Amazzonia, opportunità e sfida per religiosi e missionari
Testo e foto di Jaime C. Patias
Rappresentanti di 30 Congregazioni religiose con progetti nella prospettiva pan-amazzonica si sono riuniti, nella città di Tabatinga (Stato di Amazônas, Brasile), sulla triplice frontiera tra Brasile, Colombia e Perù.
L’obiettivo dell’incontro, avvenuto fra il 20 e il 24 aprile, è stato quello di favorire la comunione e rafforzare la missione della Vita Religiosa Consacrata in quella regione. “Qualcosa di nuovo sta nascendo nella missione in questo terreno”.
All’incontro hanno partecipato 90 missionari (sacerdoti, religiosi, religiose e laici), fra cui quattro missionari della Consolata: i padri Fernando Florez (Perù), Joseph Musito (Roraima-Brasile), Jaime C. Patias, Consigliere Generale per l’America, e il diacono Luiz Andres Restrepo Eusse (Ecuador). Ha partecipato anche, suor Maria Teresa, missionaria della Consolata a Roraima. Le presenze dei Missionari della Consolata, nel territorio amazzonico, si situano nel nord del Brasile, in Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela.
I missionari della Consolata in Amazzonia
Presentando il percorso di 70 anni di presenza in Amazzonia (1948-2018), si è fatto memoria dei 50 anni della morte di P. Giovanni Calleri (1968), dei conflitti, delle sfide, persecuzioni e minacce sofferte, così come delle gioie frutto delle conquiste. Nella Regione Amazzonia, oggi ci sono tre esperienze significative che ispirano il futuro della nostra missione: il lavoro nella Terra Indigena Raposa Serra do Sol (Roraima), la Missione Catrimani (fondata nel 1965) e il Centro di Documentazione Indigena (CDI) a Boa Vista. Significativo è anche il lavoro accanto ai popoli indigeni nell’Amazzonia colombiana (dal 1951), in Venezuela, in Ecuador (Sucumbios, dal 2005) e in Perù (2013). Queste esperienze devono essere valutate e ripensate nello spirito della continentalità. Inoltre, data l’importanza della questione amazzonica, le regioni IMC del Brasile e dell’Amazzonia sono chiamate a qualificare la missione.
Il Progetto Missionario IMC del Continente America ha assunto, tra le altre, le opzioni per l’Amazzonia e per gli Indigeni. Per una Congregazione che ha nel suo DNA la missione ad gentes è impossibile essere nel continente americano senza mettere i piedi, il cuore e la testa in Amazzonia. Nel corso degli anni, abbiamo imparato a camminare con i popoli indigeni, con le loro speranze e lotte, le gioie e conflitti, rompendo schemi e frontiere. Oggi vogliamo vivere la missione nel territorio amazzonico, nello spirito della continentalità, in rete con altre congregazioni e organizzazioni. Siamo convinti che questo percorso ci renda più forti e più efficaci. La missione profetica nella Raposa Serra do Sol e la Missione incarnata del Catrimani richiedono missionari senza paura del nuovo, incarnati e aperti al dialogo. La sfida è mantenere vive queste due esperienze che danno visibilità al carisma ereditato dal beato Allamano, e valorizzare il Centro di documentazione indigena (CDI). Per questo riteniamo essenziale la formazione di missionari appassionati della causa indigena e dell’Amazzonia.
Alcuni eventi ci animano, ad esempio, il pontificato di Francesco, la creazione della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonia (REPAM), l’enciclica Laudato sì, il Sinodo speciale per l’Amazzonia, le varie assemblee e i processi in andamento.
L’incontro di Tabatinga è stato promosso dalla REPAM e dalla Confederazione dei Religiosi e Religiose di America Latina e Caraibi (CLAR). L’Amazzonia e i suoi popoli sono fonte di vita per la Vita Religiosa Consacrata. La realtà ci sfida a pensare la missione di forma intercongregazionale e interistituzionale, in un territorio ricco di connessioni. La nostra presenza in Amazzonia è fermento di rivitalizzazione del carisma che ci fa ritornare alle origini della fondazione.
Sinodo per l’Amazzonia
Non potendo raggiungere Tabatinga, il presidente della REPAM, cardinale Claudio Hummes, ha inviato un messaggio di incoraggiamento: «Considero questo incontro molto importante e promettente, nel momento in cui la situazione della Pan-Amazzonia chiede aiuto. Il papa Francesco ascolta questo grido e per questo motivo ha deciso di convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia. Tutti noi che siamo già in questa regione in vista dell’evangelizzazione siamo molto felici per questa decisione. È lo Spirito Santo che ci chiama. La preparazione del Sinodo è già in corso, collaboriamo tutti. Il Sinodo può essere un evento storico che costruirà nuove strade per la Chiesa e per un’ecologia integrale. Ringraziamo Dio per questo kairos che concede alla Chiesa missionaria e gli chiediamo di illuminarci e dare a tutti il coraggio di non avere paura del nuovo».
Jaime C. Patias, IMC
Padre Bruno Del Piero, un ricordo sempre vivo
Domenica 8 aprile, presso l’Oratorio San Pancrazio di Roveredo in Piano (Pordenone), si è svolta l’annuale assemblea dell’«Associazione padre Bruno Del Piero» (missionario della Consolata, che ha speso ben 53 anni della sua vita in Colombia). Dopo un’iniziale preghiera-invocazione alla Vergine e la lettura di una lettera di padre Bruno scritta quando era in Colombia da 1 anno, la presidente Donatella (nipote di padre Bruno) ha ampiamente relazionato ai presenti gli ultimi passi compiuti dall’associazione, documentando (cifre alla mano) gli interventi e gli aiuti concreti inviati in Colombia continuando quella collaborazione iniziata subito dopo la sua scomparsa nel 2014. Sono state inviate significative somme per diverse costruzioni e iniziative.
I primi due progetti sono stati realizzati a Puerto Refugio, un villaggio sperduto nella regione amazzonica colombiana del Putumayo, lungo il fiume che dà il nome della Regione. La comunità di Puerto Refugio fa parte della riserva indigena del «Predio Putumayo» una delle più grandi riserve colombiane, ed è composta da circa 300 abitanti di origine indigena Murui. L’ultimo desiderio di padre Bruno è diventato il primo impegno dell’associazione nata in suo nome tra i suoi concittadini. Padre Bruno aveva a cuore il completamento e sistemazione della chiesetta dedicata a San Bartolomeo, patrono di Roveredo in Piano suo paese natale, che era stata costruita dal missionario nel 2003. La chiesetta è stata così sistemata e inaugurata ad aprile 2015. Sempre a Puerto Refugio è stato realizzato il secondo progetto, la costruzione della nuova canonica e sacrestia, che prima era una casetta in legno fatiscente con due stanze che sorgeva sul retro della chiesetta. La nuova casa è stata inaugurata in aprile 2017 e accoglie i missionari che da Puerto Leguizamo, sede del Vicariato, dopo 3 ore di barca lungo il rio Putumayo arrivano nel villaggio; questi missionari possono così trovare un luogo accogliente prima di continuare il viaggio in barca per visitare altri villaggi che sorgono lungo il rio Putumayo verso il Rio delle Amazzoni.
Il terzo progetto iniziato nel 2016, e che continua tuttora, è il sostentamento al comedor comunitario Poussepin, un centro dove vivono circa 100 bambini provenienti da famiglie povere che non hanno la possibilità di dare un pasto e una istruzione ai loro figli. Il centro si trova a Puerto Leguizamo, nel sud della Colombia ai confini con il Perù ed è gestito da volonterose suore, suor Bertha, suor Giannita e suor Yaneth. Le religiose hanno potuto comprare cibo e anche qualche computer, perché come dicono loro, l’istruzione di questi ninos è importante per il loro futuro.
Il quarto progetto iniziato nel 2017 è la sistemazione della casa canonica di Solano, un paese che sorge lungo il Rio Caquetá, dove operano due missionari molto cari a padre Bruno, padre Rino Delaidotti e padre Angelo Casadei. La casa dei missionari è alquanto fatiscente ed è in programma la sua ristrutturazione, perché ha bisogno di rifare il tetto in quanto piove dentro.
Un bilancio, quello del 2017, più che positivo grazie all’apporto quanto mai generoso della comunità roveredana, che è stato approvato in maniera unanime dai presenti. È seguita la proiezione di un filmato per capire la «vita» di quella terra così lontana dal nostro mondo e dalla nostra realtà: immagini che sono state commentate sia da Bruna (nipote del padre) sia da Alberto Cancian, che ha vissuto con padre Bruno e ne ha condiviso gli ultimi momenti di vita in Colombia.
Quindi Sergio Gentilini ha illustrato l’ampia mostra fotografica, dov’erano esposti anche il Crocifisso e la veste bianca sempre indossata da padre Bruno. Una prima parte delle immagini, curate dalla nipote del missionario illustravano le realizzazioni fatte in Colombia grazie al sostegno economico della Associazione. Seguiva una lunga serie di fotografie che illustravano la vita della gente roveredana al tempo dei genitori di padre Bruno, Maria e Giuseppe (nati verso la fine del 1800) commentando l’atmosfera e l’ambiente rurale e contadino della comunità, nella sua ricchezza di iniziative a pro della comunità sia civile sia religiosa: una Roveredo molto unita e pur nella allora povertà di mezzi ma ricca dentro. Ed è stata ricordato che mamma Maria definiva «quella Roveredo» una comunità dove si viveva «come frades»! È in quel clima che è vissuto il giovane Bruno, per alcuni anni casaro nella locale latteria. Poi la sua vocazione (prima con don Indri e poi con don Mario) e la «profezia» di padre Pio da Pietrelcina che predisse al futuro padre Bruno l’ingresso in seminario e quindi la sua lunga e fattiva vita in terra di missione. Quindi l’ingresso in seminario, la sua prima santa messa a Torino, alla Consolata presenti i genitori Maria e Giuseppe (che lui amava sottolineare che i loro nomi erano come quelli dei genitori di Gesù); poi la destinazione in terra di missione in Colombia, dove si spenderà per ben 53 anni salve qualche ritorno nel suo paese natale, l’ultima volta nel 2012 quando compì 80 anni. E poi come non ricordare quando venne per salutare sua madre Maria negli ultimi giorni di vita in ospedale. E le raccomandazioni affettuose della mamma: di benedirla e di aiutarla negli ultimi momenti, che lo avrebbe seguito per sempre da lassù, con l’invito, dopo la sua dipartita, di ritornare in Colombia per continuare come «missionario tra la sua gente».
Oggi padre Bruno riposa a Cartagena del Chairá nel Caquetá, dove era stato il primo cappellano nel 1968. La sua tomba è sempre fiorita quale costante testimonianza che la «sua gente», per la quale si è «speso» con vera e amorevole generosità sino alla fine, gli ha voluto bene. Dei sei fratelli di padre Bruno, è viva solo la sorella (ultima dei fratelli) che abita a Roveredo: e il suo nome è Rosa. L’incontro è terminato con la visita ai molti pannelli in mostra, allineati lungo le pareti della sala: tale esposizione è stata poi trasferita nella chiesetta dell’oratorio, visitabile tutto il mese di aprile.
Lunedi 16 aprile, nell’anniversario del ritorno al Padre dell’amato missionario roveredano, alle 18.30 c’è la santa messa con canti e momenti di riflessione e ricordo del nostro missionario, padre e pastore.
Associazione padre Bruno Del Piero
Quando si sgomberano i poveri invece della povertà
Capita spesso di sentire parlare di Rom, quasi sempre con toni violenti e, non a caso, in modo più marcato durante le campagne elettorali. Capita raramente, invece, di imbattersi in informazioni ragionate sui Rom, ancora più raramente di sentire parlare i Rom stessi.
Se ne parla, ma non se ne sa quasi nulla. Si spendono milioni di euro ogni anno (almeno 15 nel 2017) per risolvere l’emergenza abitativa in cui molti di loro vivono, ma il problema rimane. Si firmano strategie nazionali (quella del 2012 stabiliva l’obiettivo di «superare – non abbattere senza altro criterio se non quello punitivo e propagandistico – i campi Rom» entro il 2020 avviando processi d’inclusione sociale) e si prosegue con pratiche sbrigative e irrispettose della dignità delle persone.
In Italia si stima ci siano tra i 120mila e i 180mila rom, sinti e camminanti: la maggior parte di loro sono bambini, quasi la metà hanno cittadinanza italiana. Sul numero complessivo di rom presenti nel paese, quelli che vivono nei cosiddetti «campi» sono 26mila, e di questi, quelli effettivamente «nomadi» sono solo il 3%. È da sottolineare che i campi sono stati creati dalle stesse istituzioni che oggi effettuano gli sgomberi, non dai rom i quali si trovano spesso a vivere in essi in condizioni degradanti, di segregazione e senza alternative.
Secondo Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, inoltre, si deve tenere conto che i rom non sono costretti a vivere solo nelle baraccopoli formali, ma anche in quelle informali, ancora più insicure: «Le prime, abitate da circa 16.400 individui, sono 148, disseminate in 87 Comuni. Il 55% dei rom in emergenza abitativa ha meno di 18 anni e la loro aspettativa di vita è di dieci anni inferiore a quella della popolazione italiana. Centinaia sono invece i micro insediamenti (300 nella sola Capitale) abitati da meno di diecimila persone residenti principalmente nelle periferie delle grandi città». I micro insediamenti, come sottolinea la Caritas Ambrosiana riferendosi alla realtà lombarda, nascono spesso per evitare il trauma periodico dello sgombero: «Per evitare gli sgomberi, i rom hanno imparato a nascondersi. Abbandonati i grandi campi, si sono distribuiti sul territorio, occupando le aree marginali. Li si trova sotto i ponti, lungo le autostrade, sulle alzaie dei navigli, accanto ai binari della ferrovia, ai bordi di un campo agricolo, accanto a una discarica. Si riuniscono in piccoli gruppi di 15 massimo 30 persone, appartenenti alla stessa famiglia o a famiglie imparentate tra loro».
L’8 aprile si celebra la «giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti». Come ogni anno, l’auspicio è quello che il nostro paese trovi finalmente il coraggio di sgomberare la povertà piuttosto che i poveri.
Luca Lorusso
Mongolia: diventare cristiani in un paese buddista
Testo e foto di Giorgio Marengo |
Il Triduo pasquale
Nel silenzio di un pomeriggio stranamente grigio per la polvere sollevata dal vento primaverile ci siamo trovati a pregare nella gher-cappella, la tenda mongola della parrocchia di Arvaiheer. Comincia il Triduo. Non doveva essere tanto diverso quel giorno, mentre i discepoli andavano alla sala superiore dove il Maestro li aspettava. Lui sapeva già, loro erano ignari. E nel giro di poco si son visti lavare i piedi, specchiandosi in quell’acqua sporca che era l’amore allo stato puro. Poi la cena ebraica, che però assume un significato nuovo, inaudito. Anche i cristiani e i catecumeni di Arvaiheer erano stupiti. Dall’acqua del catino a quella del fonte che dopo due giorni avrebbe irrigato la vita per farvi germogliare un rapporto nuovo con Dio Padre…
Il giorno dopo abbiamo contemplato Cristo che non scende dalla croce come i supereroi, ma accetta fino in fondo la condizione umana, arrivando addirittura a morire di morte violente. Esperienza molto provocatoria per gente abituata a valutare il favore di Dio dal successo mondano e da una vita tranquilla, lontana da malattie e sofferenze. Il cielo era ancora grigio; non c’è venerdì santo che non lo sia.
Poi il ritiro di sabato mattina. Una bella tradizione per aiutare i catecumeni a prepararsi al rito che si svolgerà quella sera e per disporre i battezzati a rinnovare la propria fede e ad accogliere i nuovi membri della comunità. Arriviamo sempre a questo momento con carichi di debolezze e anche di tensioni; sembra quasi che il diavolo ci metta la coda. E nel pianto liberatorio delle confessioni (due ore, nonostante la comunità cristiana non raggiunga le 30 unità e i sacerdoti siano due!) il miracolo di quel perdono che poi ci scambiamo in cappella con un gesto il più possibile concreto. Quest’anno ognuno doveva andare da tutti gli altri e dirgli due parole, “scusami” e “grazie”, prima di abbracciare e farsi abbracciare dall’altro. Altre lacrime e singhiozzi: se la fede non passa anche da questa dimensione emotiva rimane astratta, mentre qui c’è bisogno di tanta concretezza. Persone che per screzi e incomprensioni si ammalano letteralmente (l’espressione che usano è “essere entrati nella bocca di un altro”), tentando il ricorso a lama buddisti e a sciamani perché risolvano “magicamente” quelle loro tensioni, scoprono una profonda liberazione quando riescono a guardarsi in faccia e a perdonarsi, nel nome di Colui che per primo si è fatto carico dei loro fardelli spirituali.
Pasqua, passaggio
Qui la Pasqua è davvero passaggio. Ognuno lo percepisce a modo suo. I 4 adolescenti (tra i 15 e i 18 anni) che hanno fedelmente seguito i due anni di preparazione prescritti dalle disposizioni della Chiesa locale lo vivono come coronamento di un cammino, ingresso nella comunità degli “adulti” credenti.
Chuluuntsetseg è una signora di 50 anni, che conosce da tempo la nostra comunità dove i suoi due figli sono cresciuti, prima di andare a cercare fortuna a Ulaanbaatar. Per lei è stato un avvicinamento lento e progressivo, finché alcuni mesi fa si è chiesta “cosa le mancasse” a diventare cristiana, proprio come succedeva nelle prime comunità cristiane del libro degli Atti.
Baterdene ha una storia tutta sua. Ha 28 anni, 8 dei quali trascorsi tra un ricovero e un’operazione chirurgica, prima per un tumore al cervello, poi (l’anno scorso) per una grave deformazione alla colonna vertebrale, risolta con un intervento molto delicato reso possibile da un ospedale cattolico di Seoul; adesso sono 8 mesi che non esce di casa, perché il decorso post-operatorio è molto lento e delicato. Lui ha incontrato il Signore nella sofferenza e ha capito che c’è qualcuno disposto ad alleviarla per amore di Lui, proprio come i missionari e i professionisti cattolici che ha conosciuto. Debito di riconoscenza? Non solo, ma profonda attrazione, maturata negli incontri individuali che una catechista della nostra comunità ha portato avanti andando a visitarlo frequentemente e nella condivisione personale con il missionario.
Infine, Otgonerdene e Sainzaya, rispettivamente di 10 e 13 anni, cresciuti praticamente alla missione, ultimi figli di Gantulga e Uurtsaikh, coppia diventata cristiana in questi anni e che pochi mesi fa ha avuto la tragedia di un figlio morto suicida a 17 anni di età. Ci sono pressioni nella loro famiglia che vorrebbero interrompere il loro cammino di fede, preferendogli il culto sciamanico; ma loro sentono di dover invece completare la propria adesione a Cristo come famiglia intera, anche per sottrarsi ai malevoli influssi degli spiriti, da loro percepiti come molto vicini e incombenti.
La veglia pasquale.
Nelle prime ore del pomeriggio il cielo si è tinto di ocra e tutto è rimasto avvolto dalla polvere di una tempesta primaverile; si fa fatica a stare in piedi e soprattutto a non mangiare la troppa sabbia che scricchiola tra i denti. Il vento cala, senza però cessare e decidiamo di predisporre il fuoco nel punto in cui il muro della casa offre un riparo. Le fiamme s’innalzano non dalla legna, ma dallo sterco secco che una signora della comunità ha comprato per misericordia a una povera donna al mercato. Usukhjargal, il simpatico bimbetto di 8 anni battezzato da piccolo, suggerisce al papà di disporre lo sterco a forma di croce. Così è e poco dopo la luce entra nella gher buia, prima che Gantulga, da buon poeta e cantastorie, declami l’Exultet come fosse una lode mongola. La liturgia scorre armoniosa nelle sue varie parti, fino a quando i catecumeni sono invitati ad avvicinarsi alla grande pietra scavata a forma di croce appesa al tondo centrale della gher, àncora perché la struttura non voli via col vento e insieme legame simbolico dei mongoli tra la loro terra e l’amato cielo. La famiglia cattolica che vive nella steppa al confine col deserto del Gobi ha adesso 8 nuovi membri, che alla fine della celebrazione s’intrattengono per foto-ricordo e per scambiarsi auguri e benedizioni. Il ruolo dei padrini e delle madrine è molto sentito: sono loro ad offrire doni ai neo-battezzati e a riceverne in segno di riconoscenza per aver accettato di fare da guide nella fede.
Pasqua
La Pasqua ad Arvaiheer è così. Ci sono tante cose perfettibili, noi missionari e la gente ci portiamo appresso tanti limiti; eppure è sempre un miracolo di fede che commuove. La domenica di risurrezione i neofiti vengono in chiesa con le loro camicie bianche (realizzate dalle donne del progetto cucito, in perfetto stile mongolo). Dopo messa ci fermiamo a bere il suutei tsai (tè salato con latte) e per l’occasione facciamo anche pranzo a base di khushuur (frittelle di carne) cucinate da una signora della comunità. La vita da queste parti è dura, non concede tanta poesia; nei due giorni di tempesta di terra, i pastori hanno continuato a vegliare le greggi nel delicato momento dei parti primaverili. Non si fanno tanti complimenti, ci sarà da “resistere” di nuovo a tante prove; ma adesso queste persone hanno nel cuore una speranza nuova e sanno che il “Dio del Cielo” è sceso per loro e li ha presi con sé per accompagnarli ogni giorno, fino dentro all’eternità.
Giorgio Marengo
missionario della Consolata ad Arvaiheer, Mongolia
Pubblicato la prima volta il 03/04/2018 su Asia News
Irriducibili sognatori
Editoriale. | Di Gigi Anataloni |
Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.
Gigi Anataloni
_________________________ P.S. MC non ha cambiato titolo.Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.
Testi di Giordano Rigamonti, Mariacaterina Barcella, Paolo Franceschi, José Luis Ponce de León, Laura Poretti, Maria Raffaella Rossin, Emanuele Scafato, Laura Scomazzon, Lino Tagliani. A cura di Luca Lorusso |
L’abuso di alcol tra i giovani e gli adolescenti accomuna i popoli di tutto il mondo. Alcuni missionari della Consolata, osservando il fenomeno nei luoghi in cui operano, hanno dato vita a una campagna che coinvolge l’Italia e alcuni paesi africani, tra cui, in particolare, lo Swaziland.
Internet e gli spazi d’incontro virtuali che stanno rivoluzionando il pianeta rendono tutto apparentemente possibile e imitabile, riducendo la capacità critica, in un vortice di notizie e contatti cui non sempre siamo preparati.
I giovani sono tra i più influenzati, spinti a superare ogni limite, ad andare «oltre» senza avvertire il pericolo, pur di emulare modelli di forza e successo. Parte integrante di questi mondi fragili è il ricorso all’alcol e alle droghe. Milioni di persone annegano così le loro speranze nelle dipendenze.
Europa e Africa sono due continenti accomunati da questa stessa schiavitù: l’uso disordinato di alcol che colpisce qualsiasi fascia di età, e che spesso è l’inizio di un degrado profondo, l’ingresso in un labirinto dal quale è poi difficile uscire.
Chi beve per noia, chi per non sentire la fame. Chi beve per sballarsi, chi per sopravvivere. La spinta verso l’alcol può essere diversa alle diverse latitudini. Intanto, una volta iniziato, dopo un po’ non se ne può più fare a meno.
La Campagna AlcolOltre è nata allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, sia in Italia che in alcuni paesi africani nei quali operano i missionari della Consolata su questo problema.
Il caso dello Swaziland
Perché tra tanti paesi africani abbiamo scelto proprio lo Swaziland? Perché esso è uno di quelli con maggiore incidenza del problema dell’alcolismo. Nelle classifiche mondiali del 2012 era il terzo paese al mondo per consumo procapite di birra. Tra i paesi africani è uno di quelli nei quali è più alta l’incidenza dell’alcol come causa di morte.
Il «Rapporto globale su alcol e salute 2014», l’ultimo redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), conferma un alto consumo di alcolici prodotti artigianalmente, quindi con gradazione alta e senza controlli e, di conseguenza, con effetti peggiori sulla salute. Il rapporto dell’Oms denuncia anche la totale mancanza di politiche di prevenzione, a parte interventi volti alla semplice repressione e all’aumento delle tasse.
Altro motivo importante per la scelta dello Swaziland è la presenza nel paese dei missionari della Consolata, in particolare del vescovo monsignor José Luis Ponce de León a capo della diocesi di Manzini. La sua presenza e il suo ruolo offrono alla Campagna un supporto locale per lo svolgimento delle attività e dei progetti.
Senza scoraggiarsi
Le storie di vari amici e conoscenti che mi descrivono i traumi subiti dai giovani, ma anche dalle loro famiglie, a causa dell’alcol mi spingono a spendermi in questa campagna e a lottare per far conoscere questo nemico subdolo della nostra società globalizzata.
Dobbiamo agire insieme senza fermarci davanti ai fallimenti ma godendo di ogni adolescente che impara a liberarsi dalla schiavitù.
Giordano Rigamonti
Una catena che si può spezzare chiedendo aiuto
Quando il tenente colombiano è ubriaco
Quando uno beve non sa più quello che fa. È ciò che capita a molti in tutto il mondo. Spesso con brutte conseguenze. Padre Lino, antropologo, missionario della Consolata in Colombia per lunghi anni, ha incontrato più volte l’alcol come causa di eventi tragici. Anche nel contesto della guerra dove un militare ubriaco con i gradi e il fucile può decidere della vita o della morte.
La parola alcol viene dall’arabo al-kohl che indica la polvere finissima di antimonio che, fin dall’antichità, le donne del Medio Oriente utilizzavano per colorare di nero ciglia, sopracciglia e l’orlo delle palpebre. Indica qualcosa di finissimo, che non si vede quasi, che è volatile. Ma l’alcol è stato «scoperto» intorno al 1200 d.C., quando gli arabi hanno portato in Europa l’alambicco, indispensabile per produrlo.
Oggi, in America Latina, troviamo l’aguardiente, che vuol dire «Acqua che brucia». Noi parliamo di «superalcolici».
In tutte le culture si è sempre bevuto. Potremmo individuare una bevanda tipica per ogni zona del mondo: in Europa c’è il whisky, la vodka, in America Latina la tequila. Tutti i paesi hanno da bere.
Il tenente è ubriaco
In America Latina, soprattutto in Colombia, ci sono due problemi: il problema della violenza e quello della droga. Il primo è legato alla lunga guerra civile che sta faticosamente risolvendosi e che ha insanguinato il paese per decenni.
A questo proposito posso raccontare un fatto: un giorno devo recarmi in una scuola in un luogo che si chiama El Pato. In auto si arriva fino a un certo punto. Quando finisce la strada iniziano i sentieri, lungo i quali ti puoi muovere a cavallo o a piedi. Dove finisce la strada c’è l’ultimo posto di blocco dell’esercito. Ho già passato cinque blocchi. Arrivato lì, mi perquisiscono. Se non hai armi e fai vedere i documenti, puoi procedere. Verificano i miei documenti, vedono che non sono ricercato e mi dicono che posso andare. Ma improvvisamente avanza il tenente. È ubriaco, con una bottiglia di birra in una mano e con un mitra nell’altra, ci viene incontro barcollando.
«Cosa succede?», chiede. Il vecchietto che è con me gli fa vedere cinque pacchi di sale e dieci scatole di fiammiferi, un po’ di candele e qualche aspirina. «Tu collabori con la guerriglia!», lo accusa l’ufficiale, «Sono sicuro che di tutte queste cose, una parte la dai alla guerriglia!».
Io conosco quel vecchietto: vive con la moglie, qualche mese fa, durante uno scontro tra esercito e guerriglia, gli hanno ammazzato l’unico figlio. Non si sa se ucciso dagli uni o dagli altri.
Allora intervengo: «No, è un semplice vecchietto. Lui tutti i mesi prende un po’ di caffè e un po’ di fagioli, va giù al mercato e li scambia con queste cose. Fa la scorta perché per un mese non va più al mercato».
A questo punto il tenente distoglie lo sguardo da Josè Luis e guarda me. Mi chiede i documenti. Io ho anche il permesso del generale che mi autorizza ad andare nella zona occupata dalla guerriglia dove l’esercito non va. Senza quel documento ti considerano collaboratore della guerriglia. Io invece ce l’ho e faccio vedere la firma del generale, che è il suo superiore. Ma il tenente è ubriaco, non capisce più nulla e impreca. Mi dice: «Tu ti fermi qua» e, con il fucile M14 in mano, chiama due soldati che mette davanti e dietro di me. «Di qui non ti muovi. Se ti muovi applichiamo la legge della fuga» (se fai due passi, ti sparano).
I capelli mi si drizzano, ma rispondo: «Non mi muovo. Sto fermo come una statua».
Sono le 17.30. Alle 18 calerà la notte. Io ho da fare ancora tre ore a piedi. Sicuramente il tenente è convinto che, scendendo nella foresta al buio, la guerriglia mi ammazzerà. Alle 18 mi dice: «Puoi andare».
La guerriglia non mi fa nulla ed io arrivo a destinazione alle 23.
Un ubriaco non sa più niente
Perché racconto questo? Perché quando uno è ubriaco non sa più cosa sta facendo. Non si rende conto. Purtroppo ho visto parecchi morti, anche giovani, per ubriachezza.
In Colombia mi dicevano: «Quando due ubriachi litigano, non ti mettere in mezzo». Solo una volta, per sbaglio, mi sono intromesso e, infatti, il machete di uno dei due mi ha sfiorato il torace strappandomi mezza camicia. Non l’ho mai più fatto. Proprio perché un ubriaco non ti riconosce: non sa se sei un amico, un fratello, una sorella, la mamma o il papà. Non sa più niente.
La «catenella» dell’alcolismo
Tutti bevono e dicono che lo fanno perché hanno sete o perché piace, per stare con gli amici o per dimenticare. Ma nessuno dice che beve perché lo fanno bere.
Se prendiamo una catenella, osserviamo che ha tanti anelli. L’ultimo anello siamo noi che beviamo. Salendo su per la catenella troviamo il luogo in cui beviamo. Dove beviamo? In un parco, in un bar, in una discoteca. Salendo ancora lungo la catenella troviamo chi ci dà da bere. Il barista. Ma chi fornisce questi posti di bevande alcoliche? In parole povere, arriviamo all’ultimo anello e vi troviamo i soldi.
Questa è la catena che lega i giovani. Se si entra in questo giro e a un certo punto non si decide di chiedere aiuto per spezzarla, la catena uccide. Quando invece si ha la forza di dire «dammi una mano per uscire», allora si riesce a farlo veramente. Io sbaglio, tu sbagli, tutti sbagliamo, ma quando ammettiamo «ho sbagliato, ho bisogno di te», allora ne usciamo.
Da soli non andiamo da nessuna parte.
Come una mucca nel fiume
Mi è capitato una volta di cadere in un fiume agitato che mi ha portato via persino i vestiti di dosso, lasciandomi in mutande. Per fortuna sono riuscito ad attaccarmi a una radice, ma per molto tempo sono rimasto lì perché non passava nessuno. Dopo un paio d’ore finalmente è arrivato un mio amico, grande cowboy che tirava benissimo il lazzo ai cavalli e alle mucche. È arrivato tutto felice e contento con il lazzo e il suo sigaro puzzolente e mi ha detto: «Ohe padre, ci crede alla salvezza?» e, trattandomi come una mucca, mi ha lanciato il lazzo. Mi ha agganciato e mi ha salvato. Mi ha dato una mano e mi ha tirato fuori dai guai.
Lino Tagliani
Trascrizione dell’intervento tenuto al convegno «Alcol e Giovani» di Torino, 3/11/2017.
Maneggiare il dolore contro il vuoto
La cultura e l’economia dell’alcol sono due degli elementi decisivi nella scarsa consapevolezza dei rischi legati al bere. Nella sola Italia sono quasi sei milioni le persone che dichiarano di bere oltre i limiti consigliati. Quella giovanile è la fascia più a rischio per i danni correlati all’alcol. Tra gli antidoti: genitori capaci di una comunicazione sana con i propri figli.
In questi ultimi anni si parla spesso di giovani e alcol soprattutto per segnalare le abitudini alcoliche di molti ragazzi italiani che bevono da giovanissimi utilizzando, alcuni di loro, anche modalità rischiose come il binge drinking («abbuffata alcolica»).
Secondo l’Istat il consumo fuori pasto è diffuso soprattutto tra i giovani (18-24 anni) e i giovani adulti (25-44 anni). Altro dato preoccupante è quello che indica negli ultimi dieci anni una crescita del consumo fuori pasto tra le femmine: dal 14,9% del 2005 al 16,5% del 2014.
Nel nostro paese troppe persone (quasi 6 milioni) superano i limiti del consumo abituale che, secondo il ministero della Salute, prevede due unità alcoliche al giorno per gli uomini (un’unità alcolica corrisponde a 12 g di alcol puro: un bicchiere da 125 ml di vino, una bottiglia di birra da 330 ml, o 40 ml di superalcolico), un’unità per le donne e per le persone sopra i 65 anni, nulla per chi ha meno di 18 anni e per le donne in gravidanza.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dice chiaramente che non è possibile individuare quantità di alcol «raccomandabili» o sicure per la salute: l’unica strada sicura è non bere affatto perché le bevande alcoliche sono tossiche, potenzialmente cancerogene, in grado d’indurre dipendenza e di causare danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto del cervello.
Le resistenze culturali (ed economiche)
Chi si è confrontato con le problematiche connesse all’uso delle bevande alcoliche, e soprattutto del vino, si sarà senz’altro reso conto che ci sono forti resistenze nelle persone. L’Italia, infatti, ha una cultura vitivinicola molto importante con radici antichissime che si intrecciano anche con la storia religiosa. Per noi la vite è una pianta sacra. Inoltre è importante ricordare il peso economico della produzione del vino: le aziende vitivinicole in Italia sono 383.645, pari al 23,5% di tutte le aziende agricole, per un totale di 632mila ettari coltivati che danno lavoro a oltre 200mila addetti. Tra il 70 e l’80% della produzione è destinato all’export. Secondo Federalimentare il peso del vino sul fatturato complessivo dell’industria alimentare sfiora il 7,7%. Negli anni Novanta è esploso il turismo del vino: accanto agli eventi enogastronomici in ogni regione, per tutto l’anno si susseguono appuntamenti legati alla degustazione enologica. In Umbria, Toscana, Piemonte sono nati musei dedicati al vino.
Questi dati economici e culturali ci aiutano a comprendere come mai il messaggio trasmesso ai ragazzi sull’utilizzo delle bevande alcoliche, a differenza delle droghe illegali, è completamente inadeguato rispetto ai rischi.
Per i giovani è più pericoloso
Bisogna dare ai giovani e agli adulti gli strumenti per riconoscere un comportamento a rischio, il proprio, o quello di un amico o un famigliare.
Gli studiosi ci dicono che il rischio della dipendenza da droga o alcol non è uguale per tutti: alcune persone sono più vulnerabili rispetto ad altre. Bere alcolici in età giovanile, ad esempio, è più pericoloso: l’alcol può causare al cervello dei ragazzi alterazioni a delicati sistemi neuropsicologici bloccandone il normale sviluppo e mostrandone i danni solo nel tempo. Il cervello dei giovani, che raggiunge la sua completa maturazione solo intorno ai 20-21 anni, è più sensibile alla ricerca di gratificazioni veloci ed è più esposto ai rischi del piacere immediato che le droghe e l’alcol possono offrire.
Ma quali sono i fattori che, combinati insieme, possono determinare una situazione di alto rischio per un individuo? I neuroscienziati si stanno concentrando, ormai da anni, sugli effetti che le bevande alcoliche determinano su una specifica area cerebrale, il Nucleo Accumbens, che ci gratifica quando assumiamo determinate sostanze (cibi, come per esempio il cioccolato, alcol, droghe). Se il Nucleo Accumbens funziona bene, chi mangia cioccolato o assume alcol, lo fa in modo controllato. Se invece funziona male, il mancato controllo nell’assunzione di sostanze unito a un eventuale disagio psicologico, può innescare un meccanismo di dipendenza: l’individuo ha bisogno degli effetti positivi della sostanza per placare il suo malessere interiore.
L’influenza delle famiglie
Per poter prevenire disagi che si possono tradurre in abitudini alcoliche patologiche è, quindi, importante conoscere, nelle famiglie, situazioni di dipendenza nelle generazioni precedenti. Se un adolescente sperimenta le sostanze alcoliche, ma è interiormente forte e difeso da una rete familiare attiva e protettiva, sa fermarsi in tempo. Se è interiormente fragile, sensibile, vulnerabile, ma ha una rete familiare attiva e protettiva, può attraversare momenti difficili ma saper chiedere aiuto. I ragazzi fragili, sensibili, vulnerabili che bevono e non hanno una rete familiare attiva e protettiva, si sentono soli e possono trovare nell’alcol il sostegno e la complicità che gli affetti non offrono loro. Se poi c’è una familiarità alcolica la situazione si complica.
Si parla ancora molto poco dei danni che l’abuso di alcol e la dipendenza provocano nelle relazioni familiari e di quanto queste siano determinanti nel contribuire al disagio provato dall’individuo che, da adolescente o da adulto, diventerà un bevitore eccessivo o un dipendente.
Nella storia familiare dei bevitori emerge spesso che fin dall’infanzia si sono sentiti inadeguati, non voluti, caricati di aspettative troppo alte rispetto alle loro capacità, incapaci di realizzare le attese dei genitori, colpevoli per le vicissitudini familiari. Il dolore eccessivo è un elemento fondamentale nel vissuto del futuro bevitore e dell’alcoldipendente, e fin dall’infanzia occupa un posto importante nella sua interiorità. Il dolore riempie, di anno in anno, i vuoti lasciati nell’individuo dall’affettività mancata e lo «sazia». Il dolore che causa problemi è quello che non si sa gestire. È il dolore che ci travolge e dal quale scappiamo.
Comunicare bene per maneggiare il dolore
Una buona relazione familiare, invece, aiuta i ragazzi a fortificarsi interiormente. Se un bambino è fragile, molto sensibile, poco capace di autodifendersi, quando si sente inadeguato si convince di esserlo davvero. Uno strumento fondamentale per aiutare i ragazzi a «maneggiare il dolore» è la comunicazione, una comunicazione sana.
La comunicazione, quella verbale e non verbale, è la modalità con cui ci relazioniamo al contesto in cui viviamo. Conta molto accorgersi del modo in cui comunichiamo: stiamo comunicando in modo sano o disfunzionale? Spesso, in famiglia si comunica in modo più efficace con i gesti e le occhiate – cioè tramite il linguaggio non verbale – piuttosto che con le parole. La comunicazione non verbale è più difficile da controllare e valutare, ma si può aumentare l’attenzione su di essa, in modo da arrivare a coordinare in modo armonico il linguaggio verbale e quello non verbale costruendo così una comunicazione sana.
Che cosa bisogna fare per avere una comunicazione verbale in sintonia con quella non verbale? Addestrarsi a essere chiari, coerenti, capaci di autocritica, capaci di autorettifica.
Il genitore attento fa «manutenzione» al suo ruolo almeno una volta alla settimana riflettendo, anche con il partner, su ciò che ha funzionato e ciò che non ha funzionato; facendo una riunione alla settimana con i figli nella quale tutti discutono sui problemi da affrontare o sugli argomenti importanti per i singoli, e prendendo decisioni insieme. Il genitore attento esprime l’affetto e lo lascia esprimere; costruisce regole chiare e non ha paura di sostenerle; gratifica i figli e valorizza le loro capacità; evidenzia chiaramente i comportamenti adeguati e quelli inadeguati; impara, insieme ai figli, ad affrontare le loro difficoltà; non teme di chiedere scusa.
La sintonia tra il verbale e il non verbale è il risultato di un lavoro interiore che il genitore fa con se stesso per rispettare i figli nella loro individualità e aiutarli a diventare quello che sono, non quello che il genitore vuole che siano.
Tutto questo serve a costruire strumenti che possono essere utili ai ragazzi per affrontare le sfide che si trovano di fronte nella complessa società globale in cui vivono, evitando loro di cercare aiuto in stampelle artificiali come alcol, droghe e altre dipendenze.
Maria Raffaella Rossin
Bibliografia:
– Larn, Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti, 2014.
– Tesi di laurea Università Luiss, Il mercato del vino italiano: scenario competitivo e strategie di internazionalizzazione in un settore in continua evoluzione, 2014.
– G. P. Brunetto, Alcol e giovani: cosa fare. Elementi di neuroscienze e dipendenze, Dipartimento politiche antidroga, Presidenza del consiglio dei ministri, 2010, pag. 269.
– G. Serpelloni et al., Cervello, mente e droghe. Struttura, funzionamento e alterazioni droga-correlate, Dipartimento politiche antidroga, Presidenza del consiglio dei ministri, 2014.
Di Alcol MC ha parlato anche in:
– S. Garini, Alcol, non abusare, MC aprile 2016.
– R. Novara Topino, tre puntate della rubrica Madre Terra in MC ottobre e novembre 2011 e gennaio 2012.
I dati dell’alcol in Italia
In base ai dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms, Who in inglese) nel Global Status Report del 2014 (il più recente), l’Europa ha la più alta percentuale di consumo di alcol nel mondo, con una quantità procapite doppia rispetto alla media mondiale. Secondo il Report 2015 di Who Europa, il consumo di alcol nel nostro continente rimane il maggiore problema di salute pubblica insieme al tabacco e all’obesità. La riduzione dell’abuso di alcol e dei danni a esso correlati, in modo particolare del fenomeno del binge drinking, è un obiettivo del governo italiano, in linea con le politiche dell’Unione europea e dell’Organizzazione mondiale della salute.
Alcol: prima causa di morte tra i giovani
In Italia il consumo di bevande alcoliche sta mostrando un profilo nuovo e preoccupante, si registra un suo progressivo aumento in fasce orarie lontane dai pasti. Secondo i dati Istat, nel corso del 2015 ha consumato almeno una bevanda alcolica il 64,5% degli italiani dagli 11 anni in su (35 milioni di persone), con prevalenza notevolmente maggiore tra i maschi (77,9%) rispetto alle femmine (52,0%). Si registra un incremento dei consumi rispetto all’anno precedente. La percentuale dei bevitori a rischio, elaborata attraverso l’indicatore di sintesi e i dati dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità, è stata nel 2015 del 23% per gli uomini e del 9% per le donne di età superiore agli 11 anni, per un totale di quasi 8 milioni e mezzo di individui, di cui 800mila tra i minori e altri 800mila tra i giovani dai 18 ai 25 anni.
Secondo la relazione del ministero della Salute al parlamento per l’anno 2016, sugli interventi realizzati in base alla legge 125/2001 (legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati, ndr.), «resta allarmante il fenomeno del binge drinking», che comporta l’assunzione di numerose unità alcoliche al di fuori dei pasti e in un breve arco di tempo. Nel 2015 è stato pari al 10,8% tra gli uomini e del 3,1% tra le donne di età superiore a 11 anni: 3 milioni e 700mila binge drinkers (persone che bevono per ubriacarsi). Le percentuali di binge drinkers aumentano nell’adolescenza e raggiungono i valori massimi tra i 18-24enni. Dei 900mila binge drinkers tra gli 11 e i 25 anni, circa 200mila sono 11-17enni e 325mila 18-20enni. Il 17% circa di tutte le intossicazioni alcoliche giunte in pronto soccorso si registrano tra giovani di età inferiore ai 14 anni.
Gli alcolici preferiti sono soprattutto aperitivi, superalcolici e amari e il loro consumo aumenta lontano dai pasti, quando è più dannoso per la salute.
In Italia l’alcol è la prima causa di morte tra i giovani (Istituto superiore di sanità), come in Europa e nel mondo, prevalentemente in correlazione con l’incidentalità stradale. Secondo l’Oms, il costo dell’alcol in Italia, in termini di sicurezza sociale, incidenti stradali e sul lavoro, e violenze è stimabile in 25 miliardi di euro l’anno.
Emanuele Scafato
La testimonianza di un giovane ex alcolista
«Mi sembrava impossibile, invece ci sono riuscito»
Sono Manuel di Milano. Ho 31 anni. Già dai 17 ho iniziato ad avere dei problemi: ero arrivato a bere fino a 4-5 bottiglie di Jägermeister al giorno.
L’abuso di alcol è un discorso di richiamo mentale. Tante volte si fa fatica a resistere perché manca la volontà oppure si è fragili o si sta attraversando un periodo difficile. Oppure può anche accadere che si vivano delle situazioni molto positive, gioie molto forti che conducono anch’esse a ricadere nel problema dell’alcolismo.
Ad un certo punto mi sono molto spaventato perché pensavo di non poter più tornare indietro. Mi sentivo veramente giù. Una volta mi ricordo di essere finito in psichiatria per abuso di alcol e psicofarmaci insieme, e sono rimasto legato al letto dell’ospedale per parecchi giorni. Lì mi sono accorto che rischiavo di finire sotto terra o comunque di avere dei problemi grandissimi nella vita.
Mi hanno proposto di entrare in comunità ed io ho detto sì. Stavamo bene, eravamo puliti e sentivi proprio la sensazione di essere amici non per qualcosa o qualcuno. Ero abbastanza motivato all’inizio e col tempo la motivazione è cresciuta sempre di più. Sono stato accompagnato ed ho avuto la fortuna di avere vicino delle persone che sono riuscite a trovare un giusto compromesso tra il dosaggio dei farmaci e la psicoterapia.
Sono riuscito a farmi accompagnare finché ho scalato tutti i farmaci. Neanche io ci credevo! Mi sembrava una cosa impossibile anche solo da immaginare: non prendere più alcun farmaco. Invece sono riuscito. Sono riuscito ad avere dei progetti, costruire delle cose. È stato bello e il tempo è volato.
Anche i genitori e l’intera famiglia, con il tempo, vedendo che stai bene, ti si riavvicinano e ci si scusa. Anche la fiducia piano piano la riconquisti. Questo riconquistare è una cosa veramente difficile: anche adesso non è ancora del tutto avvenuto.
Io non mi sento illuminato e completamente guarito. Il problema è comunque sempre lì. Devo sempre stare attento. Capitano dei momenti in cui ti senti a rischio: se uno per tanti anni ha usato delle sostanze, è normale che ogni tanto il corpo, in particolare il cervello, richieda la sostanza. Ciò è legato comunque agli stati d’animo. La sensazione di dire «vorrei…» è molto presente nell’inconscio. Non è una cosa che puoi toccare e sentire, però con la volontà, con la testa che ci pensa veramente 150 milioni di volte prima di ricaderci, ci si riesce.
Avere delle persone che ti sono vicine, con le quali condividi la tua vita, è fondamentale.
Può capitare a chiunque di avere dei problemi, non esiste la persona che sta sempre veramente bene, non esiste un mondo dove tutto va bene. L’importante è saper vedere che comunque ci sono delle persone che ti aiutano, che vedono che sei in difficoltà e non fanno finta di niente.
Adesso sono una persona che tutti i giorni cerca la sua strada, cerca di stare sempre attenta, ha dei momenti di alti e bassi e comunque, un po’ più di tutte le altre persone, ci sta attenta.
Manuel
Sul canale Youtube di Impegnarsi serve, si può visionare il video «Testimonianza di Manuel» da cui è tratto il testo.
Alcol è sinonimo di festa, di gioia, ma anche di stordimento: si beve per divertirsi e si beve per dimenticare la difficoltà di sopravvivere.
Così anche l’Africa paga il suo contributo al dio Bacco: là dove la povertà non permette di comprare bevande alcoliche «controllate», se ne producono in modo artigianale con notevoli rischi per la salute. Il mercato illegale dell’alcol, nel quale sono frequenti la contraffazione e la sofisticazione, fiorisce tanto più quanto minore è la disponibilità economica dei consumatori.
I sistemi sanitari africani sono generalmente molto carenti e spesso a pagamento. La popolazione, naturalmente, ne subisce le conseguenze: grande incidenza di malattie dell’infanzia, alti rischi per la donna gravida e per quella che allatta, anziani e disabili costretti a vivere in condizioni molto dure.
In questo quadro, l’alcol dà il suo contributo aumentando la diffusione di malattie del fegato (e non solo), la denutrizione e soprattutto il degrado della persona umana, che nei casi di alcolismo cronico si concretizza in situazioni di marginalità e abbandono, talora anche da parte dei famigliari.
Il pericolo dell’alcol artigianale
La nostra esperienza in Congo Rd, a Kinshasa, nel 2015, ci ha messi di fronte a una società nella quale molte persone vivono ogni giorno una battaglia per giungere a sera. Molti, e tra essi tanti giovani, trovano nell’alcol la medicina che per qualche ora permette loro di estraniarsi dalla miseria, dall’abbandono e dalla desolazione in cui versano.
Per le stradine del quartiere nel quale eravamo ospiti dei missionari della Consolata, vedevamo tavolini su cui venivano proposte in vendita bottiglie di alcol artigianale. Abbiamo voluto comprarne alcuni campioni per farli analizzare in Italia e capire così cosa beve la popolazione che non ha i soldi per acquistare la birra o altre bevande alcoliche nei negozi. Una volta tornati dal Congo, li abbiamo portati a un laboratorio di analisi e ne è venuto fuori un quadro preoccupante: su sei campioni analizzati, ben quattro avevano un tasso alcolico superiore al 34% (come un nostro superalcolico), in più in essi erano presenti quantità considerevoli di sostanze tossiche (forse provenienti dalla falda acquifera) come rame e zinco.
Non solo sanzioni, ma cura e prevenzione
La cosa che più ci ha colpito, non solo in Congo, ma anche in altre realtà africane che abbiamo visitato, è la negazione del problema da parte delle istituzioni e anche dei colleghi medici che tendono a sminuire l’importanza del rischio dell’alcol per la salute. È vero altresì che spesso in Africa le priorità sono altre e più drammatiche (malnutrizione, Aids, malaria).
Anche nei paesi in cui il problema è preso in maggiore considerazione, come nello Swaziland, l’abuso di alcol viene affrontato più come un vizio da sanzionare (ad esempio con multe) che come una dipendenza da curare e per la quale fare prevenzione. Il risultato è che il problema rimane.
Che fare?
Che fare allora? La risposta, ci pare, sta nella prevenzione. Ad esempio nelle scuole, come in quelle dei missionari; negli ambulatori medici, dove già si fa prevenzione per Aids, Tbc, malaria; negli ambienti di vita, per esempio nei mercati.
Questo implica ovviamente formare gli operatori: a Manzini, in Swaziland, la Caritas che va nei villaggi ad assistere le famiglie più bisognose, si è dichiarata disponibile a svolgere educazione sanitaria per la prevenzione dell’abuso alcolico.
Ma prevenzione è anche aiutare i giovani a credere nel loro futuro. Là dove il bere è una risposta alla mancanza di speranza in una vita degna di essere vissuta, occorre adoperarsi per costruire occasioni di lavoro e di aggregazione sociale, occorre la fantasia e la creatività di chi sa operare il bene e anche il sostegno finanziario di chi non è in prima linea, ma vorrebbe poter fare qualcosa.
Mariacaterina Barcella e Paolo Franceschi
Swaziland: Le parole del vescovo di Manzini
Mi dicono: «Se apro una bottiglia, devo finirla»
Il piccolo paese incastonato nel Sudafrica è il terzo al mondo per consumo procapite di birra. Conta una popolazione di 1,2 milioni di abitanti e il 27% di adulti sieropositivi. In questo contesto la chiesa cattolica sta cercando di attivare programmi educativi che aiutino la popolazione a prendere coscienza dei rischi legati al consumo di alcol.
Sono nato in Argentina e, come missionario della Consolata, sono stato destinato al Sudafrica nel 1994, qualche mese prima che Mandela diventasse presidente. Dopo 11 anni sono stato chiamato a Roma per svolgere un altro servizio finché papa Benedetto mi ha nominato vescovo per il Sudafrica. Sono quindi ritornato nel paese nel gennaio del 2009 e vi sono stato altri 5 anni, fino a quando papa Francesco mi ha nominato vescovo di Manzini, in Swaziland, una nazione circondata dal Sudafrica e confinante per un breve tratto anche con il Mozambico.
Piccolo regno, grandi problemi
Lo Swaziland è un piccolo regno di circa 200 per 150 km. I suoi abitanti sono 1.200.000. Al centro si trova Manzini, la cittadina più importante a livello commerciale e in posizione ottimale per gli spostamenti. La capitale è però Mbabane, dove ha sede il governo. Il parlamento e il Re stanno invece a Lobamba.
La nostra bandiera riporta al centro uno scudo con lance che identificano la nazione. I colori sono nero su bianco e bianco su nero per esprimere la relazione pacifica tra i popoli. A differenza del Sudafrica, infatti, lo Swaziland non ha vissuto il problema della segregazione razziale.
C’è un parlamento, e un capo di stato che è il Re. Come per il Sudafrica, la poligamia qui è legale e parte della nostra cultura.
Una cosa molto bella del paese è l’artigianato: la lavorazione dei tessuti, dai colori molto vivaci, la fabbricazione di candele e la lavorazione del vetro.
Sfortunatamente siamo conosciuti anche per l’Aids. Siamo la nazione con la percentuale più alta al mondo di sieropositivi: quasi una persona su tre – il 27,2% – tra i 15 e i 49 anni. Oggi, grazie ai farmaci non è più una condanna a morte. A causa dell’Aids l’aspettativa di vita alla nascita nei decenni passati era crollata, oggi è di 57 anni per gli uomini e 61 anni per le donne.
Alcol, problema individuale e sociale
In questo contesto, uno dei motivi di preoccupazione per la salute dei cittadini e per le condizioni generali del paese è anche l’abuso di alcol. Non si tratta solo di una sensazione: le statistiche governative ci dicono che il 50% degli incidenti stradali sono provocati dalla guida in stato di ebbrezza.
Da noi accade una cosa che non ho mai visto da nessun’altra parte: una volta alla settimana il giornale ci dà le statistiche di coloro che sono stati sorpresi nel fine settimana a guidare in stato di ubriachezza. Il fine settimana successivo al 20-22 del mese, quando si prende lo stipendio, il numero di coloro che vengono colti alla guida ubriachi sale. Avendo i soldi, è più facile bere. Si arriva anche a 170/180 persone. Negli altri fine settimana i numeri sono attorno a 100/120 persone. Di una ventina di loro il giornale riporta nome, cognome e la multa che dovrà pagare. Se non hanno i soldi, vanno in carcere per un certo periodo. Tutto è proporzionale al livello di alcol trovato nel sangue.
Di queste persone arrestate i giornali raccontano anche le storie: un ragazzo che aveva il livello di alcol tre volte maggiore a quello consentito ha testimoniato: «Sono andato con i miei amici e mi hanno fatto provare il whisky. Io avevo preso sempre delle cose più leggere. Non ero abituato». Il magistrato gli ha risposto: «Ringrazia pure i tuoi antenati, perché io dovrei portarti via la patente». Allora gli è stato fatto scegliere tra due anni di prigione oppure pagare 130 euro.
Un altro caso che mi ha colpito è stato quello di un ragazzo che, mentre guidava, quando ha visto la polizia, invece di fermarsi, ha accelerato. Una volta preso e portato in tribunale, lui ha spiegato: «A me piace giocare alla playstation. E allora ero convinto di giocare. Quando ho visto la polizia dietro di me sono andato ancora più veloce, più forte, pensando di vincere».
«Bevo per divertirmi», «bevo perché sono arrabbiato», «bevo per questo o per quello». La cosa che mi colpisce è che tutti salgono su una macchina e guidano senza accorgersi di mettere a rischio la propria vita e quella degli altri.
Educare contro le bugie dell’alcol
Di fronte a questa situazione, noi vogliamo poter fare qualcosa per educare sia i nostri giovani sia gli adulti. L’alcol infatti è presente anche tra questi ultimi. Lo constatiamo quando il titolare di una ditta ci dice: «Io il lunedì devo avere un po’ di pazienza perché so che, se hanno bevuto nel fine settimana, arriveranno al lavoro più tardi, o addirittura non ce la faranno a lavorare». Lo riscontriamo anche nelle situazioni di alcune delle famiglie che conosciamo, quando i giovani ci raccontano che la mamma o il papà bevono e che, se sono fortunati, quando tornano a casa non parlano con nessuno, se non lo sono, quando tornano a casa sono violenti.
L’alcol è un bugiardo: ti fa credere che hai tu il controllo, che puoi decidere tu quando smettere di bere, e invece non è così. Mi ricordo di un giovane con il quale ho parlato un po’ di tempo fa. Gli dicevo: «Sei mal messo, devi fare qualcosa. Tutti i tuoi amici e familiari parlano di te. Devi smetterla di bere, devi chiedere aiuto». Lui mi ha risposto: «No, no, vedrai che non mi capiterà mai più». Era un mercoledì, poi ha bevuto da giovedì fino a domenica, quando abbiamo dovuto metterlo in un centro per poterlo veramente aiutare.
Lui non mi diceva delle bugie, era veramente convinto di farcela. Invece è caduto di nuovo per quattro giorni di seguito.
«Se apro una bottiglia, devo finirla»
Parlavo con un giovane swazi riguardo questa situazione dell’alcol. Lui mi diceva: «Sai qual è il nostro problema? Quando abbiamo una bottiglia, dobbiamo finirla. Che sia birra o vino o qualcosa di più forte, non siamo capaci di prenderne un bicchiere e poi dire basta. Se apro la bottiglia, devo finirla».
Io non sono un esperto, parlo soltanto di quello che vedo e vivo, che trovo nella mia diocesi, nella mia nazione. Vedo ad esempio che l’alcol dà un senso di appartenenza a un gruppo. Ti dicono: «Io bevo per poter stare con i miei amici». Ma questa è un’altra grande bugia dell’alcol. Perché inizialmente ti senti accolto, poi però, quando le cose vanno male, l’accoglienza finisce. Rimani più solo di prima. Quando mi dici che bevi per stare con gli amici, che amici sono quelli che ti lasciano salire in macchina anche se sei ubriaco?
Ricordo soltanto un’occasione in cui un gruppo di amici, dopo aver bevuto insieme, vedendo che uno di loro aveva esagerato, hanno preso le chiavi della macchina dicendo: «Tu oggi dormi qui».
Alcol «dopo le lacrime»
L’alcol, in modo particolare da noi, trova sempre strade nuove per entrare nella tua vita. E non te ne accorgi neanche. In Sudafrica, dove ho lavorato diversi anni, è entrato in un modo molto «originale»: quando muore qualcuno noi facciamo, se possibile, il funerale di sabato. Si aspetta fino al sabato per permettere ad amici e parenti di arrivare. Tutto comincia venerdì sera con una veglia di preghiera nella casa di colui che è morto. Si legge, si prega e si canta tutta la notte fino al mattino. Al mattino si fanno discorsi: amici e parenti parlano della persona che è morta. Dopo un’altra preghiera si va al cimitero. Dopo il cimitero tutti tornano a casa della famiglia. Fin qui è tradizione. Da qualche anno, però, si è aggiunta una nuova «usanza» che si chiama after tears, cioè «dopo le lacrime»: abbiamo pregato, abbiamo pianto e adesso è il tempo di celebrare, e allora si va avanti bevendo.
Sognare un futuro diverso
La nostra sfida è: come educare al bere in modo responsabile? Non si tratta di non bere più, ma di avere una relazione diversa con l’alcol. Quando dico che in Swaziland un adulto su tre è sieropositivo all’Hiv, non sarà forse anche frutto dell’abuso di alcol? Dopo che uno ha bevuto, si sente più libero e non ci pensa tanto. E poi, la violenza familiare che troviamo quasi ogni giorno sui giornali in Swaziland, da dove viene?
La nostra intenzione allora è di lavorare sulla prevenzione. Se un po’ di anni fa la nostra sfida era come poter sognare un futuro diverso davanti all’Aids, oggi il nostro sogno è poter aiutare i nostri giovani a scegliere di vivere, a scegliere una vita diversa, ad appassionarsi alla vita.
José Luis Ponce de León
Trascrizione dell’intervento tenuto al convegno «Alcol e Giovani» di Torino, 3/11/2017.
La Campagna in Swaziland
«Educare per prevenire»
«Educare per prevenire» è il nome del progetto che è stato impostato in Swaziland per allontanare i giovani dal pericolo dell’abuso di alcol.
Perché lo Swaziland? Lo Swaziland è un piccolo paese nel quale è presente un’unica diocesi il cui vescovo è monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata. La disponibilità sua e dei suoi collaboratori, in modo particolare di padre Giorgio Massa, ha permesso di conoscere da vicino la realtà in cui vivono i suoi abitanti.
Durante la prima esperienza missionaria di un gruppo di volontari nell’agosto 2016 è stato possibile capire quanto il problema dell’abuso di alcol fin dall’età giovanile sia molto diffuso. Successivamente, a marzo 2017, sono andati in Swaziland alcuni volontari medici che hanno potuto verificare la scarsa consapevolezza nella cittadinanza dei problemi fisici causati dall’abuso di alcol.
Per questo motivo è nato il progetto «Educare per prevenire» che ha l’obiettivo di sensibilizzare i ragazzi delle scuole secondarie sulla problematica, approfondendo le motivazioni che portano a cadere nella trappola dell’abuso di alcol e gli effetti di questo sul corpo. Nel mese di agosto 2017 un altro gruppo di volontari ha visitato sei scuole dello Swaziland incontrando oltre mille studenti e riscontrando tra essi grande interesse.
Ma questo è stato solo l’inizio: dopo la fase di sperimentazione dell’estate scorsa, nell’agosto 2018 ci sarà una sessione di formazione di animatori locali che potranno dare continuità al progetto, diffondendo e approfondendo i temi della prevenzione in più scuole (almeno nelle 60 gestite dalla diocesi).
Impegnarsi Serve, forte della sua decennale esperienza con i giovani, unisce a una informazione corretta sull’alcol e sui rischi connessi al suo consumo, un’apertura sul mondo per stimolare un confronto al fine di una formazione umana globale nella logica dell’interculturalità.
Oltre ai convegni con medici, operatori, testimoni e missionari e a giornate di animazione, due sono le attività su cui ha scelto di investire.
(Foto Beppe Mola)
Tende Live AlcolOltre
Un coinvolgente percorso che affronta il tema dell’alcol tramite stimoli diversi offerti in tre tende nelle quali giovani e adulti trovano racconti di chi l’alcol l’ha vissuto sulla propria pelle in Italia e in Africa; grandi immagini, video, dinamiche di animazione e esperienze sensoriali; un labirinto creato per far sperimentare lo smarrimento di chi cade vittima dell’alcol; stimoli alla riflessione per fare scelte alternative.
Filo conduttore è una rete: rete liberante di relazioni umane o rete da pesca che imprigiona.
Un animatore interagisce con i partecipanti per presentare l’atteggiamento costruttivo del personaggio Nemo che offre una via alternativa.
Progetti educativi interculturali
La Campagna propone alle scuole un percorso didattico che avvicina ad alcuni paesi africani presentando i loro modi diversi di vivere, le loro culture con le loro ricchezze e povertà. Sottolineando che in tanta diversità però i desideri sono gli stessi e anche le difficoltà: la fragilità delle relazioni e il disagio interiore che oggi più di ieri vengono colmati dall’alcol, in Italia come in Africa. Partire da lontano aiuta a superare la diffidenza iniziale dei ragazzi e rende possibile il confronto con l’esperto che li aiuta a riflettere sull’influenza del mondo esterno e delle reti sociali sulle proprie scelte di vita. Il fine è quello di sostenere cambiamenti positivi.
Il progetto prevede tre incontri nelle singole classi:
Conoscenza del problema alcol in Africa.
Avvicinamento alla realtà italiana, con dinamiche di gruppo e visione di filmati.
Intervento dello psicologo sulle esperienze dei ragazzi.
I destinatari sono gli alunni delle classi terze delle scuole secondarie di primo grado e del biennio delle secondarie di secondo grado.
Laura Poretti
Questo dossier è stato firmato da:
• Giordano Rigamonti – missionario della Consolata, è fondatore dell’Associazione Impegnarsi Serve Onlus – Odv e coordinatore della Campagna «AlcolOltre». • Mariacaterina Barcella – è dirigente medico di 1° livello. Ha esperienza di volontariato internazionale in Africa e recentemente in Congo e Swaziland per la Campagna «AlcolOltre». • Paolo Franceschi – dirigente medico di ° livello del Noa (Nucleo operativo alcologia) di via Perini, Milano. Ha esperienza di volontariato internazionale in Africa. • José Luis Ponce de León – missionario della Consolata, vescovo della diocesi di Manzini in Swaziland. Argentino, già superiore regionale dei missionari della Consolata in Sudafrica e segretario generale dell’Istituto Missioni Consolata, è partner della Campagna «AlcolOltre». • Laura Poretti – da 10 anni nell’Associazione Impegnarsi Serve, ne è attualmente consigliere nazionale con rappresentanza legale e amministratrice della Campagna «AlcolOltre». • Maria Raffaella Rossin – è psicologa e psicoterapeuta responsabile del Noa di via Perini, Milano e del coordinamento tecnico scientifico del Noa Asst Fatebenefratelli-Sacco. È membro del direttivo nazionale della Società italiana di alcologia. • Emanuele Scafato – direttore del Centro dell’Oms per la ricerca sull’alcol; direttore dell’Osservatorio nazionale alcol, Centro nazionale dipendenze e doping dell’Iss; presidente della Società italiana di alcologia e vicepresidente della Federazione europea delle società scientifiche sulle dipendenze (Eufas). • Laura Scomazzon – referente dei progetti dell’Associazione Impegnarsi Serve in Swaziland. • Lino Tagliani – missionario della Consolata in Colombia ed Ecuador, antropologo.
Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.
Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.
È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.
Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.
Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.
Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.
All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.
Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.
Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.
Giorgio Marengo Arvaiheer, 16/02/2018
Grazie per il dossier sui migranti
Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.
In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).
Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti
Monia 27/02/2018
Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.
Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.
Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.
Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).
Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.
E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.
Galeano
Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.
Franco Eustorgio Malaspina Milano, 03/02/2018
Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.
Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.
Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.
Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.
Petrolio causa di tensioni nel mondo
Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.
Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.
Claudio Bellavita 02/02/2018
Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.
La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.
Niger: Jihadisti, eserciti e migranti nel paese più povero del mondo
Testo e foto di Marco Bello |
La rotta del Sahara è stata affrontata da generazioni di nigerini. Cercavano un lavoro in Libia. Ma oggi nel paese arabo la vita per uno straniero è insostenibile. Anzi, un «nero» è diventato merce di scambio, vacca da mungere, moneta sonante. In fuga da detenzioni arbitrarie e torture, migliaia di persone cercano di tornare a Sud. Qui li aspettano le famiglie, ma anche siccità e scarsità di lavoro.
Zinder. «Vogliamo che la nostra gente resti qui, al villaggio. E possa lavorare la terra anche durante la stagione secca, quando non cade una goccia d’acqua». Chi parla è Galadima, capo villaggio di Guirari, nel comune rurale di Gouna. Siamo nella regione di Zinder a oltre 900 km a Est dalla capitale Niamey, nel Niger profondo. Ma ci troviamo a poco più di 110 km dal confine con la Nigeria, il gigante africano, che da sempre estende qui la sua influenza economica, commerciale, religiosa.
Guirari è un grosso villaggio isolato, in quanto non vi arrivano strade asfaltate, rare da queste parti, ma solo piste di sabbia o laterite. Le grandi direttrici del Niger sono due: una attraversa il paese da Ovest a Est, dalla capitale al confine con il Ciad, a Ngugmi, nei pressi di quello che era il lago Ciad oggi quasi prosciugato. Il lago definisce un confine quadruplo: Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. L’altra strada asfaltata arriva dalla Nigeria, a Sud, e giunge fino ad Agadez e Arlit a Nord, dove l’asfalto termina bruscamente per diventare una pista di sabbia. Le due s’incrociano a Zinder, seconda città del Niger, già capitale e sede dell’antico sultanato del Damagram (dal nome della zona in lingua locale) creato nel 1720. Uno dei più importanti nella storia del Niger.
Due stagioni
Non siamo nel deserto, ma in una zona semiarida, di sabbia, poca terra, laterite e arbusti. Diffuse sono le acacie e altre piante spinose più basse. Qui la gente si è adattata a coltivare una terra povera, che dà frutto durante i mesi di pioggia, da giugno a inizio settembre. In quel periodo si coltivano alcuni cereali, miglio e sorgo, di varietà adattate a questa scarsità di acqua e nutrienti nel sottosuolo. Con i loro grani, si ricava una farina che, preparata come una specie di polenta, costituisce l’alimento base della popolazione. Se piove con regolarità, il raccolto sarà buono e il granaio di casa, dopo il raccolto, potrà tornare pieno, sperando che la scorta duri fino all’anno prossimo. Ma spesso le piogge sono irregolari e il raccolto dell’anno, l’unico, è povero. Il cibo scarseggerà e sarà crisi alimentare.
Dove non ci sono alternative, nei mesi della stagione secca gli uomini lasciano i villaggi e vanno a cercare lavoro in altre zone, e paesi. In particolare, in Nigeria e in Libia. Una migrazione stagionale, storica, che spesso dura alcuni anni. Quella che i nigerini chiamano «esodo», termine che indica l’ampiezza del fenomeno.
Continua Galadima: «Durante la stagione secca, dopo aver finito il lavoro dei campi, molti dei nostri giovani partono. Ma io preferisco che restino al villaggio, in aiuto ai genitori. Vanno in Nigeria, in Libia. Non vogliamo che lo facciano». Non c’è gente che vuole andare in Europa? Chiediamo. «No, ma abbiamo ancora molti giovani in Libia, dove la loro situazione oggi è critica. Vogliamo fare in modo che possano lavorare qui anche nella stagione secca». E continua: «In questa zona abbiamo un sottosuolo fertile. Qui arrivava molta acqua, che irrigava più di 200 ettari. Il problema è che due dighe, Gapati e Zermo, adesso bloccano le acque della valle di Korama». Si riferisce a un avvallamento non lontano dal villaggio, una depressione orografica che raccoglieva molte acque piovane, conservandole anche durante i mesi secchi e permettendo la coltivazione di ortaggi per molti mesi dell’anno.
Un’alternativa
Dalla metà del 2016 è attivo nella zona un progetto dell’Ong Cisv onlus di Torino, cofinanziato dall’Unione europea che prevede proprio la sistemazione di perimetri irrigui, in modo da permettere la coltivazione di ortaggi durante la stagione secca, grazie all’acqua di pozzi scavati in un’area di 70 ettari.
Maman Daoda è il presidente di un’associazione di contadini, che si organizzano per lavorare nella valle di Korama durante la stagione secca. «Siamo pronti, vogliamo lavorare, in alternativa alla partenza per la Nigeria.
Con la mobilitazione della popolazione fatta dal progetto, poca gente è partita quest’anno. Se parti, quando torni, trovi tuo fratello che, rimanendo, ha potuto lavorare più di te.
Quando la stagione delle piogge comincerà, chi è rimasto (anche nei mesi secchi, ndr) ha potuto lavorare la terra e mettere da parte qualcosa per comprare i materiali e quindi coltivare il campo durante la stagione delle piogge, e potrà comprarsi da mangiare nel periodo nel quale il lavoro è più duro». Nei mesi di giugno e luglio infatti, il lavoro fisico è maggiore, ma le scorte dell’anno precedente sono quasi o totalmente finite.
La voce delle autorità
Lasciamo il villaggio di Giuirari, con le sue speranze su un futuro nel quale i giovani non dovranno più emigrare, e incontriamo il capo del corpo forestale, nella prefettura di Mirriah (capoluogo del dipartimento), che commenta: «Sono stato in visita nella valle di Korama e ho incontrato la popolazione. Stavano facendo la divisione delle parcelle di terreno che saranno assegnate a ciascuno per coltivare ortaggi. Parlando con loro sono stato contento, perché ho capito che molti hanno rinunciato a partire per la Libia o la Nigeria. Grazie a questo intervento avranno del lavoro. Normalmente, finita la campagna agricola dei cereali, la gente incrocia le braccia, ma ora ha delle risorse importanti che possono essere sfruttate anche nel periodo morto». E conclude: «Si tratta di famiglie molto povere che non riescono a soddisfare i propri bisogni alimentari nell’arco dell’anno con la sola coltivazione di cereali».
Anche il prefetto in persona, avvolto nel suo grand boubou da grande capo, ci parla della sua visione in merito: «Questo intervento permetterà ai più poveri di arrivare a essere autosufficienti, grazie a un appoggio iniziale che viene dato loro. Dovranno essere un po’ più attivi, perché diventano degli attori che contribuiscono al miglioramento della propria condizione di vita. Ma anche individui che, da un momento all’altro, iniziano a contribuire allo sviluppo dell’economia locale. Inoltre, altre comunità potranno ispirarsi alle tecniche e metodologie messe in campo dal progetto, in modo che questi insegnamenti diventino duraturi e diffusi sul territorio».
I disperati di Birji
Partiti da Mirriah, ci spostiamo una cinquantina di chilometri a Nord di Zinder. Gli alberi si fanno più radi, sono rimpiazzati da bassi cespugli spinosi, la sabbia invade la strada asfaltata e la laterite affiora dal sottosuolo. Ma non siamo ancora nel vero deserto. Anche qui vi sono villaggi di agricoltori che condividono una terra bellissima, ma povera, con popolazioni di allevatori nomadi, i Peulh, i quali si spostano di continuo con le loro mandrie in cerca di pascoli ed acqua.
Ci accompagna madame Nana Aicha Mamadou, responsabile dell’associazione locale Sa3d (Sahel action pour la democratie et le developpement durable, ovvero «Sahel azione per la democrazia e lo sviluppo sostenibile»). Una realtà nuova della società civile di Zinder, che ha la specificità di essere composta in maggioranza da donne.
Arrivati al villaggio Birji, ci dirigiamo nel cortile della scuola elementare, l’edificio più grande in mattoni e cemento. Qui ci aspetta una folla di uomini, molti dei quali piuttosto giovani. Sono vestiti in modo un po’ diverso dai contadini. Hanno giubbotti, giacche o berretti di fattura occidentale, anche se sgualciti e di certo non all’ultima moda. Sono seduti a semicerchio e scrutano gli ospiti venuti da lontano. Sapremo più tardi che sono oltre un centinaio.
Birji è il villaggio più grande, e quindi di riferimento, di una zona particolarmente svantaggiata, in quanto non ha avvallamenti o aree orografiche come la valle di Korama, che raccolgano l’acqua durante le piogge. Inoltre, qui la falda acquifera è molto profonda, e realizzare dei pozzi che forniscano una buona quantità d’acqua anche in stagione secca è più costoso che altrove.
Quest’area – ci racconta madame Nana – è zona particolarmente depressa, segnata quindi da emigrazione stagionale. Questi uomini sono le braccia valide dei villaggi, che lasciano la famiglia durante la stagione secca per andare a lavorare in Libia o in Nigeria.
Ma qualcosa negli ultimi tempi è cambiato. I fattori sono due. Le maggiori difficoltà per affrontare il viaggio, a causa della nuova legge nigerina per il contrasto alla migrazione clandestina, che ha reso più complesso spostarsi e in molti casi occorre farlo clandestinamente. Ma soprattutto le condizioni di lavoro e di sicurezza in Libia.
Inferno Libia
Nassirou ha 35 anni e faceva l’agricoltore a Birji. Lavorava la terra ma non guadagnava abbastanza. Decise dunque di partire, come alcuni suoi conoscenti prima di lui: «Nel 2006 sono andato in Libia per la prima volta dove ho lavorato per un padrone arabo in un allevamento di polli. Vi sono rimasto due anni, durante i quali mandavo i soldi a casa. Poi sono tornato». Nassirou è ripartito una seconda volta per la Libia e vi è rimasto tre anni, senza particolari problemi. «Vi sono andato per la terza volta, ma qualcosa era cambiato». Mentre Nassirou ci racconta come è andata, il suo volto ricorda il terrore: «Quando avevo finito il mio periodo di lavoro, con un gruppo di connazionali siamo partiti per tornare in Niger. Sulla strada del rientro ci hanno catturati e riportati in città dove ci hanno venduti. Hanno assaltato con le armi il mezzo su cui viaggiavamo, ci hanno obbligati a scendere e ci hanno messi nel cassone di un pick up, con le mani legate con corde e catene dietro la schiena». Nassirou ci mostra i segni delle catene ai polsi. «Siamo stati sette ore legati e senza mangiare, e ci hanno poi chiusi in una camera dove non ci hanno dato né acqua né cibo. Io ho passato due mesi rinchiuso in una stanza dalla quale non si vedeva il sole. Mi hanno fatto spogliare e indossavo solo le mutande».
Nassirou era detenuto in una prigione clandestina nella città libica di Beni Walid: «Durante due mesi siamo stati maltrattati, mentre aspettavamo i soldi per essere liberati. Ci hanno dato un telefono dicendoci: “Se conosci qualcuno in Libia chiamalo e parlagli della tua condizione. Lui dovrà telefonare alla tua famiglia, al paese, per dire di mandare i soldi affinché tu sia liberato”. Così siamo riusciti ad avvisare che eravamo prigionieri».
La famiglia di Nassirou, a Birji, ha venduto due vacche e ha mandato i soldi a un suo compaesano in Libia, affinché li versasse su un conto segnalato. «Il giorno che i soldi sono arrivati, mi hanno preso e mi hanno picchiato. Poi mi hanno portato a Tripoli e liberato. Non riuscivo neanche a stare in piedi, ma grazie ad altri nigerini che mi hanno soccorso, ho ripreso un po’ le forze. Poi mi hanno pagato un biglietto per rientrare.
Altri prigionieri che erano con me invece sono morti. C’è ancora gente rinchiusa in queste prigioni, a soffrire. È sempre così, ti mettono una catena al collo e puoi morire facilmente. Ho visto anche persone di Sudan, Ghana, Mali, Nigeria».
Nassirou non ha più intenzione di andare in Libia. È tornato da sette mesi e ha lavorato nei campi durante luglio e agosto, ma adesso sta cercando di capire che lavoro fare.
A caccia di «neri»
Accanto a lui il più giovane Innousa, 27 anni, ha qualcosa da raccontare: «Non ho mai avuto problemi con il mio padrone in Libia. Ma alla fine del mese venivano da noi i ladri, di notte, per prenderci i soldi. Ed eravamo obbligati a darglieli. Vivevo nella città di Ubari, ma oggi la situazione si è totalmente degradata diventando molto insicura. Io sono stato assaltato due volte da banditi, che mi hanno puntato delle armi al petto chiedendomi tutto quello che avevo. Adesso ti assaltano anche di giorno, non solo di notte. E quando sei in casa devi barricarti dentro, ma rischi che rompano la porta per assaltarti. Se devi uscire a comprare qualcosa è meglio chiedere al tuo padrone per non farti vedere in giro. Quando sei in macchina con lui per fare delle commissioni, rischi che vi fermino e dicano al padrone: “Vogliamo lui”. Alcuni lasciano i loro lavoratori nelle mani degli assaltatori. Se prendi un taxi, rischi che il tassista ti porti dai banditi o dalla polizia dove ti maltrattano. Ormai non vedi subsahariani in giro, stanno tutti nascosti».
Continua Innousa: «Abbiamo capito che c’è complicità tra polizia e bande armate. Gli arabi contro i neri. Anche il tuo padrone può tradirti e consegnarti. È pure successo che facessero irruzione in una casa, e portassero via delle persone (dei migranti, ndr). E non si sa più nulla di loro. Scompaiono. Non so se vengono venduti oppure uccisi». Innousa non vuole più sentire parlare di Libia: «Non ci torno più, assolutamente».
Saidou, 40 anni, ha avuto esperienze simili e ci spiega perché è partito: «Mi sono sposato, ma non avevo di che nutrire la mia famiglia, quindi ho seguito l’esempio di altri amici. Ma ultimamente è diventato difficile mandare i soldi alla famiglia, mentre prima era la normalità». Poi indica la terra del suo villaggio: «Guardate qui intorno, non c’è niente da fare, come è possibile vivere così. Adesso i giovani non sanno che lavoro fare, non avendo più l’opportunità di andare in Libia».
Sono molti i ragazzi, gli uomini che ci fissano, oggi, nel cortile della scuola primaria di Birji. Alcuni portano occhiali da sole e fanno il viso da duri. Altri hanno semplicemente lo sguardo perso nel vuoto. Altri ancora sono incuriositi dagli ospiti stranieri.
Issaka, 47 anni, ha la barba bianca. Lui ne ha fatti tanti di viaggi in Libia. Ma adesso ci dice: «Prima era molto vantaggioso andare in Libia a lavorare. Ma è finito quel tempo. C’è solo sofferenza laggiù.
Nessuno vuole più partire. Il problema oggi è far ritornare quelli che sono là, non tanto scoraggiare i giovani dal partire».
Issaka ha lavorato il campo nell’ultima stagione piovosa, ma non ha un lavoro sicuro: «Mi piace l’orticoltura, e sto cercando anche di fare del piccolo commercio o dell’allevamento. Ma per ora non ho nulla».
Rientri di massa
Nel mese di dicembre scorso il governo del Niger ha organizzato un rimpatrio di massa di nigerini dalla Libia. Ha messo a disposizione un aereo per i voli di rientro da Tripoli e ha chiesto assistenza all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, organismo delle Nazioni Unite) per organizzarlo. L’Oim, nella sua sede libica. ha aiutato a identificare i nigerini e farli partire, con un procedimento chiamato «rimpatrio umanitario assistito», orientato a persone detenute nei centri illegali o appena uscite da essi.
La sede Oim di Niamey ha organizzato una prima accoglienza e ha messo a disposizione i mezzi per il rientro nelle aree di origine. L’obiettivo era il rimpatrio di 4.000 persone. Nel momento in cui abbiamo contattato gli operatori dell’Oim Niamey, erano già stati effettuati 1.500 rimpatri. Il Niger è l’unico paese africano che si è impegnato in un’azione di questo tipo a protezione dei propri connazionali.
Costruire una possibilità
Chiediamo a madame Nana, attenta osservatrice della situazione nella regione e a livello nazionale, che prospettive ci sono: «Qualche anno fa, a Zinder c’era un grande transito di migranti dalla Nigeria. Gente di varia nazionalità, addirittura dal Ghana, che passavano da Kano e poi qui, per andare verso Agadez. Da circa un anno osserviamo una riduzione drastica di questi convogli.
Questo perché il passaggio in Libia è diventato molto difficile. Anche i nigerini della regione, che vi lavoravano, sono tornati e non riescono più a partire. Chi aveva l’abitudine di andare in Libia, adesso cerca la via della Nigeria per trovare lavoro. Questa è una migrazione storica, almeno per la nostra popolazione».
Madame Nana insiste sul fatto che il governo sensibilizza, scoraggia chi vuole andare in Libia, mentre non fa la stessa cosa per la Nigeria. Il grosso problema, insiste, è che queste popolazioni depresse avevano nelle rimesse dei lavoratori stagionali, un ingresso economico essenziale: «Come aiutare chi ritorna dalla Libia? Come associazione locale abbiamo un programma per loro. Ma occorrono i fondi. Se si chiede alla gente di non andare in Libia occorre proporre loro un’alternativa, trovare loro un lavoro».
Marco Bello
Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne
Testo di Mario Ghirardi |
È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».
Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.
Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.
L’ostinazione premiata
La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.
«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.
Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.
Impunità totale
Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».
Oltre la medicina
Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.
Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.
Radici storiche
Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.
Mario Ghirardi
Miniere, eserciti e interessi globali
Stupri, figli del coltan
In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.
La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).
Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.
Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.
La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.
Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita
Testi di Maria Chiara Parenzo |
Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.
Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.
Quale guerra?
Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.
Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.
È Iran contro Isis
Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.
Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.
Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti. Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.
La questione del nucleare
Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.
Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.
Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.
Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.
L’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni
Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.
In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.
Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.
Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita
Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.
Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.
Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.
Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.
Terrorista a chi?
Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.
Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.
«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.
Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?
Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.
Maria Chiara Parenzo
Note
(1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
(2) Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
(3) Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
(4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
(5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
(6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.
I fatti del dicembre 2017
Dietro «la rivolta delle uova»
Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.
L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.
Trasparenza e rabbia popolare
Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.
Il discredito dei religiosi
C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.
Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.
I pericoli
C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.
Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.