuto negli ultimi anni un’insurrezione popolare, un tentativo di colpo di stato e tre attentati sanguinari nella capitale, si confronta oggi con un incremento di attacchi terroristici sul suo territorio. Il tema della sicurezza domina il dibattito politico, mentre la società civile si divide e non riesce a giocare il ruolo di guardiana del potere. La vita quotidiana è influenzata dall’incertezza e da un nemico invisibile. E c’è chi dice che nell’ombra trami l’ex presidente-dittatore Blaise Compaoré.
Testo e foto di Marco Bello
Percorriamo la strada che dalla capitale Ouagadougou porta a Ouahigouya, nel Nord. Lungo tutti i suoi 180 km, vediamo di lato un fossato scavato e poi ricoperto. Ogni tanto spuntano dal terreno grossi cavi neri chiusi con un tappo colorato. È una visione che contrasta con la brousse, la campagna saheliana. Quel cavo è la fibra ottica che porta dati e connessione internet anche nei luoghi più remoti dell’Africa. È arrivata anche qui e presto sarà operativa.
Ma nel Burkina Faso di oggi, proprio Ouahigouya, città a 70 km dal confine con il Mali, è anche il limite della cosiddetta «zona rossa». Nella cartografia della sicurezza, la mappa aggiornata dall’ambasciata di Francia (in questo caso), il paese è diviso in zone: giallo, arancio e rosso. Il giallo corrisponde a «vigilanza rafforzata»; l’arancio a «zona sconsigliata, salvo per ragioni imperative»; mentre il rosso è «formalmente sconsigliata». Per il Burkina quest’area «proibita» agli stranieri coincide con tutta la banda di frontiera con il Mali, il Niger e parte del Benin. In queste zone, è più probabile che i jihadisti (terroristi islamisti, come li chiamano qui), i banditi e molti altri gruppi compiano attacchi o rapimenti.
Ebbene sì, il tranquillo Burkina Faso, terra di tolleranza e di convivenza pacifica tra etnie (ben 60) e religioni1, si sta trasformando in un territorio di conflitto, seguendo il contagio dei paesi vicini, Mali e Niger in prima battuta, in un’area, quella dell’Africa dell’Ovest, che è ormai tutta piuttosto instabile.
Come cambia la vita
A Ouahigouya, frontiera della zona rossa, incontriamo Adama Sougouri, direttore della radio comunitaria «La Voix du Paysan» (la voce del contadino). La radio trasmette in otto lingue locali e porta avanti un lavoro educativo, oltre che informativo, tipico di un media di comunità. «Il problema dell’insicurezza ha cambiato il modo di vivere qui nel Nord – ci racconta il direttore -. Quando è cominciato, ci dicevamo che da noi non sarebbe successo come in Mali, con i rapimenti e gli attentati. L’esercito aveva rinforzato i presidi, ma d’improvviso la nostra regione è stata messa in zona rossa a livello internazionale e questo ha giocato molto sull’organizzazione della vita e in particolare sull’economia». Questa, fino a poco tempo fa, era una zona di passaggio dei turisti per andare a visitare i famosi «Paesi Dogon» in Mali. Hotel, ristoranti e anche molti artigiani, giovani in particolare, e commercianti vivevano di turismo. Oggi il settore è in ginocchio. Anche l’associazionismo che viveva di partenariati con Ong e associazioni europee ha visto una drastica riduzione dei propri progetti, «perché gli stranieri qui non vengono più».
A livello sociale il clima d’insicurezza ha creato la «paura del prossimo», continua Sougouri. «Questa situazione è vissuta come un’incertezza, non si capisce cosa potrebbe succedere da un momento all’altro. Oggi ci sono località nel Nord dove due vicini che si conoscono bene, non hanno più fiducia uno dell’altro. Perché qualcuno è stato scoperto a trattare con questi sedicenti ribelli o jihadisti. Tutti hanno paura di tutti». Ma c’è anche chi approfitta di questa situazione: gruppi di banditi che vivono di saccheggio.
«Alcune scuole sono state chiuse perché gli insegnanti sono stati prima minacciati, accusati di insegnare il francese ai bambini, e poi uccisi a sangue freddo». Stessa sorte è successa ad amministratori e funzionari comunali, sgozzati nelle loro povere sedi comunali.
«Non sappiamo se siano jihadisti o criminali comuni. Per tutto quello che succede usiamo la parola terrorismo. Ma è questa la strategia reale dei jihadisti?». Si interroga il direttore: «Creare una situazione di paura, di psicosi nella popolazione, per poi mettersi di lato e guardare la nostra società disgregarsi».
Il grande Nord
Con un pick-up sfrecciamo sulla pista di laterite che da Ouahigouya conduce a Titao, a Nord Est. Penetriamo ancora di più in «zona rossa», ma vediamo solo il verde del sorgo e del miglio dei campi, che, grazie a un’ottima stagione delle piogge, è cresciuto rigoglioso. Incrociamo, nell’altro senso di marcia, due camionette zeppe di militari della gendarmerie, in assetto da combattimento, con elmetti, kalashnikov e le mitragliatrici sul tettuccio, pronte – sembrerebbe – a sparare. Deve essere, pensiamo, una pattuglia di stanza nel comune di Titao, che ha finito il turno ed è stata rimpiazzata.
Giungiamo nel villaggio di You. Qui un gruppo di donne ci accoglie festanti, perché un progetto della Ong Cisv, finanziato dal Fondo Fiduciario di emergenza dell’Unione europea2 ha consegnato loro delle capre. Potranno farle riprodurre e vendere i piccoli, godendo così di un piccolo reddito per lottare contro la fame. Incontriamo poi degli agricoltori, scelti tra i più poveri del villaggio, ci assicurano quelli di Cisv. Sono in un campo di niebé (fagiolo autoctono). Lo stesso progetto li ha aiutati a strappare questa terra all’erosione, grazie a tecniche locali e ha insegnato loro come coltivare con metodi più naturali, agroecologici.
La gente è serena, contenta della visita. Non si avverte la tensione tipica da «zona rossa».
Alcuni giorni dopo la nostra visita, il 23 settembre, a un’ottantina di chilometri più a Nord, un’auto dell’impresa che sfrutta la miniera d’oro di Inata, la ghanese Balaji Group, verrà fermata da una quarantina di motociclisti armati sull’asse Tongomayel – Djibo. I tre occupanti, un burkinabè, un indiano e un sudafricano verranno rapiti. I gendarmi lanciati all’inseguimento lasceranno tre morti sul terreno. Alcuni giorni dopo interverranno pure i Mirage francesi (aerei da caccia), dell’operazione Barkhane3, a bombardare la zona. Ma è difficile colpire delle motociclette nel deserto. E ormai il gruppo riparerà nel vicino Mali.
Fronte dell’Est
Da agosto sono cominciati attacchi nelle regioni ad Est del Burkina Faso, tanto da far scrivere ad alcuni media che è nata una nuova cellula jihadista in questa zona.
Il culmine si ha il 17 settembre, con il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano della Sma di Genova, in una località nigerina, nei pressi della frontiera con il Burkina. Era nella sua parrocchia, dove lavorava dal 2007. L’ipotesi più accreditata è che il padre sia stato rapito dal gruppo che imperversa nell’Est del Burkina, in fuga dalle forze di sicurezza. Può essere stato portato nella foresta della Tapoa (Burkina), oppure verso il Mali lungo un corridoio Sud-Nord sulla frontiera Burkina-Niger.
Ricordiamo che numerosi sono i gruppi integralisti di base nel vicino Mali (cfr. MC ago-set 18 e giugno 17), alcuni legati ad Al Qaeda e altri all’Isis. Il gruppo che più ha influenzato il Burkina è il Fronte di liberazione di Macina, di Amadou Koufa, che ha pure ispirato la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, nato proprio a Djibo, nel Nord. I tre attacchi eclatanti a hotel, ristoranti e, l’ultimo, all’ambasciata francese e allo Stato maggiore dell’esercito (marzo 2018) sono stati compiuti da altri gruppi della galassia maliana, come Al Murabitun. Qualcuno teme anche l’arrivo in Burkina di Boko Haram, il gruppo estremista nato nel Nord della Nigeria e in guerra aperta con Niger, Ciad e Camerun (cfr. MC ottobre 16). Gruppo che però agisce in modo geograficamente circoscritto, la cui presenza qui pare improbabile.
Che fa il governo?
«L’opposizione critica il governo sulla questione della sicurezza, ma in realtà questo non può fare di meglio, per i mezzi che ha. Ha pure organizzato una sezione speciale all’Assemblea Nazionale (parlamento, ndr) per valutare il budget militare che penso sarà aumentato sostanzialmente», commenta Germain Nama, direttore del giornale «L’Evénement» e giornalista impegnato per i diritti umani.
«Ma la questione della sicurezza non è solo una questione militare, perché si tratta di una guerra asimmetrica, con attacchi terroristici. Contano molto i mezzi tecnologici moderni, così come i servizi di sicurezza, per cui lo stato deve investire in questi aspetti».
Da notare che l’intelligence del regime di Compaoré, che era piuttosto forte e radicata, è stata smantellata, e ora costituisce uno degli aspetti deboli delle istituzioni.
Continua Nama: «Simon4 (Compaoré, ndr), è venuto qui in redazione e lo abbiamo intervistato. Quando gli abbiamo chiesto se la natura di questo terrorismo è, secondo lui, la stessa di quella del Nord o se ci sono nigeriani, ha detto che non ci sono elementi per dirlo. È poi stata diffusa quella rivendicazione poco credibile. Occorre essere prudenti». Si riferisce a un video mal fatto, che è circolato sui social in Burkina, nel quale alcuni uomini vestiti da jihaidisti, affermano di appartenere a una sedicente cellula legata ad Al Qaeda e rivendicano gli attacchi nell’Est del paese.
Richieste sociali
Se la questione degli attacchi e della sicurezza occupa molto il dibattito nazionale, un altro aspetto importante sono le rivendicazioni della società civile. Una parte di essa, quella dei lavoratori organizzati, ha visto, negli ultimi tre anniuno, un particolare slancio rivendicativo.
Incontriamo Mamadou Barro, già segretario generale della Federazione dei sindacati nazionali dei lavoratori dell’educazione e della ricerca, il maggiore sindacato degli insegnanti. «Sul piano sociale, le richieste sono molto forti. Nei settori strutturati, come quello dei salariati, sia della funzione pubblica che del privato, molti scioperi si sono susseguiti. Per noi è l’espressione delle frustrazioni, contenute e soffocate o represse durante gli anni del regime autocratico, quasi dittatoriale, di Blaise Compaoré». Mamadou Barro si collega al passato regime, quello di Blaise Compaoré, durato 27 anni e caduto sotto la rivolta popolare dell’ottobre 2014. «L’insurrezione ha indebolito chi detiene il potere, sono stati creati molti sindacati negli ultimi tre anni. Anche in settori che non avevano mai avuto un sindacato».
Continua il sindacalista: «Ma anche i settori non strutturati, come quelli dei contadini, cercatori d’oro artigianali, abitanti dei quartieri, stanno facendo rivendicazioni sulla sistemazione del territorio, la bonifica delle strade e l’accesso ai servizi sociali di base».
«Il fallimento del regime precedente è anche di questo attuale, perché, se prendete gli uomini ai vertici di oggi, hanno tutti avuto ruoli di primo piano ieri. Rifiutando di tenere in conto le richieste della cittadinanza per il miglioramento delle condizioni di vita in termini di lavoro, accesso ad elettricità, acqua, scuola di qualità, cure mediche, i dirigenti di oggi decidono di continuare su una linea fallimentare».
Secondo la lettura di Barro, l’insicurezza viene utilizzata in modo strumentale dal governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré: «In questo contesto si inserisce la separazione che il potere cerca di creare tra le problematiche di sicurezza e le richieste sociali: sapendo di non avere risposte alle questioni sociali, allora agita la questione dell’insicurezza come la via per la quale si deve fare l’unione sacra». Ovvero uniamoci per far fronte all’insicurezza e dimentichiamoci gli altri problemi.
«E diventa quasi un ricatto: se parlate di un problema, se siete contro il governo, significa che non amate la nazione in pericolo, attaccata dagli integralisti».
Secondo Germain Nama, questo governo è comunque riuscito a dare qualche risposta. Almeno nel campo della sanità, con la legge che rende gratuite le cure per le donne incinte e i bimbi sotto i 5 anni (una prima assoluta) e la costruzione di dispensari nelle province. Altro campo è quello dell’educazione, con al costruzione di infrastrutture scolastiche. Anche diverse strade cittadine sono state asfaltate.
Giustizia: a piccoli passi
Per quanto riguarda i dossier pendenti in Giustizia, alcune importanti novità sono state confermate dal processo sul tentato golpe del 16 settembre 2015. In particolare è stato confermato che Blaise Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, era dietro all’operazione.
Altri dossier importanti in fase istruttoria sono quello sull’insurrezione del 2014 e le sue vittime, che vede imputato il regime Compaoré; il dossier sull’assassinio di Thomas Sankara e i suoi compagni (15 ottobre 1987); il dossier sull’uccisione cruenta del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998), per il quale è incriminato François Compaoré, fratello del presidente, e altri.
«Mi sembra che le cose vadano avanti, in qualche caso si aspetta di terminare l’istruttoria, in altri, come per Zongo, si attende l’estradizione di François, arrestato in Francia». Ma la popolazione soffre anche per la crisi economica che morde il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo. «I veri problemi non sono affrontati», denuncia il quadro burkinabè di una Ong internazionale. «La mancanza di lavoro per i giovani, un’economia che sta peggiorando, causando un deterioramento delle condizioni di vita di tutti. Ho l’impressione che la linea di questo governo non sia di rottura con il passato regime».
Nama ricorda che «i commercianti non sono contenti, perché dicono che i soldi non circolano, mentre prima (dell’insurrezione del 2014, nda) c’erano più soldi e più lavoro. Forse prima erano soldi sporchi …».
Anche un falegname della capitale Ouagadougou ci dice che si lavora molto di meno e lui ha dovuto licenziare diversi aiutanti, e rimanere solo con suo figlio. L’economia in effetti ha subito un rallentamento dopo il cambio di regime.
Dov’è finita la società civile?
Che ne è stato del movimento della società civile che ha condotto l’insurrezione e poi si è opposta al colpo di stato del 2015? Le premesse erano che la presa di coscienza cittadina, incanalata attraverso un certo tipo di associazioni, avrebbe esercitato un potere di «controllo» sull’operato del governo.
Ma la società civile, almeno la componente che aveva guidato l’insurrezione, ha perso credibilità. «Molti leader sono caduti per soldi o potere», ci dice il quadro dell’Ong. «I movimenti più a sinistra hanno rimproverato ai gruppi di spicco, in particolare il Balai Citoyen5, di aver accettato i militari al potere. I capi di Balai sono poco critici del potere attuale, proprio perché hanno questo “peccato originale”. Se avessero tenuto le distanze, avrebbero potuto rimanere credibili e denunciare ancora l’operato di questo governo».
Il sindacalista Mamadou Barro è ancora più netto: «Non è più un segreto oggi: sono i dirigenti di Balai Citoyen che hanno convinto Isaac Zida a prendere il potere». Il 31 ottobre 2014, dopo la fuga di Blaise Compaoré, si era creato un momentaneo vuoto di potere. Il tenente colonnello Zida, che era il numero due della guardia presidenziale, i fedelissimi dello stesso Compaoré, si è imposto presentandosi sulla piazza dell’indipendenza, circondato dai responsabili di Balai Citoyen. «Zida non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi in quella piazza, se non fosse stato circondato dai beniamini della stessa. Il loro obiettivo era quello di mettere in piedi un regime militare, ma penso che neppure le potenze imperialiste (Francia, Stati Uniti, nda) fossero per questa soluzione. C’era gente che lo ha contestato, molti manifestanti erano contro alla sua presa di potere». Le potenze straniere hanno fatto sì che si creasse un governo di transizione con un presidente, Michel Kafando, che non è un militare. Però Zida è riuscito a rientrare dalla finestra, diventando ministro della Difesa. Poi, dopo un anno di transizione, con la scusa di una missione in Canada, è rimasto in quel paese, e da allora non è mai più tornato. La giustizia del Burkina lo cerca perché avrebbe fatto sparire molti fondi dello stato.
Oggi Balai Citoyen cerca di tenere vivo l’interesse organizzando incontri e dibattiti. Come le 72 ore organizzate proprio a Ouahigouya a inizio dello scorso ottobre.
«Hanno una struttura, ma non sono più così popolari – continua Barro -. Inoltre penso che gli Stati Uniti in qualche modo li finanzino, perché realizzano attività che senza fondi esterni non sarebbero possibili». Il sindacalista ci tiene a sottolineare la differenza tra il suo movimento e il Balai: «Cinquantotto anni dopo l’indipendenza, non riusciamo a liberarci, ma la coscienza è aumentata e molti, in particolare tra i giovani, hanno capito che ci vuole la rottura antimperialista. Finché non la facciamo non avremo uno sviluppo. Nel nostro paese c’è un movimento che ha delle forze e propone un altro modo di concepire il nostro destino nazionale, diverso dal medicare gli aiuti. E il Balai Citoyen non fa parte di questo movimento. Non possono neppure, perché ricevono finanziamenti dai paesi imperialisti».
Scopriamo che Balai Citoyen è il principale partner burkinabè del progetto «Justice and Security Dialogues» della statunitense United States Institute of Peace (Usip). Si tratta di un istituto nazionale indipendente fondato dal Congresso (il parlamento statunitense), che lavora in diversi paesi nell’ottica della riduzione dei conflitti come strategia per la sicurezza Usa. Di fatto è l’ente governativo Usa per la promozione della pace.
Salita all’onore delle cronache nei giorni dell’insurrezione, Balai Citoyen è in realtà una organizzazione piuttosto giovane, nata sull’onda delle manifestazioni del 2013. Altre sono le associazioni che hanno portato all’insurrezione di fine ottobre 2014. «Loro erano nei momenti giusti nei posti chiave», dice il sindacalista, che ricorda invece l’Organisation démocratique de la jeunesse (Organizzazione democratica della gioventù) come attore importante. «Quelli di Balai sono arrivati all’ultimo momento, mentre altri gruppi, come Cgtb6 (Confédération générale du travail du Burkina, ndr) e Mbdhp7 (Mouvement burkinabè des droits de l’homme et des peuples), hanno portato avanti la lotta per anni», ci conferma il quadro dell’Ong. Un movimento sociale che ha radici fin dalla fine del 1998, quando, l’indignazione per l’assassinio di Norbert Zongo causò l’inizio di un percorso di lotta per lo stato di diritto nel paese.
Il nemico che non vedi
In Burkina Faso, oggi si ha l’impressione che né la gente né le istituzioni siano abituate a questa situazione e che le misure di sicurezza non facciano parte del loro modo di essere. Anche se i muri si alzano e cingono di filo spinato. Fatto quasi inesistente anche solo pochi anni fa. Si percepisce una certa paura, mentre la gente cerca di condurre la sua vita in modo normale, con tanto di birra alla buvette (bar di strada) dopo il lavoro e il sabato sera. Eppure si capisce che il contesto non è più lo stesso di pochi anni fa nel paese degli uomini integri. C’è un nemico invisibile, che talvolta si materializza e fa parlare di sé. Intanto la fibra ottica è arrivata in zona rossa.
Marco Bello
(fine prima puntata – continua)
Note
(1) In Burkina Faso si contanto 60 etnie, di cui le maggioritarie sono: mossì, gourmanché, fulbé (peulh), bobo e bissa. Anche a livello religioso c’è sempre stata ottima coabitazione: 60% musulmani, 19% cattolici, 5% protestanti, più culti tradizionali.
(2) Fondi fiduciari di emergenza dell’Ue: si tratta di un pacchetto di aiuti stanziati all’incontro della Valletta (novembre 2015), per alcuni paesi africani. L’obiettivo dichiarato è la stabilità e la migliore gestione delle migrazioni.
(3) Operazione militare francese anti terrorismo attiva in 5 paesi: Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania, dal 1 agosto 2014.
(4) Simon Compaoré, già ministro dell’Interno e della sicurezza, figura di spicco del vecchio e del nuovo regime e oggi ministro alla Presidenza della repubblica.
(5) Balai Citoyen (scopa cittadina), movimento della società civile, nato nel 2013, ha acquisito notevole visibilità durante l’insurrezione popolare, grazie a un’accorta strategia comunicativa.
(6) Cgtb, Confederazione generale del lavoro, è una confederazione sindacale, creata nel 1988, raggruppa 12 sindacati nazionali e 70 sindacati d’impresa.
(7) Mbdhp, Movimento burkinabè per i diritti dell’uomo e dei popoli, fondato nel 1989, è la maggiore associazione per la difesa dei diritti in Burkina Faso.