Sinodo dei giovani: Esperienze di giovani in «Missione»
Da ormai parecchi anni molte realtà in Italia propongono ai giovani di trascorrere un periodo in missione per un’esperienza concreta di incontro con il mondo. È una proposta che – anno dopo anno sta crescendo non solo nei numeri ma anche nella qualità: non è semplicemente una «vacanza alternativa», ma una proposta che mira a lasciare il segno nello sguardo con cui un giovane affronta la propria vita, anche qui in Italia.
Proprio per questo, in occasione del Sinodo che si tiene in questo mese di ottobre e ha per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», le riviste missionarie riunite nella Fesmi, insieme a Missio Giovani e al Segretariato Unitario di Animazione Missionaria (Suam) hanno pensato di promuovere un’indagine nazionale su questo tipo di esperienze e divulgarne i risultati preliminari in occasione del Sinodo.
Per conoscere la realtà dei giovani partiti sono stati predisposti due questionari,
uno rivolto alle realtà che promuovono questi percorsi,
l’altro proposto direttamente ai giovani partecipanti,
che sono stati inviati a tutti i Centri missionari diocesani, agli istituti missionari e alle associazioni cattoliche di volontariato che in Italia promuovono esperienze, estive e non, in missione.
I primi risultati di questo censimento sono una sintesi delle risposte che 39 realtà – tra centri missionari diocesani, istituti religiosi e associazioni – hanno offerto al questionario loro rivolto.
Viene raccolta anche la voce di 106 giovani partecipanti, che hanno offerto il proprio feed-back su quanto ha lasciato loro in eredità il periodo trascorso in missione.
Va precisato che si tratta di un campione parziale senza alcuna pretesa di esaustività: sappiamo bene essere molti di più i centri missionari e gli istituti che organizzano questo tipo di proposte. Inoltre esperienze del genere sono organizzate anche da singole parrocchie in collaborazione con missionari o missionarie della propria comunità. Quanto presentato di seguito, dunque, vuole essere semplicemente un primo sguardo, nella speranza di riuscire in futuro a offrire una fotografia più completa; e non potrebbe essere anche un frutto del Sinodo su giovani e discernimento vocazionale?
Nota: va ricordato che l’Agesci invia ogni anno circa 450 giovani a fare esperienze di servizio in Africa, America Latina e altri paesi dell’Asia Minore e dell’Europa.
Giovani in Missione: Dati significativi
Con questa premessa, presentiamo alcuni dati significativi emersi dall’indagine:
Quanti giovani in missione?
Nelle realtà censite il numero complessivo di ragazzi e ragazze coinvolti nelle esperienze estive promosse in missione nell’estate 2018 si aggira intorno ai 1000 giovani;
per molte realtà si tratta di una proposta consolidata: più della metà degli enti che hanno risposto al questionario racconta di offrire questo tipo di esperienza da almeno 10 anni
una stima complessiva del numero di giovani coinvolti dall’avvio delle proposte parla ormai di almeno 20.000 giovani italiani inviati in missione da queste 39 realtà.
Chi sono e dove vanno questi giovani?
L’età media è molto giovane: il 39% dei ragazzi coinvolti ha meno di 25 anni, solo il 26% ha superato i 30 anni
tra i partecipanti vi sono lavoratori (54%), studenti (37%) e giovani in cerca di un’occupazione (9%)
Le risposte pervenute direttamente dai giovani sono per il 71% da donne
per la metà dei giovani si tratta di un’esperienza unica nell’arco della propria vita. E sono comunque meno del 30% i giovani partecipanti alle esperienze del 2018 che raccontano di essere stati in missione più di due volte
le destinazioni abbracciano tutti i continenti con una prevalenza significativa dell’Africa (38%)
la durata varia a seconda delle proposte: per molti l’esperienza dura solo tre o quattro settimane, ma c’è anche chi vive in missione per alcuni mesi.
Come arrivano?
Pochi partono da soli: a seconda della proposta si arriva in missione in gruppo (58%) oppure insieme a una o altre due persone (34%); la dimensione comunitaria, dunque, è un fattore importante;
l’esperienza non arriva all’improvviso ma è solitamente preparata con cura. L’82% dei giovani parte dopo aver frequentato un cammino di preparazione; e almeno la metà dei giovani che partono lo fa al termine di un cammino che è andato avanti durante tutto l’anno precedente all’esperienza in missione
nel 40% dei casi, poi, anche al ritorno è previsto un nuovo percorso che continua durante tutto l’anno successivo; per far sì che l’esperienza vissuta in missione non sia qualcosa di estemporaneo, ma un tempo forte della propria vita.
Come incide l’esperienza vissuta in missione sulla loro vita?
A molti lascia in eredità un forte senso di responsabilità: il 69% dei giovani racconta – una volta tornato a casa – di aver scelto di assumersi un impegno in parrocchia o nella propria diocesi o in un’associazione di volontariato. Molti di questi impegni sono legati all’ambito dell’animazione missionaria in Italia. Un altro sbocco interessante per alcuni è l’impegno nel campo dell’assistenza ai migranti in Italia, nel segno della continuità nell’apertura al mondo. Più in generale c’è chi racconta di aver cambiato almeno un po’ il proprio stile di vita in Italia, di essere più attento a questioni come il consumo dell’acqua, di aver cambiato il modo di vedere tante cose
non mancano difficoltà di ambientamento in missione: il clima, le condizioni di vita, a volte anche lo stesso dover accettare di non essere lì per fare qualcosa ma semplicemente per condividere. Ma anche questa fatica alla fine viene riconosciuta come un dono dell’esperienza vissuta in missione.
emerge però chiara un’altra fatica che ha a che fare con il ritorno a casa: una volta tornati in parrocchia si fa fatica a trovare un ambiente aperto ad accogliere davvero la ricchezza vissuta in missione da questi ragazzi e ragazze. L’impressione che emerge è quella che abbiano vissuto un’esperienza che riconoscono essere stata molto ricca da un punto di vista personale, ma che fatica a far crescere intorno a sé la consapevolezza e l’apertura al mondo anche in chi è rimasto a casa. Il che – evidentemente – pone a tutti i livelli una sfida pastorale su come valorizzare meglio queste esperienze ormai così diffuse.
I FRUTTI RACCOLTI “IN MISSIONE”
Di seguito alcune frasi scritte di chi ha fatto l’esperienza “missionaria”:
«Ho imparato un modo nuovo di vedere le cose: anche casa mia, da quando sono tornato, mi sembra un mondo nuovo e diverso»
«Ho imparato che cosa vuol dire sentirsi stranieri, cosa vuol dire non essere accettati, ho conosciuto correnti di pensiero completamente diverse dalle nostre. Mi ha arricchito mostrandomi un mondo che non avevo mai visto».
«Ogni incontro, ogni realtà, ogni storia, ogni ferita… tutto è stato un dono prezioso. L’esperienza ha cambiato il mio sguardo, mi ha messa in discussione, mi ha lasciato tanto e ha fatto tanto spazio. Ha cambiato la mia vita in un modo che non mi sarei mai aspettata»
«Mi ha cambiato la percezione del tempo, delle attività da svolgere nella giornata, l’attenzione a me stessa, la preghiera quotidiana per accettare quello che non capisco. Mi ha dato una “direzione”, mi ha fatto capire quanto sia bello vivere servendo».
«Mi ha fatto comprendere l’importanza del ruolo del missionario: non è colui che fa qualcosa per l’altro, ma colui che è qualcosa per l’altro e l’altra. Mi ha aperto gli occhi di fronte al mio bisogno di amare ed essere amata e mi ha permesso di rendermi conto di come, quando non organizziamo tutto e non abbiamo la pretesa che tutto sia sotto il nostro controllo, c’è qualcuno che si sta guidando. Infine mi ha fatto conoscere una realtà molto povera, ma che ha molto da insegnare a noi oggi nel tornare a relazioni più vere e di apertura verso l’altro».
«Poter toccare con mano come si vive in questi luoghi, quali povertà e ricchezze offrono, vedere, sentire e vivere con la gente ogni giorno ti arricchisce, ti cambia, è un’esperienza che entra a far parte di te e che non puoi fare a meno di condividere con gli altri».
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Questi dati indicano una cosa molto chiara: queste esperienze sono una ricchezza non solo per il mondo missionario, ma anche per tutta la Chiesa e la società italiana. In questo momento storico, segnato dalla paura della diversità e dalla tentazione della chiusura, questi ragazzi e ragazze tornano dalla missione con uno sguardo nuovo sul mondo e desiderano spenderlo anche nella forma di un impegno concreto qui in Italia.
La Chiesa italiana si è accorta di loro? Ed è disposta a investire su questo patrimonio?
Anche al mondo missionario questi dati chiedono però un passo in più: l’indagine, pur con i suoi limiti, rappresenta il primo tentativo di mettere in rete questo tipo di esperienze nate e portate avanti autonomamente da ciascuna realtà. Proprio l’importanza che i giovani danno a questo tipo di esperienze non dovrebbe incoraggiare una maggiore collaborazione tra le realtà che propongono questo tipo di esperienze? Pur senza perdere nulla della specificità di ciascun ente, si potrebbero elaborare percorsi e strumenti condivisi, utili per strutturare meglio i percorsi di preparazione e i momenti proposti al rientro in Italia.
Le parrocchie e comunità locali non potrebbero valorizzare meglio la presenza di questi e queste giovani, con il loro vissuto?
Possono queste esperienze maturare in un serio processo di discernimento e diventare occasione per donare al mondo non solo qualche settimana ma tutta la propria vita? In quali forme? Sono domande che il Sinodo ci rilancia…
Fesmi, Missio Giovani, Suam 3 ottobre 2018
Questa rivista – Missioni Consolata – è parte della Fesmi, Federazione Stampa Missionaria Italiana
«Fratelli, vivete la vostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore glorioso, senza ingiuste preferenze per nessuno», scrive Giacomo (Gc 2,1). «Facciamo un esempio»: con l’aereo arriva CR61, ricco, aitante e famoso, «voi vi mostrate pieni di premure e dite»: ecco qui un bel po’ di milioni per farci incantare dalla tua fama. «Viene anche uno che è povero e vestito male»; è scuro di pelle e arriva dal mare, tale Pacchia 18i. A lui, invece, dite: rimani sulla nave, che ti rimandiamo da dove sei venuto, ladro di lavoro, insidiatore di donne, mangiatore a ufo. «Se vi comportate così, non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?» (Giacomo 2,1-4).
Il testo di Giacomo non è proprio così, ma forse lo sarebbe stato se lo avesse scritto nell’Italia e nell’Europa di oggi contagiate da sovranismi, populismi, xenofobie, nostalgie vetero-cattoliche e rigurgiti antipapisti o, meglio, anti-Francesco. Avrebbe detto parole di fuoco in questa nostra Europa che sembra avvinta da un identitarismo cristiano di facciata («appartenere e credere senza praticare») cavalcato da tanti politici. Una pseudo identità cristiana che trova alleati in certi movimenti politici e religiosi che vedono nel Vaticano II, e soprattutto in Francesco, lo stravolgimento della Chiesa. E in nome di questa presunta identità cristiana si costruiscono muri, si difendono privilegi, si giustificano intolleranza, esclusioni, razzismi e violenze. «Non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?», dice Giacomo.
La logica del Vangelo è diversa, e ce lo ricorda Francesco: «[La] trasmissione della fede avviene dunque per il “contagio” dell’amore, [essa] esige cuori aperti, dilatati dall’amore. All’amore non è possibile porre limiti: forte come la morte è l’amore (cfr Ct 8,6). E tale espansione genera l’incontro, la testimonianza, l’annuncio; genera la condivisione nella carità con tutti coloro che, lontani dalla fede, si dimostrano ad essa indifferenti, a volte avversi e contrari. Ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù e alla presenza sacramentale della Chiesa rappresentano le estreme periferie, gli “estremi confini della terra”, verso cui, fin dalla Pasqua di Gesù, i suoi discepoli missionari sono inviati, nella certezza di avere il loro Signore sempre con sé (cfr Mt 28,20; At 1,8). In questo consiste ciò che chiamiamo missio ad gentes» (Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2018).
Essere dalla parte del Vangelo è fare scelte concrete di Amore che contestano il modo farisaico di vivere una religione centrata sul sacro e sull’esteriorità e che non disturba né l’economia che sfrutta l’uomo e l’ambiente (a beneficio di pochi straricchi), né la politica autoritaria e populista che offre false sicurezze e utopie. Le scelte d’amore sono scelte che si pagano, a cominciare dagli insulti sui social, dalla violenza e intolleranza subite quotidianamente, legittimate dal vocabolario e dallo stile di chi dovrebbe essere al «servizio» del bene comune. E questo è vero non solo nel mondo della politica, ma anche all’interno della Chiesa stessa, dove – è triste scriverlo – si consumano gli attacchi più feroci proprio contro papa Francesco, autentico testimone della misericordia di Dio.
La Chiesa di Gesù è nel mondo senza accettare la logica del mondo, cosciente delle sue debolezze ma anche della forza della Parola di cui è custode e testimone. La Chiesa di cui siamo parte che non è il Vaticano, quel chilometro quadrato della città di Roma ricco di bellezza e, allo stesso tempo, segnato da contraddizioni e scandali. La Chiesa non è solo vescovi e preti, religiosi e suore. Troppo comodo pensarla così e denigrarla per gli eventuali scandali di chi dovrebbe essere esempio di santità, generalizzando, dimenticando le testimonianze meravigliose di chi senza rumore e pubblicità paga di persona, anche con la propria vita, ignorando le malefatte che anche i «laici» commettono quotidianamente.
La Chiesa è di ogni cristiano, di ogni battezzato: la mia Chiesa, la tua, la nostra Chiesa, di cui siamo pietre vive, nella quale siamo attori, non spettatori o giudici. La nostra «Madre» Chiesa, «santa e prostituta», come scrivevano i Padri, che impoveriamo con le nostre debolezze, ma rendiamo splendida se «con le nostre opere belle» facciamo sì che gli uomini «rendano gloria al Padre nostro che è nei cieli» (cfr Mt 5,16).
Gigi Anataloni
1.«CR6». Dicono sia CR7, ma il 7 nella Bibbia è il numero della perfezione, meglio il 6, un po’ imperfetto…
con gioia e stupore ti ringraziamo perché per un’iniziativa del tuo amore preveniente ci troviamo in questo mondo. Per mezzo del Cristo, tuo dilettissimo Figlio, ci hai creati a tua immagine e ci hai rigenerati a vita nuova, rendendoci tuoi figli adottivi in virtù del dono del tuo Santo Spirito, che ci fa vivere l’entusiasmante avventura di chiamarti Papà nella Chiesa, tua famiglia. Nella fede riconosciamo che la nostra vita è una missione: attratti da te ed inviati nel mondo, ci percepiamo interiormente animati dal tuo Spirito d’amore che custodisce in noi la speranza. Ti supplichiamo umilmente: fa’ che nessuno rifiuti il tuo amore, in modo tale che cessi la povertà materiale e morale e ogni discriminazione di fratelli e sorelle.
O Cristo Gesù crocifisso e risorto,
aprendoci alla missione che tu ci affidi dicendoci: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», la nostra fede rimane sempre giovane. Tu dai senso alla nostra vita, tu sei la verità che ci rende liberi, il tesoro che riempie di gioia la vita, il fondamento dei nostri sogni e la forza per realizzarli. Stando con te prendiamo coscienza che il male è provocazione ad amare sempre di più. Dalla tua croce gloriosa impariamo la tua logica amorosa, l’offerta di noi stessi come annuncio del tuo Vangelo per la vita del mondo. Tu per la fede abiti nei nostri cuori e vuoi parlare e agire in noi.
Spirito Santo, anima della Chiesa,
dal battesimo dimori in noi come in un tempio.
Illumina e infiamma la mente e il cuore di ciascuno di noi, rendendoci missionari del Vangelo nel mondo
intero. Ti ringraziamo per il dono di coloro
che ci hanno trasmesso la fede con la vita e la parola, testimoniando la perenne vitalità del Vangelo.
O Maria, Regina degli Apostoli e madre e modello della Chiesa,
prega per noi perché in fretta raggiungiamo gli ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù vivente nella Chiesa. Aiutaci a donarci nella vocazione che ci è stata regalata dal Creatore, seguendo il tuo Figlio Gesù. Insegnaci a metterci il grembiule per servire i più piccoli, promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Ricordaci che molta gente ha bisogno di noi, che Cristo conta su di noi, chiamandoci incessantemente ad essere suoi discepoli missionari, sempre più appassionati per il suo Regno.
San Francesco Saverio, Santa Teresa del Gesù
Bambino, Beato Paolo Manna, intercedete per noi e accompagnateci sempre.
Amen. Alleluia!
don Francesco Dell’Orco di Bisceglie (BT), 02/08/2018
Ha ragione Salvini?
Cari Missionari,
ve la prendete se dico che, almeno in una cosa, Salvini ha ragione? Non è meglio se i coniugati che hanno figli vengano chiamati padre e madre, anziché genitore uno e genitore due?
Mario Zumpanesi 12/08/2018
Caro Mario,
dal mio povero punto di vista non credo ci sia bisogno di scomodare Salvini per dire che un bambino/a ha un padre (maschio) e una madre (femmina) e non genitore 1 e/o 2. Lo dice la natura stessa, la nostra specie. Tanto più che essa è una realtà con paladini più credibili di un ministro che governa (o fa campagna elettorale perenne) twittando.
Primo, c’è una tradizione dell’umanità che va avanti da qualche migliaio di anni ed è condivisa dalle culture più disparate. E questo è «civiltà», come avrebbe scritto Giovannino Guareschi che definiva «progresso» la «tornilette vicino alla stanza dove mangi e dormi», e «civiltà» il «cesso fuori da dove vivi» (come era un tempo nella sua Bassa).
Poi c’è una solida tradizione biblica e cristiana. È vero, il Vangelo non ha norme su come devono essere scritti e formulati i documenti dello stato, e quindi è legittimo che questo usi le diciture che preferisce. Ma se si vuole essere davvero inclusivi e rispettare tutti i credi e le opinioni, perché imporre a tutti quel «genitore 1 e 2» che, se rispetta una minoranza, insulta invece una grande maggioranza?
Da ultimo. Uno stato può e deve legiferare su aborto, divorzio, unioni omosessuali, gender, utero in affitto e via dicendo, ma per un credente l’aborto rimane un omicidio, il matrimonio è per la vita, l’unione tra due persone dello stesso sesso non è matrimonio, l’utero in affitto non è accettabile (vedi a pag. 62) così come la sperimentazione genetica sui feti, un bambino/a nasce dall’incontro tra uno spermatozoo di un maschio e l’ovulo di una femmina, eccetera. Benvenga la modifica dei documenti twittata da Salvini, purché mantenga uno spazio di rispetto per chi la pensa in modo diverso e non sia un’imposizione ideologica.
Dissentire da Gesualdi
Gent.mo padre Gigi,
seguo da anni la rivista e apprezzo molti articoli, devo però dissentire su molte cose scritte negli articoli di Francesco Gesualdi.
Ad esempio, nell’articolo di giugno appare che tanti problemi siano dovuti alla mancanza di sovranità monetaria degli stati. Quando si afferma che «la moneta unica ha prodotto risultati disastrosi», forse sarà pur vero in qualche caso (ha tolto terreno agli speculatori), ma è innegabile che i risultati positivi sono stati di gran lunga maggiori. Ma se la Grecia o l’Italia non avessero avuto una stabilità monetaria cosa sarebbe successo?
Come sarebbero stati gli interessi che si sarebbero dovuti pagare, senza l’euro, a chi ha prestato capitali (usati per politiche demagogiche come mandare in pensione statali con soli 15 anni di lavoro o dare invalidità a tanti che non ne avevano diritto)? Ma si è certi che bastava stampare altra lira per azzerare il debito? Il default dell’Italia sarebbe stato meglio?
Il vero problema è la mancanza di una politica comune (fiscale, economica, estera) e l’esistenza di tanti egoismi locali e nazionali. Ripeto: il problema non è la mancanza di sovranità monetaria.
Quando si fa riferimento a Keynes, come esempio da seguire si dimentica che sono passati 90 anni, che il mondo è cambiato, le distanze si sono enormemente accorciate; alcuni stati (europei e non solo) hanno bilanci inferiori a quelli di alcune multinazionali. Non si può tornare indietro … «Piccolo è bello», slogan in voga negli anni ‘80-’90 ha dimostrato che è un’illusione chiudersi nel proprio piccolo, nazione o gruppo.
Comunque, continuerò a leggere Missioni Consolata e quando leggerò gli articoli di Gesualdi scuoterò sconsolato la testa.
Antonio Borello 20/07/2018
Caro signor Antonio,
quanto Francesco Gesualdi scrive con competenza e passione, non è Vangelo. È un contributo alla comprensione di una realtà – come quella economica – estremamente complessa e sempre più fuori dal controllo non solo di noi gente comune, ma a volte anche dei governi.
È vero che ci fa più piacere leggere cose che confermano quello che già pensiamo, ma confrontarci con chi la pensa diversamente da noi ci arricchisce e ci può invogliare ad approfondire di più e conoscere meglio.
La logica di questa rivista non è quella dei social: riscuotere il più alto numero di «mi piace». Non cerchiamo il consenso, ma crediamo nel cuore e nell’intelligenza dei nostri lettori di cui rispettiamo fino in fondo la libertà di pensiero e di opinione.
Spezzare la catena
La rete che fa partire i migranti africani, cioè quelli che si fermano in Libia, ce l’hanno descritta più volte: ci sono quelli che girano nei paesi per convincere le persone a partire e poi le vendono a una lunga catena di intermediari in tutti i paesi attraversati. Vengono bloccate e torturate fin quando non arrivano altri soldi, e poi l’ultima sanguinosa estorsione avviene in Libia, che magari prende soldi italiani per rubarci su costruendo lager, e altri ancora li estorce dai poveretti per lasciarli imbarcare.
Non potrebbero giornalisti coraggiosi, magari assumendo informazioni dai missionari, descrivere bene questa catena (in cui, a occhio, c’entrano molti stati ex francesi e ora comunque collegati con la Francia che tanto strilla per non riceverli) e l’Italia occuparsi di diffondere queste informazioni su tutte le reti possibili, in modo che arrivino nei paesi d’origine dei migranti?
Claudio Bellavita
04/07/2018
Il problema è grande. Ci sono Ong, associazioni e chiese che si impegnano in questo campo. Pensi solo alla rete «Talitha Kum» creata da tante suore nel mondo che stanno lottando contro la tratta di persone. Oppure alle attività di cui abbiamo scritto a proposito del Niger (MC 3 e 4/2018) o del soccorso in mare (dossier MC 1-2/2018). Quanto alle responsabilità, quella francese è fuori discussione, visto la politica colonialista passata e recente. Ma neanche noi italiani possiamo ritenerci del tutto innocenti: Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia sono nostre ex colonie e il nostro colonialismo non è stato «più buono» di quello inglese, francese o tedesco.
Crollo di una diga in Laos
Spero che la tragedia del 24 luglio, quando il crollo di una colossale diga ha provocato la morte di oltre cento persone e la scomparsa di decine di villaggi nel Sud del Laos, convinca i governanti che il Mekong, più che un gigante pericoloso da imbrigliare con costosissime operazioni di ingegneria idraulica, è un fiume che dovrebbe essere amato, capito e valorizzato per quello che è, ovvero un patrimonio di eccezionale valore biologico, naturalistico e paesaggistico.
Spero che i professionisti dell’informazione facciano del loro meglio per ricordare a tutti che la tutela del Laos e della sua natura è di cruciale importanza per la conservazione degli equilibri ecologici e climatici nella regione del Sudest Asiatico e non solo.
Ave Baldassarretti
12/08/2018
I disastri non risparmiano alcun angolo del mondo. Ma non dovremmo aver bisogno di terremoti, inondazioni, incendi, tsunami ed eruzioni per «custodire il creato». Papa Francesco, nell’enciclica «Laudato si’», ci ha ricordato con forza e chiarezza la nostra responsabilità. Ma come è difficile per tutti cambiare e smettere di comportarci da «padroni» e diventare invece «custodi» e «giardinieri» del mondo.
Cammino verso Czestochowa
«Se vogliamo conoscere il cuore dei polacchi, occorre venire qui a Czestochowa al santuario della Madonna Nera. Bisogna ascoltare in questo luogo l’eco della vita dell’intero popolo vicino al cuore della sua Madre e Regina».
Queste parole pronunciate da Giovanni Paolo II esprimono bene quel rapporto tra il santuario di Czestochowa e la vita di milioni di fedeli. La prospettiva migliore per capire tutto questo è di partecipare a uno dei numerosi pellegrinaggi che a piedi da ogni parte del paese d’estate si dirigono qui. Si contano ogni anno circa 250mila pellegrini provenienti da tutte le 41 diocesi polacche.
La tradizione dei pellegrinaggi al santuario della Madonna Nera è antica. I primi gruppi documentati risalgono al
XVII sec. Nel settembre del 1626 un gruppo di 80 fedeli partì da Gliwice diretto a Czestochowa per onorare un voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’assedio dell’esercito danese. Il voto impegnava i cittadini a recarsi lì ogni anno per ringraziare e far memoria dell’evento.
Pochi anni dopo nel 1637 anche i fedeli della città di Kalisz iniziarono a recarsi a piedi al santuario e, cosa singolare, a fare a piedi anche il ritorno. Nel 1771, il 6 agosto, anche i varsaviani come voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dalla peste inziarono a pellegrinare verso il santuario. Questi primi gruppi iniziarono una tradizione ininterrotta che si è sviluppata grandemente e ancora oggi dopo diversi secoli resiste nel tempo.
Dalla sola città di Varsavia partono ogni estate almeno cinque pellegrinaggi a piedi, tra questi quello organizzato dalla Pastorale universitaria dell’Arcidiocesi che ha sede nell’antica chiesa di sant’Anna, nel centro della città. Vi partecipano mediamente 4mila giovani e famiglie divisi in 19 gruppi. Uno di questi gruppi, quello argento, lo guidiamo noi missionari della Consolata. Infatti, fin dal nostro arrivo in Polonia nel 2008 ogni anno partecipiamo al pellegrinaggio con questo gruppo.
Il percorso è di circa 300 km diviso in 10 giorni dal 5 al 14 agosto. La giornata inizia con la sveglia all’alba. Dopo essersi preparati, aver ripiegato la tenda o aver sistemato il sacco a pelo usato nel fienile di qualche contadino, i pellegrini sono pronti ad affrontare la lunga giornata. Ogni due ore circa si fa una sosta nei pressi di una parrocchia che organizza l’accoglienza. Il parroco benedice con l’acqua santa i gruppi che arrivano, mentre i parrocchiani ristorano gli affaticati pellegrini con panini e bevande. In cambio ricevono riconoscenza e tante preghiere. Il programma spirituale è intenso. Ogni giorno, in una cornice di canti gioiosi, vengono fatte conferenze dai sacerdoti, preghiere tradizionali, il rosario, la Corona alla divina misericordia e, come momento culminante, la S. Messa. Alla sera ci si saluta con un momento di ringraziamento in gruppo e un canto mariano. Ogni giorno si fa esperienza dell’ospitalità presso famiglie semplici di villaggi che condividono quello che hanno. Forniscono un po’ di acqua per lavarsi dopo la calda giornata, rendono accessibile il fienile per sistemare i sacchi a pelo e trascorrere la notte oppure i propri giardini su cui montare le tende e passare qualche ora di riposo notturno indispensabile per riprendere un po’ di forza e ripartire il giorno dopo.
Il clima che si crea tra i pellegrini è di grande fraternità e di gioia. Una gioia che umanamente è difficile scorgere in una esperienza obiettivamente faticosa. Eppure, ogni partecipante vive una forza interiore che lo sorregge e incoraggia. Questa forza, lo crediamo, ci è data da Colei verso cui e per cui camminiamo offrendole le fatiche e tantissime intenzioni di preghiera.
Il nostro gruppo in mezzo agli altri si distingue per la caratteristica missionaria. La nostra presenza internazionale vuole essere un segno della universalità della nostra fede vissuta nella fraternità. Spesso invitiamo confratelli e amici da altri paesi che arricchiscono le giornate con i loro racconti e testimonianze.
In una cultura occidentale che propone all’uomo moderno una tecnologizzazione globale, spesso anonima, che esclude le distanze e gli incontri reali così come ogni forma di sacro, il pellegrinare a piedi ha ancora un suo significato prezioso: ridare all’uomo il giusto orientamento per il quale è nato, quello del camminare con altri condividendo una forte esperienza di fede. Per questo andare a piedi percorrendo centinaia di chilometri ha un suo senso e le persone che vi partecipano lo testimoniano con convinzione.
padre Luca Bovio Czestochowa, 17/08/2018
Grazie, Asante sana
Ringrazio Dio per avermi aiutata a concludere gli studi e a diventare una maestra. Lo ringrazio perché l’aiuto di tante persone che neppure conosco mi ha permesso di arrivare a questo punto e superare tutte le difficoltà. Grazie per esserci stati per me quando avevo più bisogno di voi.
Catherine Smaila Maralal, Kenya
Con queste parole Smaila [o Smiler) ha voluto ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla sua educazione dalla scuola elementare fino al completamento dei suoi studi al Teacher’s College.
Ma oggi Smaila è tornata a sorridere grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno permesso di aiutarla nei lunghi anni di scuola. Con lei e con tanti altri bambini e bambine che hanno concluso il loro ciclo di studi o stanno ancora studiando, vi ringarzio anch’io di cuore. Il «sostegno a distanza» è un’avventura lunga e impegnativa, ma la gioia che dà è grande. Che il Signore ricompensi ciascuno di voi per la pazienza e l’affetto con cui aiutate noi missionari a restituire il sorriso e la speranza a tante persone in situazione di grande povertà e sofferenza.
Ricordando padre Giovanni Calleri, vulcano d’amore
Testi in memoria di don/padre Giovanni Calleri di: Ernesto Billò, Margherita Allena, Ugo Pozzoli, Corrado Dalmonego e scritti vari dagli archivi Imc
A cura di: Gigi Anataloni
Foto: da Archivio fotografico MC e famiglia Calleri
Sommario
«Se dovessi morire, è per una grande causa» (G. Calleri)
Un giovane prete, missionario esemplare per generosità e coraggio. Un turbine di attivismo e di apostolato che sa coinvolgere, sorprendere, trascinare i giovani e i meno giovani. Padre Giovanni Calleri, carrucese (di Carrù Cn), perde la vita a soli 34 anni, tutti fervidamente vissuti. La perde in Brasile, nella foresta amazzonica, il 1° novembre 1968, durante una spedizione da lui guidata fra gli indios Waimiri-Atroarí del rio Alalaú (o rio sant’Antonio). Partita da Manaus il 13 ottobre con intenti umanitari e pacificatori, padre Calleri sa che l’impresa è molto rischiosa, anche per lui che in precedenza ha già saputo vincere la diffidenza degli Yanomami.
Proprio per i suoi precedenti contatti con gli indios, padre Calleri era parso l’uomo giusto per tentare la mediazione nel conflitto tra indigeni e governo: sia ai suoi superiori della prelazia di Roraima, che alle istituzioni brasiliane, preoccupate di superare le tenaci ostilità di indios ancora non contattati alla realizzazione di una strada nella foresta lunga 800 chilometri, da Manaus (Brasile) a Caracas (Venezuela): la Br-174, un’arteria che poteva cambiare aspetto all’Amazzonia «aprendola alla civiltà», ma anche a colossali interessi economici e minerari, all’invasione delle terre da parte di coloni e alla diffusione di malattie e «vizi» dei «bianchi» sconosciuti agli indigeni.
Sentendosi invasi nei loro territori millenari, gli indios, con attacchi a sorpresa, avevano costretto l’impresa a interrompere i lavori a duecento chilometri da Manaus; e proprio lì doveva intervenire la spedizione guidata da padre Calleri (in tutto, compreso lui, otto uomini e due donne) per convincere i diversi gruppi di indigeni a spostarsi dall’area interessata dalla costruzione della strada. Certo erano in gioco interessi estranei allo spirito evangelico di un missionario; ma egli sapeva che il governo era determinato a fare la strada a ogni costo e che sui duemila indios Waimiri-Atroarí pesava la minaccia di sterminio sia con bombardamenti dal cielo che con rappresaglie da parte dell’esercito. Padre Giovanni era ben consapevole dei pericoli che avrebbero corso lui e i suoi compagni, sia per l’istintiva diffidenza degli indios, sia per le ambiguità del governo e gli enormi interessi in gioco; ma non gli mancavano coraggio e fiducia in Dio. «Se dovessi morire, si sappia che è stato per una grande causa», scrisse, partendo, alla famiglia a Carrù.
La spedizione partì a metà ottobre da Manaus, il 22 cominciò a entrare nel territorio conteso. Aveva tempo un paio di mesi per pacificare gli indios, poi l’esercito avrebbe avuto mano libera. Durante la spedizione sette messaggi radio raggiunsero Manaus in un’alternanza di speranze e di allarmi. Poi, dal 31 ottobre, la radio tacque: un silenzio carico di brutti presagi. Le ricerche partirono con grande ritardo il 7 novembre con ricognizioni aeree, e solo dal 24 novembre con pattuglie nella foresta, fino all’atroce scoperta del 30 novembre: nove cadaveri ridotti a scheletri spolpati dagli animali e dagli avvoltorni. Un massacro per il quale furono incolpati e puniti gli indios. Più avanti presero forza ipotesi inquietanti, come quella di un doppio gioco messo in atto da un membro della spedizione, unico sopravvissuto, in combutta con alcuni indigeni traditori e il governo, per favorire la soluzione drastica voluta da quest’ultimo contro gli indigeni.
Grande sconcerto si diffuse tra confratelli e amici in Brasile, commozione in Italia, nella sua famiglia e dovunque padre Giovanni era passato lasciando segni e semi di una presenza umana ed ecclesiale di singolare incisività. Fu vasta l’eco alla tivù, sui giornali nazionali e locali.
Ernesto Billò
Da Carrù al rio Alalaú:
quando l’amore non ha confini
«Non si accontentava delle mezze misure»
Cinquant’anni fa, padre Giovanni Calleri e otto dei suoi nove compagni di spedizione (sei uomini e due donne) furono massacrati dagli indios Waimiri-Atroarí nei pressi del rio Alalaú, nello stato di Roraima in Brasile. Volevano pacificare le comunità indigene e convincerle a spostarsi dal percorso della strada Manaus – Caracas, la Br-174, che il governo era deciso a costruire ad ogni costo invadendo i loro territori ancestrali e facendo piazza pulita di ogni resistenza. La spedizione aveva poche settimane di tempo per raggiungere lo scopo, ma troppi interessi erano in gioco. Un’impresa che si capisce solo nella logica dell’amore.
Nato nel 1934, ultimo di quattro figli (Maria, Margherita, Lucia le sorelle), a otto anni – nel 1942 – rimane orfano del padre Giuseppe, che, dopo alcuni anni vissuti da migrante in California, era tornato e aveva acquistato la cascina Pralungo a Morozzo (Cn). La mamma Lucia Massimino, rimasta vedova, deve far ricorso al proprio carattere forte, pratico, risoluto. Trasferisce i suoi in via Monasteroli a Carrù, e lì Giovanni – legato alle sorelle, specie a Margherita (poi suor Teresina), alla madrina e ai cugini – frequenta le prime classi elementari e la parrocchia retta allora da don Giorgio Oderda che consiglia per lui nell’ottobre ‘44 il passaggio alla quinta elementare nel piccolo seminario della diocesi di Mondovì a Vicoforte. E lo presenta così: «È un bravo giovinetto inclinato a pietà, assiduo nel servizio in chiesa e tra gli aspiranti di Azione Cattolica Può diventare domani un buon sacerdote». Giovanni ha solo dieci anni, e condivide quel distacco da casa con l’amico Antonio Servetti e con un ragazzo di qualche anno maggiore, Matteo Rino Filippi.
Da Carrù al seminario
Per Carrù e la Langa è un periodo drammatico sotto l’occupazione nazifascista. Il seminario tiene quei ragazzi al riparo dai rigori della lotta, ma non dai rigori di un’alimentazione di pura sussistenza. Giovani stomaci vuoti, bilanciati dalla spensieratezza dell’età e dall’impegno nello studio e nella preghiera. Nonostante quelle ristrettezze Giovanni comincia a manifestare vitalità, intraprendenza e ingegnosità non comuni. «Non si accontentava delle mezze misure», ricorda la sorella Margherita che di lì a poco sarebbe entrata, ventenne, nella clausura del Carmelo a Torino col nome di suor Teresina. La mamma fa fatica ad accettare come una benedizione quella duplice vocazione nata in famiglia, ma come non capirla? Sì, perché alla conclusione della quinta ginnasio, Giovanni – a differenza dei suoi due amici – sceglie di vestire la talare e di proseguire gli studi (filosofia dal 1950 al 1953 e teologia dal 1953 al 1957) nell’antico seminario maggiore di Mondovì Piazza. Lo fa con convinzione, anche se la mamma lo vorrebbe ingegnere.
A ogni fine d’anno ottiene risultati e giudizi più che buoni, e più che buone sono le relazioni stese da don Oderda sulla sua condotta nelle settimane estive in cui torna a casa per le vacanze: «Pietà profonda, volontà tenace, studioso con vocazione sicura». Col rettore del seminario don Giorgio Gasco, invece, qualche attrito e incomprensione non mancano per la vivacità e impulsività del giovane, tipica di una personalità in formazione desiderosa di agire sulle cose e sugli altri, con slancio e una certa autonomia, come dimostrano le sgroppate estive in bicicletta anche assai lontano e le avventurose uscite con i seminaristi più piccoli affidati alla sua assistenza negli anni ‘54-‘56. Nel dicembre del ‘56, quando è suddiacono, esprime al direttore del seminario il suo desiderio di diventare missionario. Un proposito al quale ha contribuito, dalla clausura, anche suor Teresina. I diretti superiori però rinviano a tempo imprecisato ogni decisione. Intanto le inattese difficoltà, gli inspiegabili ostacoli incontrati via via lo radicano ancor più nel suo sogno.
Vicecurato «dirompente»
Il 29 giugno 1957 Giovanni è ordinato prete (con Angelo Maritano, Efisio Caredda, Giovanni Crosetti, Armando Peano) da monsignor Sebastiano Briacca, vescovo di Mondovì. E subito va vicecurato festivo a Niella Tanaro, dove – giovane coi giovani – anima un ventaglio di proposte e di attività: dalle gite in bici in gruppo, al lancio – fallito – di una mongolfiera alta come il campanile, e tanto altro. Non tardano a venire espresse su di lui alcune riserve, specie dal parroco. Così nel maggio ‘58 il vicecurato scavezzacollo è trasferito nella remota Val Bormida. C’è sconcerto e dispiacere in paese, specie tra i giovani. Ma a Calizzano con don Suffia il rapporto è più fiducioso e costruttivo. «Ci impressionava per la grande devozione», ricorda un ragazzo d’allora, «anteponeva Dio a tutto e cercava di portare noi scalpitanti a fare lo stesso». Quindi, la partita di calcio si fa solo dopo vespri e benedizione. Le partite più memorabili da lui ideate sono quelle tra i «rossi» dello stato e i «neri» della chiesa (3-2; 3-3) seguite da accese tifoserie.
Intanto cresce in lui l’aspirazione a una vita diversa, in terra di missione. E cresce pure l’impazienza per l’assenso del vescovo che ancora non arriva. Tramite la sorella, don Giovanni contatta il Pime, Pontificio istituto missioni estere di Milano, e si reca da loro per un corso di esercizi spirituali. Ma da Mondovì arrivano ancora freni, sicché Giovanni sollecita suor Teresina: «Mettiti un po’ a pregare per me». Difficile però smuovere quei dubbi. La scusa è: scarsezza del clero. Scarsezza? Col seminario pieno? La sorella gli suggerisce di pregare e riflettere molto per conoscere bene la volontà di Dio. Pazienza ancora per un anno almeno. A fine 1959 è mandato come vicecurato a Farigliano, a due passi dalla sua Carrù e alle porte della Langa. Quel parroco lo accoglie bene e dà spazio alla sua estrosa intraprendenza. Don Giovanni si butta dunque più che mai ad animare il paese e i dintorni. Suscita adesioni e simpatie nei giovani che lo seguono in iniziative di vario richiamo. Così nasce nel gennaio ‘61 «A.gi.r.e.» (Associazione giovanile ricreare educando) che organizza spettacoli teatrali con la filodrammatica «Cit Farian Show», partite di calcio, concorsi ippici (con l’olimpionico Piero D’Inzeo), gare di moto, incontri di pugilato. Successi esaltanti e qualche inatteso e costoso flop. Mentre don Giovanni si appresta a inaugurare il nuovo stadio «Indemini» da lui tenacemente voluto e sostenuto, un incidente con la sua auto – nel quale muore un uomo – gli crea turbamenti. Dalla clausura intanto la sorella si preoccupa per lui, sollecita più volte in alto loco quell’assenso che tarda troppo. «Se ha veramente la vocazione missionaria, perché non lasciargliela assecondare presto?».
Il sogno della Missione
Finalmente nell’autunno 1962 giunge il via libera per un anno di preparazione presso il Pime. A Farigliano è amarezza generale quando lui stesso ne dà l’annuncio. «Ma quando Dio chiama…», dice. E il parroco, in appoggio: «Il suo ardente cuore non conosce limiti nel darsi agli altri. Troverà la forza di una totale offerta di sé per la salvezza di tanti». Parole profetiche. Il 28 settembre una folla lo accompagna fino a Villa Grugana, a Calco presso Lecco. Ma il postulandato (periodo di prova prima del noviziato) al Pime dura pochi mesi. Il direttore sospetta infatti che don Giovanni abbia ancora pendenze a Farigliano con la gestione di A.gi.r.e di cui è presidente, nonostante la regola precisi di tagliare con ogni impegno precedente. Con dispiacere gli consiglia di ritirarsi e il 14 dicembre lo dimette.
Che fa don Giovanni? Su consiglio della sorella va a bussare alle Missioni della Consolata, da lui ben conosciute anche perché radicate da tempo nella Certosa di Pesio, nella stessa diocesi di Mondovì. Mons. Briacca, il suo vescovo, al quale vengono richieste informazioni canoniche sul suo conto, lascia, in una lettera del 12 gennaio 1963, la seguente autorevole testimonianza: «Attestiamo che don Calleri, di questa diocesi, ha sempre tenuto una condotta sacerdotale buona sotto ogni riguardo, dimostrando doti particolari di zelo, di volontà generosa, e carattere sereno e disinteressato. Lo crediamo bene intenzionato verso la vita missionaria, sulla quale ha insistito con frequenza. Crediamo possibile con la guida di provetti missionari, ottenere da lui una maggior fermezza di volontà nelle singole iniziative, ed un più equilibrato giudizio della giusta misura nelle attività esteriori, la qual cosa dovrà prefiggersi nel periodo di postulandato e di noviziato. Saremo lieti della sua buona riuscita».
A padre Delio Lucca, superiore regionale dei missionari della Consolata che chiede informazioni confidenziali, il direttore del Pime di Milano risponde illustrando le difficoltà avute con lui concernenti l’associazione A.gi.r.e, e così conclude: «Voglio sperare che quanto è successo possa servire a don Calleri per il futuro. Mi è sembrato un buon giovane, molto dinamico, ma bisognoso di incanalare le sue energie nell’obbedienza. Se sotto la loro guida diventerà un buon missionario, gioirò e ringrazierò il Signore».
Don Giovanni giunge così all’Istituto Missioni Consolata con la sua grande carica di vitalità e si sottomette volenterosamente alle sue regole. I superiori, apprezzando le eccezionali qualità organizzative del postulante, il suo grande spirito di dedizione e la non comune capacità comunicativa, lo aiutano a moderare gli ardori del suo carattere tanto fattivo ed esuberante.
Missionario della Consolata
Non risulta facile neppure il nuovo inserimento come postulante tra Rovereto e Rosignano; il percorso è ancora accidentato (e ci si mette di mezzo pure un’assurda lettera diffamatoria e l’eccessivo «scandalo» per la riproposizione a Merano – come già a Calizzano – di un incontro di calcio «Chiesa-Stato», col clero in campo coi calzoncini corti). Comunque, Giovanni trovò maggior comprensione e incoraggiamento: da Farigliano, da Mondovì e dalla maggior parte dei maestri della Consolata.
Giovanni comincia col mettere in ordine l’archivio a Rovereto, poi prende a organizzare mostre e giornate missionarie a Cortina, Merano, coinvolgendo anche villeggianti. Proprio non riesce a star fermo; le regole gli vanno strette, e fa corrugare qualche fronte. Qualche padre si lamenta, anche se – senza ammetterlo – ammira e invidia tanta vitalità, e quelle spiccate doti di persuasione.
L’ammissione al noviziato non è però «pacifica». Una relazione di padre Andrea Salvini riassume bene le qualità e i limiti di don Giovanni e determina la sua accettazione: «Lati negativi: don Calleri è portato all’indipendenza nell’assolvere gli incarichi ricevuti: non per ambizione ma per una certa frenesia nell’azione che lo spinge facilmente a strafare. Ha una salute di ferro e perciò non bada al riposo; passa i limiti soliti della resistenza propria e altrui. Chi lavora con lui presto si sfianca. Lati positivi: ha una pietà solida e costante, ha un vero entusiasmo per le missioni e lo comunica agli altri suscitando collaboratori e offerte nelle giornate missionarie. Ha un dono quasi eccezionale di persuasione con poche parole dette nelle prediche. Si accaparra l’aiuto disinteressato di volenterosi. Concepisce l’obbedienza in modo un po’ … spartano. Non rifiuta nessun comando e ubbidisce senza discussioni; però per agire fa notare che vorrebbe una certa libertà. Se lo si tiene imbrigliato con le redini tese in giusta misura si potrà avere da lui un rendimento ottimo; se non lo si controlla potrà avere sbandamenti per troppo zelo. Io spero che avremo in lui un bravo padre della Consolata».
Don Calleri passa alla casa del noviziato a Bedizzole, dove trascorre ancora due mesi di postulandato prima di iniziare il noviziato. Padre Giovanni Morando, maestro dei novizi, lo accompagna nell’anno del noviziato e al termine dell’anno scrive: «È di pietà sincera, di costumi irreprensibili, socievole nella convivenza, di obbedienza a volte un po’ ragionata. Ha dato segni decisamente buoni della sua vocazione ecclesiastico-missionaria e di grandi possibilità nel lavoro apostolico. La sua estrosa genialità organizzativa e la sua salute forte lo spingono a gettarsi senza limite. Ma occorre che chi lo dirigerà comprenda le sue capacità e doti, e sia deciso nell’esigere da lui il rispetto dei limiti stabiliti. Per altro, sotto quest’ultimo aspetto, l’impegno non gli è mancato». Padre Giovanni Calleri viene ammesso alla professione religiosa, pronuncia i voti il 12 gennaio 1965 e viene destinato alla prelazia di Roraima, Brasile.
La partenza
Il 4 febbraio 1965 tutta Carrù gli è attorno per la consegna del crocifisso; poi padre Giovanni si reca al Carmelo di Torino per congedarsi dalla sorella. Che di là dalla grata gli dice: «Ti auguro di poter lavorare tanti anni per il Signore; poi, come premio, il martirio». E lui: «Sarebbe la grazia più grande». La sera del 15 febbraio, accompagnato fino a Linate da un nugolo di parenti e amici, parte per il Brasile, destinazione Roraima, Amazzonia. Mamma Lucia lo segue, soffocando le lacrime, fino alla scaletta dell’aereo, fino a che quella veste bianca e quella barba nera scompaiono dentro. Non lo vedrà più. Solo qualche lettera affettuosa, qualche foto, una voce di lontano.
All’arrivo a Boa Vista il 22 marzo 1965, scrive al superiore generale: «Oggi termina il nostro viaggio. Tutto felicemente bene. Le devo esprimere viva e filiale riconoscenza per avermi data la possibilità di lavorare per le missioni, tanto più in un campo come questo. Molti miei amici sacerdoti mi invidierebbero sapendomi a lavorare in queste situazioni così bisognose. Cercherò senz’altro di fare del mio meglio per essere un po’ meno indegno di questa chiamata di predilezione. Per questo la ringrazio della sua paterna benedizione che già benevolmente mi diede alla partenza e ancora mi vorrà dare».
In Roraima si prepara al lavoro missionario applicandosi innanzitutto allo studio della lingua portoghese, e poi partecipa ai viaggi per contattare gli indios Yanomami che vivono lungo il fiume Catrimani, accompagnando padre Bindo Meldolesi che della zona della foresta è un buon conoscitore. Quando padre Bindo si ritira, padre Calleri continua da solo e, pur in mezzo a qualche dubbio e perplessità da parte dei superiori, cerca di stabilire in maniera permanente la missione al Catrimani. La missione viene piantata lungo il fiume, perché considerato dagli indigeni luogo neutro di scambi e di incontro con altri gruppi.
Dopo quei primi contatti con il mondo indigeno, padre Giovanni così scrive nel luglio del 1965 ai suoi familiari: «Qui ho avuto impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso, quasi completamente, dalla nostra Europa. Uomini e cose. Tutto a base di natura: come uscita dalle mani di Dio. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi, civilizzati, fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente».
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Catrimani
In quel periodo padre Giovanni ha la fortuna d’incontrare padre Silvano Sabatini, amministratore di tutto il gruppo dei missionari in Brasile e appassionato del mondo indigeno, che lo comprende e lo accompagna nel suo intento di iniziare una forma nuova di evangelizzazione tra le popolazioni delle foreste che non sia la tradizionale «desobriga» (visite periodiche alle comunità per adempiere agli obblighi fondamentali di messa, confessione e comunione), utilizzata dai missionari in passato. Sono gli anni in cui gli effetti del Concilio Vaticano II si fanno sentire impellenti ed esigono una rivisitazione della prassi tradizionale della missione. Padre Giovanni è pronto alle nuove sfide e a continuare con impegno il suo lavoro nella missione del Catrimani.
La missione del Catrimani diventa il suo mondo per due anni. Vi si stabilisce evitando, per quanto possibile, il viaggio di 600 km lungo il fiume per ritornare a Boa Vista, la sede della Prelazia. Le sue giornate sono scandite da due ore di preghiera il mattino con la celebrazione dell’eucaristia in privato, e dieci ore di lavoro con gli indigeni. Nel suo bagaglio missionario c’era la concezione di una missione tradizionale ben strutturata, che ben presto accantona per ridurre all’indispensabile le costruzioni. Mette in piedi una capanna che gli possa servire da casa e alcuni magazzini. Avvicina la gente e da loro cerca di imparare la lingua: per lui è una priorità. Cura le persone con le poche medicine che ha a disposizione. Non regala niente, anche perché la gente già conosce il baratto. Offre oggetti indispensabili in cambio di ore di lavoro («mamo» sono dei cartoncini che usa come «moneta di scambio» in base alle ore di lavoro fatte). Disbosca, costruisce una pista per piccoli aerei per facilitare i contatti con la sede centrale senza dover sobbarcarsi i viaggi in fiume, dissoda terreno per piccole coltivazioni.
La gente impara a conoscerlo e collabora volentieri con questo straniero gentile, rispettoso e tanto laborioso. L’inizio di questa missione è incoraggiante. Padre Calleri non è ancora del tutto consapevole di quanti interessi esistano dietro a questa foresta lussureggiante e impenetrabile. Sa che il governo centrale del Brasile vorrebbe costruire una strada che va verso il Nord del paese e che dovrebbe passare proprio in mezzo ai luoghi dove abitano gli indigeni. Ma non sa che tutto questo è però solo la punta di un iceberg.
Il missionario si converte
Padre Sabatini intanto gli consiglia di seguire un corso di antropologia a Belém, dove insegna un missionario, buon conoscitore della realtà indigena. Padre Giovanni abbandona così il Catrimani e gli indios fra i quali, come confessa lui stesso, aveva cominciato a costruire il suo «nido» e si reca a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, per seguire un corso di studi antropologici e allo stesso tempo offrire il suo aiuto di ministero in una parrocchia della città. È proprio questa interruzione del lavoro a Catrimani che gli permette di rivedere quanto finora realizzato e tracciare un piano per il futuro.
Ecco alcune linee-guida da lui maturate:
Le popolazioni indigene non devono essere «colonizzate o civilizzate» per poterle evangelizzare. Il missionario deve innanzitutto avvicinarsi a loro con grande stima e attenzione. Deve andare a scuola da loro per apprenderne la lingua, la cultura e le credenze.
L’approccio missionario ha bisogno di una radicale conversione. Gli indios non devono abbandonare la lingua e cultura per diventare «cristiani». Il missionario deve rispettarli, solidarizzare con loro, e non «imporre» i valori cristiani per farli giungere presto al battesimo. Questa fase di pre-evangelizzazione può avere una durata molto estesa. Il missionario non deve accelerare questo cammino di conoscenza, ma sottomettersi al loro ritmo di apprendimento e di crescita.
È possibile una promozione umana dell’indio? La risposta è affermativa ma sempre nel rispetto del suo cammino. Il criterio deve essere quello del «completamento» e non quello della «sostituzione», come è stato fatto troppo spesso in passato.
Bisogna fare sì che gli indios vengano a contatto con altre culture e realtà di vita perché anche per essi ci possa essere crescita e sviluppo. Il totale isolamento a cui la foresta li ha finora relegati ha impedito loro un naturale sviluppo (idea non più condivisa dai missionari oggi, ndr).
Una promozione umana e cristiana potrà avvenire attraverso l’utilizzo di quattro mezzi: la salute, il lavoro, la giustizia, l’elevazione intellettuale.
Il missionario, pertanto, deve innanzitutto credere che l’indio è un uomo libero, ha personalità, ha cultura, ha dignità, ha diritti, ha una patria che è la foresta.
Oltre a studiare, padre Calleri offre il suo aiuto pastorale in una parrocchia di Porto Alegre. Anche qui, la sua creatività, il suo slancio giovanile e impegno vulcanico, fanno sì che al termine degli studi, la gente e i sacerdoti desiderino che la sua presenza continui. Lo ricorda lui stesso in una lettera ai familiari del luglio ‘68: «Sono stato nel Sud del Brasile per fare un due tre corsi… E laggiù dove ero ospite feci una mezza rivoluzione, tanto che manco più riuscivo a venirne via: da Roraima mandavano una serie di telegrammi, della necessità del mio ritorno per un lavoro urgente tra gli indios; e di là, da Porto Alegre, rispondevano con sottoscrizioni a valanga per chiedere la mia permanenza là. Alla fine, ne venni fuori, ma con un sacco di nostalgia».
Salvare i Waimiri-Atroarí
Intanto nuove difficoltà si affacciano. Il governo brasiliano, costretto a sospendere i lavori per la costruzione della strada Manaus-Venezuela a causa di tribù ostili, richiede ufficialmente l’intervento della Prelazia di Roraima per un’opera di pacificazione. La strada che deve attraversare l’area indigena rischia di compromettere l’esistenza stessa di vari gruppi di indios a causa della distruzione del territorio, del contagio di malattie sconosciute agli indigeni e delle violenze perpetrate da lavoratori e minatori abusivi che inquinano il territorio alla ricerca di oro. La prelazia costituisce una commissione per studiare il problema in maniera da permettere da un lato di salvare gli indios e dall’altra di offrire al governo statale la possibilità di continuare la costruzione della strada Br-174. Di tale commissione padre Calleri è il segretario. La soluzione diocesana contempla un processo lento di avvicinamento, di conoscenza della popolazione e poi uno spostamento dei vari gruppi di indios in aree più sicure.
Padre Giovanni viene inviato dalla Diocesi di Roraima a Manaus per convincere le autorità governative della bontà del progetto dei missionari. E qui avviene invece un cambio di programma. Lo stesso padre Calleri, che tanto successo ha ottenuto con gli Yanomami, pare l’uomo giusto per l’impresa di capitanare una spedizione pacificatrice governativa. La missione è difficile e rischiosa. Egli aderisce alla proposta e accetta, pur sapendo che nessuna delle decine di persone partite negli ultimi anni per avvicinare quelle tribù aveva fatto ritorno.
Mentre da Manaus già si accinge alla partenza, ne dà notizia alla famiglia esponendo i motivi della sua decisione:
«Cara mamma e care sorelle,
[…] Vi dò una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da Indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale scelse me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli Indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio.
L’Istituto, attraverso il Superiore Generale, che venne appositamente in Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato. Se il nostro Istituto non accettava di intervenire erano duemila indios che venivano massacrati con bombardieri. Inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. Non è nemmeno il caso di dirvi di pregare. Già lo farete e lo farete fare.
Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questi gruppi di Indios sono espertissimi nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto … È costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…
Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
[…] Arrivederci presto!
Giovanni».
Con queste ultime parole padre Calleri presagisce la fine che toccherà a lui e ai suoi compagni di spedizione, poche settimane dopo.
Ernesto Billò e Margherita Allena (con inserzioni da pubblicazioni dei missionari della Consolata)
Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami
Da napë a xori
Da «straniero / nemico» a «parente / amico». Tradotte e trascritte quasi letteralmente, tre interviste a Yanomami che raccontano i primissimi incontri tra gli indios e padre Calleri, testimonianze del passaggio dalla diffidenza all’accettazione. L’originale è registrato in video.
Lavorare insieme
Intervista a Pedro Yanomami (di circa 80 anni) realizzata presso la comunità dei Maamapi theri, il 20 gennaio 2015.
«Inizialmente, [padre] Bindo [Meldolesi] abitò qui da solo e fece la pista di atterraggio. All’inizio abitò da solo e ci chiese di aiutarlo nel lavoro. Lui fece in questo modo: ci nutrì e si fece nostro amico. Lui disse così: “Io sono padre Bindo, sono veramente un padre”.
In seguito, aumentò il numero delle persone, [alla missione Catrimani]. È arrivato padre Calleri, scendendo con l’aereo. Con lui noi lavorammo. Padre Calleri ci chiese di lavorare».
[Interviene Teresa, moglie di Pedro] «Io, per prima, cinsi il mio collo con collane di perline. Quando altre donne videro che io avevo molte perline, rimasero felici e lavorarono con intensità alla pista di atterraggio. Noi donne lavoravamo e ricevevamo [in compenso] perline di vetro».
[Pedro continua] «Solamente i padri [i missionari e i loro aiutanti] arrivavano [a poco a poco] e aumentavano. Loro dicevano così: «Noi siamo padri; noi ci prenderemo cura di voi», e ancora: “Non ci sono altri napëpë [pl. non Yanomami o stranieri] che siano vostri amici”. I padri non mi alloggiarono in una casa di paglia, ma in una casa di assi. I padri costruirono la mia casa di assi, ben protetta. Loro mi chiamarono per abitare vicino. In quella direzione, dall’altro lato del fiume, avevamo una casa, ma loro mi chiamarono per abitare su questa sponda, vicino. Loro [i padri] iniziarono la scuola. Padre Giovanni, per primo iniziò ad insegnare. Lui consegnava [per il lavoro] biglietti [una forma di moneta che si chiamava mamo (occhio)], [in cambio] di questi biglietti distribuiva utensili. Così faceva padre Calleri. Disegnava molti biglietti [con simboli diversi corrispondenti alle ore di lavoro]. Con questi ricevevamo oggetti e utensili. Così faceva padre Calleri.
Con molto impegno, padre Giovanni scriveva nel quaderno la mia lingua. Io gli insegnai la mia lingua. Padre Giovanni diceva: “Insegnami la lingua yanomae”, perciò io gli insegnai. Gli insegnai il nome degli animali: “Questo è un tapiro, questo è un pécari, questa è una scimmia ragno, questa è una scimmia urlatrice, questo è una scimmia cebo, questa è una tartaruga di terra”, così gli dicevo. Così lui imparò a parlare molto bene».
I primi contatti
Interviste a Alexandre (nascita: 1961) e Xirixana (nascita: 1956) realizzate presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 18 gennaio 2015.
«L’indio [di etnia Ticuna, chiamato] Peruano, accompagnava padre Calleri che distribuì alcuni oggetti [ami, forbici, ecc.] agli Yanomami che con lui visitarono le loro comunità [si riferisce ai primi viaggi esplorativi per contattare i vari gruppi risalendo il fiume Catrimani; era normale lasciare allora dei piccoli regali come riconoscenza per l’accoglienza ricevuta e per dimostrare la volontà di un incontro pacifico, ndr].
Due Yanomami, lo zio di Juruna – questo [giovane] seduto lì – e il marito dell’anziana madre [Andina], trasportarono alcuni utensili e gli alimenti dei due: di padre Calleri e di Peruano.
Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [quella di Alexandre, localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del fiume Catrimani] e raggiunse le altre comunità degli anziani [lett. «antenati», perché molti di loro sono già morti, ndr]. In seguito, giunsero altri [insieme al padre].
In seguito, chiamò altri [abitanti] di questa regione. In questo modo, vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari per lisciare l’arco.
Padre Calleri osservò e provò [gli utensili degli Yanomami]: “Si fa così con questo?”. Vedendo l’utensile di denti di aguti [un roditore, ndr] legato al braccio, domandò: “Come lo fate?”. Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”.
In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli anziani [che confezionavano i loro utensili]: le donne cuocevano la focaccia di manioca sulle pietre, grattugiavano i tuberi di manioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema. Vide le donne che facevano fatica: spremevano la polpa di manioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò, li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui”. Gli anziani Yanomami andarono ad aprire la pista di atterraggio.
Padre Calleri orientò gli anziani Yanomami: il gruppo degli Opikitheri [di língua yaröame], quelli della comunità di Tooropi, quelli del fiume Hwayau, quelli della comunità Kaxipii, altri Yanomami del fiume Catrimani, quelli [provenienti dalla] comunità di Korihana. Tutti questi anziani Yanomami, insieme aprirono la pista di atterraggio.
In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i machete che aveva portato da Manaus.
Calleri aiutò gli anziani che, per questo, rimasero molto contenti. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri. Tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui, ma lui fu ucciso».
La paura delle donne
Dall’intervista a Fátima (nascita: 1956) realizzata presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 17 gennaio 2015.
«Anticamente, padre Calleri arrivò fra di noi, nella regione chiamata Kaxipi [sulla riva del fiume Jundiá, affluente del medio fiume Catrimani]. Solo gli adulti [non ebbero paura e] continuarono a cantare mentre lui [Calleri] ascoltava. Lui [Calleri] chiese loro di continuare a cantare e, dopo aver deposto al suolo le sue cose [forse un registratore], li fece danzare. Mentre gli anziani cantavano, noi ragazze ci chiedevamo: “Perché stanno cantando?”.
Dentro [alla casa comunitaria], al fondo, io rimanevo nascosta [fra le foglie] perché avevo paura. [Io pensavo che] I padri potessero rubare le donne, per questo ebbi paura e, in silenzio, rimasi nascosta. All’inizio avevamo molta paura. Ebbi paura perché era arrivata la notizia che alcuni napëpë [plurale di napë] che avevano risalito il fiume, durante una visita al popolo Yawari, avevano portato [via] con sé alcune donne».
[Anni dopo, Fatima divenne l’aiutante della suora infermiera nel dispensario della missione del Catrimani].
I ricordi della sorella, monaca di clausura
Il coraggio di fare il bene bene
Il Carmelo dello Spirito Santo è una piccola oasi di tranquillità e silenzio nella già tranquilla prima collina torinese. Da anni i missionari della Consolata che vivono in Casa madre a Torino offrono il servizio come cappellani di questa piccola comunità di suore di clausura che, con fede e tanta simpatia, accompagnano al ritmo della preghiera anche la nostra missione nel mondo. Da tanti anni, però, c’è un altro motivo di contatto e comunione fra le nostre due comunità.
Nel 1946, con un viaggio reso complicato dai postumi della guerra, una giovane ragazza di Carrù, entrò in monastero per donare interamente la sua vita al Signore, lo sposo amato. Oggi, è un’arzilla vecchietta che sta per compiere 92 anni alla quale chiedo di ripercorrere per l’ennesima volta la storia di suo fratello, di raccontarmi com’era questo padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata ucciso in Amazzonia cinquant’anni fa, il 1° novembre 1968.
«Padre Giovanni lo conoscevo bene, eccome, l’ho tirato su io da bambino – inizia a ricordare suor Teresina. Era un bambino vivace, molto vivace… un po’ furbetto. È stato con la cresima che, secondo me, Giovanni ha ricevuto una grazia speciale. È diventato più aperto, ma anche più disposto alla preghiera».
Le chiedo che cosa avevano pensato in famiglia a proposito della sua decisione di entrare in seminario e poi, in seguito di diventare missionario.
Suor Teresina risponde di getto. Sorvola sulla famiglia – del resto in quei tempi, soprattutto nelle nostre campagne – era cosa comune mandare i figli a «studiare dai preti». Ricorda invece che il parroco, guardando forse il carattere vivace del ragazzo, era contrario al suo ingresso in seminario. Pensava che non fosse la sua strada, che avrebbe avuto delle delusioni. Giovanni venne aiutato nel suo proposito da una catechista che lo conosceva bene e, soprattutto, ne vedeva alcuni aspetti di bontà. Si capiva che dietro a tanta vivacità si nascondevano una creatività e una attitudine verso la pietà davvero speciali. Così quando sua sorella entrò nel Carmelo, lui entrò nel seminario di Mondovì.
«Quando invece decise di andare in missione ci preoccupammo tutti un po’ – continua suor Teresina -, in diocesi aveva mille impegni, tantissime attività iniziate e ci chiedevamo tutti come avrebbe potuto lasciare tutte queste cose per iniziare un nuovo cammino. Del resto, la sua prima esperienza di formazione missionaria con il Pime di Milano finì anche per questo motivo. I suoi nuovi superiori si accorsero che continuava ad essere attaccato alla sua precedente realtà pastorale e gli consigliarono di tornare ad essa e di dedicarsi anima e corpo alla parrocchia e alle attività ad essa legate».
Fu una delusione, il dover tornare indietro?
«Certamente lo fu. Quell’anno, si era all’inizio della novena di Natale, venne a trovarmi e a confidarsi con me. Giovanni aveva nel cuore la missione, voleva andarci. Mi disse che aveva chiesto ai Salesiani che, però, pur avendo istituti scolastici e missioni all’estero, non gli avevano assicurato di poterlo mandare. Lui aveva bisogno di trovare un Istituto missionario. Solo gli bastò guardare ancora più vicino».
«In quegli anni, qui al Carmelo, avevamo già un cappellano missionario della Consolata, padre Creola. Misi Giovanni in contatto con lui e così iniziò il percorso di formazione con il vostro Istituto. Ne fu contento, si trovò immediatamente bene, in mezzo a tanti piemontesi come lui, si è subito sentito il benvenuto».
Suor Teresina conosceva però bene suo fratello e dovette intervenire con la preghiera e un paio di lettere ai superiori di padre Giovanni per far sì che riuscisse a coronare il suo sogno.
«È vero, lo hanno fatto tribolare non poco prima di dargli il via. Giovanni era un tipo vulcanico, difficile da inquadrare in uno schema. Io ogni tanto scrivevo ai suoi superiori dicendo che avessero comprensione, che Giovanni era buono, di tenerlo perché sicuramente avrebbe fatto del bene. Chi ne ha visto la stoffa e lo ha capito è padre Giovanni Morando, che fu suo maestro di noviziato. Lo prese davvero a cuore».
Chissà che gioia quando padre Morando scoprì che il suo novizio aveva una sorella monaca di clausura di nome «Suor Teresina». Aveva un’autentica devozione per Suor Teresina di Lisieux.
«Quando lo seppe mi scrisse subito. Del resto Santa Teresina è patrona delle missioni, il mese missionario inizia con la sua festa, e io stessa mi sento missionaria in prima linea, qui dal Carmelo, accompagnando con la preghiera tutti i missionari. Santa Teresina mi ha ispirato. Devo a lei anche la mia vocazione visto che è maturata dopo aver letto il suo “Storia di un’anima”».
Chiedo a suor Teresina qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello.
«Prima di partire per il Brasile venne a salutarmi e a celebrare qui l’Eucaristia. Ricordo le ultime parole che gli dissi: “Ti auguro di lavorare, di fare tanto bene e alla fine, se Dio vorrà… il martirio”. Mi rispose: “Sarebbe la grazia più bella”. È un martirio per il quale si è preparato, nonostante il poco tempo in cui è rimasto in Brasile. Si era reso conto che qualcosa non andava con quella spedizione in cui poi perse la vita, che qualcuno gli remava contro. È andato avanti lo stesso, con tenacia, ispirato dall’ideale della salvezza dell’uomo, di questi indios a cui si era donato. Ha resistito anche di fronte a chi gli consigliava di lasciar perdere, che era troppo pericoloso. Questa sua fortezza basterebbe a considerarlo un martire della carità».
Vedo che suor Teresina è stanca. Continuerebbe a parlare di suo fratello, lo si legge negli occhi, ma forse è meglio fermarci. Le faccio un’ultima domanda e le chiedo quale caratteristica di suo fratello potrebbe essere di ispirazione per un giovane di oggi.
Mi guarda come se fosse in procinto di darmi una risposta scontata… e forse lo è. «Il coraggio – mi dice – il coraggio nel fare il bene a qualsiasi costo».
Ugo Pozzoli
Giovanni Billò – Margherita Allena
Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio
Nella prima parte io ho cercato di seguire Giovanni nel suo cammino di educazione umana e spirituale: dagli inizi in famiglia e in parrocchia agli anni di scuola e di seminario, cogliendo – attraverso lettere, testimonianze, documenti – il maturare delle sue doti di sensibilità, intelligenza, creatività, autonomia, e il precoce affiorare di una vocazione ecclesiale e missionaria determinata e generosa messa però presto alla prova da certe incomprensioni e diffidenze dovute soprattutto alla sua vivacità e intraprendenza e a certi atteggiamenti che apparivano troppo anticonformistici in ambienti educativi ancora rigidi e chiusi. […]
Qui si innesta la seconda parte del libro, in cui Margherita Allena riferisce di un viaggio compiuto nel 2009 in Brasile con la cugina Zelda Guglielmotto, pronipoti di padre Giovanni,
visitando i luoghi dove aveva operato e cercando contatti con chi l’aveva conosciuto e con vecchi indios che egli aveva contribuito a beneficare e tra i quali aveva perso la vita. (Gio. Bil.)
Edito da: Associazione «Amici di Padre Calleri»
Piazza Dante 12, 12061 Carrù (Cn)
info@amicipadrecalleri.it
Bibliografia essenziale
Damioli e G. Saffirio, Yanomami, Indios dell’Amazzonia, Ed. Capitello 1996.
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica, Emi, Bologna 2001.
Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo, Ediesse 2012.
Gabriele Soldati, Testimonianza di sangue, MC 1/1969 p. 14-35.
Sabatini Silvano, Sono morti così, MC 1/1970 p. 28-35.
Gigi Anataloni, La causa degli Indios è la nostra causa, dossier MC 2/1985 p. 27-38.
La Cambogia, il paese del Sud Est asiatico ha una storia di guerre e sangue. Conflitti che, seppure estinti, non hanno terminato di mietere vittime. Le mine e le bombe inesplose rendono la vita quotidiana pericolosa per milioni di cambogiani. Mentre gli effetti degli agenti chimici usati come armi dagli Stati Uniti hanno rovinato per sempre molti di loro.
«In Cambogia stimiamo che siano tra i quattro e i sei milioni le mine utilizzate durante la guerra, specialmente tra il 1980 e il 1998. Queste, tra morti e feriti, hanno fatto più di 65mila vittime», spiega Heng Ratana, direttore generale del Cmac, Centro cambogiano antimine.
L’obiettivo dichiarato del Cmac è quello di ripulire il paese dalle mine entro il 2025. Ma molto resta ancora da fare.
La Cambogia ha una superficie di oltre 181mila chilometri quadrati (poco più della metà dell’Italia) in gran parte di territorio boscoso, montagnoso e inaccessibile a causa delle scarse infrastrutture ma anche della diffusione di mine e bombe inesplose.
Una storia di guerre
Una lunga serie di guerre ha segnato la storia recente del paese. Dopo la seconda guerra mondiale, ci fu la cosiddetta guerra d’Indocina (1946-1954) contro la potenza coloniale francese, che portò all’indipendenza di Cambogia, Laos e Vietnam. Quindi la guerra civile cambogiana (1967-1975) che da un lato vide i Khmer Rossi (o Partito comunista di Kampuchea) e i loro alleati vietnamiti del Nord, Vietcong, e dall’altro le forze governative della Cambogia sostenute dagli Stati Uniti e dal Vietnam del Sud. Fu l’esercito del Vietnam del Nord a mettere le prime mine antiuomo in Cambogia nel 1967, e continuò a farlo fino alla fine della guerra del Vietnam nel 1975 con l’obiettivo di proteggere le basi e le rotte di rifornimento stabilite lungo la frontiera cambogiana.
Gli Usa non stettero con le mani in mano e risposero con operazioni segrete tra il 1969 e il 1973 consistenti nel lancio di centinaia di migliaia di tonnellate di bombe, molte delle quali inesplose e ancora nascoste sottoterra.
Al potere dal 1975 al 1979, i Khmer Rossi, che ruppero con il Vietnam, non esitarono a servirsi di mine per rinforzare i confini col Vietnam e la Thailandia, trasformando il paese in quella che venne tristemente soprannominata «la prigione senza mura». Proprio il Vietnam rovesciò il sanguinario leader Khmer Pol Pot. L’organizzazione dei Khmer Rossi venne in gran parte sciolta nella seconda metà degli anni Novanta, per, infine, arrendersi nel 1999. Ma per tutti quegli anni sia i Khmer Rossi sia le nuove forze governative continuarono a piazzare mine a protezione dei territori sotto il loro controllo. Le fazioni in gioco non segnavano sulle mappe i campi minati e così spesso capitava che venisse minata più volte la stessa area con il risultato di un esorbitante numero di feriti, sia soldati sia civili. Il clima umido della Cambogia ha fatto sì che il terreno inghiottisse ulteriormente le mine rendendo ancora più complicate le operazioni di localizzazione e smaltimento.
Sminamento difficile
«Finora le organizzazioni che si occupano di sminamento hanno trovato e distrutto più di un milione di mine – continua Heng Ratana -. Sottoscrivendo la Convenzione internazionale di Ottawa nel 1997 per la proibizione e la distruzione delle mine antiuomo, il nostro governo si è impegnato a ripulire l’intera Cambogia dalle mine entro il 2025. I nostri sforzi stanno dando buoni risultati anche grazie al contributo di alcuni partner come Vietnam, Laos, Colombia, Iraq e Afghanistan, paesi che vivono problemi simili ai nostri. Fino a pochi anni fa in Cambogia le vittime delle mine e bombe inesplose erano circa 4mila l’anno mentre ora sono meno di mille».
Il Cmac venne istituito nel 1992, quando nel paese era presente l’Autorità transitoria delle Nazioni Unite in Cambogia (Untac), al fine di assistere il ritorno sicuro di migliaia di sfollati nelle loro terre d’origine. Nel 2000 questo centro per lo sminamento divenne un organismo statale autonomo. Ha al suo servizio 1.715 persone, 1.387 delle quali attive sul campo, e numerosi macchinari per il rilevamento e la distruzione delle mine e altri ordigni esplosivi. Il Cmac ha il suo quartier generale nella capitale Phnom Penh e basi operative sparse in tutte le province.
Le mine dei Khmer
Uno dei distretti dove il Cmac è più impegnato è quello di Banan, nella provincia nordoccidentale di Battambang, ad un’ottantina di chilometri dal confine con la Thailandia. «Questo – racconta Chhou Mab, capo villaggio di Thnor, a Banan – era tutto territorio dei Khmer Rossi. Qui tra il 1985 e il 1986 allestirono dei campi rimanendovi fino al 1990. Riempirono la zona di mine che causano ancora oggi numerose vittime. Siamo felici che il Cmac stia ripulendo la zona, è un bene per tutti noi».
Lay Ponloeuk, funzionario del Cmac, è a capo del progetto Imv3 (Assistenza integrata per le vittime nella pulizia delle mine, Fase 3) in corso in quattro distretti della provincia di Battambang, tra cui quello di Banan. «Sono 485 – dice Lay – le persone attive per la realizzazione di questo programma, divise in trenta squadre che hanno a disposizione una trentina di strumenti, tra cui macchinari pesanti per la distruzione delle mine. L’obiettivo dell’Imv3 è quello di ripulire l’area dalle mine e renderla utilizzabile per l’agricoltura e l’installazione di moderne infrastrutture».
Il perimetro in cui operano Lay e i suoi uomini è interamente recintato con del nastro rosso. Dove sono state trovate delle mine è stato piantato un cartello con il classico disegno del teschio indicante il pericolo di morte. «Dobbiamo essere molto meticolosi – illustra Sous Pov, caposquadra dell’Unità 8 – così da essere sicuri al 100 per cento che l’area sia libera da mine. Il problema principale che riscontriamo a livello nazionale è che le mine sono sparpagliate un po’ ovunque, senza una logica apparente». Le mine ritrovate in questa zona sono di fabbricazione cinese, sovietica, vietnamita e in misura minore cecoslovacca. A beneficiare delle operazioni di ripulitura che rientrano nel progetto Imv3 saranno quattro famiglie di contadini e allevatori, che hanno i propri terreni nelle immediate vicinanze. Una di queste famiglie è quella di Loung Lon, del villaggio di Thnon. «Ero in giro per le campagne in cerca di qualcosa per la cena – ricorda Loung – quando misi un piede su una mina di produzione cinese. Era il 1997. Ho perso una gamba e la parte inferiore dell’altra è stata squarciata. Sono stato ferito anche alla coscia da alcune schegge. C’è voluto un anno per rimuoverle tutte. Sono povero e pertanto le autorità ogni mese mi danno del riso, niente di più».
Le vittime delle mine
Anche la provincia Nord occidentale di Pailin, al confine con la Thailandia, è tristemente nota per essere stata una delle roccaforti dei Khmer Rossi e, quindi, zona di mine. «Finito il regime – racconta Soun Rithy, 47 anni, del villaggio di Phsar Prom Chheung – i Khmer Rossi sono rimasti a lungo da queste parti. Mi arruolarono nel 1986, avevo appena 16 anni. Fui costretto a farlo, non avevo scelta, ma all’inizio era una cosa che mi riempiva di orgoglio. Avere in mano un’arma, indossare la divisa costituita da una tuta blu e una sciarpa a scacchi rossi e bianchi mi fece sentire subito grande. Ma pochi mesi dopo il mio arruolamento saltai su una mina, persi una gamba e mi ferii gravemente l’altra. Mi lasciarono a casa».
«Tutta la Cambogia è messa male – spiega Khoa Ly, funzionario del Cmac che su un quaderno ha annotato tutte le vittime delle mine della provincia – ma a Pailin abbiamo dei record impressionanti. Ad esempio solo nel villaggio di Phsar Prom Chheung contiamo 19 vittime. Un dato considerevole se si tiene presente che in quel villaggio gli abitanti sono ottanta. Le storie si somigliano un po’ tutte: civili che si addentrano nei campi in cerca di legna o qualcosa da mettere sotto i denti e incappano in una mina. Oggi sono tutti informati sui rischi che si corrono nelle campagne, ma miseria e fame costringono la gente a osare».
Khoa, mettendo a disposizione il suo scooter malconcio, si offre come guida per la ricerca delle vittime delle mine, un compito tutt’altro che difficile. Basterebbe fermarsi e bussare alla porta di una qualsiasi capanna di Pailin e chiedere agli abitanti se conoscono qualcuno che sia saltato su una mina o che sia stato ferito dalle schegge. La risposta è purtroppo scontata: «Sì, certo. Mio zio ha perso una gamba lavorando nei campi», oppure «Mia madre è diventata cieca a un occhio per una scheggia», o «Al mio vicino di casa hanno amputato tre dita della mano». E così via.
Non sono pochi i casi in cui interi nuclei famigliari sono incappati in una mina. La famiglia Chan, anch’essa residente nel villaggio di O’Cher Krom, rientra in questa tragica statistica. Nel 2003, Krel, il 59enne capofamiglia, portò i propri cari con sé nei campi a raccogliere della legna per riparare il tetto di casa. «Non sapevo – giura – che quella zona fosse un campo minato». Krel si giocò un occhio per una scheggia; il figlio maggiore Then, 36 anni, che calpestò la mina, perse entrambe le gambe e alcune dita di una mano; il figlio minore Rin, 29 anni, riportò delle brutte cicatrici sul volto; la moglie Srey, 53 anni, delle gravi ustioni al braccio e infine la cognata Sreypov, 63 anni, si vide squarciata parte della coscia.
«Da quell’orribile incidente – confida la signora Srey – mio marito non è più lo stesso. Fu molto coraggioso perché nonostante la ferita all’occhio trovò la forza di mettere in salvo tutti noi, prendendo in braccio i figli e trascinando me e mia sorella. Si sente in colpa perché fu lui a decidere il luogo dove andare a fare legna. Ma non è colpa sua, è colpa di quegli assassini che misero le mine. Spesso mi sento scoraggiata ma cerco di non darlo a vedere. Noi adulti dobbiamo essere d’esempio per i nostri ragazzi e incoraggiarli come possiamo. Siamo più forti delle mine».
Il centro di riabilitazione
Tutte le vittime delle mine di queste regioni Nord orientali sono passate dal Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang, operativo dalla fine degli anni Ottanta. «Qui – spiega il dottor Heng Vanny, vice direttore del centro – forniamo servizi di riabilitazione fisica. Dopo accurate visite, fabbrichiamo delle protesi su misura. Se il paziente proprio non può camminare, gli diamo in dotazione una sedia a rotelle o delle stampelle. Insistiamo parecchio sulla fisioterapia, senza la quale è pressoché impossibile rinforzare i muscoli e indossare le protesi».
Continua: «Non ci limitiamo a prestare assistenza qui in sede. Due volte l’anno il nostro team si reca nei villaggi per controllare lo stato delle protesi. Se non ci sono usure eccessive, i tecnici le revisionano sul posto, altrimenti invitiamo i pazienti a tornare al nostro centro. Ogni volta che facciamo una trasferta veniamo accolti con grande entusiasmo, siamo ben voluti. Svolgiamo un lavoro che è molto apprezzato».
Nel laboratorio per le protesi lavorano una dozzina di tecnici. In una sala vengono preparati, dopo accuratissime misurazioni, i calchi in gesso di gambe, piedi, braccia e mani. Sulle sagome vengono successivamente modellate delle lastre di plastica sciolta e solo dopo una luna serie di passaggi attraverso forni, seghetti, lime e pennelli le protesi vengono consegnate ai pazienti. Spetta a loro l’approvazione finale al termine di un periodo di prova.
I trattamenti del Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang sono completamente gratuiti. Questa, come le altre undici strutture gemelle sparse per la Cambogia, sono dipendenti dal ministero degli Affari sociali per la Riabilitazione dei veterani e dei giovani e godono delle sovvenzioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc).
Annualmente, solo per Battambang, transitano più di duemila pazienti tra vittime di mine e incidenti stradali e disabili dalla nascita.
Luca Salvatore Pistone
Cambogia: I disastri dell’Agente Arancio
La «sporca» guerra chimica degli Usa nel Sud Est asiatico.
Durante la guerra del Vietnam l’esercito statunitense sganciò tonnellate di diserbante per togliere ai vietcong (il nemico) i loro nascondigli naturali. Anche sulla confinante Cambogia. Prodotti chimici altamente tossici, i cui effetti sono oggi ben visibili negli abitanti di queste aree.
Le irrorazioni di Agente Arancio e il lancio di bombe chimiche da parte degli Stati Uniti durante la Guerra del Vietnam (1955-1975) sono state solo l’inizio di una lunga scia di morte e malattie. Questione che ha travalicato i confini vietnamiti per toccare anche la vicina Cambogia. E mentre in Vietnam esistono svariati centri dedicati all’assistenza delle persone colpite da queste sostanze micidiali, in Cambogia solo di recente si è cominciato a parlarne pubblicamente.
L’Agente Arancio è un defoliante, il prodotto di due diversi erbicidi, il 2,4,5-T e il 2,4-T. Con l’aggiunta della tetracloro-dibenzo-diossina, una sostanza estremamente tossica, diventa un’arma letale. Dal 1962 al 1972, nell’ambito dell’Operazione Ranch Hand nel Vietnam del Sud, gli statunitensi ne irrorarono 75 milioni di litri.
Nei vent’anni di conflitto, i vietcong, giocando in casa, furono una spina nel fianco degli Usa. La soluzione più logica fu sradicare la loro casa e lasciare che l’ambiente si deteriorasse con l’aiuto dell’Agente Arancio. Senza vegetazione i vietcong non potevano ripararsi ed erano dunque vulnerabili. Privarli dei nascondigli e portarli alla fame per la distruzione dei raccolti sembrava un ottimo metodo per ammansirli senza finire eccessivamente sotto i riflettori della stampa estera. Stesso discorso per il territorio cambogiano, dove i vietcong facevano rifornimenti di ogni sorta.
«Gli americani – racconta Em Chhoun, l’anziano capo villaggio di Prey Ta Thoeung, nella provincia di Svay Rieng (Sud Est della Cambogia), lungo il confine col Vietnam – sganciarono tantissime bombe da queste parti. Poi passarono a sganciare della polvere chimica di colore giallo che in breve tempo bruciava le foglie degli alberi. Tutti i bambù scomparvero. Gli abitanti della zona, tra cui anche la mia famiglia, vennero evacuati ma alcune persone decisero di rimanere esponendosi a quelle sostanze che hanno contaminato il suolo. Da allora i bambini continuano ad avere problemi agli arti, altri sono diventati muti e ciechi».
L’emivita della diossina presente nel tetracloro-dibenzo-diossina dipende da dove si trova. Nel corpo umano dura dai dieci ai vent’anni, nell’ecosistema dipende dal tipo di terreno contaminato e dalla profondità a cui si trova: in superficie il calore del sole riesce a decomporre la diossina in pochi anni; se invece gli aggregati tossici sono sotto la superficie o in falde acquifere l’emivita può prolungarsi addirittura fino ad un secolo.
I. J. Paris, del villaggio di Kampot Tuk, provincia di Svay Rieng, ha cinque figli. Dauk, 14 anni, la secondogenita, è nata con una gravissima malformazione al braccio sinistro. «Parte del braccio – precisa I. J. – non è mai cresciuta e così ha la mano attaccata poco sotto la spalla. Persino il cranio non si è del tutto sviluppato. Non accetta i rimproveri miei e di mio marito, va su tutte le furie. Se cammina più del solito le fanno male le gambe. Soffre di frequenti mal di testa. Si ammala più dei fratelli. Piange in continuazione. Dobbiamo essere molto accorti con lei».
«Mio figlio Hem – dice Lek Sareoun sulla veranda di casa sua a Doun Ang, sempre nella provincia di Svay Rieng – è nato con delle pesanti deformazioni e ritardi. Ha dieci anni e non parla nemmeno. Dipende in tutto e per tutto da me e mia moglie. L’ho portato nei principali ospedali della capitale e l’unica cosa che mi hanno saputo dire è che non è curabile».
Non solo Agente Arancio. Secondo il governo di Phnom Penh, durante la guerra del Vietnam, solo in Cambogia, gli aerei statunitensi sganciarono milioni di tonnellate di bombe, un dato sempre rigettato da Washington. Bambini nati deformi, strane allergie cutanee e febbri da cavallo sono solo alcune delle conseguenze di queste operazioni militari.
Particolarmente grave è la situazione nella municipalità di Koki, nella provincia di Svay Rieng, dove nel gennaio del 2017 sono state rinvenute dal Centro cambogiano antimine (Cmac) tre bombe barile inesplose contenenti gas lacrimogeno di tipo Cs, una nella campagna nei pressi di una pagoda e due nel cortile di una scuola elementare. Le bombe non sono ancora state rimosse per la mancanza di mezzi appropriati e conoscenze tecniche del Cmac.
«Per molti anni – illustra Heng Ratana, il direttore del Cmac – non si è preso nota di tutte quelle sostanze chimiche utilizzate contro il popolo cambogiano. Quando abbiamo scoperto queste armi chimiche nella provincia di Svay Rieng abbiamo notato che un certo numero di abitanti era stato affetto da sostanze chimiche, assunte ingerendo acqua contaminata o respirando dei vapori. Il ministero della Salute ha quindi creato un’unità speciale per studiare l’impatto di queste sostanze sulla nostra gente».
«Gli Stati Uniti – aggiunge il dirigente – devono essere il nostro partner principale. Hanno degli obblighi morali nei nostri confronti, dal momento che dal 1963 al 1975 hanno lanciato oltre 2,8 milioni di tonnellate di bombe sul paese, che hanno ucciso 500mila cambogiani e distrutto interi villaggi, case, scuole e infrastrutture. Devono aiutarci a ripulire la Cambogia dai resti delle loro armi e a tal fine il nostro governo si è attivato da tempo intavolando trattative con quello statunitense».
Koki, villaggio di 800 anime, è tappezzato di cartelli di pericolo di morte. I siti dove sono state rinvenute le bombe sono semplicemente circondati con del nastro rosso e bianco. Da oltre un anno i bambini ci giocano intorno come se nulla fosse. Gli ispettori del Cmac ritengono che la prolungata vicinanza di questi ordigni alla popolazione locale sarebbe la causa di alcune gravissime malattie. Negli anni Washington ha in parte riconosciuto le conseguenze dell’utilizzo dell’Agente Arancio ma si rifiuta di ammettere che ci sia un nesso tra questo tipo di bombe, contenenti ciascuna 220 litri di gas lacrimogeno di tipo C2, e atroci malattie.
Dalla casa della famiglia Sokhum, a una trentina di metri dalla scuola, si odono degli strilli strozzati. A emetterli è il piccolo Sorm che non ha più voglia di rimanere nel girello. Da lontano Sorm ha le sembianze di un bambino di un anno o poco più ma una volta avvicinatisi si nota subito che ha qualcosa che non va. La sua faccia è consumata e svela tutt’altra età: Sorm ha infatti 14 anni e pesa 9 chilogrammi. Non è cresciuto, non parla e ha gravissimi problemi neurologici.
«Sua madre – racconta la giovane zia Meta – lavora come bracciante in Vietnam e così mi occupo io di lui. È un bambino buono, l’unico fastidio che dà è quando piange. Per qualsiasi cosa ha bisogno di noi, non riesce a tenere in mano neanche il biberon. I dottori non hanno mai saputo dirci qual è la sua malattia, dicono solo che non esiste cura».
Di fronte casa Sokhum, dall’altro lato della strada, c’è la casa della famiglia Eth. All’ombra, su un’amaca, tenta invano di riposare Srey, 31 anni appena compiuti. Invano perché i dolori causati dalla sua sconosciuta malattia non gli danno tregua. Tutto ha avuto inizio sette anni fa, quando si manifestarono le prime allergie cutanee sulla schiena. Ma in breve tempo queste si diffusero in tutto il corpo facendolo diventare, come dicono i suoi parenti, «un pezzo di sughero».
«La mia pelle – mostra il ragazzo – è durissima. Ho provato con diverse pomate e unguenti ma non è servito a nulla. Il prurito è insopportabile e ho spesso febbre altissima che mi porta ad avere freddo. Il dolore è lancinante, il mal di ossa non mi permette di camminare a meno che non prenda delle medicine. La mia vista peggiora sempre più. Anche le orecchie mi fanno male, per non parlare delle fitte al petto che non mi lasciano respirare bene». E conclude: «Alcuni dottori mi hanno detto che soffro di una strana forma di psoriasi, una malattia incurabile. Peggioro di settimana in settimana, sono certo che presto morirò. Sono sconvolto. Sono laureato in economia, lavoravo in banca ma ho perso il mio lavoro perché sono malato. Quando alcuni mesi fa la gente ha iniziato a parlare di bombe chimiche ho realizzato che esse potrebbero essere la causa del mio male. Ma nessuno sa dirmi di più».
Luca Salvatore Pistone
Verso il «partito unico»
Elezioni legislative
Il 29 luglio scorso si sono svolte in Cambogia le elezioni legislative in un clima teso. Dei 20 partiti candidati, il partito del primo ministro Hun Sen, Partito del popolo cambogiano (Cpp), ha fatto incetta di voti, ottenendo tutti i 125 seggi in parlamento, come già era successo nel 2013. Hun Sen è quindi stato riconfermato primo ministro per i prossimi cinque anni. Ma lo scrutinio è stato viziato dall’assenza del principale partito d’opposizione, il Partito per il salvataggio nazionale, sciolto nel novembre 2017 e il cui leader Kem Sohka è stato incarcerato. Molte Ong denunciano il degrado della situazione politica in Cambogia, con un aumento di autoritarismo del partito al potere e una diminuzione di democrazia. Diversi oppositori politici, della società civile e della stampa indipendente sono incarcerati. Solo dopo le elezioni, arriva qualche segnale di distensione: l’attivista che si batte contro l’accaparramento della terra, Tep Vanny, è stata graziata e due giornalisti liberati su cauzione.
Hun Sen, che è al potere dal 1985, diventa così il più longevo capo di governo in Asia. «Negli anni, secondo alcune Ong, Hun Sen ha messo in piedi un sistema generalizzato di corruzione, del quale approfittano la sua famiglia e i suoi collaboratori più fedeli», scrive Radio France International. Nella rete di fedelissimi Hun Sen ha messo i suoi tre figli, che potrebbero assicurare la sua successione. A causa della situazione di violazione dei diritti, gli organismi internazionali, Onu, Ue e Usa in testa, hanno deciso di non inviare osservatori elettorali.
Marco Bello
Turkmenistan, dove una goccia d’acqua è un chicco d’oro
Alla scoperta di un’ex Repubblica Sovietica del Turkmenistan. Affacciato sul Mar Caspio e occupato in gran parte dal deserto del Karakum, il Turkmenistan è indipendente dal 1991. Finora però ha avuto soltanto due presidenti. Molto ricco di gas naturale e grande produttore di cotone, il paese centroasiatico deve affrontare problemi di scarsità d’acqua. Problemi aggravati dall’insipienza degli uomini.
Un tempo in Asia Centrale i canali per portare l’acqua dalle sorgenti montane alle pianure si costruivano sotto terra per evitare la forte evaporazione in quelle regioni di clima secco e di alte temperature. Questa tecnica di trasporto dell’acqua, molto antica, fu sviluppata dalle genti dell’altipiano iranico nel primo millennio a.C. Con i rudimentali strumenti a disposizione a quel tempo la costruzione di un canale sotterraneo, chiamato qanat o kahriz1, costituiva un’impresa che coinvolgeva tutta la comunità e il lavoro poteva durare parecchi anni. Erano notevoli opere d’ingegneria. I canali correvano sotto terra a volte anche per decine di chilometri, erano dotati di pozzi di aerazione lungo tutto il tragitto; per un corretto funzionamento dovevano essere controllati e ripuliti ogni anno. La popolazione si sobbarcava questa fatica per non disperdere un bene prezioso, l’acqua. Difatti, il sistema permetteva un utilizzo ottimale di questa scarsa risorsa, che arrivava integra in luoghi aridi, consentiva la vita di uomini e animali, la produzione agricola là dove prima c’era il deserto. Questo antico e ingegnoso sistema è stato utilizzato fino al Ventesimo secolo.
«Padroni del Creato»
Il Ventesimo, come sappiamo, è il secolo in cui al lavoro dell’uomo si affianca in maniera sempre maggiore quello delle macchine. Lo sfruttamento del lavoro meccanico permette imprese che nel passato sarebbero state inattuabili.
Per la vita in condizioni climatiche come quelle centroasiatiche l’acqua è la risorsa più importante, da sempre la sua presenza e le modalità di utilizzo sono state elemento essenziale per la sopravvivenza. Con il potenziamento delle capacità umane d’intervenire sull’ambiente si sarebbe potuto prevedere un miglioramento nelle forme di sfruttamento di questa risorsa. Invece spesso è successo il contrario. Paradossalmente l’abbondanza di mezzi a disposizione ha peggiorato la situazione a lungo termine, soprattutto in società rette da sistemi dittatoriali, come dal Ventesimo secolo in poi sono state quelle centroasiatiche.
Con l’invenzione di macchine potenti l’uomo ha pensato di poter plasmare il mondo a proprio piacimento, si è creduto capace di migliorare l’opera del Creatore. Un tempo la presunzione era tenuta a freno dalla mancanza di mezzi – l’uomo aveva meno possibilità di fare danno – e dalla consapevolezza del proprio essere creatura limitata. Con la modernità la presunzione di sentirsi padroni del creato ha risparmiato pochi. Ciò dipende, forse, anche dal fatto che sempre più persone vivono in ambienti artificiali e che le politiche sono per lo più fatte dai cittadini, persone che non sono più in stretto contatto con le altre creature. Ciò cambia la mentalità senza neppure rendersene conto. Sempre più chiusi nelle nostre città, non abbiamo più idea del mondo naturale. Il cibo non lo produciamo, lo consumiamo. Per un cittadino la frutta viene dal fruttivendolo, gli animali sono a pezzi sui banchi del supermercato, o al guinzaglio, o in gabbia, l’acqua viene dal rubinetto e sparisce nello scarico. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma è meglio tornare in Asia Centrale, per la precisione, in una delle sue repubbliche: il Turkmenistan.
Amu Darya, storia di un fiume
Il Turkmenistan è occupato per circa l’80% dal deserto del Karakum. Di gran lunga la sua maggiore risorsa d’acqua è l’Amu Darya, fiume che scende dal Pamir (un altipiano esteso nei territori di Afghanistan, Tagikistan e Cina), scorre per un lungo tratto in territorio turkmeno e un tempo andava ad alimentare il Mar d’Aral, noto lago salato posto tra l’Uzbekistan e il Kazakistan. Fiumi minori, con forti variazioni stagionali nella portata d’acqua, sono a Sud il Murghab e il Tejen, che vanno a perdersi nel deserto del Karakum, a Ovest l’Atrek, che sfocia nel Mar Caspio. Dai Kopet Dag, rilievi posti tra Iran e Turkemenistan, scendono piccoli fiumi, a volte poco più che torrenti primaverili.
In simili condizioni geografiche è facile capire quanto cruciale sia la possibilità di accedere all’acqua. I primi tentativi di utilizzarla per l’irrigazione sono documentati già 7-8 mila anni fa.
Nel V secolo a.C., grazie ai persiani, fu introdotto il sistema dei qanat, che trovò ampia applicazione nella regione dei Kopet Dag. Con i qanat fu possibile estendere la superficie di terra coltivata e praticare l’agricoltura anche in zone aride. Per la conservazione dell’acqua si costruivano cisterne sotterranee, ab anbar, o sardob2, che non solo ne evitavano l’evaporazione, ma la mantenevano fresca.
Un’altra storia di successo è quella dell’oasi di Merv, dove dal VII secolo d.C. sfruttando le acque del fiume Murghab fu sviluppato un intelligente sistema d’irrigazione che permetteva di dare cibo a una popolazione di circa un milione di abitanti e perfino di esportarne nelle regioni circostanti3. E il Murghab rappresenta solo il 5% delle risorse d’acqua dell’odierno Turkmenistan.
Risultati così eccezionali non dipendevano, però, solo dalle tecniche d’irrigazione, ma anche dall’estrema cura posta nell’amministrazione della risorsa, tesa a evitare gli sprechi. Le buone pratiche sviluppate nei secoli permisero agli abitanti di quelle zone di convivere con una natura aspra, sfruttandone al meglio le possibilità per trarne il proprio sostentamento.
Con l’arrivo dei russi, nella seconda metà dell’800, i lavori d’irrigazione furono notevolmente potenziati per incrementare la produzione di cotone e cereali; tuttavia, si continuò a seguire i vecchi sistemi e rimasero in uso le tradizionali forme di amministrazione dell’acqua da parte della comunità. Inoltre, fino all’inizio del Ventesimo secolo le aree irrigue erano principalmente quelle pedemontane e lungo i corsi d’acqua; ciò permetteva di conservare un equilibrio naturale tra agricoltura e disponibilità d’acqua, e di limitarne la dispersione nel suolo.
I sovietici, opere e disastri
I guai cominciarono nel periodo sovietico. La terra ormai apparteneva allo stato, che ne decideva l’uso e le modalità di sfruttamento. La logica che sottostava a quelle modalità è ben sintetizzata dal famoso aforisma del biologo Ivan Michurin: non possiamo aspettare che la natura ci conceda le sue grazie, nostro compito è strappargliele. Intere generazioni crescevano con l’idea che l’uomo potesse e dovesse correggere «i difetti» della natura, un’ubriacatura che contagiava uomini d’ingegno, artisti, scrittori, che mettevano il proprio talento al servizio di progetti tanto più aleatori quanto più lontani dalla realtà. Fa una strana impressione leggere ora le pagine, o guardare i quadri ispirati all’idea di trasformare il deserto del Karakum «nell’oasi fiorita del socialismo», come si esprimeva lo scrittore Andrej Platonov in un suo articolo4.
Siccome, però, l’uomo-dio non può creare dal nulla l’acqua, per far nascere l’eden nel deserto doveva andare a prenderla dove Dio l’aveva messa in abbondanza, cioè dall’Amu Darya. Mentre l’uomo-creatura non aveva forzato la natura e, consapevole della propria impossibilità di creare dal nulla, aveva cercato di ottenere il massimo entro i limiti da lei segnati, l’uomo-dio non si è fatto fermare da queste quisquilie e ha progettato e realizzato grandi opere d’irrigazione a cielo aperto. In Turkmenistan la più imponente di tutte è il canale che prende il nome dal deserto che attraversa per 1.375 chilometri: il Karakum. La sua costruzione fu iniziata nel 1954 e completata nel 1988. Ai tempi si esaltò quest’opera come una conquista dell’ingegno umano e dell’ingegneria sovietica.
Quando arrivò l’acqua con il canale Karakum agli abitanti del deserto sembrò un miracolo. Una striscia azzurra in un oceano giallo, riarso e abbagliante: così è rappresentato questo prodigio nella pittura turkmena del tempo. Era una rivoluzione. Per millenni l’acqua era stata un bene difficile da procurarsi e scarso, quindi da utilizzare e custodire con cura; ora se ne aveva in abbondanza, correva copiosa da una fonte che sembrava inestinguibile. Ora che l’irrigazione non era più limitata dalle risorse locali ci si poteva permettere di creare insediamenti in luoghi prima impensabili, perfino nel cuore del deserto.
Naturalmente, visto che in realtà non si trattava di un bene illimitato, se si prendeva l’acqua da una parte, la si toglieva dall’altra. Così, una delle prime e più ovvie conseguenze della costruzione del canale fu che alla fine degli anni Ottanta l’Amu Darya in alcuni periodi dell’anno non raggiungeva più l’Aral. Fenomeni simili interessavano anche l’altro immissario dell’Aral, il Syr Darya. Ciò ha dato inizio a un processo di prosciugamento del lago, con danni immensi all’ecosistema e all’economia di intere regioni. Una catastrofe sociale e ambientale arrivata ormai agli ultimi stadi.
Acqua, da risorsa scarsa a risorsa sprecata
L’acqua sottratta ai fiumi veniva utilizzata bene? Se ne ricavava il massimo, come con gli antichi qanat? Naturalmente la risposta è no. Il fatto che fosse trasportata per chilometri attraverso il deserto, o «stoccata» in grandi bacini artificiali, moltiplicava le superfici esposte all’evaporazione. A ciò si aggiunga che, non essendo gli alvei di canali e bacini rivestiti di materiale impermeabile, buona parte dell’acqua si perdeva per strada a causa dell’infiltrazione nel terreno. Il sistema risultava, quindi, molto inefficiente.
Inoltre, il senso di onnipotenza e illimitatezza fece sì che nessuno si preoccupasse di creare meccanismi di controllo che obbligassero al risparmio: l’acqua era gratis, non c’erano contatori a misurarne le quantità utilizzate, per cui la si usava senza pensieri e gli sprechi erano enormi. Si calcola che a tutt’oggi vada perduto il 30% dell’acqua impiegata per irrigare5. L’eccesso d’irrigazione combinato con un drenaggio insufficiente porta alla salinizzazione del suolo. È questo un fenomeno tipico dei suoli aridi. L’acqua, se non opportunamente drenata, ristagna e scioglie i sali contenuti nel terreno, che l’elevata evapotraspirazione porta, poi, ad accumularsi in superficie. È una delle principali cause di degrado e infertilità del suolo. Non solo intere aree coltivate devono essere abbandonate, ma l’acqua che drena e si raccoglie spontaneamente negli avvallamenti del terreno causa anche la salinizzazione di aree che erano adibite al pascolo degli animali.
Così, paradossalmente, gli sforzi dell’uomo per creare un paradiso dove c’era il deserto finiscono per creare il deserto dove c’era il paradiso. E di questo facciamo esperienza non solo in Asia Centrale.
Quarta, ma non meno importante conseguenza di tale dissennata politica è la trasformazione prodotta nei comportamenti della gente. Da bene scarso, l’acqua è diventa un bene illimitato. A partire da questo dato, vero nell’hic et nunc, ma illusorio, quindi falso, se si considera la globalità del fenomeno, si è creata una mentalità distorta.
Gli uomini si abituano presto alle comodità e la facilità con cui hanno accesso alle cose cambia la loro mentalità e lo stile di vita. Quando non si procurano personalmente i beni di cui si servono, quando non sanno da dove vengono, che cosa comporta il loro uso nell’economia dell’ecosistema, gli uomini non ne imparano né il valore, né il corretto utilizzo. È stato così che i turkmeni, per millenni accorti risparmiatori d’acqua, hanno imparato a sprecarla.
Una capitale in marmo bianco
Ashgabat è la città dei presidenti, non dei suoi abitanti. Prima il presidente Saparmurat Niyazov (1940-2006), poi quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, l’hanno trasformata per renderla conforme alla propria idea di capitale: palazzi presidenziali con cupole d’oro, monumenti, torri, complessi governativi e residenziali, il villaggio olimpico, centri commerciali, tutto in scintillante marmo bianco. Sono stati aperti viali che sembrano autostrade, tracciati parchi con fontane e giochi d’acqua; ovunque ci sono aiuole fiorite. Per lasciare posto a tutte queste meraviglie sono stati abbattuti interi quartieri di case unifamiliari e i loro occupanti nel migliore dei casi sono stati trasferiti in condomini periferici, nel peggiore sono stati semplicemente sloggiati, senza ricevere risarcimenti. A camminare per gli sterminati marciapiedi dei nuovi quartieri si ha l’impressione di vivere in un quadro di De Chirico, fatto di improbabili architetture e spazi vuoti.
In questa città lunare, che non ha nulla a che vedere né con la storia e tradizioni turkmene, né con il luogo dove si trova, ho assistito a continui sprechi d’acqua, e non solo per innaffiare prati e fiori, che altrimenti seccherebbero in poche ore. Ashgabat è anche chiamata «la città bianca» per il colore dei suoi edifici e ha meritato di entrare nel libro Guinness dei primati per l’estensione delle superfici ricoperte in marmo bianco. Forse per rimanere all’altezza del nome, ad Ashgabat tutto deve essere lindo e pinto. L’acqua scorre a fiotti mentre eserciti di donne lustrano i marciapiedi con ramazze e scopettoni. Le macchine, anch’esse bianche per la maggior parte, devono essere sempre pulite, in caso contrario si prende la multa. Ciò obbliga i proprietari a continui lavaggi. Nei luoghi pubblici ho visto rubinetti lasciati aperti, tubature che perdevano in continuazione. Ashgabat è bagnata dal canale Karakum che le assicura un abbondante approvvigionamento d’acqua. Eppure, basta allontanarsi di qualche chilometro dalla capitale in direzione del deserto per capire quanto illusoria sia quell’abbondanza.
Progetti faraonici
La prima domenica di aprile in Turkmenistan si celebra la festa dell’acqua all’insegna dello slogan: una goccia d’acqua è un chicco d’oro. L’immagine è bella, ma per il momento del tutto priva di sostanza. Il Turkmenistan è tra i paesi in cui il consumo idrico pro-capite è più elevato. Ciò dipende soprattutto dall’enorme quantità di acqua che si perde nell’irrigazione e durante il trasporto. Per ottimizzare l’uso di questa risorsa bisognerebbe avviare un paziente e sistematico lavoro di ristrutturazione dei sistemi di irrigazione, di trasporto e conservazione dell’acqua. Invece di impegnarsi in un’azione a lungo termine e di scarsa visibilità, i presidenti hanno preferito scegliere una soluzione di grande effetto ma di dubbio esito: un lago nel cuore del deserto da riempire con acqua proveniente da tutte le zone irrigue del paese. È stato, in sostanza, progettato un gigantesco sistema di drenaggio, con due canali collettori principali, uno di 432 chilometri a Nord, l’altro di 720 chilometri a Sud, che partendo dal bacino dell’Amu Darya lungo il tragitto dovrebbero raccogliere da canali secondari l’acqua d’irrigazione in eccesso e scaricarla nella depressione di Karashor. Si sostiene che in questo modo si otterranno diversi risultati: si impedirà che l’acqua ristagni in loco, o ritorni al fiume con la sua concentrazione di sali, pesticidi e fertilizzanti, e si creerà un bacino artificiale che avrà un effetto positivo sull’ecosistema. E, poi, i turkmeni avranno il loro lago dell’Età dell’Oro. Età dell’Oro è quella in cui il Turkmenistan vive dall’indipendenza (1991) grazie ai suoi due presidenti. La costruzione del lago ha preso il via nel 2000 con il primo presidente ed è proseguita con il suo successore.
Nel 2009, nell’inaugurare uno dei canali, il presidente Berdymukhamedov, come Platonov molti decenni prima, ha prospettato visioni di deserti fioriti. Tuttavia, se mai si riuscirà in un lontano futuro a convogliarvi tanta acqua da riempire la depressione di Karashor, si prevede che il lago sarà una brodaglia di sali e fertilizzanti. Considerate l’evaporazione e le perdite per infiltrazione nel terreno lungo il tragitto, l’ipotesi del lago rimane, comunque, molto remota. Meno remota appare, invece, l’ipotesi di un altro disastro ecologico.
Maria Chiara Parenzo
Breve storia della ex Repubblica sovietica del Turkmenistan
Due presidenti in 28 anni (per il bene del popolo)
Già nell’epoca sovietica, il Turkmenistan era una delle repubbliche più arretrate. Il paese ha avuto finora due soli presidenti, entrambi caratterizzati da culto della personalità e poteri illimitati. Intanto, a dispetto della propaganda governativa, la popolazione vive in povertà.
Come entità statale e nei confini attuali il Turkmenistan è una creazione dell’Unione Sovietica. Il 27 ottobre 1924 dallo smembramento dell’ex governatorato zarista del Turkestan nacque la Repubblica socialista sovietica del Turkmenistan, una delle più economicamente arretrate tra le quindici che componevano l’Urss. A sessantasette anni di distanza quello stesso giorno fu scelto per la proclamazione dell’indipendenza, un atto cui la dirigenza turkmena fu costretta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Era il 1991. In Turkmenistan la transizione al nuovo quadro istituzionale avvenne senza intaccare i rapporti di potere in essere: Saparmurad Niyazov, dal 1985 alla guida del Partito comunista turkmeno e della repubblica, divenne il presidente del nuovo stato indipendente; con un’operazione di facciata il Pc turkmeno si trasformò nel Partito democratico del Turkmenistan.
Per la forma di governo e la chiusura al mondo esterno il Turkmenistan ha conservato il carattere sovietico più di ogni altra repubblica dell’ex Urss, tanto da essere spesso paragonato alla Corea del Nord, solo che all’ideologia socialista si è sostituita l’esaltazione della «turkmenicità». Niyazov è rimasto presidente fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2006, e ha esercitato un potere da monarca assoluto. Fin dall’inizio ha incoraggiato un culto della personalità che è divenuto col tempo sempre più smisurato. Lo stile di governo non è cambiato con il suo successore Gurbanguly Berdymukhammedov, in carica dal 2007. Il presidente detiene un potere di fatto illimitato e controlla tutti i campi della vita nazionale: politico, sociale, economico, culturale. Si occupa personalmente di ogni questione, piccola o grande che sia. Come Niyazov, si atteggia a padre della nazione: un padre saggio e magnanimo, ma anche giusto e severo con chi sbaglia. Quegli si faceva chiamare con l’appellativo di Turkmenbashi, «Capo dei turkmeni», questi è invece Arkadag, «il Protettore». Tutto, naturalmente, è fatto per il bene del popolo, che i mezzi d’informazione ritraggono mentre si gode la vita nell’«Età dell’oro». Così la propaganda di regime chiama «il periodo di pace e benessere» assicurato ai turkmeni dai due presidenti.
A suo tempo Niyazov giustificò la devozione assoluta che pretendeva dai suoi «sudditi» e l’esaltazione iperbolica della sua persona con la necessità di dare al popolo un’autorità in cui credere e un principio di unità nazionale. Il ferreo controllo esercitato dal presidente e dalla sua cerchia su tutti gli aspetti della vita del paese ha, in effetti, impedito il nascere di spaccature lungo linee claniche, regionali, o etniche, come è avvenuto nelle altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Il prezzo per la popolazione però è molto alto. Abuso di potere e corruzione fanno parte della vita quotidiana dei turkmeni. Non c’è possibilità di opporsi alle decisioni e ai capricci delle autorità, non ci sono istanze indipendenti cui appellarsi: il volere del presidente e delle élite a lui legate è al di sopra di ogni legge.
Grazie anche alla presenza pervasiva dei servizi di sicurezza e alla durezza delle repressioni in Turkmenistan non esiste un’opposizione; essa è rappresentata da piccoli gruppi che operano in esilio.
Nella repubblica, grande come una volta e mezza l’Italia, vivono meno di sei milioni di persone, per lo più turkmeni (85%), ma anche uzbeki (5%), russi (4%) e di altri gruppi etnici. Gli insediamenti si trovano in prevalenza ai bordi meridionale e orientale del grande deserto del Karakum, che occupa il centro e il Nord del paese. La maggiore risorsa nazionale sono gli idrocarburi: il gas naturale (il paese è il quarto al mondo per giacimenti stimati) e, in misura minore, il petrolio. L’industria non è molto sviluppata. I turkmeni erano tradizionalmente pastori nomadi, con comunità sedentarie nei Kopet Dag e nelle oasi. Le prime industrie sono nate con i russi. In seguito sono stati sviluppati soprattutto i settori estrattivo, chimico, tessile e alimentare. Nel periodo sovietico si diede un forte impulso alla coltivazione del cotone. Per le condizioni climatiche e la povertà del suolo, l’agricoltura è quasi ovunque irrigua. Questa condizione e la scelta di una coltura particolarmente bisognosa d’acqua come il cotone ha portato a sempre maggiori prelievi dai fiumi, soprattutto dall’Amu Darya. Ciò ha provocato l’alterazione del sistema idrografico della regione, con il prosciugamento del bacino del Mar d’Aral, e il deterioramento dell’ambiente naturale, con la desertificazione di ampie aree prima adibite a pascolo o a colture.
I cittadini del Turkmenistan sono nella stragrande maggioranza musulmani sunniti. Come gli altri popoli centrasiatici di tradizione nomade, anche i turkmeni non sono inclini a forme d’islam intransigente e molti praticano un islam non ortodosso, legato alle confraternite sufi, con interferenze delle antiche pratiche sciamaniche. Gli sciiti sono un’esigua minoranza. I cristiani sono rappresentati soprattutto dalla minoranza russa. Musulmani sunniti e cristiani russo ortodossi sono stati per anni le uniche comunità religiose ufficialmente riconosciute. Per essere riconosciuta una comunità religiosa deve ottenere la registrazione presso il ministero della Giustizia. Sebbene il Turkmenistan sia uno stato secolare, sebbene la costituzione garantisca la libertà di culto e l’eguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, alle altre comunità religiose, compresa la piccola comunità cattolica, è stata per anni negata la possibilità di ottenere la registrazione, senza la quale si è costretti a un’esistenza ai margini della legalità. Nel 2004 sono state alleggerite le condizioni per la registrazione, ma rimangono ancora comunità minori cui essa viene arbitrariamente negata e che continuano a essere soggette a discriminazione e angherie da parte delle autorità. La chiesa cattolica turkmena è stata ufficialmente riconosciuta solo nel 2010, tredici anni dopo la presentazione della richiesta1. Anche a registrazione avvenuta, tuttavia, le difficoltà non finiscono. Le leggi che regolano il culto e le attività religiose pongono limiti alla libertà di educazione e di riunione, alla pubblicazione e distribuzione di materiale e libri, contravvenendo con ciò ai principi sanciti dalla costituzione. Comunità e gruppi religiosi senza distinzione sono tenuti sotto stretta sorveglianza dalla polizia e dai servizi di sicurezza.
Le minoranze cristiane, sciita e di altre religioni non tradizionali sono particolarmente bistrattate dalle autorità perché ritenute estranee ai valori turkmeni. Ma anche l’islam sunnita non se la passa bene. Il regime lo considera parte delle tradizioni nazionali, un po’ come l’allevamento dei cavalli, o l’arte dei tappeti, per cui lo accetta come elemento «folclorico», ma i fedeli non devono mostrare di essere troppo pii. La religione è vista come una pericolosa concorrente dello stato, cui solo spetta il primato nella lealtà dei cittadini. Quindi bisogna andarci piano con i segni dell’appartenenza religiosa. Ad esempio, la barba è tollerata per gli anziani perché legata alle tradizioni turkmene, ma è in genere mal vista ed è vietata a chiunque abbia un incarico pubblico e agli studenti.
Tutto ciò che può distrarre o costituire un’alternativa alla lealtà dovuta al presidente è guardato con sospetto. Il culto della persona del presidente viene prima di tutto, anche della religione. Nella grande moschea fatta costruire da Niyazov nel suo villaggio natale, Gypjak, ci sono iscrizioni tratte dal suo Ruhnama, il «Libro dell’anima», imposto a guida spirituale dei turkmeni. Quando i costruttori turchi si rifiutarono di fare quanto per un musulmano devoto è blasfemia, giacché sui muri di una moschea si possono scrivere solo frasi tratte dal Corano, Niyazov trasferì la commessa ai francesi.
A proposito dell’Età dell’oro. Se si pensa che sotto i piedi dei turkmeni ci sono enormi giacimenti di gas naturale e che la popolazione non arriva ai sei milioni, non parrebbe un grande sforzo garantire a tutti un’esistenza, se non ricca, quanto meno dignitosa. Eppure non è così. La corruzione diffusa e l’ottusità economica tipiche dei regimi autoritari hanno reso infruttuoso quel capitale, dilapidato in scelte irresponsabili, speculazioni, progetti megalomani e inutili che avevano come scopo l’auto esaltazione del regime e l’arricchimento dei suoi dirigenti. Nel paese rimangono ampie sacche di povertà, in molte località mancano i servizi essenziali.
Il regime ha prosperato grazie alle enormi rendite assicurate dalle esportazioni di gas. Da alcuni anni, però, quella che è la base di un’economia scarsamente differenziata ha cominciato a traballare. La Russia ha smesso di acquistare il gas turkmeno nel 2016; la Cina, rimasta quasi l’unico acquirente, lo paga a un prezzo molto ridotto per compensare le risorse spese nella costruzione del tratto turkmeno di un gasdotto che la collega con l’Asia Centrale. Così il regime si è trovato con poca liquidità tra le mani. La crisi di liquidità ha aperto la strada alla svalutazione del manat (la valuta turkmena) e all’inflazione. Sono state ridotte le importazioni anche di generi di prima necessità, che sono quindi spariti dai negozi o diventati molto cari. Se a ciò si aggiunge la disoccupazione, stimata tra il 50 e il 60%, i ritardi nei pagamenti degli stipendi o la loro decurtazione, si potrà capire che vivere nell’Età dell’oro non è sorte invidiabile.
Maria Chiara Parenzo
(1) Turkmenistan. Freedom of religion or belief, May 2016, Christian Solidarity Worldwide, pag. 8.
Note
(1) «Qanat» è parola araba e significa canale. «Kahriz» è parola persiana composta da «kah», paglia, e «riz», gettare. Si usava la paglia per controllare il movimento dell’acqua nel canale sotterraneo.
(2) Parole persiane: ab/ob significa «acqua», anbar «deposito», sard «freddo».
(3) Vedi R. A. Lewis, Early irrigation in West Turkestan, «Annals of the Association of American Geographers», 1965, vol. 56, n. 3, San Diego, California.
(4) A. Platonov, Gorjachaja Arktika, 1934.
(5) Turkmenistan: Issues and Approaches to Combat Desertification, June, 2003, p. vii (pdf reperibile in rete).
Diario dal V Congresso missionario americano (Cam)
Lo scorso luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, si è tenuto il quinto «Congresso missionario americano» (Cam V) con migliaia di partecipanti provenienti da 24 paesi. Si è parlato delle sfide della Chiesa cattolica nel continente in un ambito sempre più secolarizzato e pluriculturale. Il diario di quelle giornate e qualche riflessione.
Il congresso precedente si era tenuto a Maracaibo, in Venezuela, dal 26 novembre al 1° dicembre 2013. In esso, i missionari che operano nel continente americano erano stati invitati a condividere la loro fede e a riflettere sulla missione dal punto di vista del discepolato in un mondo secolarizzato e pluriculturale. Alla sua conclusione venne annunciato che l’edizione successiva si sarebbe svolta in Bolivia. E così è stato.
Dal 10 al 14 luglio scorso, nella città di Santa Cruz de la Sierra, si è tenuto il quinto Congresso missionario americano (Cam V) sotto il titolo di «America in missione, il Vangelo è gioia».
Ha coinvolto circa 3.150 partecipanti provenienti da 24 paesi tra cui circa 90 vescovi, 2 cardinali, 450 sacerdoti e 2.600 delegati oltre a 1.500 famiglie boliviane offertesi per ricevere i pellegrini.
Come si ricorderà, i Cam nacquero grazie all’ispirazione e alla promozione delle Pontificie opere missionarie in collaborazione con le Conferenze episcopali americane e rappresentano un’evoluzione dei Comla (Congressi missionari latinoamericani), il primo dei quali si tenne in Messico nel 1977.
La cattedrale di San Lorenzo
Lo scenario per la messa inaugurale del Congresso non avrebbe potuto essere più suggestivo: il sagrato della cattedrale di San Lorenzo. Dalla sua facciata pendeva un manifesto con l’immagine della Beata Nazaria Ignacia (1889-1943), fondatrice delle missionarie Crociate della Chiesa che sarà canonizzata il 14 ottobre a Roma (insieme a Paolo VI e Oscar Romero, ndr).
Per la celebrazione eucaristica si sono riuniti vescovi, preti e due cardinali: il rappresentante pontificio Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e il boliviano Toribio Ticona, indigeno quechua, recentemente nominato da Papa Francesco.
Dopo la lettura della lettera inviata dal pontefice e il protocollo di saluto, tipico di queste occasioni, è iniziata la messa, presieduta dal cardinale Filoni.
Durante la sua omelia, l’inviato del papa ha invitato il Congresso a «non perdere di vista il vero scopo della missione della Chiesa, che è quello di mettere Gesù al centro, con il nome e il cuore, altrimenti si corre il rischio di fare qualcosa di diverso, una semplice filantropia, che alla fine si rivelerà vuota e priva di credibilità».
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Testimoni e profeti
Il convegno ha il suo inizio vero e proprio l’11 luglio. Ogni mattina verso le 8 le diverse delegazioni si riunivano nell’auditorium del collegio Don Bosco dei salesiani. Bandiere, mantelli, canzoni e slogan riempivano gli spazi fino al momento della preghiera. Poi l’atmosfera cambiava di tono per lasciare posto alla preghiera del mattino incentrata su alcuni temi: «Il Vangelo è gioia» (mercoledì), «Per la riconciliazione e la comunione tra i popoli» (giovedì) e «Essere missionari testimoni ci rende profeti» (venerdì).
Piatto forte dei tre giorni sono state cinque lezioni magistrali. La prima è stata pronunciata da mons. Guido Charbonnea, vescovo della diocesi di Choluteca, Honduras, sul tema: «La gioia appassionante del Vangelo». L’arcivescovo Charbonnea ha esortato i membri del Congresso a «scoprire le chiavi che il messaggio cristiano ci mostra per arrivare alla felicità».
La seconda, intitolata «Annuncia il Vangelo al mondo di oggi», è stata proposta da mons. Santiago Silva, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale del Cile. Con uno stile molto particolare e diretto, in piedi sotto il tavolo d’onore, il vescovo ha invitato a imitare Gesù ed evangelizzare attraverso la nuova identità cristiana perché «nel mondo di oggi è essenziale assumere un ruolo di testimonianza che richiede di dare segnali come il perdono, la solidarietà e la misericordia».
Il direttore dell’agenzia giornalistica Fides – Bolivia, padre Sergio Montes, ha sviluppato il tema «Testimoni discepoli di comunione e di riconciliazione». In questa terza conferenza il sacerdote ha detto che un mondo lacerato, frammentato e diviso reclama riconciliazione e una comunione che «esige l’esodo da sé per vivere l’incontro con l’“altro”, o l’“altra”, per riconoscerlo come fratello e sorella con un destino comune».
Con il suo stile personale, da queste parti conosciuto e apprezzato, mons. Luis Augusto Castro, arcivescovo di Tunja, in Colombia, ha presentato la quarta conferenza dal tema: «Profeta e missione». In essa l’arcivescovo di Tunja, ha spiegato cos’è un profeta, ha fatto un viaggio attraverso la vita e il ministero di alcuni dei profeti biblici, la loro sensibilità per le esigenze della giustizia e della misericordia, la loro opposizione all’idolatria e ai rivali di Dio concludendo che «il profeta interpreta i segni dei tempi dal punto di vista di Dio e della sua alleanza. La sua vita e la sua esperienza incarnano un nuovo modo di vedere gli altri, il potere e il sacrificio. Egli disegna un sistema di valori basato sulla consegna e sulla solidarietà. Vede con occhi nuovi».
L’oratore, inoltre, ha offerto ai partecipanti degli spunti che un missionario può seguire per diventare profeta. In questo senso ha sottolineato che il profeta non rimane in silenzio, anticipa, parla chiaramente, è un discepolo ed è giusto.
La quinta conferenza è stata tenuta da Vittorino Girardi, vescovo emerito di Tilarán – Liberia, Costa Rica, sul tema: «La missione ad gentes in e dall’America». Il vescovo ha detto che i missionari non possono separare i contenuti della missione e l’essere di Dio: «Gesù è una sola cosa e tutto vive in funzione di ciò che Egli è. E Gesù si autopercepisce come l’inviato e il missionario».
Nel pomeriggio, il Congresso si divideva in sottogruppi per confrontarsi sugli argomenti delle conferenze. Si sono poi realizzati quattro incontri su tematiche molto interessanti: «Comunicazione e Missione», «Missione e pastorale universitaria», «Nuove prospettive della missiologia» e «L’infanzia e l’adolescenza missionaria». Per continuare con questa dinamica, si sono tenuti 12 laboratori in cui si sono condivise esperienze di vita con giovani, bambini, famiglie, sulla cura per il Creato, sulle migrazioni, sugli altri. Un momento molto importante ha avuto luogo la mattina di sabato 14. La maggior parte dei partecipanti sono stati convocati presso le rispettive parrocchie ospitanti e da lì sono usciti a due a due per visitare le famiglie e annunciare loro la Parola di Dio.
Molti di loro ci hanno poi raccontato, un po’ divertiti, che alcune famiglie avevano esitato ad aprire la porta di casa perché non potevano credere che c’erano cattolici che predicavano nelle strade.
Gli obiettivi per il futuro
La messa conclusiva del Congresso si è svolta nel pomeriggio di sabato 14 luglio, presso l’altare di Cristo Redentore, preparato in occasione della visita del Papa (del luglio 2015, ndr). È stata presieduta da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz.
Prima dell’inizio della messa, le conclusioni proposte sono state lette come obiettivi su cui lavorare in futuro. Li presentiamo qui di seguito in punti riassuntivi:
educare alla gioia del Risorto e delle Beatitudini;
andare nelle periferie del mondo per incontrare gli «altri»;
incoraggiare la conoscenza della Bibbia e dei Vangeli;
promuovere le comunità di vita missionaria;
promuovere la comunione dei beni nella Chiesa e con i poveri;
promuovere la riconciliazione in tutti gli ambiti della vita;
promuovere la consapevolezza della missione profetica e liberatrice in tutte le sfere sociali;
l’evangelizzazione della famiglia come chiave cristiana della trasformazione sociale e culturale;
promuovere una Chiesa missionaria più ministeriale e laicale;
promuovere e prendersi cura delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, infine,
celebrare la fede e la religiosità popolare in chiave missionaria.
A chiusura, l’arcivescovo Gualberti ha pronunciato un’omelia in cui ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro. Successivamente ha sviluppato il tema «Scalare la montagna del Signore». Il monsignore ha parlato chiaramente e ad alta voce dei problemi che affliggono il nostro mondo (riquadro a pagina 27).
Alla fine dell’Eucaristia, mons. Gualberti ha imposto la croce missionaria a quattro persone, tra cui una coppia che lavorerà a Cuba. È stato anche annunciato che Puerto Rico ospiterà, nel 2023, il prossimo Congresso missionario americano.
Gli aspetti negativi e quelli positivi del Cam V
Fin qui la cronaca. Anche questa volta – però – a parere dello scrivente si è ripetuto il copione dei congressi precedenti: slogan assordanti, simboli logori per la loro ripetitività, celebrazioni eucaristiche da una parte rigide e «romane» e dall’altra cariche di simboli più folkloristici che liturgici, processioni di doni che dovrebbero essere spiegati stante l’impossibilità di parlare da sé, i tentativi (per lo più infruttuosi) di sottolineare il tema della «missio ad gentes» per molti – tra cui molti pastori – passata di moda. E la lista potrebbe continuare.
Inoltre, anche se in questa occasione si è cercato d’introdurre in maniera più consistente il tema del ruolo delle donne nella Chiesa, a nessuna è stata affidata una lezione magistrale. E sì che ci sono donne preparate a livello teologico e pastorale.
Evidenziati questi punti negativi, va però detto che, fortunatamente, sono state di più le cose positive. La scelta della Bolivia come paese ospitante, nonostante tutte le sue difficoltà; la lunga preparazione; l’impegno delle Chiese locali nello scegliere e mandare persone che garantissero la continuità del cammino aperto dal Cam V; l’accoglienza di parrocchie, cappellanie, rettorie e comunità religiose, tutti soggetti che si sono anche incaricati di trovare le famiglie ospitanti.
Proprio queste si sono trasformate in un’estensione dell’abitazione di ogni partecipante dove tutti si sentivano come a casa: tutti benvenuti, anche oltre le possibilità. A causa della ristrettezza degli spazi disponibili molte famiglie hanno ceduto la migliore camera, il letto migliore e anche il migliore cibo. In molti hanno fatto in modo di essere (a volte a tarda notte) in aeroporto in attesa dei propri missionari.
Bello, caldo ed efficiente è stato il servizio fornito da centinaia di volontari (medici, paramedici, infermieri, polizia stradale, funzionari di migrazione…), per lo più giovani.
Contagiosa la testimonianza dei missionari e missionarie laici, tra cui alcune intere famiglie con esperienze di missione fino a 30 anni in situazioni difficili e di povertà.
Sono stati molti i partecipanti che, per raggiungere la destinazione, hanno dovuto fare giorni e giorni di strada e voli estenuanti a causa di itinerari con soste infinite. Per alcuni un volo che, in condizioni normali, poteva durare un massimo di 8 ore è durato fino a 24.
Abbondano dunque le ragioni per affermare che valeva la pena di essere a Santa Cruz, in Bolivia, al Congresso missionario americano dove abbiamo trovato una buona parte di quella chiesa pasquale e missionaria che sta prendendo sul serio l’invito di Papa Francesco a uscire e andare nelle periferie esistenziali per comunicare la gioia del Vangelo.
Jorge García Castillo (traduzione e adattamento di Paolo Moiola)
L’intervento finale
Scalare la montagna
La sintesi del discorso di chiusura di mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra e presidente del Cam V.
Come cattolici siamo chiamati a scalare la montagna della solidarietà, della giustizia e della vita, una vita degna per tutti i figli di Dio per superare la povertà, che ancora mantiene in condizioni disumane troppi fratelli e sorelle nel nostro continente. La povertà è il risultato di un sistema ingiusto e mercantilista in cui l’economia è al di sopra dell’uomo e arricchisce i ricchi a spese dei poveri, una moltitudine di poveri sempre più poveri. Un sistema che scarta gli anziani, i bambini, gli orfani e gli abbandonati come tanti fratelli indifesi; un sistema che discrimina le donne, in particolare le madri single e sole.
Scalare la montagna della fraternità e dell’uguaglianza camminando insieme a tante e grandi persone che lasciano i nostri paesi e cercano una patria che garantisca condizioni di vita dignitose per loro e le loro famiglie e che invece si scontrano contro i muri della xenofobia e della vergogna. Muri che separano i bambini dai loro genitori e che discriminano a causa delle loro origini e condizioni personali e sociali. Muri da demolire per costruire ponti di umanità, fraternità e solidarietà.
Scalare la montagna della pace per contrastare nei nostri paesi la corsa alle spese militari e coloro che credono nella logica del più forte, che promuovono l’odio e la paura e la diffidenza tra i nostri popoli, tagliando le risorse che servirebbero per creare posti di lavoro, per superare la povertà e attuare politiche sociali al servizio di tutti, specialmente degli ultimi e degli emarginati. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4).
Scalare la montagna dell’amore e del matrimonio accompagnando le famiglie a stabilirsi nella casa del Signore, in cui esse si ritrovano come chiese domestiche, come luoghi fondati sulla fede, l’amore, la comunione, la riconciliazione e il perdono, e come sacrari di vita e scuole di umanizzazione. Le nostre famiglie che spesso camminano senza meta, colpite nella loro integrità a causa della povertà, delle migrazioni, delle separazioni e dei divorzi e costantemente molestate da correnti ideologiche colonizzatrici che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia basata sull’amore esclusivo e fedele fino alla morte tra un uomo e una donna aperti alla vita e all’educazione dei bambini secondo i valori del Vangelo e delle nostre culture indigene.
Scalare la montagna della luce e della verità come cristiani consacrati alla verità del Signore smascherando le menzogne e gli errori della cultura individualista e relativista che è alla base della società dei consumi. Società in cui il consumo di beni superflui e lo sfruttamento irrazionale e indiscriminato delle risorse naturali hanno causato ferite mortali alla nostra sorella la madre terra, e le cui prime vittime sono i nostri fratelli indigeni privati del loro habitat vitale.
Scalare la montagna della comunione della nostra Chiesa dove tutti mettiamo i nostri carismi al servizio della comunità e del Regno di Dio. Dove i ministeri laici, in particolare delle donne, siano riconosciuti e trovino lo spazio che compete loro dal battesimo.
Scalare la montagna della riconciliazione e del perdono per percorrere i sentieri della conversione sincera della nostra Chiesa davanti alle infedeltà, le divisioni, le gelosie e contro testimonianze di tanti dei suoi figli che scandalizzano il mondo.
Uniti e riconciliati, dobbiamo camminare insieme come un unico popolo di Dio, testimoniando una comunione sincera e profonda che è il primo servizio alla missione in modo che il mondo sappia chi ci ha mandato.
[…] «Come mi hai mandato nel mondo, anch’io ti mando nel mondo in modo che la tua voce e le tue parole si diffondano in tutta la terra fino ai confini del mondo». Accogliamo con entusiasmo e gioia la sfida che il Signore lancia a tutti e a ognuno di essere profeti della Sua Parola, il Verbo della vita, della giustizia e dell’amore senza essere intimiditi dalle nostre debolezze, difficoltà e incomprensioni, e così sperimentare quanto belli sono i piedi di coloro che annunciano il Vangelo nella nostra America e oltre il nostro continente. […]
mons. Sergio Gualberti (trascrizione di Lourdes González, (traduzione e adattamento di Paolo Moiola)
La testimonianza
È finito il tempo dei navigatori solitari
Le riflessioni del superiore generale dei missionari della Consolata, al suo primo Cam.
Prima di tutto mi piace sottolineare che il quinto Congresso missionario americano (Cam V) – il primo a cui io ho partecipato – è stato un’esperienza ricchissima di Chiesa. Al Congresso hanno partecipato giovani e meno giovani, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose, seminaristi e laici di tutto il Continente e anche da altri paesi. Qui ho sentito davvero che la Chiesa è universale ed è madre perché raccoglie tutti i suoi figli e figlie provenienti da ogni parte e dà ad ognuno la possibilità di sentirsi famiglia e poter sviluppare tutti i propri doni e qualità. In quelle giornate abbiamo respirato la missione e capito – sia dalle parole che dai segni – che senza missione non c’è Chiesa, non c’è Vangelo.
In secondo luogo, mi piace sottolineare la dimensione della gioia, della festa. Lo slogan del Congresso era: «Annuncia la gioia del Vangelo». L’America è viva, piena di giovani e di voglia di ballare, di vivere di stare assieme. La gioia è una caratteristica di questi popoli e culture e al Congresso essa si è manifestata in tutte le sue forme. Davvero la Chiesa deve recuperare questa dimensione gioiosa della fede. Credo che per troppo tempo abbiamo predicato una fede di rinuncia e sacrificio: è giunta l’ora di predicare la gioia di essere cristiani e di annunciarla con tutta la nostra forza cantando e celebrando la vita.
Il nostro Fondatore, il Beato Guseppe Allamano, diceva che un missionario deve essere gioioso e che questa gioia nasce dalla fede, dal sentirsi vicini al Signore. È questo che a Santa Cruz de la Sierra è stato ripetuto affinché ognuno di noi lo custodisse nel proprio cuore come tesoro prezioso per portarlo nel proprio ambiente dove annunciare la gioia del Vangelo. Infine, mi piace condividere alcuni punti che possono essere importanti anche per il nostro percorso di missionari della Consolata.
Al Congresso, in diverse forme, è stato ripetuto che oggi la missione non si può più fare da soli, che dobbiamo aprirci e collaborare con tutte le forze che vogliono viverla, primi fra tutti i laici. Come ci ha insegnato la Redemptoris Missio, la missione non è opera di navigatori solitari, ma di discepoli missionari aperti, sensibili e solidali.
In secondo luogo, in diverse maniere è stato ripetuto che la missione è il paradigma della Chiesa, ma che essa è anche più grande della Chiesa perché va oltre, grazie a tutte le sue persone che cercano e lavorano per il bene dell’umanità. Siamo umili servitori, insieme a tanti altri conosciuti e sconosciuti, della presenza del Regno e questa è la nostra gioia e la nostra forza.
Per ultimo, credo che il Congresso missionario di Santa Cruz de la Sierra ci abbia ricordato che il cammino di rivitalizzazione e ristrutturazione in una visione di missione continentale, che come Istituto abbiamo iniziato, sia in sintonia con quanto sta vivendo la Chiesa: che se, da una parte, essa deve lanciarci in una missione contestualizzata, dall’altra non deve farci dimenticare la sua dimensione universale. Perché siamo persone appartenenti a tutta l’umanità, nonché fratelli di tutti i popoli e di tutte le culture.
Stefano Camerlengo
Missionarie, missionari e laici della Consolata presenti al Cam V:
Sr. Maria Conceição Nascimento da Silva
Sr. Emma Eganda
Sr. Hannah Wambui Ndung’u
Sr. Marisa Soy
P. Stefano Camerlengo
P. Jaime C. Patias
P. Micarnel Mutinda Munywoki
P. Robério Crisóstomo da Silva
P. Stephen Gichohi Ngari
P. Stanslaus Joseph Mnyawami
Mons. Luis Augusto Castro
Mons. Francisco Munera
Ugo Gomes
Mariana Gomes
Jose Luis Andrade
Danmary Mujica
Preghiera 18. Pregare: lasciarsi accostare dalla Parola e… dalla volpe
Nella 4ª puntata del maggio scorso abbiamo commentato il racconto della tempesta del mare di Mt 14,22-33 nel quale Gesù fu scambiato per un «fantasma», cioè un’inconsistenza, fonte di paura. Per restare sempre sul tema «mare», oggi proviamo ad accostarci al testo di Mc 4,35-41 (che trova i paralleli sinottici in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25). Considerata, però, la ricchezza del brano, dobbiamo dividerlo in due puntate (questa e la prossima, di novembre 2018).
Il progetto del regno di Dio e i suoi ostacoli
Purtroppo, non conoscendo la Scrittura e abituati a una lettura superficiale e letterale, siamo propensi a leggere i Vangeli come racconti storici, senza alcun «distinguo». Anche senza volerlo, in questo modo, vanifichiamo il significato che l’autore o gli autori hanno inteso dare ai loro racconti che non sono finalizzati a fare «la storia di Gesù», ma a dire chi è Gesù per loro, per chi crede in lui e per chi vorrà credere in futuro: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). In parole semplici, i Vangeli hanno lo scopo di suscitare interesse per la persona di Gesù con l’obiettivo, volendogli bene, di assumere il suo messaggio come criterio di vita e progetto sociale: costruire un mondo «su misura di Dio» che significa solamente impegnarsi a fare della terra il «giardino di Èden» che Dio ha avuto in mente fin dall’eternità per tutto il genere umano di tutti i tempi.
Costruire il regno di Dio, significa appunto fondare i rapporti umani e relazionali sulla roccia della condivisione, della fraternità e della giustizia. Il mondo laico, pur con le sue contraddizioni, misfatti, genocidi e aberrazioni atroci, ci ha provato diverse volte: con la rivoluzione francese del 1789 ad esempio, e con il motto «Liberté, Égalité, Fraternité». Anche con la rivoluzione russa del 1917/18, che, col progetto del messianismo mondiale, ha cambiato il corso della storia (e sappiamo come, proprio perché nessuno seppe cogliere l’enorme massa di speranza che aveva seminato, neanche purtroppo la Chiesa). La mattanza sulla quale la rivoluzione russa si è fondata non elimina l’anelito di giustizia messianica che portava. È necessario, infatti, che la prospettiva «rivoluzionaria» superi l’orizzonte della «sostituzione»: scalzare questi per metterci quelli, escludendo il «bene comune», unica prospettiva di decenza umana. Il Vangelo non ci dice solo che Gesù ha fatto miracoli strepitosi o risuscitato morti, ma attraverso questi modi di narrare, che Pio XII chiamò per la prima volta, in maniera ufficiale, «generi letterari», ci vuole fare sperimentare che lui è la «novità», il kairòs della nuova irruzione di Dio nella storia, la sua Presenza:
«Quale sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi orientali com’è per esempio negli scrittori dei nostri tempi… l’interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell’Oriente e con l’appoggio della storia, dell’archeologia, dell’etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch’erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l’esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un’accurata ricognizione delle antiche letterature d’Oriente» (Divino Afflante Spiritu, Enciclica, 30-09-1943, parte II, § 3).
Con questa premessa, ci accingiamo a pregare con il seguente brano:
Mc 4,35Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti»? 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?».
Passi lenti e profondi
1° passo
Non fermarsi al solo testo indicato, ma vedere cosa precede e cosa segue per comprendere il contesto prossimo e remoto del brano. Il racconto della traversata del mare è preceduto dalle parabole del regno: il seme e le varie tipologie di terreno con relativa spiegazione ai discepoli; la lampada sotto il moggio o sopra il candelabro; di nuovo il seme che cresce, anche se il contadino dorme; il granello di senape (Mc 4,1-34). Il brano è seguito da racconti di guarigione: due indemoniati (Mc 5,1-20); l’inizio del racconto della guarigione della figlia del capo della sinagoga, Giàiro (Mc 5,21-24); un intermezzo con la guarigione della donna con perdite di sangue (Mc 5,25-37); ripresa del racconto di guarigione della figlia di Giàiro (Mc 5,38-43) e le non guarigioni per mancanza di fede a Nazareth (Mc 6,1-6). Questo è il contesto, prossimo e remoto: da una parte c’è il progetto (seme, lampada, senape), dall’altra gli ostacoli e la resistenza (malattia, schiavitù/indemoniati, morte, incredulità). Non abbiamo qui lo spazio per mettere a confronto Mc con Mt e Lc ed evidenziare la diversità di obiettivi e di lettura del materiale stesso, per cui ci limitiamo solo a Mc.
2° passo
Individuato il contesto, leggere il brano tenendo conto dell’insieme e cercando di leggere le connessioni tra le diverse parti, in base al principio che se l’autore ha scelto «questa» composizione, aveva in mente una visione, un obiettivo, una strategia. Quale potrebbe essere, secondo me?
3° passo
Rileggere il testo, così contestualizzato, e cercarne il senso nel contesto della mia vita e del mio tempo. La Parola di Dio, infatti, è per me «qui e adesso», una Parola rivolta alla mia intelligenza, al mio cuore, alla mia ragione per viverla oggi, nella mia vita e nel contesto della storia del mio tempo.
Quale tempesta rovescia oggi le barche in mezzo al mare?
Chi dorme sul cuscino?
Chi si sveglia e tiene a bada il mare, facendo cessare il pericolo?
Dove sto io?
Se Gesù non fosse stato sulla barca «così come era», cosa sarebbe successo?
È lecito domandarsi se questo brano, proclamato nella Liturgia nella 12a domenica del tempo ordinario dell’anno B, abbia un impatto su quello che sta avvenendo nel «Mare Mediterraneo»? Oppure questa osservazione mi dà fastidio? Perché?
Quasi sempre la Parola di Dio non è casuale, ma come «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), inchioda alla domanda di fondo: «Chi sono io?». È lecito di fronte a questo testo chiedersi: se Gesù fosse su una barca in pieno Mediterraneo, cosa farebbe? Poiché credere in lui significa «imitarlo», le conseguenze pratiche non sono neutre per la fede.
4° passo
Rileggere lentamente e individuare le parole, specialmente i verbi, ma anche le altre parti del discorso, che sembrano più attinenti alla nostra condizione. Esclusi i verbi ausiliari e servili, restano 21 verbi che esprimono altrettante azioni, cioè movimenti, emozioni, decisioni, scelte. Ci limitiamo ad essi: passare, congedare, prendere con sé, rovesciarsi, essere pieno, starsene, dormire, svegliare, importarsi, essere perduti, destarsi, minacciare, tacere, calmarsi, cessare, avere paura, non avere fede, intimorirsi, essere, obbedire. Quale emozione suscita in me, ogni singola azione, espressa dal verbo? Tra di essi ce n’è uno che mi qualifica in modo particolare? Rileggo la mia vita alla luce del verbo o dei verbi per me qualificanti, in base al passo seguente.
5° passo
Il criterio di Ezechiele: mangiare la parola, esattamente come si mangia l’Eucaristia, che poi sono la stessa cosa, perché, come Lc 24 narra nel racconto dei discepoli di Èmmaus, udire la Parola e spezzare il pane sono modi diversi della stessa intimità. Nell’Eucaristia noi facciamo due volte la «comunione»: una volta con le orecchie, ascoltando la Parola-Lògos che è il Figlio, proclamato sul mondo e una volta con la bocca, mangiando il pane e bevendo il vino, simboli reali dell’intima unione, attraverso la Chiesa, del genere umano con Dio (Lumen Gentium, 1).
«2,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. 2A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava… “apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. 9Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. 10Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra… 3,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, recati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 1,1.9-10; 3,1-4).
Il criterio di Ezechiele
Nel criterio di Ezechiele vi è una concatenazione logica ferrea: il parlare di Dio genera l’irruzione del suo spirito nel profeta che deve alzarsi in piedi, la posizione dell’orante, pronto all’ascolto. Le azioni conseguenti sono: aprire la bocca e mangiare il rotolo, che – attenzione! – è scritto davanti e dietro, cioè è parola abbondante e completa. Dopo aver mangiato non ci si può fermare a fare la pennichella, ma bisogna andare, andare alla comunità con la quale condividere ciò che si è mangiato. Gesù ha un progetto che si chiama «regno di Dio» e riguarda tutta l’umanità. Vi si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il senso di abbandono anche da parte di Dio, il dubbio stesso dell’assenza di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere per non mettere a rischio la vita dei discepoli?
Nel progetto di Dio non si mangia per saziarsi, nessuno è chiuso in sé, si mangia per vivere, per andare, per condividere: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. [Prendete e] bevetene tutti… questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,26-28). Tutto è connesso e tutto si tiene: l’ascolto/mangiare, prendere coscienza e andare in missione nel mondo a dire con la vita che Gesù «è il Signore» (Gv 21,7). Ascoltare e mangiare, nella Bibbia, sono sinonimi perché bisogna «stare sulla Parola» (Gv 8,31), ruminarla, sminuzzarla, assaporarla lettera per lettera, iota per iota, fino a sentirne la dolcezza del miele e il sapore del fiele, il doppio taglio della Parola-spada (Eb 12,4) se vogliamo giungere al «monte di Dio» e stare alla sua presenza:
«7Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, toccò Elia e gli disse: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).
Solo così il profeta può sperimentare la presenza di Dio in tutta la sua gloria e fare l’esperienza della «voce di silenzio sottile», dopo il vento impetuoso, il terremoto e il fuoco (cfr. 1Re 19,11-13). Se pregare è vivere l’esperienza della Shekinàh, o Dimora o Presenza, è indispensabile arrivarci, ascoltando e mangiando, in una parola interiorizzando. Ascoltare significa «portare dentro di sé la Parola» che è la Persona di Gesù e mangiare significa «portare dentro il cibo» che è la vita stessa di Dio. Chi mangia lo stesso cibo diventa la stessa realtà. Qui è il punto focale dell’intimità che può essere solo personale, vissuta «nel deserto» come spazio senza occhi indiscreti, senza curiosi, senza distrazioni di superficialità. Tutto ciò esige tempo, tempo, tempo… come insegna la volpe al Piccolo Principe, contro la logica della nostra epoca, in cui «non abbiamo mai tempo…»:
«“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo»
(v. più avanti il testo integrale).
Perdere tempo.
Perdere tempo per la persona amata
Questo è il segreto, l’unico che coglie il cuore della vita. Quando noi riserviamo a Dio gli scampoli del nostro tempo, quando controlliamo l’orologio perché «bisogna fare in fretta», quando la Liturgia delle Ore o l’Eucaristia sono contingentati perché «abbiamo tante cose da fare», allora è inevitabile rifugiarsi nelle formule, negli orari, nel rituale perché ci sentiamo protetti e scusati: fatto il nostro dovere, esattamente come qualsiasi salariato, abbiamo pagato il nostro debito. Abbiamo praticato molto, ma non abbiamo amato. Perdere tempo esige silenzio e svuotamento della polvere che ricopre le nostre morte parole (Tagore). Perdere tempo esige avere coscienza di essere l’altra metà di Dio, senza della quale la sua identità come la nostra sono vanificate, annullate.
C’è una pagina mirabile nel «Piccolo Principe», in cui si stabiliscono le regole dell’amicizia «addomesticata» fino a quando gli amici non diventino «unici» tra tutti gli esseri umani. Ho mai pensato di «addomesticare» Dio, riducendo le distanze giorno dopo giorno? Ho mai udito i suoi passi nel giardino della mia vita (Gen 3,8)? Ho mai detto a Dio espressamente: «Per favore, addomesticami!»? Oppure in quella che chiamiamo preghiera personale o corale, mi limito a leggere quanto è prescritto, come se fosse un compito di scuola? «Non si conoscono che le cose che si addomesticano… Gli uomini [e le donne] non hanno più tempo…».
Questo brano, tratto dal «Piccolo Principe», vale più di un trattato sulla preghiera, con l’augurio che ciascuno possa applicarlo al proprio modo di pregare, al proprio tempo di pregare, al proprio Dio che immagina di pregare, perché non è detto, non è scontato, che noi preghiamo il Dio, «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,6). Leggendo la catechesi della volpe al piccolo principe, proviamo a capire se non parliamo con noi stessi in una forma di narcisismo che è la negazione della natura della preghiera che è solo ed esclusivamente, perdere tempo per la persona amata, perdere vita e desiderio, e anelito e passione per chi vogliamo sia importante per noi.
Maestra volpe…
«In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo…”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”. “Sono la volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa “, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare?”. “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe “che cosa cerchi?”. “Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire addomesticare?…”. “Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe.
“C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”. “È possibile”, disse la volpe, “capita di tutto sulla terra”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. “La mia vita è monotona… E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica… Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore… addomesticami”, disse. “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”. “Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore… Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”. “È vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?”. “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”. Soggiunse: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”. “Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto…”. “Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”. “Io sono responsabile della mia rosa… ripeté il piccolo principe per ricordarselo» (Da Antornine Saint-Exupéry, de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.A., Milano 1985, 11, 91-98).
Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-18]
Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era
Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.
Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.
Il contributo di Moon Jae-in
La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal 2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.
Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.
Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.
Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.
La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.
È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.
Come fare per accontentare tutti gli attori
Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.
Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.
Lo scoglio nucleare e missilistico
Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.
Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.
Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.
Sanzioni e sviluppo economico
Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.
È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.
La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.
Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.
Piergiorgio Pescali
Il presidente nordcoreano a Singapore
Un selfie con Kim
Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.
Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.
Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.
La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.
Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.
Piergiorgio Pescali
Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento
È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?
È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.
I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.
Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.
A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.
Una storia breve
Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.
Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.
Una poltrona per cinque
I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).
«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.
Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.
I nodi sul tappeto
Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.
Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.
L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.
«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.
«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.
Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».
Pressioni internazionali
Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.
In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.
Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.
Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.
Voci dal terreno
Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?
Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».
Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».
Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».
La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.
Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».
E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».
Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.
Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».
A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».
Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.
C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.
Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».
Società civile cercasi
«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».
Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.
Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.
Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».
Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».
La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»