Insegnaci a pregare 14. Pregare: convertirsi dalla divinità al Signore
Di Paolo Farinella, prete |
Nella puntata del mese scorso abbiamo cercato, con qualche difficoltà per gli spazi di una rivista a larga diffusione, di esercitarci sul capitolo 1° della Genesi, un testo considerato spesso noioso. Abbiamo scelto il testo ufficiale della Cei, edizione 2008. Prima di passare a un testo del vangelo, desideriamo riprendere i primi tre versetti di Gen 1 e tradurli dall’ebraico, applicando la morfo-sintassi ebraica, senza scendere, però, in dettagliate spiegazioni. Il testo biblico di Gen 1,1-3 non si trova solo nella Bibbia, ma appartiene alla cultura orientale comune del 2° millennio a.C. Lo leggiamo non in un contesto di studio, ma in un atteggiamento interiore orante.
Il testo nella traduzione ufficiale: «1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Applicando la sintassi dell’analisi testuale che tiene conto in modo particolare dei «verbi», ecco la traduzione:
1«Nel principio del «Creò Dio il cielo e la terra»
(oppure: Quando Dio creò il cielo e la terra)
2la terra era informe e deserta
le tenebre ricoprivano l’abisso
e lo spirito di Dio covava sulle acque,
3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.
Nota esegetica
I primi due versetti servono per ambientare (verbi all’imperfetto) l’esplosione della Parola che, al versetto 3, lacera l’abisso. Sempre al v. 2, anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008) traduce con «lo spirito aleggiava sulle acque», che a nostro parere deve essere reso così: «lo spirito di Dio covava sulle acque». In ebraico, il participio femminile «merachèfet» deriva dal verbo «rachàf» che in tutta la Bibbia ebraica ricorre solo tre volte: una nella forma verbale «qal», che esprime il senso ordinario dell’azione, e cioè «frangere/rompere/spezzare» (cfr. Ger 23,9) e due volte nella forma verbale «pièl» che esprime l’«intensità» dell’azione del verbo e quindi anche nella traduzione deve intuirsi un senso marcato, qui appunto l’atto del «covare» che ha come effetto il dischiudersi del guscio. In Dt 32,11 è l’aquila che cova la nidiata, mentre in Gen 1,2 è lo spirito di Dio che cova le acque per farle dischiudere alla vita. Lo Spirito di Dio, «principio» della vita sta sulle acque primordiali, dominandole come fa l’aquila o una chioccia sulla covata finché non scoppia la vita.
Cosa si ricava da questo testo per la preghiera? Il principio non è un inizio temporale, ma un fondamento radicale, una radice su cui poggiare: Dio che crea il cielo e la terra. In ebraico, «cielo e terra», essendo opposti (alto e basso, superiore e inferiore, entrare e uscire, sedere e alzarsi, mattina e sera, ecc.), indicano la totalità, tutto quello che sta in mezzo. Dio crea «tutto», senza essere condizionato dall’informe terra o dal deserto, cioè dalla non vita. Le tenebre, proprie dell’abisso sono spettatrici e non opposizione a Dio. Da «signore», egli «cova» come una chioccia le acque della vita. Nell’attesa, tra desolazione, morte e oscurità che nulla promettono di buono, all’improvviso, potente e risoluta, scoppia la «Parola» che in un baleno fa giustizia di abisso, tenebre e deserto: «Disse Dio». È la frase principale, da cui dipende tutto quello che precede e che dà inizio alla serie di dieci «disse» martellanti. Subito la Parola diventa Luce e la luce diventa un fatto: «La luce fu». La Parola di Dio non è mai inefficace perché realizza sempre quello che dice. All’ordine di Dio corrisponde subito l’esecuzione: Sia/Fu.
Pregare la Parola
Prima di qualsiasi cosa, azione, decisione, esecuzione, occorre vedere «il principio» che è all’inizio del versetto: su quale «principio» si fonda la vita di me credente, cittadino, padre, figlio, maestro, ministro, monaco, monaca, giovane, vecchio? Oppure navigo a vista tra abissi e tenebre e deserti senza una bussola o un progetto? Se dovessi chiamare per nome il progetto della mia vita, come lo enuncerei con una parola? In Dio la parola è fatto: c’è sempre corrispondenza tra desiderio e realtà, tra aspirazione e realizzazione e in me? Tollero forse uno spazio ambiguo e anonimo tra tenebre e luce, dove vado a rifugiarmi? Oppure ambisco la luce come esplosione del pensiero, degli affetti, delle relazioni, dell’agire? La mia parola è sempre univoca o la manipolo a seconda delle circostanze e delle convenienze. In questo contesto cosa significa per me: imitare Dio?
«Ininterrottamente»
Ci chiediamo: perché pregare? Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente, in ogni cosa fate eucaristia (= rendete grazie): questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,17-18). Comprendo che Paolo pone sullo stesso piano preghiera, eucaristia, volontà di Dio e Gesù Cristo? Da ciò si deduce che pregare vuol dire imparare a fare della vita un’eucaristia se vogliamo vivere la volontà di alleanza del Padre che ha il volto di Gesù. Ciò avviene giorno per giorno, ora dopo ora, passo dopo passo e deve durare tutta la vita. Pregare è imparare a capire la volontà di Dio che è il regno suo esteso a tutti, vivendo le relazioni con ogni essere umano sulla filigrana della vita di Gesù. Qui espressamente si descrive la preghiera come «stato permanente» e non come serie di «momenti» spezzati: la vita non è a singhiozzo, perché il respiro è costante, continuo, incessante, non a spizzichi e bocconi. Se respirassimo in maniera sincopata moriremmo. Se preghiamo ogni tanto (prego al mattino, prego alla sera), vuol dire che nel frattempo siamo fuori della volontà di salvezza del Padre.
In mare col fantasma
Occorre imparare la disponibilità orante per essere sempre in «stato di preghiera», come Gesù nel brano di Matteo che preghiamo ora. Nel prossimo numero di MC ricaveremo alcune direttive per imparare a pregare meglio.
Dal Vangelo di Matteo 14,22-33:
[Dopo che la folla ebbe mangiato], 22e subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. 24La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».
Il brano inizia in modo inconsueto per Matteo che qui mantiene un’espressione tipica di Marco: «e subito», quasi a volere dare immediatezza a quanto sta accadendo, coinvolgendo nell’azione il lettore. L’avverbio di tempo lega il racconto precedente (Gesù sfama la folla) al seguente (Gesù allontana i discepoli e resta solo) e ci trasporta come per magia da un contesto di massa a uno di solitudine e preghiera. Solo due volte Matteo presenta Gesù in atteggiamento di preghiera: qui e nel giardino del Getsèmani (cf Mt 26,36), quasi a custodire gelosamente l’intimità col Padre che nessun occhio indiscreto dovrebbe mai violare. È, infatti, impensabile anche immaginare che Gesù non abbia bisogno di pregare perché, essendo Dio, «cresceva in sapienza… e grazia davanti a Dio» (Lc 2,52).
Per lui, uomo reale in cerca della volontà di Dio che scopre lentamente, giorno per giorno, la preghiera doveva essere abituale e consueta per verificare la profondità della sua adesione al volere del Padre. Egli pregava anche oltre i ritmi ufficiali della liturgia in sinagoga che pure frequentava (Mt 12,9; 13,54; Mc 1,21.23.29…; Lc 4,16/20.28.38.44…; Gv 18,20). Rimasto nella pienezza della sua solitudine, prima di raggiungere i discepoli, Gesù si ritira a pregare sul monte da solo per individuare il «dove» della sua esistenza e le ragioni del suo andare.
Curiosità
Secondo la tradizione il monte sul quale Gesù si ritira in preghiera sarebbe il monte delle «beatitudini» (cf Mt 5,1) da dove Gesù proclama le coordinate del regno dei cieli (cfr. Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano [BI] 1995, 271-272).
Il pendolo: dalla folla verso il monte
Per pregare, Gesù compie due gesti: «costringe» i discepoli a salire sulla barca, quasi fosse un ovile protettivo, che per Mt potrebbe essere «la Chiesa», di cui la barca è immagine. In secondo luogo, deve congedare la folla perché ha obiettivi solo materiali: il miracolo a buon mercato, il pane abbondante, insomma mangiare. La folla non sarà mai una comunità. Si può stare insieme nello stesso luogo, per lunghi tempi, dire e fare le stesse cose, ma non essere comunità: la folla è massa indistinta dove ognuno persegue interessi individuali e si aggrega per piegare gli altri al proprio bisogno; essa è anche capace di vendere Dio e la madre a prezzi di saldi. Monasteri e comunità, con anni e decenni di convivenza, possono essere «una folla», fatta da un «insieme di solisti». La comunità eucaristica, al contrario, è un popolo, per sua natura interdipendente, perché ciascuno è parte di un tutto, tanto che l’intera comunità/popolo è presente in ciascuno dei suoi componenti e ogni suo singolo membro è «sacramento» di comunione perché con il proprio limite ne esprime la pienezza e lo splendore. Ognuno è visto e sperimentato come la parte migliore dell’altro, sia come singole persone, sia come comunità nel suo complesso. Tutto ciò vale anche per le coppie sposate, per una famiglia che condivide il cammino di fede, per due amici, due amiche, per quanti cioè cercano il cielo e trovano la profondità dell’essere che ha il volto di Dio, presente nelle persone incontrate sul cammino. Per tutti è indispensabile la preghiera che non è un debito verso Dio, ma un progetto da realizzare, un metodo di una visione, un sogno da sperimentare, una prassi così impellente da diventare ancora di più desiderio desiderato. Per tutti è essenziale diventare, per grazia e per scelta, come Francesco di Assisi che «non era tanto uno che pregava, ma lui stesso era preghiera». Rileggiamo il testo con animo sapienziale, cioè lasciandoci visitare dalle singole parole come messaggeri di Dio che vengono a stimolarci e a consolarci.
Mt 14,22: «[Dopo che la folla ebbe mangiato],
22subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca
e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla».
I verbi importanti sono: costringere, salire, precedere, congedare.
Prego in modo spontaneo e abituale, oppure mi devo costringere a salire sul monte della preghiera, perché dominato dalla noia? Cosa mi trattiene dal salire in alto? A volte è necessario precedere il Signore e quindi separarsi da lui, senza staccarsene, per aspettarlo. Sono consapevole che la separazione è parte della dinamica di relazione?
La separazione comporta anche scegliere da soli, inventare, decidere, valutare, discernere. Oppure ho sempre bisogno di qualcuno che mi dica cosa devo essere e fare? Se fosse così, non penso che lo Spirito sia superfluo? Nei monasteri come si concilia questo con l’obbedienza? Ho mai preferito essere un anonimo tra la folla del mio ambiente per non essere disturbato o costretto a fare tagli forse dolorosi?
Mt 14,23: «23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare.
Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo».
In questo versetto restano due verbi del precedente e se ne aggiungono altri nuovi: congedare, salire + pregare, stare. Mt usa la stessa espressione che l’autore dell’Esodo usa per Mosè: «Mosè salì verso il monte di Dio, e Dio lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai…”» (Es 19,3). Mosè sale verso il monte di Dio, Gesù sale solo verso il monte. Mosè sale per ascoltare Dio, Gesù sale per pregare. Mosè riceve, Gesù vive.
Per salire sul monte, bisogna andare in alto, segno che la folla stava in basso. Qual è il mio basso, qual è il mio alto? Ho un monte come mio progetto e orizzonte? Per Gesù pregare è stare sulla Parola per imparare a essere se stesso (Gv 8,31). Ho un monte dove posso stare senza ansia e angoscia?
Mt 14,24-25: «24La barca intanto distava già molte miglia da terra
ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario.
25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare».
La Chiesa, la comunità, la famiglia, la scuola, il lavoro… la vita non è una barca ancorata in una rada dove si possa tranquillamente prendere il sole oziando. La barca è distante dalla riva e le onde la rendono insicura, anche perché c’è la possibilità che il vento soffiando al contrario aggravi la situazione. Credere non è una garanzia dai pericoli e dai rischi della vita. Perché il Signore non mi viene in aiuto? Io prego e tutto mi va male, mentre quello là non crede, non va mai in chiesa e le cose gli vanno a gonfie vele. Cosa ho fatto di male al Signore per meritare questa ingiustizia?
Pregare è la scuola dove impariamo a purificare questo modo pagano e miscredente di concepire Dio. Chi pensa così vede Dio come una macchinetta automatica che funziona a comando con una moneta. Non abbiamo garantita la tranquillità; le onde, il vento e l’agitazione del mare restano per noi e per tutti: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), di cui il credente assume pesi e presenze: «portate i pesi» (Fil 2,1) e «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28).
Mt 14, 26: «26Vedendolo camminare sul mare,
i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura».
Egli garantisce la «presenza», anche se bisogna aspettare tutta la notte, perché giunge camminando sulle acque, correndo anche lui il rischio che noi lo scambiamo per un «fantasma», cioè una parvenza inconsistente, un nulla, un vuoto.
Pregare è imparare a riconoscere la presenza del Signore negli eventi della vita, nelle avversità, nel vento contrario, nel mare agitato, nella calma della bonaccia. Spesso Dio è un «fantasma» che agita il nostro sonno perché lo vorremmo magico, a nostra disposizione, ai nostri ordini, a «nostra immagine e somiglianza». In questo senso pregare è «illimpidirsi lo sguardo» perché essa ci insegna a purificare Dio da ogni vacuità-fantasma, da ogni segno di idolatria e ci educa a stare con lui «sull’altra riva», cioè sulla riva della consapevolezza, del discernimento e del dubbio, quello che anima la fede. Stare accovacciati sulla soglia della paternità per essere sempre pronti a coglierne le sfumature di tenerezza e di amabilità. L’Eucaristia è la scuola principe dove impariamo tutto questo, se non la trasformiamo in un fantasma di passaggio.
Mt 14,27-33: «27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!”. 28Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. 29Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”».
Ancora un avverbio di tempo di immediatezza e coinvolgimento (subito) che elimina le distanze, azzera la paura: «Coraggio, Io-Sono». Il coraggio sta nell’identità. Non è esatto tradurre «Sono io» scialbo e banale. Mt usa il greco «Egô Eimì» che è il nome con cui nella Bibbia greca della LXX, traducendo il corrispettivo ebraico, «Yhwh» si presenta a Mosè sul Sinai. La preghiera non mette davanti alla «divinità», ma immerge nell’abisso dell’identità del Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, il Dio dei volti e dei nomi, il Dio dell’esodo, il Dio della storia e della liberazione, il Dio che «scende» in mezzo alle schiavitù per spezzare le catene e rendere la pienezza della libertà col codice dei comandamenti. Il Dio della mia vita.
È questa libertà che fa camminare Pietro sulle acque, anche se egli è incompleto e imperfetto, tanto da rischiare di affondare. «Signore, salvami». Non dice «Dio», ma «Signore», parola che solo dopo la risurrezione è abituale tra i discepoli e che è il fondamento della professione di fede, urlata dal pagano centurione romano che «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39).
La libertà e la morte di Dio sono il fondamento della sua alleanza e della sua volontà di salvezza. Quando preghiamo, Dio irrompe nella nostra vita e noi assumiamo la storia di Dio per farne la nostra quotidianità, mentre offriamo la nostra ordinaria esistenza per farne la salvezza di Dio che egli sparge sul mondo intero.
Nel pregare, quale atteggiamento vivo? Di sfida a Dio o di fiducia e confidenza? Quando prego, riesco a vedere la mano che il Signore mi tende? Mi lascio afferrare? O preferisco fare da me rischiando di affondare? O preferisco la palude delle grette banalità? Sono consapevole che per fare cessare il vento, è indispensabile essere «sulla barca» con lui?
Conclusione
In sintesi, per pregare bisogna passare dallo stato di «massa/folla» a quello di persona cosciente, passaggio che può avvenire anche attraverso una costrizione; è necessario salire dal basso verso l’alto; non basta salire, occorre salire sul monte, cioè al «luogo di Dio»; occorre sapere stare soli, anche a lungo, fino a sera, sapendo che la solitudine è coscienza di sé a differenza della solitarietà che è chiusura in sé; pregare è perdere tempo per e con la persona amata, qui Dio, Padre, amico compagno. Gesù perde tanto del suo tempo con il Padre suo: pregare per lui non è fuggire dalla vita, ma immergersi in essa per coglierne la trama intessuta di Dio. Gesù domina le acque e salva Pietro: nella preghiera noi impariamo a gestire la nostra vita per condividerla con la comunità, la Chiesa e il mondo per farne un dono a Dio che ce la restituisce in benedizione e santità. Insegnava un santo monaco che per entrare nello spirito della regola monastica non basta un paio d’anni di noviziato, ma occorrono cinquant’anni di vita di osservanza di essa per cominciare a respirarne lo spirito. Solo dopo può iniziare il noviziato, cioè l’ingresso nella vita monastica. Per la preghiera è lo stesso: non basta qualche preghiera, sparsa qua e là, occorre una vita di preghiera per imparare a respirare all’unisono col Padre, il Figlio e lo Spirito, affinché in punto di morte, si possa dire: Amen, oh, sì, eccomi! Ora so pregare perché sono orante.
Paolo Farinella, prete
[14, continua]