Preghiera 19. La preghiera traghetta nelle tempeste della vita


Proseguendo la puntata precedente [MC, ottobre 2018], continuiamo l’immersione nella Parola di Dio, pregando con il racconto della tempesta dominata da Gesù, come la racconta Marco (cfr. Mc 4,38-41), il primo degli evangelisti scrittori, che c’impegna in questa e nella prossima puntata del mese di dicembre. Gesù ha un progetto di mondo, di vita e di relazioni che chiama «regno di Dio». Esso riguarda tutta l’umanità, non è riservato a una categoria (religiosa, sociale o etnica), ma per sua natura è universale, quasi a dire che il Dio di cui è testimone si colloca al di sopra di ogni differenza o etnia storica: «Sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). A questo progetto universale di «ben-essere» si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il dubbio dell’assenza di Dio, il senso di abbandono anche da parte di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere?

Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (mare e tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (i demoni). C’è un motivo teologico dietro questo schema: l’uomo Gesù testimonia la potenza di Dio che è sempre in uno «stato di esodo»: libera la creazione e l’umanità dalla schiavitù del male che le imprigiona. L’evangelista attribuisce a Gesù gli stessi poteri che l’AT attribuisce a Dio, creatore dell’universo e liberatore del suo popolo Israele, perché, come lui, impone alle acque di ritirarsi e, come lui, si prende cura di tutti gli Àdam e le Eva di ogni tempo, offrendo loro un giardino di felicità (cfr. Gen 1-3) che chiama «regno di Dio».

Siamo certi che l’interpretazione sia questa perché lo stesso evangelista (cfr. Mc 1,24-27) ha già descritto un racconto di esorcismo con la stessa struttura del racconto della tempesta. Solo leggendo in parallelo i due testi, si rende evidente l’obiettivo spiccatamente teologico di Mc, interessato a presentare Gesù come il rinnovatore dell’intera storia della salvezza. Egli, infatti, con la sua presenza e la sua testimonianza riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», domina gli spiriti del male che rendono schiava l’umanità, come fece il serpente nel giardino di Èden (Gen 3). Nello stesso tempo impone la propria autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1), dove si afferma che tutto esistette in forza della parola: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3-29). «Parola e fatto», in ebraico «Dabàr». In Dio la Parola è sempre un fatto, mai è vana. Questo dovrebbe farci riflettere sul nostro concetto di preghiera, perché spesso le nostre sono solo parole vacue, stanche se non «morte parole».

Due racconti, un insegnamento

Gli ebrei e i cristiani che conoscevano molto bene la Bibbia ebraica e quella greca della LXX, erano spinti in questo modo ad abbinare la persona di Gesù con Yhwh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e salvatore (Sinai). Ecco i due racconti in sinossi.

Tempesta sedata (Mc 4,38-41) Schema Esorcismo indemoniato (Mc 1,24-27)
4,38 Lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Rimproveri

a Gesù

1,24 «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
4,39 Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Minacce

di Gesù

1,25 E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
4,39b Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Obbedienza

a Gesù

1,26 e

1,27b

E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui…
4,41 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?» Timore

e stupore

1,27a

 

1,28

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»

Gli stessi rimproveri di Gesù si trovano nella guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (cfr. Mc 3,11-12). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio, mandato a riprendere in mano l’opera creatrice iniziale compromessa da Àdam ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori che domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione, per responsabilità dei progenitori, fu assoggettata alla decomposizione (cfr. Rm 8,20-23) perché il peccato di Àdam ed Eva immise nel mondo la corruzione, la distruzione e la morte (v. diluvio in Gen 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (cfr. Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» creatore, venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione che si chiama «regno di Dio» e che bisogna conquistare con determinazione (cfr. Lc 16,16 e Mt 11,12).

Preghiera:

Signore, se guardo la mia vita, la mia giornata, il mio lavoro, mi accorgo che, forse più spesso di quanto io stesso non creda, non «sento» la tua presenza e forse ti considero un «intruso», un ostacolo, specialmente quando sono costretto a scegliere tra i princìpi della coerenza credente e gli interessi della logica del mondo, secondo cui «così è la vita o così fan tutti». Mi accontento di una vita ordinaria, oserei dire banale. Spero anche che tu dorma, tranquillo sulla barca e io, pur rischiando, mi adagio nel mare del compromesso, del male minore, del conformismo, del silenzio complice, del «non posso farci niente». Mi è comodo pensare e credere che «il regno» tuo sia qualcosa da venire, oltre la morte, qualcosa che «tanto chi può verificarlo?». In fondo, vado a Messa, qualche volta prego, mi confesso ogni tanto. Di più non posso. Non mi accorgo che non si tratta di più o di meno, ma solo di «essere» e di apparire chi non sono.

Le quattro chiavi di Dio e di Gesù

Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente capace di trattenere le acque superiori (pioggia), mentre, dalla parte opposta, i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone apocalittico (cfr. Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggiava su colonne piantate sulla terra piatta che così formava una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (cfr. Gen 1,7). È lo schema usato da Dante per la Divina Commedia. Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e anche il Targum frammentario) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Rachele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targumista, ancora al tempo di Gesù, commentava questo versetto nella sinagoga:

Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei secoli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nutrimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri, perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire. La chiave della sterilità, perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli.

La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma anche della tradizione giudaica:

La chiave dell’acqua:
«Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).

La chiave del nutrimento:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).

La chiave dei sepolcri:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25).

La chiave della sterilità:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).

Nota esegetica:

Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon) dà il seguente risultato:

MA       = MA?àr                      = Pioggia
P          = Parnàsa                   = Nutrimento
TEA      = Tehiàt hAmetìm     = Resurrezione dai morti
CH        = CHayyìm                 = Viventi

Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fiduciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco intende affermare la sua divinità. I primi cristiani, infatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fossero mantenute non poche tradizioni del giudaismo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35-41) dando una traduzione più attenta, letterale, anche se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 398-515).

Mc 4,35:
«In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”».

La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e arrivare.

La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare a esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio, non al teatro delle debolezze umane. Pregare è «passare oltre» che è il significato di «Pesàch – Pasqua». Pregare, cioè andare all’altra riva, è, dunque, un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza propone. I genitori che volessero i figli uguali e identici a se stessi, si illudono di potere fermare la vita, perché i figli sono già «oltre» i loro sogni e i loro orizzonti: sono «immagine e somiglianza di Dio» che essi possono solo adorare, contemplare, amare, sostenere, guidare. Mai fermare. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci avventuriamo nei sentieri imprevedibili di Dio, dobbiamo lanciarci non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente. Il «regno di Dio», appunto.

Mc 4,36:
«Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui».

Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Queste debolezze sono tipiche del mondo pagano e dell’ambiente clericale-curiale che confonde la «Gloria di Dio» con la propria vanagloria; anzi, fa della «Gloria di Dio» il trono della propria vanità. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se ci lasciamo accompagnare da altri, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciare condurre, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che, per natura, ma lo diventa anche per grazia, è «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, nel servizio, custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche. Quando l’autorità che governa la Chiesa saprà, sull’esempio di Gesù, affidarsi e fidarsi dei propri figli e discepoli, quel giorno, cominceranno a sorgere la terra e i cieli nuovi previsti dal profeta (cfr. Is 65,17; 66,22).

Preghiera attualizzante

Anche per me scende la sera e ho davanti due possibilità: dormire o passare all’altra riva. Alla presenza dello Spirito, cerco d’individuare le volte e le ragioni in cui mi sono addormentato per essere comodo, non disturbato e in che circostanze e con quali motivazioni, invece, ho deciso di passare all’altra riva.

La folla, cioè il bisogno di conferma, di approvazione o di adulazione o di sentirsi indispensabile, quanto posto occupa nella mia vita, nell’operare il mio lavoro, il ministero? Mi lascio portare come sono dallo Spirito o devo avere tutto sotto controllo perché «senza di me nulla è possibile fare?». Il mio potere di accentramento in una scala da 1 a 10, a che misura lo colloco?

La vanità è un valore per me? È così importante da adularla anche facendo finta di essere umile? Mi sono mai servito di «Dio» per imporre il mio pensiero, una mia idea, un mio sopruso?

Signore Gesù, custode delle quattro chiavi di Dio (acqua, pane, morte e vita), tu «che scruti le reni e il cuore» (Ger 11,20) e «conosci il mio cuore e i miei pensieri» (Sal 139/138,23), fa che nulla mi distragga da te e dal mio cammino verso di te perché possa imparare a imitarti come solo lo Spirito tuo può indicarmi e non la vanità che spesso si annida nelle forme più subdole di una spiritualità accomodante.

L’Eucaristia racchiude tutte e quattro le chiavi perché spezza il pane, disseta con acqua e vino, dona la vita e sconfigge la morte. Quante volte la «uso» con leggerezza, con abitudine, con distrazione, con fretta perché «urge» altro nella mia vita? Quante volte ho fatto in fretta per «sistemare le cose con te» e poi potermi dedicare ai miei affari, alle mie capacità, cioè ai miei interessi?

Temo la solitudine perché ho paura di me e questa non può che essere terrore di te, e per tenerti buono cerco di comprarti in qualche modo con preghiere raccogliticce, con tempi-scarto, dedicandomi a te tra un affare e l’altro. Signore, è tempo di purificazione e di verità, è tempo per me che io passi all’altra riva dentro la tua barca, così come sono. Signore, per favore, prendimi per mano e precedimi perché da solo non sono in grado e io sono troppo lontano anche dagli altri, dalla mia comunità, da quella Chiesa che spesso uso come stazione ferroviaria per timbrare un biglietto per un treno che non mi porta a te, ma mi fa tornare a me stesso. Sì, andiamo all’altra riva. Andiamo insieme, Signore Gesù: «Maranàh, thà. Signore, Vieni!» (1Cor16,22).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-9].

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