Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.
Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Ghouta, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?
Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?
Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.
Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.
A Damasco, è dalla zona del Ghouta che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Ghouta dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Ghouta: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…
Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?
La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.
La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.
Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? Violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?
In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.
Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .
Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato)
Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…
Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria..
Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..
Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.
Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.
Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.
“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.
Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…
“Da Tibhirine ad ‘Azeir. Dall’Algeria, passando per la Toscana alla Siria. Questo è l’itinerario che ha portato nel 2005 alcune trappiste dal Monastero di Valserena vicino Cecina a scegliere la Siria, una delle culle del monachesimo antico, per fondarvi un monastero di vita contemplativa. Nel 1996 c’era stato l’eccidio dei sette monaci trappisti a Tibhirine in Algeria, un fatto tragico verso religiosi innocenti che aveva colpito l’opinione pubblica mondiale. L’ordine cistercense nonostante l’efferatezza del delitto volle continuare l’esperienza in terra islamica e custodire l’eredità spirituale dei sette monaci. L’appello fu accolto dalle trappiste di Valserena, una comunità che avevo conosciuto e frequentato durante gli anni del Seminario e dove feci gli Esercizi spirituali prima della mia ordinazione sacerdotale nel giugno del 1984. Le monache, dopo una prima esperienza ad Aleppo scelsero di installarsi nel villaggio maronita di ‘Azeir fra Homs e Tartous al confine settentrionale tra Siria e Libano. Fino al marzo 2009, la Siria era stata una nazione fiorente e pacifica dove anche le varie componenti religiose convivevano tranquillamente. Anzi, negli anni terribili della guerra e dei massacri le differenze religiose non sono state mai un problema. In questa regione ci sono, uno accanto all’altro, villaggi cattolici maroniti, armeni, greco ortodossi, greco cattolici e villaggi mussulmani, sunniti e alawiti: la convivenza tra islamici e cristiani delle varie confessioni era normale, fatta di rispetto e dialogo sincero. Il regime di Assad aveva le sue rigidità e i suoi limiti, racconta madre Marta la priora, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza e si viveva tranquillamente.”
Siamo alla fine degli anni Sessanta a Tuuru, sulle colline vulcaniche che dal Monte Kenya scendono verso l’Oceano Indiano. Si sta costruendo un acquedotto per un centro di bambini poliomielitici. L’acqua è a 25 km di distanza, nella foresta dello Njambene. Arrivano fondi da donatori. Il progetto prevede l’acquisto di un grosso scavatore per accelerare i tempi. Ma l’uomo che è la mente e il cuore del progetto non è convinto. Si siede e fa due conti. Uno scavatore, una decina di operai, tre mesi di lavoro da una parte. Zappe e carriole, cento operai, tre anni di
lavoro dall’altra. Costo: invariato. Sceglie le zappe. Cento operai sono cento famiglie. E poi lo scavo fatto da un uomo con la zappa attraverso un campicello di mais è certo meno distruttivo di quello fatto con uno scavatore. Risultato? Dopo quasi cinquant’anni quell’acquedotto è ancora là e disseta quasi mezzo milione di persone e animali. Altri progetti coevi, fatti con «lo scavatore»,
sono da tempo spariti nel nulla, ingoiati dalla foresta.
La storia che vi ho raccontato non è nuova. Tante volte su questa rivista vi abbiamo parlato dell’acquedotto di Mukululu e di fratel Mukiri, Giuseppe Argese, il silenzioso.
Ho pensato a lui leggendo i numerosi articoli di giornali e riviste che di questi tempi informano entusiasti o, al contrario, suscitano paure a proposito dei robot e dell’intelligenza artificiale destinati a soppiantare il lavoro degli uomini. Come se a «rubarci il lavoro» non bastassero i «disperati» che provengono «da zone in cui il valore della vita umana è pressoché uguale a nulla» (come ha scritto un esimio professore). Ci si mettono pure i robot.
Davvero i robot? Non sono certo loro che decidono dove e come lavorare, in quali fabbriche, in quali settori, in quali aree. Il robot che gestisce in automatico gli acquisti e le vendite di azioni in borsa, non si attiva da solo, ma qualcuno ha scelto di usarlo così per guadagno, anche se rovina tantissimi altri. Il drone che sgancia la bomba su una festa di nozze in Afghanistan, è programmato e mandato da un uomo, non agisce autonomamente. Anche il fantastico robot che esegue operazioni chirurgiche di alta precisione, non agisce di sua iniziativa. L’algoritmo (oggi con «l’algoritmo» si spiega tutto!) che nei social controlla tutto e tutti alla faccia della privacy non si è creato da solo, ma è perfezionato da uomini controllati da altri uomini che in testa non hanno certo il bene-essere dell’umanità ma il denaro. È un caso che un gruppo ridottissimo di individui diventi sempre più ricco proprio mentre la maggioranza impoverisce? E non solo impoverisce, ma diventa sempre più litigiosa e spende sempre di più in muri e barriere e armamenti (che non portano maggiore pace e sicurezza, ma certo arricchiscono chi li produce e vende).
Non sono contro i robot e il progresso. Tutt’altro. Ma mi preoccupa l’erosione della libertà e il sempre maggior controllo che dobbiamo subire attraverso robot e programmi usati per condizionare la nostra vita. Vorrei poter usare la tecnologia, non essere usato attraverso di essa.
Come qualcuno ben più importante di me insegna, se al centro delle nostre scelte politiche, economiche e sociali non c’è l’uomo, la sua dignità e il suo bene-essere, rischiamo davvero di costruirci un mondo invivibile, sempre più diviso, ingiusto e meno umano.
Uomo al centro, come «adam», uomo e donna uniti.
In occasione dell’8 marzo si scrive e parla molto di «donna». Ed è bello e giusto che lo si faccia. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo di quelle donne che hanno il coraggio del «Metoo!». Oltre alle tante, troppe vittime della violenza di chi dice di amarle, non dimentichiamo le donne Rohingya, le Yazide, le madri siriane, le donne sudanesi, somale, nigeriane, congolesi, centrafricane e di tanti altri paesi. Non si chiudano gli occhi sulle donne, sempre più giovani, costrette a contendersi i nostri marciapiedi, a esibirsi sulle nostre spiagge, a illuminare le nostre strade; donne trafficate, vendute, sfruttate da mafie nostrane e internazionali. Donne oggetto, usate da gente perbene, da italianissimi padri di famiglia, lavoratori, impiegati e professionisti. Gli stessi italianissimi che con la bandiera tricolore sulle spalle sparano (o applaudono a chi spara) su presunti pushers e magnaccia di colore, i quali, quelli che lo sono davvero, esistono e prosperano perché italianissimi giovani e meno giovani cercano e consumano quanto essi vendono sfacciatamente.
Nel mondo si è fatto e si fa tanto per difendere, aiutare e promuovere le donne. Tanto rimane ancora da fare. Ma non basta pensare solo a loro. Gli uomini, i maschi intendo, che spesso sono la causa prima di violenze e abusi, hanno anche loro bisogno d’aiuto per ritrovare se stessi, la propria dignità, il proprio ruolo nella società, non separati o sopra le donne, ma insieme, come ci ha sognati il nostro Creatore che ha fatto dei due, insieme e inseparabili, la sua immagine.
Gigi Anataloni
Lettere dai lettori: cari missionari
Bombe italiane in Yemen
Riguardo agli ordigni prodotti in Sardegna, venduti all’Arabia Saudita e usati dalla coalizione a guida saudita per bombardare lo Yemen, il ministro Roberta Pinotti ha assicurato che l’Italia ha osservato scrupolosamente tutte le norme nazionali e internazionali in materia di produzione e vendita di armi. Io dico invece che la differenza tra un sistema democratico e una dittatura la fa anche la disponibilità ad ammettere i propri errori, la fa anche la voglia di chiedere scusa, la fa anche il desiderio di rimediare ai danni fatti, più o meno consapevolmente, più o meno legalmente.
Uberto Zumpanesi
31/12/2017
Gambo, Etiopia
Buongiorno, io e mio marito siamo appena tornati da un viaggio in Etiopia del Sud, dove abbiamo avuto l’opportunità di stare tre giorni alla missione di Lephis Forest, Ospedale di Gambo. È stata un’esperienza straordinaria, anche se non era la prima volta che visitavamo una missione africana. Vogliamo soprattutto ringraziare Abba Alvaro che, nonostante tutto il daffare che ha, ci ha dedicato il suo tempo prezioso per accompagnarci all’ospedale e alla fattoria. Anche i due volontari italiani presenti e l’infermiera Gabriella ci hanno fatto sentire a casa, ed è stato bello brindare all’anno nuovo alle 20,30 (prima che il generatore si spegnesse dato che il governo non è troppo attento ai bisogni della zona e la corrente è un optional). A breve invieremo una piccola offerta: ci sono tante spese, non guasterebbero dei pannelli solari e delle galline per la fattoria, utili per le uova che sono carissime e servono per nutrire i molti bambini del reparto di pediatria dell’ospedale! Ancora grazie e cari saluti.
Gianna Masoero e Guido Porta 05/01/2018
Permacultura
Sono un vostro abbonato da anni e vi posso dire che la vostra rivista missionaria è una delle più interessanti che arrivano in casa. Ho letto sul numero di novembre l’articolo «Una prospettiva per guardare il futuro». Un articolo interessante i cui contenuti andrebbero giustamente diffusi in ogni comunità. Vorrei però fare un appunto, se mi permettete, non ho trovato nessun accenno alla nostra alimentazione (riduzione o eliminazione delle proteine animali) non solo per il nostro benessere ma per il benessere di tutti i fratelli del mondo e del pianeta Terra. Una proposta interessante nata negli anni Novanta è la campagna dei «Bilanci di Giustizia».
Il mio sogno da anni è che questi argomenti siano presi a cuore dalle nostre comunità cristiane e inseriti in un vero cammino di fede e di amore dei fratelli. Tanti saluti e buon lavoro.
Daniele Engaddi 10/01/2018
Abbiamo inoltrato l’email all’autrice dell’articolo che ha risposto subito.
Gentile Daniele, in primis La ringraziamo per essere un fedele lettore e per aver mostrato interesse verso l’articolo incentrato sulla Permacultura. Proprio perché lo scritto, in particolare, verteva sulla progettazione, conservazione consapevole degli ecosistemi e su quelle tecniche agricole più rispettose degli equilibri degli habitat del pianeta, non abbiamo ritenuto opportuno aggiungere un argomento così vasto e complesso come quello dell’alimentazione.
Il rapporto tra tutela dell’ambiente e riduzione/eliminazione delle proteine animali è indubbio, ma questo sarebbe necessario approfondirlo in un altro articolo e uno solo non sarebbe nemmeno esaustivo. Ringraziandola ancora per la sua attenzione, porgiamo cordiali saluti.
Silvia C. Turrin 11/01/2018
Grazie
Caro padre,
non smetta di scrivere e punzecchiare le nostre anime! Io scrivessi come penso, sarei già radiato! Si vede che lei ha superiori più clementi. Tutta la vostra rivista è un dono per noi in questo tempo in cui «anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare».
Don Vincenzo F. 15/12/2017
A proposito di apparizioni e veggenti
Caro Direttore,
[…] nel numero di novembre 2017 avete ospitato la risposta di don Paolo Farinella ad una lettera pervenuta. Sono rimasto basito! È sicuramente degna di rispetto la posizione di don Paolo, ma che un sacerdote parli in questo modo delle apparizioni di Maria, beh, sinceramente fa male; credo che se il beato Giuseppe Allamano avesse visto questa «ospitata» non ne sarebbe rimasto affatto contento… […] Fa veramente male sentire parlare così da parte di sacerdoti delle apparizioni di Maria e mi ha fatto male vedere pubblicato sulla rivista questa posizione.
Benedetto N. 13/12/2017
Prima del sig. Benedetto anche un altro lettore aveva scritto sull’argomento, «sconsolato» dalla stessa risposta, chiedendomi di inviare a don Farinella la sua email (da non pubblicare) nella quale, a sostegno del suo pensiero, citava diversi passaggi dai Quaderni della mistica Maria Valtorta. Don Paolo ha risposto immediatamente con una email che ho inoltrato subito al lettore interessato.
Tenendo conto però dell’importanza dell’argomento, mi permetto di riportare qui la risposta di don Paolo, omettendo tutte le parti più personali. Le scritte tra parentesi quadre sono redazionali per rendere comprensibile il testo nei punti omessi o tagliati.
Ecco la risposta di Don Paolo Farinella.
[…] Rispondendo a una lettera di una lettrice [in MC 11/2017 p.6] scrivevo letteralmente: «Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni. […] Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli, solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: “Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes” non sarebbe meno cattolico di chi afferma di credervi». Questa è la posizione ufficiale e costante della Chiesa.
Lei [dissente dalla mia posizione e], per dare forza alla sua critica, cita un passo della Valtorta da «I Quaderni» del 1943, come se fosse «Parola di Dio».
Mi permetta di dirle sinceramente che mi cadono le braccia perché se siamo ancora alla Valtorta, significa che la Chiesa ha ancora un lungo cammino da fare sulla via della purificazione dall’idolatria. La Valtorta non dice nulla di diverso di tutte le altre pseudo e sedicenti apparizioni mariane, come fossero fotocopie e invano papa Francesco ripete, riguardo a Medjugorje, che «la Madonna non è una postina». Se siamo ancora a questo punto, è stato vano il concilio Vaticano II, a cui mi attengo scrupolosamente perché è il magistero più alto della Chiesa cattolica. I Padri conciliari hanno posto rimedio a una stortura teologica che poneva la Madonna al di sopra di Dio stesso anche pastoralmente (prima del concilio ogni domenica c’era una festa della Madonna, cui si sacrificava il senso dell’ottavo giorno in sé, memoriale della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore). Il concilio ha posto Cristo al centro della vita, della spiritualità, della preghiera, della liturgia, della morale, e ha ricollocato Maria al suo posto, quello splendidamente descritto da Dante: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», diversamente Maria non è la Madre di Gesù, ma un idolo separato perché più comodo da gestire, anche a livello sentimentale.
Quanto alla Valtorta […] sappia che, in questo modo, lei si pone fuori della Chiesa che ha condannato due volte quelle fantasiose e romanzate visioni definendole pericolose per la fede. Il 16 dicembre 1959, dall’allora Sant’Uffizio, i volumi usciti furono inseriti nell’«Indice dei libri proibiti» e il 6 gennaio 1960 «L’Osservatore Romano» li definì: «Una lunga prolissa vita romanzata di Gesù… Anzitutto il lettore viene colpito dalla lunghezza dei discorsi attribuiti a Gesù e alla Vergine SS.ma», e aggiunge che è tutto l’opposto dei Vangeli, dove regna la sobrietà.
Evidentemente la condanna ufficiale della Chiesa, quella cui la Madonna della Valtorta dice di ubbidire, ma alla quale la visionaria non ubbidì affatto, non bastò se il 31 gennaio 1985 il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Fede (ex Sant’Offizio), dovette dare la stroncatura definitiva.
Dopo avere ripreso e confermata la condanna del 1959, concluse: «Avendo poi alcuni ritenuta lecita la stampa e la diffusione dell’Opera in oggetto (Il Poema dell’Uomo Dio, ndr) … non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu presa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti (sottolineatura mia) … Joseph cardinale Ratzinger». La condanna si estende a tutti gli scritti della Valtorta. […]
Paolo Farinella 06/12/2017
A questo proposito, ricordo che quando iniziai a lavorare in questa rivista nei primi anni Ottanta, trovai in redazione un intero scaffale pieno di libroni di centinaia di pagine dai titoli come questi: «Lo Spirito Santo parla al cuore di…», «La Madonna ai suoi diletti figli», «Le rivelazioni di Gesù a…» e via dicendo. Ricordo di aver tirato fuori il Vangelo tascabile che portavo con me. La piccolezza di quel libricino – che pure aveva rivoluzionato il mondo – a confronto con quei volumoni era impressionante. Tenni il Vangelo. I libroni finirono nel container della carta per le missioni.
Da Roraima: fratel Carlo Zacquini
I mezzi di comunicazione mi permettono di mantenere con una certa regolarità contatti con molte persone. Mi considero molto fortunato di annoverare un numero piuttosto grande di veri amici che si interessano sovente della mia salute e delle mie attività, e in modo speciale poi degli Yanomami e dei popoli indigeni nel Brasile.
Mi sento un po’ incapace di alimentare – come sarebbe mio dovere – questa catena di persone che sempre si chiedono e mi chiedono se possono fare qualcosa per le finalità a cui mi dedico. Come è difficile poter rispondere con chiarezza; come è difficile fare chiarezza anche dentro di me su quel che sarebbe meglio fare!
Ho l’impressione che in questi ultimi tempi l’attività principale che svolgo stia prendendo una bella piega. In un modo o nell’altro, al momento siamo già in quattro persone fisse a lavorare al Centro di Documentazione Indigena (Cdi). Sembrano molte, ma … pur volendo dedicarci esclusivamente a questo lavoro, per ora siamo lontani dal riuscirci.
Certamente non è per mancanza di lavoro! Ultimamente abbiamo dovuto fare una pausa nelle attività più importanti, non perché stiamo prendendola alla leggera, ma, come sovente capita da queste parti, per le difficoltà e gli imprevisti che ci obbligano a ridurre la velocità dei nostri passi.
Abbiamo sempre più materiale importante che non ci sta nell’attuale edificio che ospita il Cdi. Ci è stato offerto altro materiale da varie parti per arricchire la nostra documentazione. Questo vuol dire che altre persone e enti hanno notato l’importanza del Cdi, e stanno dando credito alle nostre intenzioni e iniziative. Alcuni ci suggeriscono anche di guardare avanti con fiducia e ottimismo, includendo anche altre attività che per ora non sono previste. Io credo che dovremo andare avanti con prudenza, ma anche con fiducia nella Provvidenza. Essa ci farà vedere al tempo giusto come proseguire.
Certamente non sarà mai facile competere con gli avversari dei popoli indigeni; né possiamo illuderci di trasformare i popoli indigeni in società perfettamente adattate a resistere a tutti gli attacchi mossi contro di loro. Sta a noi tutti fare la nostra parte, e dare a loro i mezzi migliori per farsi le ossa!
La situazione attuale di invasione della Terra Indigena Yanomami da parte dei cercatori d’oro è veramente brutta. Si parla di varie migliaia di invasori che portano con sé violenza, droghe, corruzione di minorenni, contaminazione col mercurio, trasmissione di malattie veneree, impunità! Il villaggio degli indigeni isolati è accerchiato ormai da almeno tre gruppi di garimpeiros che hanno già sparato almeno a uno di essi.
Guardando un po’ oltre, è palese lo sfacelo della giustizia a tutti i livelli; e gli esempi più sconvolgenti vengono dalle più alte autorità del paese. Oltre 60mila morti violente in un anno; caos nei servizi pubblici (sanità, scuola, prigioni, …).
Nel nostro piccolo, nella discarica di immondizie della città di Boa Vista, a metà ottobre, sono stati trovati più di cento bambini che vi lavoravano, cibandosi anche di rifiuti.
Adesso la discarica è controllata. Ma durerà?
Con l’afflusso di decine di migliaia di venezuelani (si parla di settantamila, tra cui un buon numero di indigeni Warao e altri) che fuggono dalla violenza, dalla miseria e dalla fame vera e propria, si accentua la situazione di caos negli ospedali, negli ambulatori medici, nelle scuole, col contrabbando, nelle prigioni, …
Pare che anche la natura voglia collaborare al caos; recentemente ci sono già stati almeno 60 casi di bagnanti aggrediti da piranha nelle spiagge del rio Branco, a Boa Vista. Alcuni esperti hanno suggerito che la causa potrebbe essere l’inquinamento delle acque.
Guardandoci attorno si ha l’impressione che si voglia distruggere il pianeta per favorire una piccola minoranza.
Le statistiche dicono che gli otto «uomini» più ricchi del mondo sono padroni di ricchezze maggiori di quelle della metà degli uomini, e 800 milioni di esseri umani fanno la fame.
In Brasile si producono enormi quantità di cibo (granaglie, carne, caffè, frutta, vini) usando con abbondanza diserbanti tossici proibiti in Europa (Combate Racismo Ambiental, 28 nov. 2017). Buona parte di questi cibi va a finire sulle vostre tavole. Tempo fa, ho suggerito che si organizzasse un boicottaggio ai prodotti alimentari provenienti dal Brasile. Chi non lo ha fatto, probabilmente si è alimentato con pericolosi veleni.
Le mie e le nostre speranze sono rafforzate dalla vostra indefessa attività in favore dei popoli indigeni e di altri dimenticati dagli uomini. Con affetto e riconoscenza,
Fratel Carlo Zacquini da Boa Vista, Roraima, Brasile, 07/12/2017
Le 99 pecore
Carissimo Direttore,
nel riprendere in mano il n.10 del mese di ottobre, ho letto la lettera di Andrea Sari e la sua risposta in un giorno non penso casuale (martedì 12 dicembre). Nel commentare le letture del giorno (il Vangelo di Matteo 18,12-14 che ricorda il pastore che lascia le 99 pecore per cercare quella perduta), il nostro curato ci ha lasciato questo bel pensiero: «Il Signore non è che abbandona le 99 pecore per cercare quella perduta perché sa che il gregge non si allontanerà dal posto dove le ha lasciate. Le 99 sono consapevoli di essere al sicuro e non vanno in cerca di pericoli, mentre quella perduta non era cosciente dei pericoli che poteva incontrare abbandonando il gregge». Ecco, con questo spirito don Luciano ci ha invitati a «sentirci vicino il Signore» anche quando sembra che si allontani per ricercare la pecorella smarrita. Penso che senza tanti lunghi ragionamenti valga l’invito del nostro curato di «vivere con serenità il nostro rapporto con il Signore in ogni momento della giornata» anche quando il Signore si allontana.
Pino Candiani parrocchia di Loreto, Bergamo, 12/12/2017
Niger, frontiera d’Europa
Testi e foto di Marco Bello |
Per la sua posizione strategica il Niger è diventato il principale paese di passaggio di ogni traffico illecito, in particolare quello dei migranti. Oggi chi non è riuscito a traversare il Mediterraneo – e non è morto – fugge dalle persecuzioni dei libici, e tenta la via del ritorno. Ma spesso si trova bloccato a metà strada senza soldi. Qui l’Unione europea vorrebbe fermare il flusso di gente verso Nord. E per farlo utilizza soldi ed eserciti.
Niamey. La città di sabbia con le sue case basse color ocra pare sempre uguale. Tranquilla e lontana dalla frenesia di molte metropoli africane, più che una capitale di uno stato potrebbe essere un grande villaggio. Ogni tanto nei quartieri si incrocia un cammello che procede dondolando dietro al suo padrone inturbantato. Eppure qualche novità c’è. Negli ultimi anni il traffico automobilistico è aumentato notevolmente, e questo nonostante siano stati costruiti due svincoli stradali, uno dei quali sulla centralissima rotonda che dà accesso al ponte Kennedy, quello storico dei due che collegano le due sponde del fiume Niger. Il più recente è stato realizzato dai cinesi – grandi amici del Niger – nel 2011 e un terzo è in previsione, sempre ad opera dei cinesi, per quest’anno.
Ma le novità sono anche altre, meno visibili.
Ci avviciniamo al centrale Rond-point de la Liberté (rotonda della libertà), nei pressi del Grand marché, il mercato principale della capitale. Qui abbiamo l’appuntamento con Cheick Ahmed Touré, che si presenta come agente consolare della Guinea Conakry in Niger. Il signor Touré, guineano, ha già una certa età e ha passato gli ultimi 40 anni della sua vita in questo paese. Pacato e gentile, indossa una giacca grigia che gli conferisce una certa autorevolezza. Il suo sguardo sereno ci scruta da dietro le lenti di vistosi occhiali.
Oramai da alcuni anni Touré è diventato il punto di riferimento dei migranti guineani, ma anche senegalesi, ivoriani, maliani in transito per la capitale nigerina. In maniera totalmente volontaria e gratuita, Touré si è organizzato per aiutare in tutti i modi possibili questi giovani, oggi in fuga dalla Libia, ieri in viaggio verso quel paese.
Il nostro uomo ci aspetta per portarci in uno dei tre «Foyer» (o centri) nei quali accoglie migranti di passaggio. Lo seguiamo. Dietro al rond-point imbocca una stradina, quasi un vicolo. Ci fa parcheggiare. A piedi ci conduce in un viottolo tra case in banco (pronuncia bancò: fango e paglia essiccato al sole, materiale di costruzione tradizionale, molto usato in ambito rurale e ancora, talvolta, nel centro della capitale). Accediamo a un cortile che sembra quello di un quartiere periferico o di un villaggio: terra battuta, frammenti di muri in fango scrostati, qualche panca di legno grezzo, un via vai di persone.
Qui siamo subito circondati da alcuni giovani che ci squadrano con sguardi tra il curioso e l’ostile. Ma noi siamo con «ton ton», lo zio, come i ragazzi chiamano Touré, l’appellativo che da queste parti è assegnato a persone più anziane, di cui si ha grande rispetto.
Centro Liberté (libertà)
I giovani del centro hanno storie terribili. Qualcuno accetta di raccontarle. «Avevo dei soldi della mia famiglia, ma ho perso tutto nel tentativo di andare in Europa, senza riuscire ad arrivarci. Ora sono a Niamey da due anni». Chi parla è Mohammed, 37 anni, di Faranah, in Guinea Conakry. «Qui mi arrangio, faccio il parrucchiere per guadagnare qualcosa. Sono il responsabile di questo Centro. Se in giro vedo un migrante sperduto, lo avvicino e gli chiedo se vuole venire a Liberté. In questo momento siamo circa 28. Al mattino usciamo tutti alla ricerca di qualche lavoretto. C’è qualcuno che sa fare un mestiere. Poi ci ritroviamo qui al pomeriggio, condividiamo qualche soldo per comprarci del riso da cucinare insieme e mettiamo da parte una quota per pagare l’affitto di questo posto».
Mohammed, occhiali da sole e faccia furba, parla un francese di base, ma sciolto, gesticola e ha un modo di fare spigliato, di chi è a proprio agio. Ha tentato due volte di andare in Libia. La prima volta ha raggiunto il Sudan, ma in Ciad si è procurato una pallottola che gli ha trapassato il torace, senza ledere organi vitali. Ci mostra le due cicatrici (entrata e uscita) e dice che sono stati quelli di Boko Haram, la setta terrorista molto attiva nella regione del lago Ciad (Sud Est del Niger). Ma non spiega le circostanze. È stato operato a Ndjamena, capitale del Ciad, dove un connazionale lo ha aiutato economicamente. «Mi sono scoraggiato e ho deciso di tornare verso casa, ma preferisco guadagnare qualche soldo qui e non rientrare a mani vuote».
Circondati da giovani in piedi che ci scrutano, siamo seduti su una panca di legno, perché in Africa gli ospiti sono sacri. Il signor Touré ci racconta: «Cerco di assistere i miei compatrioti ma anche altre persone della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, ndr) in difficoltà. Li indirizzo subito verso uno dei tre centri di accoglienza che seguo, dove oggi ci sono un totale di oltre 70 persone. Quando ho qualche soldo lo do loro per le prime necessità. Inoltre cerco di metterli in contatto con associazioni e Ong internazionali. Ad esempio ho portato qui la Croce rossa danese, che ha fornito loro medicine, e ci ha promesso un aiuto in cibo e soldi per l’affitto.
Chi vuole rientrare nel proprio paese lo accompagno all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Ma alla gente non piace il loro sistema, perché l’agenzia (dell’Onu, ndr) organizza dei bus per riportarli nei propri paesi, dando loro solo 60.000 franchi (circa 91 euro, ndr), che è una miseria rispetto a quanto hanno speso per tentare la traversata, e pure una cifra insignificante per iniziare una nuova attività economica.
Per quelli che restano nei centri, verifico chi sa svolgere un mestiere e cerco di indirizzarlo in uno dei vari cantieri della città».
Niger, caput mundi
Il Niger, paese sconosciuto in Europa fino a qualche anno fa, è oggi balzato alla ribalta delle cronache a causa di due elementi chiave: è diventato uno dei principali paesi di passaggio, e traffico, di migranti dagli stati subsahariani verso la Libia, da dove si tenta il salto verso l’Italia; è centrale nella lotta al terrorismo jihadista in Africa (vedi box).
Solo i francesi lo conoscono da tempo perché, oltre ad averlo colonizzato, fin dall’indipendenza (1960) sfruttano i suoi giacimenti di uranio (di cui è terzo produttore al mondo), indispensabile per le centrali termonucleari che producono oltre il 72% dell’elettricità transalpina.
Il Niger è come un imbuto dove si incrociano due flussi migratori principali. Quello dall’Ovest (Senegal, Mali, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, ecc.) in passaggio da Niamey, e quello dal Sud (Nigeria, Camerun, Centrafrica, ecc.) di passaggio da Zinder o altre località. I due flussi si incontrano ad Agadez, ultima città nel deserto, dove poi i migranti si dividono tra chi passa in Algeria a Tamanrasset per entrare in Libia da Est e chi passa da Dirkou e Madaua ed entra in Libia dalla frontiera Sud (vedi cartina). Per questo il Niger è diventato il primo paese a Sud del Sahara, dove i governi europei, Italia compresa, vogliono stabilire una nuova frontiera per bloccare gli africani. L’Italia sta investendo nel paese, con l’invio, per la prima volta nella storia, di un ambasciatore (Marco Prencipe) nel 2017 e l’inaugurazione della nuova ambasciata, avvenuta lo scorso 3 gennaio con l’intervento del ministro degli Esteri Angelino Alfano in persona. È del gennaio di quest’anno l’approvazione in parlamento dell’invio di militari italiani in Niger, ufficialmente per la lotta alla migrazione clandestina e al terrorismo (vedi box qui sopra).
Proprio per il contrasto ai flussi migratori, il Niger ha firmato degli accordi con l’Unione europea alla Valletta (novembre 2014), grazie ai quali il paese riceve dei finanziamenti. Così nel 2015 l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Niger ha votato una legge (la 36 del 2015) che, entrata in vigore a fine 2016, ha reso illecita qualsiasi attività connessa con la migrazione. Tale legislazione prevede anche un grande dispiego di forze militari e di polizia per il controllo delle frontiere, delle città e delle direttrici di transito dei migranti.
Chiediamo al signor Touré conferma degli effetti della legge: «Ci sono ancora migranti che tentano di andare in Libia, ma sono rari, perché c’è una politica di contenimento, per cui fin dalla frontiera si impedisce loro di entrare in Niger. Prima (della legge, ndr) qui era pieno di migranti sugli autobus di linea delle tre principali compagnie che viaggiano nel Nord. Stavano a Niamey anche una o due settimane, il tempo necessario per ricevere i soldi dalle famiglie e continuare il viaggio, oppure che i passeur (coloro che organizzano i viaggi, o trafficanti) si organizzassero per farli partire. Ora è diventato tutto clandestino, perché sanno di essere ricercati. Prima non si nascondevano».
Migranti di ritorno
Un altro aspetto che ha fatto invertire il flusso, ovvero non solo ridurre quello di andata verso Nord, ma incrementare quello verso Sud dei cosiddetti «migranti di ritorno», è il cambiamento del trattamento che i libici, le varie milizie, riservano da qualche anno ai migranti subsahariani.
«Sono partito per la Libia due volte». Ci racconta Alì Diubate, un ragazzone di 32 anni, di Kankan, Guinea, incontrato al Centro Liberté. «La prima è stata il mese di gennaio 2017. Mi hanno preso molti soldi sulla strada. Sono passato da Agadez e Arlit in Niger, poi da Tamanrasset in Algeria. Lì abbiamo preso una macchina 4×4 per la Libia. I passeur ci hanno messi in un foyer, un posto dove ci hanno chiesto i soldi. Siamo poi passati in un altro foyer, stesso sistema. Appena siamo arrivati a Tripoli ci hanno rinchiusi. Ci hanno legati e torturati, dicendo di chiamare i famigliari, altrimenti ci avrebbero uccisi. Mi hanno fatto un video con il mio cellulare mentre mi maltrattavano e mi hanno imposto di metterlo su Facebook, affinché lo vedessero parenti e amici, per chiedere loro un riscatto. La famiglia ha mandato 3.500 euro che i carcerieri si sono spartiti e poi mi hanno liberato. Sono arrivato al porto, dove si parte con i barconi, ma lì era anche peggio. Hanno preso tutti i soldi che mi erano rimasti. Con altri siamo stati obbligati a fare i lavori forzati. Poi ho deciso di ritornare, sono fuggito e sono arrivato qui a Niamey. Dopo quattro mesi sono ripartito, sono tornato a Tripoli, ma è stato di nuovo terribile». Alì ci mostra dei vistosi segni sulle braccia, le cicatrici prodotte dalle torture. «Ho fatto altre due settimane nella loro prigione, ma sono riuscito a scappare e sono tornato qui».
Alì vive al Centro Liberté da due mesi e lamenta che mancano i soldi per pagare l’affitto del tugurio dove ci troviamo, che però è il solo riparo per lui e i suoi compagni. «Se andassi all’Oim mi aiuterebbero a raggiungere Conakry (capitale della Guinea). Ma io sono il primogenito della mia famiglia, ho preso tutta l’eredità e l’ho persa. Due volte. Ho tre sorelle e due fratelli più piccoli. Quando ero in prigione, l’ultima volta, mi hanno mandato ancora dei soldi. Hanno venduto le vacche, il terreno della casa, per farmi liberare. Tutto è perso. Devo riuscire a mettere qualcosa da parte prima di tornare e ricominciare un’attività in Guinea».
I migranti di ritorno si ritrovano nella capitale nigerina, che è la prima grossa città sul loro percorso di ripiego. Sono fuggiti dalle persecuzioni e dalle torture dei libici, ma hanno impoverito le loro famiglie di origine. I più, invece di rientrare a casa, restano bloccati in questo paese, uno dei più poveri del mondo, alla ricerca di qualche lavoro, che difficilmente permetterà loro di mettere da parte le cifre che hanno dissipato per pagarsi il viaggio.
Se vuoi tornare a casa
L’ufficio dell’Oim di Niamey, vista la sua posizione strategica, ha acquisito negli ultimi anni sempre più importanza e ottenuto fondi. Una giovane funzionaria italiana ci racconta: «A partire dal 2016 sono cresciute le domande di assistenza per il ritorno, mentre prima c’erano molti passaggi per andare verso Nord. Adesso vediamo una frammentazione delle rotte, perché quelle principali sono presidiate dalle forze dell’ordine. I passeur hanno continuato in modo nascosto creando nuove rotte secondarie, evitando i centri e talvolta anche i pozzi nei deserti».
L’Oim Niger può contare su cinque centri di transito, ad Arlit, Dirkou, Agadez nel Nord e due a Niamey, dove se ne sta aprendo un terzo. Qui, chi chiede assistenza all’Oim, viene identificato, rifocillato, aiutato psicologicamente e attende di essere rimpatriato con un mezzo dell’agenzia. I casi vulnerabili, come i minori o donne con particolari problemi, e le persone dei paesi più lontani, sono rimpatriati in aereo. «Nei centri la maggior parte sono migranti di ritorno, ma ci sono anche quelli che, in viaggio verso Nord, decidono di non proseguire», continua la funzionaria.
L’Oim fornisce anche sostegno al governo del Niger, come formazione e fornitura di attrezzature alle autorità consolari.
Capita, al signor Touré, di entrare in contatto con giovani subsahariani che stanno tentando l’avventura verso la Libia. L’anziano agente consolare cerca di dissuaderli: «Quando li incontriamo li portiamo in questi centri e li facciamo parlare con quelli che hanno subito sevizie e torture (in Libia, ndr) in modo che si scoraggino nel continuare. Molti dicono: “Dobbiamo partire, preferiamo morire nel deserto che morire a casa nella miseria”. Una volta è venuto qui l’ambasciatore della Guinea e l’ho portato a incontrare i migranti. Uno di loro era originario dello stesso villaggio dell’ambasciatore. Lui ha cercato di convincerlo, gli avrebbe pagato un volo per tornare a casa, ma l’altro continuava dicendo che era partito con l’intenzione di riuscire. Abbiamo fatto di tutto, ma il ragazzo è partito. Tre mesi dopo mi hanno chiamato per dirmi che era morto. Nel suo gruppo erano sei, tre di loro hanno accettato che pagassimo loro il bus e sono ritornati al paese. Ogni tanto mi chiamano per dirmi che stanno bene, hanno dei piccoli progetti e si sono reintegrati. Come uno che ha realizzato un pollaio e la cosa funziona per lui».
Chi vende chi
Boubacar Oullaré è appena arrivato al Centro Liberté. Ha 28 anni e parla un ottimo francese. Ci dice di essere laureato in giurisprudenza. Aveva un grande sogno, quello di arrivare in Europa. A casa, in Guinea, ha lasciato una moglie e due figli piccoli. Ci spiega i meccanismi del viaggio: «La transazione passa prima attraverso passeur africani (qui l’intervistato intende i subsahariani, ovvero africani di carnagione scura, ndr). Con loro si fa Agadez, Arlit, Tamanrasset. Questi ti vendono ai Tuareg. Da Tamanrasset a Djanet, che è la frontiera tra Algeria e Libia, ti portano i Tuareg, che poi ti vendono ai Tubu (toubou) della Libia. Essi ti portano fino a Tripoli. Qui ti mettono in un foyer, dove chiedono delle somme ai tuoi genitori, per farti traversare oppure per liberarti. Si tratta in realtà di prigioni clandestine, non hai libertà, e ti propongono con la forza degli affari loschi che non puoi rifiutare. Se paghi la somma richiesta ti portano sulla costa. Qui ti prendono tutto, i tuoi abiti, anche la cintura, perché si viaggia su gommoni, e non si vuole rischiare di forarli. Si parte, ma ci sono spesso battelli che si rovesciano nell’acqua. In questo caso, se ti recuperano le navi internazionali sei salvo, perché ti portano in Italia. Se invece sei in acque libiche ritorni in Libia. Noi non abbiamo avuto fortuna – dice con un’enorme delusione sul volto -. Siamo naufragati in acque libiche. Tornati sulla costa avevo speso tutti i soldi. Ho dovuto di nuovo chiamare i miei genitori affinché mi aiutassero. Per questo motivo in Guinea non abbiamo più nulla. Tutti i beni di famiglia sono andati in fumo».
E conclude sconsolato: «Io adesso ho vergogna di presentarmi al mio paese, sono partito e ho preso una somma colossale per il viaggio. Tutto è perso. Siamo qui, e la nostra unica speranza è in Dio».
Lasciando il Centro Liberté i ragazzi, inizialmente ostili, sembrano patire il distacco con questi visitatori stranieri che, in qualche modo, rappresentano la loro terra promessa. Qualcuno di loro parla ad alta voce nella propria lingua, qualcun altro ci dà la mano e ci guarda negli occhi tristemente, sembra dire: «Italiano, domani tornerai in Europa in poche ore con l’aereo. Io ci ho provato e ho perso tutto. Ho rischiato pure la vita. Ti prego, non lasciarmi qui».
Marco Bello
Aqmi, Isis nel Sahara e Boko Haram
Nella morsa jihadista
Il Niger ha un ruolo centrale nella lotta al terrorismo in Africa Occidentale. È in guerra da anni con diversi gruppi armati, appoggiato da eserciti stranieri che ne approfittano per tenere un piede sul suo territorio.
Il Niger è anche al centro della geopolitica della guerra contro i jihadisti. A Nord e Nord Ovest si confronta con le formazioni terroristiche del Sahara e Sahel. Sono i gruppi come Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e Stato Islamico nel Grande Sahara, una realtà costituita da una galassia di gruppi armati che ora si alleano, ora si combattono e imperversano in Mali e in Burkina Faso. In Mali dal 2012 è in corso una guerra, in cui sono intervenuti l’esercito francese, quello tedesco (con la sua più grande missione militare all’estero) e la Missione delle Nazioni Unite Minusma (13.000 uomini di 26 nazionalità), oltre alle Forze armate maliane (cfr. MC giugno 2017).
In Niger questi gruppi compiono attacchi sporadici, a volte anche incisivi – l’ultimo di rilievo risale al 4 ottobre 2017, quando morirono 5 soldati nigerini e 3 statunitensi -, ma non presidiano alcuna area specifica. Il governo di Mahamadou Issoufou, al potere dal 2011, e rieletto nel 2016, ha infatti sempre avuto un buon controllo del vasto territorio nigerino.
L’altro nemico è a Sud Est, dove la setta fondamentalista Boko Haram impegna sul campo di battaglia diversi eserciti nell’area delle quattro frontiere del lago Ciad. Qui Niger, Ciad, Nigeria e Camerun sono riuniti nella Forza multinazionale mista. In questo contesto intervengono anche i francesi e i droni statunitensi (cfr. MC ottobre 2016 e dicembre 2015) in partenza dalla base franco-statunitense nei pressi dell’aeroporto di Niamey, dove anche l’esercito tedesco sta costruendo la propria base. In tre anni di guerra aperta contro Boko Haram sono centinaia le vittime nigerine (civili e militari) e migliaia gli sfollati nella regione di Diffa. Lo scorso 17 gennaio c’è stato un attacco a una base militare nigerina a Toumour nei pressi di Diffa con almeno 7 morti, al quale sono seguiti bombardamenti aerei della forza multinazionale. Circa un mese prima, fonti militari confermavano l’uccisione di 387 presunti integralisti da parte delle forze armate con l’appoggio dei droni (questi solo recentemente sono stati armati). Il 2 luglio, invece, il villaggio Nguelewa, sempre nei pressi del lago Ciad, era stato attaccato: nove abitanti uccisi e 39 donne e bambini presi in ostaggio. Il primo rapimento di massa nel paese.
Il Niger fa anche parte della coalizione militare G5 Sahel con Mauritania, Mali, Burkina Faso e Ciad per combattere i gruppi jihadisti presenti nella regione. Forza che opera in stretta collaborazione con l’operazione Brakhane (4.000 militari francesi con mezzi, dispiegati nei paesi saheliani contro i jihadisti dal 2014). I governi hanno deciso la creazione di un fondo fiduciario per i finanziamenti necessari a operare, circa 423 milioni di euro per il primo anno. A marzo la forza dovrebbe diventare operativa sul terreno lanciando l’operazione Pagnali, come definito dall’incontro di Parigi, tra i 5 ministri della Difesa africani e quello francese, Florence Parly.
Marco Bello
Militari italiani in Niger: addestrare o occupare?
Operazione «scarponi» nella sabbia
Anche l’Italia si appresta a inviare militari e mezzi in Niger. L’ottica è quella di bloccare i migranti in Africa, ma con i numeri previsti è impossibile controllare le frontiere. Mentre i costi rischiano di lievitare.
Il parlamento italiano ha approvato nel gennaio scorso la missione militare in Niger (contestata dal mondo missionario italiano, ndr). Nell’arco di sei mesi, nel paese saheliano potrebbe essere schierato un contingente di 470 uomini. Quale sarà il suo compito? Il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore della Difesa, ha affermato che non sarà una missione di combattimento. I nostri militari dovranno «addestrare i militari nigerini per renderli capaci di contrastare efficacemente il traffico di migranti e il terrorismo». «In realtà – afferma Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa -, la missione partirà in sordina con lo schieramento di 120 uomini che saranno impiegati per la costruzione di una base logistica a Niamey e per compiti addestrativi. Sarà poi il governo che uscirà dalle elezioni di marzo a decidere se mantenere la missione in questo assetto o ampliarla, affidandole anche i compiti di controllo della frontiera con la Libia dalla quale passano i traffici di uomini, droga, sigarette, ecc.». Indiscrezioni parlano dell’invio dei nostri militari a Madama, in mezzo al Sahara, al confine libico, postazione attualmente occupata da truppe francesi.
Facendo un passo indietro, da dove nasce l’esigenza di questa missione? «La missione – prosegue Gaiani – vuole rispondere alle richieste del Niger di avere un supporto nel contenimento del fenomeno dell’immigrazione. Non è un’esigenza nuova. Nel 2014 ero in Niger e l’allora ministro degli Esteri, oggi ministro dell’Interno, Mohammed Bazoum mi disse: “Con l’Italia c’è un rapporto storico, perché Roma non ci aiuta, formando i nostri uomini e fornendoci i mezzi, per contenere l’immigrazione bloccandone le rotte?”. Nel 2014 però, l’Italia era impegnata nell’operazione Mare Nostrum e non era interessata a inviare uomini in Niger. Oggi le condizioni di politica interna ed estera in Italia sono cambiate e c’è un rinnovato interesse da parte di Roma nel contenere l’immigrazione direttamente in Africa. Il Niger diventa quindi la prima linea sulla quale combattere il traffico di esseri umani, ma non solo».
Il 27 settembre 2017, Niamey e Roma hanno firmato un’intesa che prevede aiuti per 50 milioni di euro e l’invio immediato di 120 uomini. «Da giugno – osserva Gaiani -, la missione potrebbe crescere ulteriormente. Sarà il nuovo governo a stabilire se mantenere un contingente ridotto oppure se aumentarlo e quali missioni affidargli. A mio parere, se la missione sarà quella di controllare i confini tra Niger e Libia, 470 uomini potrebbero essere pochi per presidiare un’area così vasta. I militari sul terreno dovrebbero infatti avere il supporto di elicotteri, droni, mezzi di terra, apparati elettronici, ecc. Ciò aumenterebbe il costo della missione e lo sforzo logistico e operativo delle nostre forze armate».
In Niger gli italiani collaboreranno con altri contingenti? «I militari italiani – conclude Gaiani – lavoreranno insieme alle forze armate francesi che sono impegnate in Niger nella lotta al terrorismo. La presenza di soldati italiani, insieme a quella di militari tedeschi e spagnoli, permetterà a Parigi di ridurre il proprio contingente (e quindi di contenere le spese in bilancio) ma, allo stesso tempo, la Francia avrà la possibilità di mantenere una forte presenza nell’area».
Enrico Casale
Crateús, dove Dio è donna
Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |
Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.
«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.
All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.
Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.
Teologia incarnata
Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.
Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.
Puntare sui giovani
La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.
Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.
Il business della siccità
La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».
Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».
La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».
La salvezza è donna
Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.
La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».
Stefania Garini
La filosofia del Bem Viver
Anche oggi si può essere felici
Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.
«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.
Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».
Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».
S.G.
La lettura femminista della Bibbia
Chi decide la storia
Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.
Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».
Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.
Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».
Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».
S.G.
A 50 anni dal primo trapianto di cuore
Sudafrica | testi di Ernesto Bodini |
Da sempre l’idea del trapianto affascina l’umanità. Nel 1967 un cardiochirurgo del Sudafrica riuscì nell’intento di trapiantare addirittura il cuore. Riviviamo la storia di un evento che entusiasmò il mondo.
I trapianti di parti del corpo umano da un individuo all’altro affascinano l’uomo da tempo immemorabile. Assai noto, ad esempio, è un dipinto del XVI sec. che raffigura la storia di un presunto miracolo operato dai due santi e fratelli Cosma e Damiano (medici anargiri del III secolo che visitavano e curavano i malati senza farsi pagare, ndr) i quali, secondo la tradizione, presero una gamba sana da un etiope deceduto e la posero al posto di una gamba affetta da cancrena di un uomo bianco.
Non sorprende quindi che l’evoluzione della medicina moderna sia stata accompagnata da continui tentativi di trapianto, che hanno evidenziato al tempo stesso le difficoltà operative e i limiti delle conoscenze biologiche alla base delle tecniche impiegate, soprattutto nell’ambito della cardiochirurgia. Nel suo libro del 1896 sulla chirurgia, il chirurgo inglese Stephen Paget (1855-1926) scriveva: «La chirurgia del cuore ha probabilmente raggiunto il limite impostato per natura a tutti gli interventi chirurgici; nessun nuovo metodo e nessuna nuova scoperta possono superare le difficoltà naturali che attendono una ferita del cuore».
Una tappa fondamentale nella trapiantologia si è raggiunta nel 1967, quando il cardiochirurgo sudafricano Christiaan N. Barnard (1922-2001), suo fratello Marius (1927-2014) e uno staff di 30 operatori tra medici, infermieri e perfusionisti all’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, effettuarono il primo trapianto cardiaco al mondo. Un mondo che subito si chiese chi fosse questo chirurgo anonimo, divenuto in poco tempo un idolo, adorato ovunque.
Christiaan Neethling Barnard nacque in uno dei sobborghi più poveri di Johannesburg, secondo di quattro fratelli (il padre, Adam, era un pastore della comunità bianca). Dopo la laurea in medicina nel 1946 e un tirocinio di tre anni al Groote Schuur, fece pratica come medico di famiglia dal 1948 al 1951, per poi trasferirsi negli Usa dove conseguì la specialità in chirurgia generale con il prof. Owen H. Wangensteen (1898-1981), ottenendo il riconoscimento di un livello superiore e un dottorato di ricerca per esercitare in Sudafrica. Il prof. Wangensteen gli fece avere una borsa di studio e una macchina cuore-polmone che permise a Barnard di portare la chirurgia di by pass cardiopolmonare a Città del Capo, dove tornò nel 1954 per far parte del Dipartimento di chirurgia come aiuto. Da quel momento in poi si dedicò alla chirurgia sperimentale intervenendo su cavie (prevalentemente cani), quale presupposto per agire poi sull’uomo, grazie alla tecnica acquisita da due cardiochirurghi americani della Stanford University, Norman Shumway (1923-2006) e Richard Lower (1929-2008) che Barnard visitò nel 1966.
Dai suoi esperimenti si convinse sempre di più che, nonostante la disponibilità dei farmaci, l’unico vero trattamento per l’insufficienza cardiaca fosse il trapianto.
Il primo ostacolo che Barnard dovette affrontare fu quello di trovare il paziente adatto per il primo trapianto di cuore: doveva essere un malato terminale sul quale fosse inutile ogni cura conosciuta e anche un intervento chirurgico tradizionale.
Il 10 novembre 1967 Louis Washkansky si rivelò essere il paziente ideale in quanto affetto da «respiro di Cheyne-Stokes» a causa di insufficienza cardiaca, diabete e cellulite agli arti inferiori. Nel pomeriggio del 2 dicembre 1967 la giovane Denise Darvall subì un incidente stradale con conseguente grave trauma cranico, e giunta al pronto soccorso dell’ospedale le fu riscontrata la morte cerebrale. Il capo della cardiologia, il dottor Schrire, acconsentì di considerare come donatrice Denise Darvall e come ricevente Louis Washkansky. Seguì il consenso del padre della giovane appena deceduta, il quale, rivolgendosi a Barnard, disse: «È una bella fortuna, se non puoi salvare mia figlia, devi provare a salvare quest’uomo».
Sulla questione etica del decretare la morte cerebrale come irreversibile, Barnard nella sua autobiografia scrisse: «La maggioranza dei cardiochirurghi sono d’accordo con il pontefice Pio XII il quale, già nel febbraio 1957, disse a un gruppo di medici che non vi è l’obbligo morale di usare mezzi artificiali e straordinari per resuscitare un corpo, purché sia esclusa ogni speranza di ripresa» (facendo riferimento a un discorso del papa del 24 febbraio 1957 su tre quesiti della «Società Italiana di Anestesiologia», ndr). Ciò valeva per Denise Darvall il cui cervello era stato distrutto.
Il grande evento avvenne il 3 dicembre 1967. Nel reparto di cardiochirurgia era già tutto predisposto nella sala B. Il giovane Barnard, coadiuvato dai dott. Rodney Hewinston e Terry O’Donovan, asportò parte del cuore della ragazza; simultaneamente, nella contigua sala A, un’altra équipe asportò parte del cuore del paziente ricevente. Bloccando i grossi vasi, Barnard estrasse il cuore di Denise e lo depositò per un istante in una bacinella tenuta dall’infermiera Peggy Jordan. Ora cominciava la parte più delicata dell’intervento. Prendere il cuore di Denise e trapiantarlo nel petto di Washkansky. Barnard, rifacendosi al metodo ingegnoso ideato da Shumway, procedette alla saldatura: non si asportava tutto il cuore, ma se ne lasciava in situ la «calotta», ossia la parte superiore. Immerso in una soluzione ghiacciata di acido lattico, sembrava molto piccolo accanto a quello del ricevente. Non si vedevano segni di attività, ma Barnard sapeva che vi era una scintilla di vita, e sapeva che l’organo si sarebbe messo a battere non appena le prime gocce di sangue caldo ossigenato fossero arrivate attraverso le arterie coronariche. E solo allora il cuore avrebbe ripreso vita salvando l’uomo che Denise Darvall non conosceva. L’intervento raggiunse la fase cruciale. Il cuore di Denise, privato della sua «calotta», venne accollato al «residuo» del cuore di Washkansky. In pratica, circa i due terzi inferiori del cuore della ragazza vennero accostati e suturati al terzo superiore del cuore del ricevente. Quasi un «gioco ad incastro». Terminato l’intervento, seguirono lunghi minuti di silenzio, nella trepidante attesa che il cuore trapiantato desse i primi segni di un’attività autonoma. Il giovane cuore di Denise riprese a battere nel petto di un uomo di trent’anni più anziano. Il più bel tramonto del mondo al giovane cardiochirurgo non sarebbe sembrato altrettanto stupendo. Diciotto giorni dopo il paziente subì un’infezione polmonare che lo portò al decesso.
Ma Barnard non si scoraggiò e il 2 gennaio 1968 effettuò il suo secondo trapianto su Philip Blaibertg. «Questa – spiegò – è stata un’operazione veramente importante. È stato in questo caso che il mondo ha conosciuto il trapianto cardiaco. Abbiamo dovuto dimostrare che un paziente sottoposto a un trapianto di cuore era in grado di riprendersi dall’intervento, di lasciare l’ospedale e di condurre una vita normale». Infatti, il paziente sopravvisse 593 giorni (19 mesi) dopo il trapianto. Il famoso clinico effettuò altri 51 trapianti prima di «depositare» il bisturi a causa di una grave forma di artrite. Morì il 2 settembre 2001 a Cipro in seguito ad un attacco acuto di asma, e non per arresto cardiaco come divulgato da alcuni mass media.
Ernesto Bodini
Insegnaci a pregare 12.
Pregare Dio senza dargli riposo
Di Paolo Farinella |
Dopo il successo della moltiplicazione dei pani, leggiamo nel vangelo di Matteo: «Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo» (Mt 14,23). In appena un versetto c’è tutta la vita di Gesù: la folla, il monte, la preghiera, il tempo, la sera, la solitudine. Solo «sul finire della notte, cioè all’alba, egli andò verso di loro camminando sul mare» (Mt 14,25). Per tutta la notte, Gesù ha vissuto l’esperienza del salmista: «In te si rifugia l’anima mia / all’ombra delle tue ali mi rifugio», perché all’alba possa danzare la vita nascente: «Svegliati mio cuore / svegliatevi, arpa e cetra / voglio svegliare l’aurora» (Sal 57/56,2.8-9). La preghiera di Gesù è notturna, la prospettiva è diurna; prega da solo, ma per andare «verso di loro».
Il ritmo della notte
La notte è silenzio e raccoglimento, nella notte rallentano le distrazioni, aumenta il bisogno di tenerezza da condividere, «si amoreggia» (fratel Arturo Paoli) o con il partner o con Dio. Gesù prega, «amoreggia» col Padre per prepararsi a non essere neutrale nel cuore della storia che tutti i giorni ricomincia all’alba. In lui nessuna traccia d’intimismo o di ripiegamento su se stesso, al contrario, la sua preghiera è un trampolino di lancio verso il mondo, l’umanità, verso la vita. Dopo avere cercato Dio ed essere rimasto con lui per tutta la notte, ora è pronto per annunciare la nuova umanità: «Beati i poveri»! Chi ha pane e sta con Dio, non può non spezzarlo con tutti. Si fa presto, però, a dire «cercare e trovare» Dio! Tutte le forme di spiritualità e i movimenti hanno la pretesa di insegnare a cercare Dio e garantiscono anche la via per trovarlo. In verità molti cercano proseliti, non testimoni del «Dio a perdere». Somigliano a coloro che promettono risultati mirabolanti di diete senza digiuno o sudore, o a chi garantisce l’apprendimento di una lingua in «tre settimane». Dio ridotto a un tecnicismo.
Non siamo sicuri che sia così semplice. Se per cercare e trovare Dio bastasse entrare in un movimento o scegliere una specifica spiritualità o «tre settimane», neppure residenziali, il mondo sarebbe un Eden di mistici e beati «stiliti», dritti e immobili su una colonna, glorificanti e pacificati. Nemmeno i monasteri di clausura sono «luoghi» certi della presenza di Dio; a volte possono anche essere luoghi della negazione non solo di Dio, ma anche della comunione fraterna. Stare insieme fisicamente, circoscritti in uno spazio, con i tempi contingentati, non significa di per sé «essere comunità», sacramento visibile della Gerusalemme celeste (vedi approfondimento più sotto).
Tutte le comunità corrono sempre il rischio di essere «mucca da mungere», da cui ognuno succhia il proprio latte, ma che nessuno si preoccupa di nutrire. Perché la comunità, la famiglia, il matrimonio, la coppia, il gruppo, siano segno della Gerusalemme celeste «visibile», è necessario che siano coniugati sullo stesso registro tre pilastri: l’individualità, la comunità e la Trinità come metro di misura. Altrimenti, ci troviamo dentro una qualsiasi associazione d’interesse e di sfruttamento.
Nota esegetico spirituale
Cercare Dio è un «ritorno al principio», bisogno primario della persona e biblicamente si coniuga con l’altro termine «trovare»; insieme formano un binomio essenziale: «cercare-trovare». Noi cerchiamo Dio, ma lui si fa trovare? Donna Sapienza ci assicura di lasciarsi trovare da coloro che la cercano (cfr. Pr 8,17), mentre l’amante donna del Cantico dei Cantici per ben tre volte cerca l’amato del suo cuore, ma senza riuscire a trovarlo, anzi afferma espressamente: «Non l’ho più trovato» (Ct 3,1.2;5,6). Eppure il binomio «cercare-trovare» è tipico dell’innamoramento; la stessa donna innamorata del Cantico dei Cantici non si rassegna e corre per le vie di Gerusalemme alla ricerca dell’amato: lo trova, lo smarrisce e lo ritrova. Noi credenti, se innamorati, possiamo cercare e trovare nella Parola il volto di Dio e il riflesso del nostro cuore che si rispecchia in lui per apprendere orizzonti, comportamenti e atteggiamenti.
Il salmista, dal canto suo, mette in moto il cuore per cercare il volto del Signore e ne fa un vanto di gloria (cfr. Sal 27/26,8; 105/104,3). Per Amos (sec. VIII a.C.) «cercare il Signore» è vivere e nutrirsi della sua Parola che però non è facile trovare se non si conosce già ciò che si vuole (cfr. Am 5,4.6; 8,12). Il profeta Michèa (sec. VIII a.C.) ribalta la questione: è il Signore che cerca noi e da noi vuole solo giustizia, tenerezza e comunione (cfr. Mic 6,8). A essi risponde il 1° Isaìa (sec. VIII a.C.) dicendo che cercare il Signore è sinonimo di prendere coscienza dello stato di desolazione in cui da soli ci siamo ridotti (cfr. Is 26,16). Il 2° Isaìa nel VI sec. a.C. descrive la volontà di Dio che è sempre reperibile perché non gioca a nascondino per farsi cercare nel caos/vuoto (cfr. Is 45,19), mentre il 3° Isaìa, nel sec. V-IV a.C., ha una prospettiva più universalistica e ci assicura che il Signore si fa trovare anche da coloro che non lo cercano affatto (cfr. Is 65,1).
Sant’Agostino sintetizza tutto questo percorso con le parole insuperabili delle Confessioni che rispecchiano la sua esperienza personale, ma anche l’anelito di ogni vivente: «Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te – Ci hai creati per te e il nostro cuore sta inquieto finché non trova riposo in Te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1, 1, 1: CCL 27, 1 [PL 32, 659-661]).
L’idolatria sempre in agguato
Occorre stare attenti perché Dio può anche essere un «idolo» che noi scambiamo per Dio. Spesso sono le persone religiose che trasformano Dio in un idolo, dando così il fianco a chi ritiene di avere ragioni per negare la serietà di Dio e l’inutilità dei monasteri di clausura o dei conventi o delle congregazioni religiose, visti dall’esterno come comodi rifugi per una vita senza preoccupazioni: pasto, letto, tetto, e (forse) cultura sono assicurati, che piova o faccia freddo, perché è garantita la sicurezza dell’oggi e del domani. Il «voto di povertà» può diventare la massima garanzia «previdenziale» e assicurativa della vita: «Nihil habentes et omnia possidentes» (2Cor 6,10), capovolgendo la prospettiva del Vangelo e dell’apostolo Paolo. Noi credenti dobbiamo stare attenti a non fare di Dio il nostro «idolo» perché si può essere religiosi atei, si può essere atei e laicisti devoti per interesse, si possono osservare tutte le regole della vita religiosa e vivere nella totale assenza di se stessi a Dio. Gli idoli sono necessari agli impiegati della religione per semplificare la vita, trasformando Dio in un «tappabuchi» (Bonhöffer) sostitutivo della nostra incapacità di essere veri e autentici nella trasparenza evangelica della verità di Dio.
La preghiera, lo abbiamo visto e anche ripetuto molte volte, non è macinare parole o ingurgitare sospiri, ma purificare ciò che noi pensiamo di Dio, illimpidire lo sguardo per imparare a vedere e scrutare con gli occhi di Gesù, esercitarsi a pensare come lui in ogni circostanza, non secondo questa o quella filosofia, questa o quella ascetica, questa o quella convinzione o morale. Il concilio Vaticano II ci ha messi in guardia dal rischio che il Dio in cui diciamo di credere sia veramente il Dio di Gesù Cristo (Gaudium et Spes, nn. 19-20). Il comandamento di «non nominare il nome di Dio nel vuoto» (Es 20,7) non è rivolto ai bestemmiatori, ma ai credenti che impudicamente usano Dio come una merce o peggio una clava per ammazzare, distruggere, annichilire, mettere a tacere gli altri, identificandolo come sponsor della propria ragione e del torto altrui.
Vigilare la consuetudine
Pregare è un’altalena: «Lui deve crescere e io diminuire» (Gv 3,30). Nella preghiera occorre fare spazio al Signore che non è mai invadente e proporzionalmente diminuire i preconcetti, le certezze, le sicumere, le durezze che, come spazzatura, occupano spazi che meritano migliore distribuzione. Siamo talmente abitudinari nel nostro rapporto con Dio da averne perso completamente la memoria: viviamo per forza d’inerzia, andiamo avanti per schemi, senza nemmeno pensare o capire o accorgerci che inerzia e schemi hanno preso il posto dell’incontro. Quando qualcuno dice: «Vivo un tempo di aridità spirituale», oppure «mi distraggo quando dico le preghiere», che cosa significa se non che si sono smarriti nel dedalo dell’usuale, del convenzionale e delle formule? Dire «le» preghiere, ecco il punto. L’uso del plurale è sintomatico perché esprime l’idea che si tratti di una pratica acquisita, come prendere una medicina, a orari fissi (mattina, sera) per togliersi il pensiero. Non c’è la passione della vita o dell’intreccio della relazione. Si recita. Come in un piccolo teatro personale. Pregare, invece, è lasciarsi restituire da Dio la vita insieme alla nostra responsabilità e alla nostra dignità di testimoni della sua Presenza (Shekinàh).
Gesù si ritira in preghiera perché deve riordinare le coordinate dopo essere stato con la folla che ha appena sfamato, moltiplicando il pane con l’obiettivo di invitarla a cercare il pane che non perisce (cfr. Gv 6). La folla non capisce perché «cerca» un «utile» immediato. Per capire il nesso degli eventi e la direzione della sua vita, deluso da questo atteggiamento, Gesù prende una decisione drastica: congeda la folla, se ne stacca e si libera dall’ossessione del risultato. Di fatto, è il primo fallimento di Gesù. Da questo momento, egli si dedica alla formazione dei discepoli ai quali impartisce una serie di lezioni per educarli a vedere oltre i segni, oltre le apparenze, come ha appreso lui nell’intimità orante col Padre. Non insegna loro come raggiungere un risultato, ma come devono essere loro e quale metodo devono utilizzare per essere sempre se stessi, fedeli alla loro missione che coinvolge direttamente il nome e il volto di Dio.
Gesù si preoccupa che i discepoli si stacchino dalla logica della folla, come se volesse proteggerli dal virus mortale del consenso e del successo: li manda all’altra riva, anzi li «costrinse a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva» (Mt 14,22). Come una mamma che difende i suoi piccoli, resta lui da solo a fare da scudo, preservandoli dalla folla. La folla non è mai popolo e i discepoli non possono mondanizzarsi, devono vedere le cose da un altro punto di vista, dall’alto, e per questo devono imparare a ragionare, a pensare come Dio, cioè a pregare per illimpidirsi lo sguardo del cuore per potere vedere nel profondo della realtà. Non è facile, per questo Gesù insegna loro come fare. Scrive Madeleine Delbrêl (1904-1964), una tra le più grandi mistiche di ogni tempo:
«La fede non è forse vita eterna impegnata nel temporale? Noi ci vediamo costretti a raccordare la nostra vita di cristiani con tutto ciò che per noi è attuale: accelerato, momentaneo, immediato. Non è che questo ci costringa a credere diversamente, ci costringe a vivere diversamente» (Madeleine Delbrêl, È stato il mondo a farci così timidi? Uno scritto inedito, Editrice Berti, Piacenza 1999, 16-17).
Matteo riporta in 14,22-33 il racconto di Pietro che rischia di affondare in mare. Dopo il fallimento con le folle, Gesù si prende cura dei suoi discepoli, impartendo loro la prima lezione di vita di fede. L’evangelista mette in evidenza di proposito l’attenzione particolare di Gesù verso Pietro (cfr. anche Mt 16,16-21; 17,24-27), legato ai propri schemi limitati e non ancora libero di gettarsi al collo di Dio. È vero che si lancia fuori dalla barca, ma rischia di affondare perché lo fa con riserva e non con l’abbandono che Gesù esige con il suo «Vieni!». D’altra parte come può avere paura uno che pensa di essere «afferrato» dal desiderio di raggiungere l’amore? Per non sprofondare, Pietro ha bisogno di una «mano tesa» che lo «afferri» (Mt 14,31), salvandolo dalla povertà della sua «poca fede». Gesù è già lì, pronto col braccio teso, prima ancora che Pietro possa invocare: «Salvami!».
Nota linguistica.
L’espressione: «Dopo avere steso la mano, lo afferrò», è un’espressione idiomatica semita, che dimostra come spesso gli autori del NT pensano in aramaico/ebraico e scrivono in greco. Le lingue semite sono descrittive per eccellenza: l’azione della mano, infatti, è osservata dall’inizio alla fine dell’opera di salvamento: per afferrare Pietro, occorre prima stendere la mano verso di lui (cfr. Gen 22,10), azione che denota la volontà decisa d’intervento.
Solo superando le ipotesi su Dio Pietro riesce a invocare Dio
Nonostante il Signore si faccia riconoscere e infonda coraggio, la paura permane e genera diffidenza; Pietro, infatti, insicuro, mette alla prova il Signore: «Signore, se sei tu…» (Mt 14,28) che è la stessa richiesta del diavolo nelle tentazioni: «Se tu sei figlio di Dio…» (Mt 4,3.6). Durante la passione ritroveremo Pietro che rinnegherà tre volte l’identità di Gesù, sconfessando la sua, negando cioè di essere quello che è: suo discepolo (cfr. Mt 26,69-75; cfr. Gv 18,17.25-27). Tra tutti i discepoli, Pietro è il più fragile, il più pauroso e il più insicuro: non sempre l’autorità brilla per chiarezza, coerenza e dignità. Egli di fronte a Gesù che cammina sulle acque, ubbidisce alla parola materiale del Maestro che lo chiama a dominare le acque con lui, ma nel suo cuore vacilla, dubita e non fidandosi non si affida alla Parola che lo sostiene: egli vuole «fare come Gesù», ma basta la contrarietà del vento per dargli la sensazione del pericolo. Un discepolo non è mai la fotocopia del maestro altrimenti non somiglierebbe a colui che costruisce la casa sulla sabbia (cfr. Mt 7,26-27) e frana in mezzo all’acqua da cui viene travolto, come i carri e i cavalli del Faraone (cfr. Es 14,26).
Solo l’affidamento e la consapevolezza di essere salvati pone nella condizione esistenziale di essere veri discepoli: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Con questa invocazione Pietro rinasce come «l’anti Àdam» perché non usurpa l’identità di Dio, ma si lascia afferrare dalla mano forte e sicura del Signore che lo reintegra nella fede sufficiente: «Uomo di corta fede» (Mt 14,31). La nostra corta fede spesso c’impedisce di vedere la Parola e la mano che si protende a noi! All’arrivo del Signore, salito sulla barca (nei vangeli è sempre simbolo della Chiesa), il vento cessa. Gesù domina gli elementi della natura come Yhwh governa e comanda i fenomeni naturali che fanno da sfondo alle sue apparizioni teofaniche. Gesù si presenta assumendo su di sé il Nome stesso di Dio rivelato nella maestosa teofania del Sìnai a Mosè che vive l’esperienza del roveto ardente: «Io-Sono – Egô Eimì» (Es 3,14).
Nota esegetica.
Purtroppo anche la nuova traduzione della Bibbia (Cei-2008) usa l’anonimo «sono io» e non la pregnanza teologica della rivelazione di Gesù sulle acque del mare di Tiberìade che deve essere reso solo con «Io-Sono–Egô Eimì», richiamo esplicito alla rivelazione del Dio di Mosè che si mette all’opera per la liberazione attraverso le acque del Mare Rosso.
La prova di questo si ha nel vangelo di Giovanni, dove l’espressione ricorre in dieci forme diverse: «Io-Sono» (Gv 4,26; 6,20; 8,24.28.58; 9,9; 13,19; 18,5.6.8);
«Io-sono il pane» (Gv 6,35.41.48.51); «Io-sono il pane della vita» (Gv 6,35.48); «Io-Sono la luce» (Gv 8,12); «Io-Sono il testimone» (Gv 8,18); «Io-Sono la porta delle pecore» (Gv 10,7.9); «Io-Sono il pastore bello» (Gv 10,11.14); «Io-Sono la risurrezione» (Gv 11,25); «Io-Sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1); «Io-Sono la vite» (Gv 15,5). La somma totale di tutte queste affermazioni di identità, «Io-Sono», in Gv fa ventisei che, secondo la scienza dei numeri o ghematrìa, è la somma dei numeri corrispondenti alle lettere che compongono il nome di «Y_H_W_H» (=10+5+6+5). Per Giovanni, usando l’espressione «Io-Sono», Gesù è consapevole d’identificarsi con il Dio della rivelazione ebraica, il Dio dell’esodo e, come Yhwh dominò le acque del Mare Rosso, salvando il suo popolo, così ora Gesù domina il mare, salvando Pietro.
Pregare: non dare tregua a Dio
Il Terzo Isaia (sec. V-IV a.C.), degno discepolo del suo maestro, l’Isaia vissuto nel secolo VIII, deve avere una buona frequentazione con il Dio d’Israele perché non esita a invitare le sentinelle di Sion, (la città) sede della gloria di Yhwh, all’insubordinazione:
«Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai. Voi, che risvegliate il ricordo del Signore, non concedetevi riposo né a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e ne abbia fatto oggetto di lode sulla terra» (Is 62,6-7).
L’orante è colui che sta sulle mura della città di Dio «per tutto il giorno e tutta la notte» che è richiamo diretto alla «necessità di pregare sempre senza mai venire meno» (Lc 18,1). Compito dell’orante è risvegliare «le memorie del Signore» (l’ebraico usa il plurale di «zikkaròn-memoriale») che richiama la sua presenza viva e sperimentabile. L’idea che Dio possa dormire ci rimanda a Gesù che si addormenta simbolicamente nella barca: «Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono» (Mc 4,38). A questo punto la preghiera si fa questione di vita: «Non concedetevi riposo né a lui date riposo». Non bisogna concedere riposo a Dio e lo si può fare solo non concedendosi riposo. Un amico, plasticamente, diceva che per lui pregare era «mettere Dio con le spalle al muro», esattamente come fa Mosè, quando ricatta Dio, minacciandolo di abbandonarlo e di farsi cancellare dal libro dell’alleanza, se Dio non perdonerà il suo popolo: «Se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32).
Per arrivare a queste vette di profondità non si può essere improvvisatori, ma bisogna avere un’esperienza lunga, assidua e ininterrotta di convivialità con Dio, di fraternità con uomini e donne, di purificazione dell’essere e liberi da ogni ritualità che, immergendoci nel ripetitivo rassicurante, ci impedisce di volare sulle ali della preghiera per essere ben piantati sulle strade della storia.
Dal prossimo numero passeremo ai testi.
Paolo Farinella, prete (12, continua)
Nota.
Per l’approfondimento, cfr. Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella vita della Chiesa, EDB, Bologna 2012.
Carta d’identità: taiwanesi
Testo Mirco Elena |
La grande maggioranza degli abitanti della «provincia ribelle» (come Pechino definisce l’isola) si sente taiwanese. E il dato è ancora maggiore tra i giovani. Tuttavia, sono una minoranza coloro che vorrebbero l’indipendenza dalla Cina, opzione giudicata troppo rischiosa, e pochissimi quelli che vorrebbero l’unificazione. Per il momento, a Taiwan pare meglio il mantenimento dello «status quo»: né unificazione, né indipendenza.
Un recente studio, pubblicato dal quotidiano United Daily News1, sostiene quanto segue: il 73% della popolazione dell’isola dichiara di sentirsi taiwanese, mentre cinese solo l’11%2. Un’analoga inchiesta effettuata vent’anni prima, trovava valori rispettivamente del 44% e del 31%. Se ne può quindi dedurre come un certo spirito indipendentista si sia molto rafforzato. Ancora più impressionante appare il cambiamento se si considera che, nella fascia d’età 20-29 anni, questo dato sale addirittura all’85%. Per completare il quadro, si noti che il 10% della popolazione si sente sia taiwanese che cinese, mentre il 6% delle persone si è rifiutato di rispondere alle domande dell’indagine. Una domanda più politica ha infine riguardato l’indipendenza del paese, con il 46% della popolazione che si è dichiarata in favore della prosecuzione indefinita dell’attuale situazione, mentre il 19% preferirebbe muovere velocemente verso l’indipendenza e solo il 4% vorrebbe invece una rapida unificazione con il continente. Il 17% è infine a favore dell’indipendenza, ma preceduta da un lungo status quo. Considerando tutti quelli in vario modo a favore dell’indipendenza, si nota infine che il loro numero è aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente.
Essendo chiaro a tutti che il processo di distacco formale dall’idea di una Cina unificata potrebbe comportare gravi rischi, l’indagine ha anche esaminato il prezzo che i cittadini sarebbero disposti a pagare, pur di ottenere l’indipendenza formale. Ne è risultato che il 43% della popolazione complessiva taiwanese potrebbe accettare un drastico calo dei turisti provenienti dalla Cina; per un 20%, l’isola potrebbe sopportare la perdita della maggior parte dei suoi circa 20 alleati diplomatici all’Onu, e addirittura una guerra. Il 16% affronterebbe un blocco economico. Infine poco più del 20% della popolazione pensa invece che l’indipendenza dell’isola non meriti alcun sacrificio.
Più giapponesi che cinesi
Quando si arriva a Taipei, capitale di Taiwan, ci si potrebbe attendere di trovarsi in un ambiente tipicamente cinese. Certamente lo è, per gli ideogrammi presenti ovunque, per la simbologia religiosa, per le decorazioni, ma basta poco per rendersi conto che ci sono alcune notevoli differenze rispetto alla Cina continentale. Se la popolazione di quest’ultima è, per certi aspetti e modi di fare, molto simile a quella italiana3, i taiwanesi sono in un certo senso molto più «tedeschi» (ma, per ragioni geografiche e storiche, meglio sarebbe dire «giapponesi»). La capitale taiwanese è più pulita rispetto alla media cinese; la gente ha un maggior civismo e senso dell’ordine.
Da quanto detto in precedenza, risulterà facile capire come questa differenza si possa probabilmente far risalire all’effetto del mezzo secolo di colonizzazione giapponese, durata dal 1895 al 1945. Con tipica efficienza nipponica l’amministrazione isolana di quel periodo operò in modo da inculcare nella popolazione locale i modi ed i valori propri dell’arcipelago del sol levante: pulizia, ordine, efficienza, senso del dovere. Quando subentrarono i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek, questi portarono con loro alcune tradizionali caratteristiche cinesi antitetiche a quelle giapponesi: burocrazia arrogante, familismo, corruzione diffusa, disorganizzazione, individualismo anarcoide ed egoistico. Non proprio quello cui erano stati abituati i taiwanesi. Aggiungiamoci l’esercizio della violenza per reprimere ogni protesta e dissenso ed ecco che l’origine dell’insoddisfazione di molti taiwanesi diventa comprensibile. Se ciò non bastasse, ricordiamo come un ruolo non trascurabile debba averlo giocato anche la notizia delle atrocità e delle distruzioni perpetrate dalle guardie rosse al tempo della rivoluzione culturale scatenata da Mao sulla terraferma.
Piccoli esempi di quotidianità taiwanese
Quanto ancor oggi ci sia di «giapponese» nella società taiwanese lo possiamo dedurre da qualche episodio, successo direttamente all’autore di queste righe o riferitogli da fonti affidabili. Iniziamo da quel che capita un sabato quando alle quattro di mattina mi trovo a dover attraversare una strada cittadina a quattro corsie per prendere l’autobus che avrebbe dovuto poi portarmi all’aeroporto di Taipei. Traffico zero. Nessuno in giro. O quasi. Quando arrivo al semaforo che regola l’attraversamento pedonale c’è lì un signore che disciplinatamente attende che diventi verde. La tentazione di attraversare, pur col rosso, è forte. Mi pare illogico e inutile aspettare in quelle condizioni; oltre a noi due non c’è anima viva né traccia di autoveicoli nei dintorni. Lui, tranquillo, aspetta; io fremo. Mi dà però fastidio l’idea di mostrarmi un ospite cafone, che arriva in una nazione e ne viola le regole. Allora attendo anch’io. Il silenzioso e paziente signore, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato una lezione di civismo.
La disciplina dei taiwanesi appare chiara anche al momento di salire su un mezzo di trasporto pubblico, o di avvicinarsi ad uno sportello. Anziché gettarsi all’assalto, come tende ad avvenire sulla terraferma, i cittadini dell’isola si dispongono in fila e pazientemente attendono il loro turno. Come gentlemen inglesi.
Cyril, un francese stabilitosi sull’isola dopo aver sposato una ragazza locale, mi racconta che qui tantissime persone usano moto e motorini. Ma non era necessario che me lo dicesse lui; me ne ero già accorto, girando per la città. Quel che mi sorprende è invece la sua assicurazione che tutti usano lasciare il casco (che si deve obbligatoriamente indossare quando si è sul mezzo) semplicemente appoggiato sulla moto, quando questa viene parcheggiata; anche quando la si lascia per la notte a lato della strada. Nessuno lo fissa con un lucchetto, dato che non c’è chi pensi di rubarlo. O quasi. Cyril mi confessa che, in dodici anni di permanenza sull’isola, gliene hanno involato solo uno, nuovissimo e rosso brillante, proprio il giorno in cui lo aveva comperato. Il commento del filosofico Cyril è semplicemente «era troppo bello, avrebbe fatto gola a chiunque!». Ancora in fatto di furti, mi dice che, per la sua esperienza di insegnante di lingue, se uno scolaretto trova per terra una banconota da cento dollari, la prima cosa che fa è andare dalla polizia o da un vigile a consegnarla. Non proprio il tipo di comportamento che ci si aspetta di trovare in Cina continentale (ma nemmeno in Italia, a essere sinceri).
Da questi piccoli esempi non possiamo certo trarre nulla di più che qualche modesta indicazione sull’animo, la cultura, i modi di fare dei taiwanesi. Resta il fatto che, come si è visto un poco anche alle ultime elezioni, l’insofferenza per Pechino è forte in ampi settori sociali.
Preservare lo «status quo» (per evitare il peggio)
Come si esce da una situazione in cui potrebbe bastare un errore di valutazione, una dichiarazione azzardata, un intervento esterno mal progettato e peggio eseguito per scatenare uno scontro militare di ampie e imprevedibili proporzioni? Abbiamo già detto che gli Usa sono da tempo impegnati a difendere Taiwan nel caso venisse attaccata dalla Cina. Data anche la loro tendenza storica ad usare la forza per risolvere intricati problemi politici, questo potrebbe facilmente portare ad uno scontro tra le due grandi potenze4, che potrebbe sfociare in uno scambio nucleare. Nonostante la disparità di forze in campo (la Cina ha circa 300 ordigni, mentre gli Usa oltre 5.000, di cui «solo» 1.500 operativi) gli esiti sarebbero certo pesanti per entrambe le nazioni e l’intero quadrante geopolitico Est asiatico (se non addirittura quello mondiale) potrebbe venirne stravolto.
La modalità più sicura per evitare problemi così seri sarebbe certo quella di ridurre la tensione e la probabilità del ricorso ai mezzi militari. Potrebbe risultare decisiva una ribadita adesione taiwanese all’idea di una sola grande Cina, immaginata, almeno in prospettiva, riunificata. In subordine potrebbe bastare, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo, in cui Taiwan non si esprime chiaramente né a favore né contro l’unificazione o l’indipendenza.
Un utile passo avanti si potrebbe poi avere se lo speciale regime autonomo vigente a Hong Kong5 continuasse ad avere successo nel garantire le libertà politiche, economiche e sociali. In tal modo assicurando i taiwanesi che, anche nell’ipotesi di una riunificazione con Pechino, le caratteristiche fondamentali della loro democrazia sarebbero preservate e protette.
Positiva sarebbe anche una maggior comprensione da parte americana delle sensibilità della Repubblica popolare, così da evitare mosse interpretate come provocatorie ed offensive. Purtroppo, specie in epoca Trump, questo appare niente più che un evanescente sogno.
Non si dimentichi tuttavia che proprio la Cina ha bisogno di una situazione di perdurante pace, per poter continuare il proprio ambizioso programma di ammodernamento e di miglioramento degli standard di vita di tutta la popolazione. Inoltre la sua attuale forte inferiorità militare può e deve indurre Pechino ad essere prudente, anche nel caso debba ingoiare qualche indigesto rospo a stelle e strisce.
Sulla base di queste considerazioni, e ricorrendo abbondantemente all’ottimismo, possiamo confidare che, nonostante le periodiche tensioni e le loro accentuazioni, non si giunga a scontri militari potenzialmente in grado di portare a una situazione catastrofica. Questo detto, forse è meglio che chi ha fede, preghi che davvero sia così. E chi non crede, incroci le dita.
Mirco Elena (seconda parte – fine)
Note
(1) Giornale che si caratterizza per una posizione fondamentalmente a favore dell’unificazione con la Cina.
(2) Rilevazione compiuta tra il 15 e il 19 febbraio 2016, su un campione di 1.019 persone, con un margine di errore dichiarato del +/-3,1%.
(3) Si veda il libro «Cina e Italia allo specchio», di Mirco Elena e Yu Jin, pubblicato nel 2015 dal «Centro studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina» di Trento.
(4) Certo si potrebbe pensare che la promessa americana costituisca nulla più che un bluff, dato che la Cina ha la capacita di lanciare missili con testata nucleare in grado di raggiungere il territorio statunitense, con ciò disponendo di un potente strumento di dissuasione nei confronti degli statunitensi.
(5) Riassunto nel motto «Un paese, due sistemi».
La situazione religiosa
La libertà è un mosaico
Dalle religioni d’origine cinese al cristianesimo, a Taiwan il mosaico religioso è composto di molti tasselli.
Al contrario che nella Cina continentale a Taiwan la libertà religiosa è assicurata. Questo ha generato un mosaico di fedi assai variegato.
L’ultima inchiesta pubblica – condotta dalla sezione affari religiosi del ministero dell’Interno – sulla situazione a Taiwan risale al 2005. Secondo questo studio, il 35% della popolazione taiwanese si considera buddhista e un 33% taoista. Di rilievo sono anche alcune religioni sincretiche di origine cinese come il Yiguandao (I-Kuan Tao), che attinge da buddhismo, taoismo e confucianesimo, ma anche dal cristianesimo. Questa religione è illegale nella Cina continentale.
La ricerca del 2005 evidenzia anche la presenza di circa un milione di aderenti al Falun Gong, la disciplina spirituale che utilizza elementi della cultura tradizionale cinese (ma che in Cina è fuorilegge dal 1999).
Il cristianesimo arrivò a Taiwan (allora nota come Formosa, dal nome affibbiato all’isola dai marinai portoghesi) con gli spagnoli (1626-1642) e con gli olandesi (1624-1662), che alla fine prevalsero. I primi vi portarono il cattolicesimo, i secondi il protestantesimo. Oggi si contano più di 900mila cristiani, di cui 600mila protestanti e 300mila cattolici. I cristiani – pari a circa il 3,9 per cento della popolazione totale – sono soprattutto tra le popolazioni aborigene (appartenenti queste al gruppo austronesiano) e tra gli immigrati filippini. Anche l’islam è presente, ma quasi esclusivamente tra gli immigrati indonesiani.
La «minga»?del?vicariato?di Puerto?Leguízamo-Solano
L’Amazzonia è una regione unica. Per millenni abitata solamente da popoli indigeni, oggi ospita anche altre popolazioni. Gli uni e gli altri debbono affrontare molti problemi, perché la foresta si è trasformata in un luogo ambito a causa delle sue ricchezze. Il giovane Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano ha invitato decine di persone dei tre paesi confinanti – Perù, Ecuador, Colombia – sui quali si estende il suo territorio, per discutere su come difendere l’Amazzonia dall’assalto degli sfruttatori. Ha chiamato quest’evento «Minga amazónica fronteriza».
Verso Puerto Leguízamo, Colombia. Nel piccolissimo aeroporto di Puerto Asís non è facile avere informazioni. Non ci sono né monitor né annunci. L’aereo della Satena, la compagnia colombiana gestita dai militari, che ci ha portato qui da Bogotà, è ora fermo sulla pista. Finalmente un addetto ci spiega che a Puerto Leguízamo, meta del viaggio, sta piovendo a dirotto e pertanto la partenza è rimandata finché le condizioni meternorologiche non miglioreranno. Di norma nelle zone equatoriali le piogge sono molto intense ma si esauriscono in poco tempo. In ogni caso non c’è alcuna protesta dei viaggiatori visto che nessuno desidera imbarcarsi su un volo rischioso. All’improvviso viene aperta la porta che conduce sulla pista dove è posteggiato l’aereo (l’unico aereo). Saliamo la scaletta fiduciosi di riprendere il viaggio. Mi sistemo accanto al finestrino con la macchina fotografica nella speranza di poter immortalare qualche immagine dall’alto. Il volo si svolge tranquillo, a parte qualche prevedibile scossone. Nuvole nere impediscono di vedere bene la terra sottostante. Tuttavia, non mancano squarci nel cielo che consentono di ammirare i luoghi sorvolati. È una visione che affascina ma che al tempo stesso fa riflettere e intristire. Sotto è Amazzonia e il verde domina ancora incontrastato, ma gli spazi disboscati o ridotti a pascolo sono ampi. L’elemento più appariscente sono i fiumi, tanti, lunghi e sinuosi. Le loro acque non appaiono blu o verdi, ma marroni come la terra che trasportano.
Il volo dura circa un’ora. Nonostante la pioggia, l’atterraggio è relativamente facile. L’aeroporto di Puerto Leguízamo è costituito da una pista malconcia in mezzo alla campagna e una casetta bassa e anonima verso la quale s’incamminano i passeggeri di Satena. La pista è delimitata da una rete metallica oltre la quale s’intravvedono alcuni mototaxi, veicoli a tre ruote che costituiscono il mezzo di trasporto di gran lunga più diffuso. E, subito dietro, un grande cartellone sbiadito da sole e acqua che dà il benvenuto a Puerto Leguízamo, cittadina allungata lungo le rive del Putumayo, con il Perù di fronte e l’Ecuador poco sopra.
Sul volo ho incontrato padre Francisco Pinilla, colombiano e missionario della Consolata che lavora da queste parti da sei anni e che sta andando proprio dove vado io. Ne approfitto subito per chiedere una descrizione del luogo.
«Siamo – spiega – più o meno al centro del 6% dell’Amazzonia che la Colombia possiede. Contando tutto il municipio, qui vivono all’incirca 40mila abitanti». Di cosa vivono? «Un tempo si producevano riso, frutta, platano, yuca, però ultimamente la gente preferisce produrre altre cose (il padre si riferisce alla coca, ndr) che danno più reddito. Quindi, i prodotti locali sono andati sparendo». Per arrivare fino a qui ci sono due modalità. «Sì – conferma il missionario -, come siamo venuti, in aereo, con la compagnia della Forza aerea colombiana, e attraverso il fiume da Florencia o da Puerto Asís in 8-10 ore di viaggio».
Il viaggio per fiume, molto più lungo ma molto meno costoso di quello aereo, fino a qualche mese fa non era accessibile a tutti per la presenza delle Farc, che potevano fermare o sequestrare le persone giudicate non gradite. Dopo la firma degli accordi di pace (novembre 2016), la situazione è divenuta assai più tranquilla.
Sotto una leggera pioggia saliamo su un mototaxi. Per conversare occorre parlare a voce alta perché il rumore del veicolo è assordante ed anche la strada – stretta e dissestata – non agevola il dialogo tra i due passeggeri. Il paese è cresciuto lungo quest’unica arteria. Nostro destino è la sede del giovane Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che ha organizzato un incontro internazionale sull’Amazzonia: la «Minga amazónica fronteriza». Minga è un termine kichwa che indica un lavoro collettivo e gratuito di carattere temporaneo.
L’Amazzonia, da cortile a piazza centrale
All’incontro sono iscritte 147 persone: 32 provenienti dal Perù, 11 dall’Ecuador e 103 dalla Colombia (più una dall’Italia: chi scrive), tutte ospitate nelle strutture del Vicariato. In ognuno dei tre giorni (6-8 novembre 2017) è prevista l’esposizione di un esperto che parlerà di Amazzonia alla luce del motto della minga: Somos territorio, somos pobladores, somos cuidadores. La minga prevede però la partecipazione attiva di tutti. Per questo gli iscritti sono stati divisi in 11 gruppi o tavoli di lavoro: dai contadini ai cacique e governatori, dai laici missionari ai vescovi. Ogni gruppo dibatterà sugli interventi ascoltati in sala partendo dalle risposte ad alcune domande. Le considerazioni verranno quindi esposte da un portavoce di ciascun gruppo davanti all’assemblea riunita in seduta comune.
Nell’aula magna del Centro pastorale del Vicariato, sullo sfondo di un suggestivo albero di cartapesta (opera del padre Carlos Alberto Zuluaga), vengono cantati gli inni nazionali di Ecuador, Perù e Colombia. È mons. Joaquin Pinzón, il padrone di casa, a dare il benvenuto agli ospiti e aprire il convegno. Ma sono due indigeni shuar ecuadoriani, Bosco Guarusha e il figlio Daniel Guarusha, a offrire un senso mistico all’inaugurazione della minga con una cerimonia di purificazione (la cosiddetta «limpia») molto coinvolgente e partecipata.
Il primo intervento è di Maurizio López, segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). «Per molti anni – spiega il relatore – l’Amazzonia è stata considerata come il “cortile sul retro”. Si parlava di “terra senza uomini per uomini senza terra”, di “territorio di indios da addomesticare”, di “inferno verde”. Oggi l’Amazzonia si è trasformata nella “piazza centrale”. E non si capisce cosa sia meglio visto che oggi ci sono tanti occhi e tanti pareri su questa realtà. Se prima era un luogo da addomesticare e civilizzare, adesso la si vede come dispensa per lo sviluppo del mondo. Il che conduce a un “estrattivismo” che si comporta come se qui non ci fosse nessuno. Come se questi territori non avessero una loro popolazione, identità, cultura ed anche una loro sacralità».
Per di più – spiega ancora – oggi l’Amazzonia viene distrutta non per ripartire in maniera equa le sue ricchezze, ma perché esiste una corsa all’accumulazione senza fine. «Come dice papa Francesco – conclude Maurizio López -, siamo davanti a una crisi che è ad un tempo sociale e ambientale».
Dal «grande vuoto» ai selvaggi da umanizzare
L’antropologo peruviano Javier Gutiérrez Neira inizia il suo intervento citando dati archeologici che certificano la presenza umana in Amazzonia almeno da 12mila anni avanti Cristo. Smentita scientifica al mito del «gran vuoto amazzonico», successivamente sostituito da quello delle popolazioni selvagge da umanizzare. Azione che ebbe il suo apice con il genocidio avvenuto durante l’epoca del caucho (1840-1915), quando più di 30mila indigeni – principalmente Huitoto, Ocaina e Resigaro – vennero ridotti in schiavitù o sterminati. Rispetto al passato, oggi sono cambiate le condizioni generali (alle popolazioni autoctone si sono aggiunti gli abitanti meticci), ma non lo stato di conflitto.
I governi – spiega l’antropologo – hanno lottizzato l’Amazzonia dandola in concessione per molti anni a società minerarie e petrolifere, «senza considerare gli impatti sui territori indigeni e sulla stessa Amazzonia, la quale durante oltre 50 anni d’estrazione petrolifera ha conosciuto soltanto inquinamento e conflitti sociali». Nulla di più vero: in Perù, Colombia ed Ecuador, ad esempio, i conflitti ambientali in atto sono centinaia (Observatorio latinoamericano de conflictos ambientales, Olca).
Secondo l’antropologo peruviano, l’Amazzonia va pensata «da dentro» e non «da fuori». Dovrebbero cioè essere i popoli amazzonici ad avere la responsabilità di formulare una politica per l’Amazzonia e portarla all’attenzione degli stati nazionali.
La cancellazione del limite e la creazione delle necessità
Mons. Héctor Fabio Henao, direttore nazionale della Pastorale sociale della Caritas colombiana (e dal 17 dicembre anche presidente del Comitato del Consiglio nazionale per la pace, la riconciliazione e la convivenza) inizia il suo discorso dal concetto di limite. «La teoria è che la gente abbia necessità che non si saziano mai e per questo occorra produrre al massimo. È il produttivismo, cioè produrre illimitatamente per creare consumismo. Un consumismo che, a sua volta, ci porta verso uno sviluppo patologico, che chiameremo sviluppismo».
«Veramente abbiamo necessità illimitate? È sicuro che le necessità dell’essere umano non abbiano limiti? In verità, sono i sogni, i desideri a essere illimitati, mentre le necessità sono limitate». Ma come si inserisce in tutto questo l’Amazzonia? Il capitalismo, che mons. Henao definisce «uno stato dell’anima», vuole controllare completamente l’essere umano e la natura. Per questo ha messo gli occhi sull’Amazzonia. Concretamente: il capitalismo selvaggio spinge per l’estrazione delle materie prime (estrattivismo) del bioma amazzonico per alimentare una produzione senza limiti.
Mons. Henao vede il cambio corretto nelle proposte fatte da papa Francesco nella sua Laudato si’. Qui si parla di ecologia integrale e di rivoluzione della tenerezza. «Dobbiamo – conclude Henao – bandire la frase “Tutto è lecito”, visto che essa non include il futuro, non pensa cioè ad assicurare una vita dignitosa a chi verrà dopo di noi».
«Cosa abbiamo capito, cosa vogliamo fare»
Dopo tre giorni di relazioni, dibattiti e incontri conviviali, l’8 novembre giunge il momento di tirare le somme. Tutti i gruppi partecipano alla stesura di un Manifesto rivolto agli abitanti dell’Amazzonia e a tutti coloro che hanno a cuore la sua causa. La dichiarazione prende atto dei grandi problemi che coinvolgono il bioma amazzonico: dallo sfruttamento petrolifero a quello minerario e boschivo, dalle monocolture all’allevamento, dal narcotraffico all’insufficiente presenza dello stato.
Quindi, richiama le autorità nazionali, internazionali e locali a comportamenti adeguati alle particolari necessità dell’Amazzonia: adottare piani di sviluppo che siano realmente amazzonici; garantire la consultazione preventiva dei popoli indigeni per qualsiasi progetto; educare le comunità locali a un trattamento adeguato dei rifiuti; incentivare le autorità accademiche allo studio scientifico della realtà amazzonica, nonché alla formazione e divulgazione delle conoscenze maturate; spingere gli agenti pastorali ad avere una parola più profetica e decisa in difesa dell’Amazzonia.
Infine, il Manifesto afferma la volontà degli estensori di partecipare attivamente alla realizzazione del Sinodo amazzonico del 2019*, accompagnare le comunità amazzoniche nella ideazione ed esecuzione di progetti sostenibili e di contrastare con determinazione tutto ciò che attenta alla vita in Amazzonia.
Un Manifesto – per propria intrinseca natura – contiene indicazioni generali e a volte generiche, soprattutto su una materia complessa com’è la realtà dell’Amazzonia. Tuttavia, esso è importante come base di partenza concettuale, per produrre una fotografia del problema e ipotizzare soluzioni, modalità d’azione, comportamenti.
Vista sul Rio Putumayo
La minga è terminata. Il giorno seguente seguo padre Fernando Florez, uno degli organizzatori più impegnati, mentre accompagna al porto di Puerto Leguízamo il gruppo di partecipanti – paiono tutti allegri – che torneranno in Ecuador e in Perù. I primi salgono su una lancia a motore per passeggeri che lascia subito la banchina e inizia a solcare le acque calme del Rio Putumayo in direzione Nord. I secondi si accontenteranno di un vecchio barcone di legno senza finestrini e con tavolacci al posto delle sedute. Il motore tuttavia pare a posto. Dato che il viaggio verso San Antonio del Estrecho durerà due giorni e non ci sono posti di rifornimento lungo il tragitto verso Sud, occorre fare il pieno di carburante. Il distributore sta sulla strada, qualche metro più in alto rispetto alla riva. Il comandante collega allora il suo barcone con la pompa di benzina attraverso un lungo tubo di gomma. Ci vuole oltre un’ora per completare il rifornimento. Alla fine il barcone prende il largo docilmente con la logora bandiera peruviana che sventola nell’aria, tra i cenni di saluto di chi è rimasto a prua e il rumore ripetitivo dei peke peke – le piccole barche a motore – che gli passano a fianco. L’Amazzonia è (anche) questo.
Paolo Moiola
AMAZZONIA
I numeri, le ricchezze, le minacce
DEFINIZIONE
Si chiama Amazzonia la regione sudamericana che ospita la maggiore foresta tropicale umida del pianeta e la più grande riserva di acqua dolce del mondo.
DATI?GEOGRAFICI
SUPERFICIE: 7.989.004 km2 divisi su 9 paesi;
PAESI: Brasile (64%), Perù (9,7%), Bolivia (7%), Colombia (6,6%), Venezuela (5,9%), Guyana (2,1%)*, Suriname (1,9%)*, Ecuador (1,6%), Guyana francese (0,8%)*; (*): paesi con territorio amazzonico posto fuori del bacino idrografico del Rio delle Amazzoni.
FIUMI: Río delle Amazzoni (6.992 Km, il più lungo del mondo), con migliaia di affluenti tra cui il Río Negro (2.000 km), il Río Madeira (3.240 km), il Río Putumayo (1.813 km), il Río Napo (1.130 km), il Río Marañón (1.600 km). (Fonte: Gutierrez-Acosta-Salazar, Instituto Sinchi, Colombia 2004)
DATI?DEMOGRAFICI
POPOLAZIONE: 38 milioni di cui 25 in Brasile e 3,7 in Perú;
CITTÀ PRINCIPALI: Manaus (Brasile), Belém (Brasile), Iquitos (Perú), Santarém (Brasile);
POPOLI?INDIGENI: circa 420 popoli indigeni (60 in isolamento) per un totale approssimativo di 1,5 milioni di persone; sono 433mila (per 240 popoli) nell’Amazzonia brasiliana e 333mila (per 52 popoli) nell’Amazzonia peruviana.
RICCHEZZE
Foreste, acqua, fauna, flora, biodiversità, risorse del sottosuolo, popoli indigeni.
MINACCE?ANTROPICHE
Attività petrolifere, attività minerarie (oro, in primis), allevamento bovino estensivo, monocolture (soia, in primis), industria del legname, coltivazioni di coca, sfruttamento delle acque dei fiumi (centrali idroelettriche), biopirateria.
(Paolo Moiola, 2018)
Da conquistatori a protettori
A colloquio con padre Angelo Casadei
Per l’Amazzonia colombiana sono mutate molte cose. I missionari, presenti dalla metà del XVI secolo, già da tempo avevano cambiato le proprie modalità di lavoro. Scegliendo di schierarsi (con convinzione) a fianco dei popoli indigeni e in difesa di un ambiente unico.
Puerto Leguízamo. «Forse anche noi missionari arrivammo con uno spirito di conquista e per accompagnare la colonizzazione di questo territorio. Oggi c’è quasi una visione opposta. Prima si parlava di conquista dell’Amazzonia, oggi si parla di protezione e conservazione. Oggi l’Amazzonia non è più soltanto la sua ricchezza ecologica, ma anche quella dei popoli che in essa vivono. C’è stato – conclude padre Angelo – un cambio di visione rispetto a quando arrivammo».
I primi missionari arrivarono da queste parti a metà del XVI?secolo, i missionari della Consolata nel 1952, padre Angelo Casadei da Gambettola nel 2005. «Però in Colombia ero già stato durante gli studi, dal 1989 al 1990», precisa.
Dalla guerra agli accordi di pace
Padre Angelo non si separa mai dalla sua Canon. Fotografa e filma tutto. E quando lo fa non passa inosservato dall’alto dei suoi 186 centimetri d’altezza. Avendo operato in Caquetà (a Remolino e San Vicente del Caguán) e in Putumayo (prima a La Tagua, oggi a Solano), il missionario è un testimone privilegiato di questa parte dell’Amazzonia che per anni è stata un feudo quasi inaccessibile delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia», le Farc.
«Era una guerra civile. All’interno di uno stesso paesino potevi trovare persone che appartenevano all’esercito e altre alla guerriglia.
Per questo dico che l’accordo di pace è stato un bene per i colombiani. Anche se permangono gruppi dissidenti, per esempio a Solano. Oggi il vero problema nasce dall’assenza dello stato. L’unica presenza sono queste grandi basi militari (il riferimento è alla base che sta accanto alla sede del Vicariato, ndr). Prima dell’accordo tra il governo e le Farc, i soldati uscivano in gruppo e rientravano in gruppo per ridurre i rischi. C’erano però vasti territori dove i militari non entravano mai e dove l’ordine pubblico era gestito dalla stessa guerriglia. Oggi, con la consegna alle autorità della gran parte dei guerriglieri, molti di questi territori sono rimasti scoperti. Se lo stato non darà segnali di presenza, il rischio è che gli spazi vuoti possano essere occupati da bande criminali o dalla delinquenza comune e le persone inizino a farsi giustizia da sé. Com’è già accaduto».
La coca e le (difficili) alternative
Il problema è reale. Le bande criminali – una delle più conosciute è La Constru – si dedicano all’attività mineraria illegale e soprattutto al narcotraffico, che è in costante aumento. Il Putumayo è il secondo dipartimento colombiano per coltivazione di coca: si stimano 25.162 ettari coltivati, il 17% del totale (146.000 ettari nel 2016, stando ai dati Simci-Unodc). Più coca significa più danni ambientali (disboscamento e sversamento di sostanze chimiche nell’ambiente) e più danni sociali.
Un chilo di coca – quella più grezza prodotta sul posto di raccolta delle foglie (pasta básica de cocaína) – vale oggi quasi 3 milioni di pesos (circa 870 euro).
La media di produzione per ogni ettaro coltivato è di chilogrammi 1,45 di pasta base (dati Simci-Unodc). I raccolti sono tre all’anno. I piccoli contadini che la coltivano non diventano ricchi, vivono o semplicemente sopravvivono (cosa ancora più vera per i raspachines, i braccianti giornalieri che raccolgono le foglie).
«È difficile trovare un’alternativa alla coca, soprattutto in territori isolati come questi. Un chilo di coca, che sono milioni di pesos, lo metti in uno zainetto e lo trasporti facilmente dove vuoi. Se coltivi mais o yuca o altri prodotti, la commercializzazione risulta molto più difficile. I missionari hanno proposto vari prodotti in alternativa alla coca – soprattutto cacao e caucciù -, anche se non esiste un prodotto sostitutivo perfetto. Il nostro è però anche un lavoro di coscientizzazione, per far capire alla gente cosa comporta produrre cocaina».
Se si esclude la coca, le alternative economiche praticabili ed ecosostenibili non sono molte. L’allevamento – che qui è sempre di tipo estensivo – ha effetti devastanti perché implica disboscamento. Tanto disboscamento: la media attuale è di una vacca per ogni ettaro. Quanto alle altre colture sono, almeno per il momento, troppo poco redditizie. «La foresta offre però varie ricchezze – precisa padre Angelo -. Penso alle piante medicinali. Penso alla noce amazzonica, che ha mercato e che viene coltivata da alcune comunità indigene. Penso al caucciù (caucho natural), che un tempo era una ricchezza. Penso al cacao. Penso al turismo, che qui non esiste anche se abbiamo due grandi parchi naturali, La Paya e Chiribiquete. Ovviamente dovrebbe essere un turismo con limiti ben precisi».
Oro e petrolio, una maledizione
Altro fattore di distruzione è stato l’espansione dell’attività mineraria illegale, in particolare quella legata alla ricerca dell’oro alluvionale. I danni prodotti dalla ricerca del prezioso metallo riguardano soprattutto la contaminazione delle acque con il mercurio. «Anche le Farc – spiega padre Angelo – usavano l’attività mineraria illegale per avere delle entrate. In particolare, chiedevano una percentuale sull’oro estratto. Oggi però la situazione pare fuori controllo».
La fine della guerra civile ha dato nuovo impulso anche all’esplorazione petrolifera nell’Amazzonia colombiana. Ecopetrol (Colombia), GranTierra (Canada), Monterrico (Perù), Amerisur (Gran Bretagna) sono alcune delle compagnie che hanno aperto campi petroliferi in Caquetà e Putumayo.
«Per le compagnie petrolifere la scomparsa delle Farc è un vantaggio perché entrano nelle zone di ricerca con più facilità. La guerriglia era contraria alla loro attività perché essa porta strade e comunicazione, rompendo l’isolamento». Contrarie sono anche la maggior parte delle comunità indigene che si trovano direttamente coinvolte nei progetti petroliferi.
«Lungo il fiume Putumayo e lungo il Caquetà ci sono molte comunità indigene di vari gruppi etnici, che da sempre vivono in questi territori. Mantengono la loro lingua e tradizioni, anche se sono comunità che sono venute a contatto con l’uomo e la cultura occidentali. E spesso sono state violentate, come all’epoca del caucciù quando moltissimi indigeni furono schiavizzati».
«Noi ci siamo assunti il compito di accompagnarli in una riflessione sul trauma subito. Per molto tempo siamo stati gli unici ad avvicinarli e aiutarli nelle loro lotte. Per questo i popoli indigeni ci guardano con rispetto».
Paolo Moiola
«Essere custodi è la nostra responsabilità»
Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza
Al centro dell’Amazzonia colombiana si trova il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, cinque anni a febbraio. Il vescovo Joaquín Pinzón e i suoi collaboratori hanno scelto di percorrere la strada della sostenibilità ambientale per difendere un territorio unico ma ambito e molto fragile. Un impegno complicato: gli sfruttatori dell’Amazzonia sono tanti (minatori illegali, compagnie petrolifere, coltivatori di coca, commercianti di legname, ecc.) e non paiono intenzionati ad arretrare. Approfittando anche dell’assenza dello stato.
Puerto Leguízamo. Le sei e trenta del mattino sono un buon orario per un’intervista all’aperto. Non ci sono ancora i chiassosi alunni della scuola attigua e la temperatura è ideale.
Mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza è giovane all’anagrafe e giovanile nell’aspetto. Colombiano del dipartimento di Santander, missionario della Consolata, egli ha visto nascere, crescere e cambiare il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che regge fin dalla sua fondazione, avvenuta nel febbraio del 2013. Da allora sono trascorsi 5 anni e tutt’attorno le cose sono cambiate: in primis, ci sono stati gli accordi di pace con le Farc e qui, a Puerto Leguízamo, molto più che nelle città (che infatti raccolgono la maggioranza dei contrari), i cambiamenti sono fatti quotidiani, concreti e visibili.
Monsignor Pinzón, il suo vicariato comprende municipi di tre diversi dipartimenti: Putumayo, Caquetá e Amazonas. Come descriverebbe questo territorio?
«Siamo ubicati nel cuore dell’Amazzonia colombiana. Ma allo stesso tempo siamo ai confini dell’Amazzonia peruviana e di quella ecuadoriana. In altre parole, noi non solo ci troviamo in un contesto amazzonico ma anche di frontiera. Per molti il Rio Putumayo ci divide, ma per noi non è così. Come dice padre Gaetano Mazzoleni, missionario della Consolata che ha lungamente vissuto qui, il fiume ci unisce. Il fiume ci dà la possibilità di muoverci, di trovare i prodotti per alimentarci. È la nostra “autopista fluvial”…».
Interessante la terminologia che lei usa: autostrada fluviale, autostrada d’acqua…
«In questo contesto amazzonico dove non esistono strade, il rio è la nostra autostrada. Il fiume è la possibilità per spostarci e metterci in comunicazione con altre popolazioni e altri contesti. È il nostro spazio di vita che ci mette in comunione con gli abitanti di questa Amazzonia sudcolombiana, nordperuviana e nordecuadoriana».
Popoli indigeni e non solo
Per molto tempo – per motivi politici, economici e culturali – si è sostenuto che l’Amazzonia fosse spopolata anche se era abitata dai popoli indigeni. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’Amazzonia è soltanto foresta e fiumi. Invece ci sono anche i suoi abitanti.
«Quando parliamo di pobladores (abitanti) dell’Amazzonia dobbiamo parlare di popoli, culture e famiglie da integrare. Siamo tutti pobladores di questo territorio, ma con caratteristiche molto particolari e precise. In questo Vicariato, ad esempio, ci sono molti popoli ancestrali, come i Murui (della famiglia Huitoto), gli Inga, i Koreguaje, i Siona, i Kichwa».
I popoli indigeni sono gli abitanti originari, oggi però non ci sono più soltanto loro.
«Sì, nel corso della storia, per diversi motivi e circostanze, qui sono arrivate altre persone: per cercare migliori condizioni di vita o per sfuggire alla violenza presente in altri territori. Oggi li chiamiamo campesinos, un tempo erano detti colonos. Definizione questa rifiutata dagli interessati: “Non siamo coloni. Non siamo venuti a colonizzare. Siamo abitanti di questo territorio”. Nello stesso tempo, sono cresciute le dimensioni delle città e le loro popolazioni. Insomma, l’Amazzonia odierna ospita differenti esperienze umane».
Gli accordi di pace e il vuoto di potere
Fino a pochi mesi fa Puerto Leguízamo e tutta questa regione erano sotto il controllo delle Farc. Gli accordi di pace hanno cambiato la situazione?
«Sì, l’hanno cambiata. La maggioranza degli appartenenti al movimento se ne sono andati nei luoghi di concentrazione fissati dal governo. In due territori del Vicariato rimangono piccoli gruppi dissidenti. In particolare, un gruppo venuto dall’Oriente – conosciuto come la dissidenza del Frente Primero – e altri gruppetti locali fuoriusciti dal Frente 48. Però, possiamo affermare che la situazione è cambiata perché i guerriglieri non esercitano più quel controllo sociale che avevano in gran parte di questo territorio. Quello che manca ora è una risposta del governo centrale. Le persone si domandano: oggi chi esercita l’autorità in questi luoghi? Chi comanderà d’ora in avanti? C’è incertezza. C’è paura che possano arrivare altri gruppi fuorilegge e che essi possano assumere il controllo che prima esercitavano le Farc.
Insomma, nella gente da una parte c’è contentezza per il cambiamento, dall’altra c’è sconcerto per la mancanza di risposte da parte del governo rispetto al vuoto di potere che si è creato».
Sempre più coca
Gli accordi di pace non pare abbiano cambiato l’economia della coca, che continua a essere prodotta in quantità.
«È vero: la produzione di coca prosegue. In ciò è cambiato poco. Anzi, secondo alcuni, la produzione è aumentata. Occorre riflettere sul fatto che le persone continuino a coltivare e la produzione a crescere. Il problema oggi è la commercializzazione. Anteriormente le Farc facevano da intermediarie, oggi manca questo passaggio. Pertanto, è aumentata la produzione ma è diminuita la commercializzazione. Le persone continuano a considerare la produzione di coca un’attività vitale, ma sono preoccupate per l’aspetto commerciale. Per tutto questo sulla questione della coca occorrerebbe fare una riflessione ad hoc».
È molto difficile vivere facendo i contadini. Al contrario, con pochi ettari di terra – si parla di tre – coltivati a coca si può vivere. A volte anche bene.
«Con tre ettari di coca si può vivere se le famiglie hanno esigenze limitate. È anche vero che il movimento di denaro generato dal narcotraffico ha incrementato le esigenze. Il problema vero è che non esiste una politica di sostituzione, un’alternativa che consenta alle famiglie di lasciare la coltivazione della coca per dedicarsi ad altre attività che consentano non soltanto di vivere ma di vivere degnamente».
Oro e petrolio sono incompatibili con l’ambiente
Altro problema che pare allargarsi è legato all’attività mineraria, in particolare quella illegale connessa alla ricerca dell’oro.
«L’attività mineraria illegale è un problema piuttosto serio, perché essendo illegale non esiste alcun controllo. Costoro arrivano e si stabiliscono in luoghi dove si possano nascondere da sguardi indiscreti. Questo genera una situazione molto difficile perché essi praticano l’attività senza preoccuparsi di usare metodi che riducano gli effetti sull’ambiente. A queste persone interessa soltanto estrarre il minerale, in questo caso l’oro, senza alcuna precauzione che consenta di mitigare l’impatto ambientale».
Già da alcuni anni si parla di tonnellate di mercurio riversate nei fiumi colombiani (Estudio Nacional del Agua 2014). Il problema riguarda anche il río Putumayo?
«Sì, nel río Putumayo si utilizza il mercurio. Questo ha generato e continua a generare problematiche. Contaminando il fiume, contaminano il pesce e quindi coloro che lo consumano. A poco a poco, le persone si caricano di questo metallo che l’organismo non è in grado di trattare».
Nel vicino Ecuador e nel Nord del Perù le imprese petrolifere stanno distruggendo l’Amazzonia e inquinando i fiumi. Com’è la situazione qui in Colombia?
«Rispetto alle compagnie petrolifere, al Nord del Putumayo – nella zona di Puerto Asís, in particolare – stanno avvenendo delle esplorazioni per capire se c’è la possibilità di estrarre petrolio. In questo momento sono in corso dialoghi con le comunità interessate, anche se alcuni di questi sono viziati da interessi economici. Le persone non sono state sufficientemente preparate e così accade che, con un po’ di denaro, a volte vengono comprate. Le persone non hanno la possibilità di raggiungere la consapevolezza dell’impatto che le attività petrolifere possono produrre».
I perché di una minga amazzonica
Il suo Vicariato ha organizzato – novembre 2017 – una «minga amazónica fronteriza». Perché avete usato il termine «minga»?
«Minga è parola kichwa che significa offrire qualcosa in cambio di qualcos’altro. Nella pratica, si traduce in un’esperienza di lavoro comunitario che porta beneficio a tutti e nel quale tutti apportano ciò che hanno. In altre parole, tutti mettiamo i nostri sforzi in una causa comune per ottenere un beneficio comune. Per questo noi abbiamo voluto dare al nostro incontro di riflessione la categoria della minga. Creare uno spazio di riflessione comune».
Lo slogan continuamente richiamato durante la minga è stato «Amazonia, contexto de vida que une orillas», un contesto di vita che unisce le sponde. Ci spieghi meglio in cosa consiste questa unione.
«Qui a Puerto Leguízamo si è unito un buon gruppo di persone della Colombia, del Perù e dell’Ecuador. Abbiamo avuto come ospiti i vescovi di San Miguel del Amazonas (Perù), di San Vicente e di Florencia. Abbiamo avute persone che si muovono da diverse prospettive rispetto a quella ecclesiale: persone delle amministrazioni (come il sindaco di Puerto Leguízamo), di organismi ecuadoriani, di organizzazioni ambientaliste.
Tutte istituzioni e persone a cui interessa la cura di questo contesto di vita. Tutti riuniti per una causa comune: come essere abitanti responsabili che cercano uno sviluppo sostenibile, cioè che non danneggi ma al contrario protegga il contesto amazzonico in cui ci ritroviamo a vivere.
Dalla minga siamo usciti tutti contenti e desiderosi di trasformarci in difensori di questo territorio e di questo spazio di vita. Le istituzioni pubbliche, quelle ambientali e quelle ecclesiali. Tutti desiderosi di trasformarci in piccoli cuidanderos».
Quindi, in epoca di sfruttamento dell’Amazzonia, voi volete esserne curatori, difensori, protettori: una bella responsabilità.
«Il motto completo della minga era: “Somos territorio, somos pobladores, somos cuidanderos”. L’ultima parola non è in un castigliano perfetto: in realtà, dovrebbe essere cuidadores. Ma abbiamo usato questa perché è un termine che usano le persone di qui quando affidano il loro campo a qualcuno perché lo curi bene. Dunque, non explotadores, ma al contrario cuidanderos».
Dalla «Laudato si’» al Sinodo amazzonico
Per il novembre del 2019 è stato convocato un sinodo per l’Amazzonia. Si può dire che la vostra minga lo abbia anticipato?
«Potremmo dirlo ma sarebbe una risposta un po’ superba. Abbiamo sognato e progettato quest’esperienza di minga nel febbraio 2017. Potremmo dire che abbiamo anticipato il sinodo. Ma la vera risposta è che papa Francesco ci ha sfidati con il contributo della Laudato si’.
L’enciclica è stato un regalo per l’umanità. Sappiamo che essa è una proposta del papa non soltanto per la chiesa ma per l’umanità tutta.
Vivendo in questo territorio noi ci siamo sentiti molto in sintonia. Non soltanto con la Laudato si’, ma con la sensibilità ecologica di questo papa».
Monsignor Pinzón, la porta qui accanto è quella di una scuola elementare. Quanto è importante l’istruzione nella difesa dell’Amazzonia?
«Abbiamo bisogno di un sistema educativo che ci aiuti. Finora ci hanno abituato non soltanto al consumo, ma al consumo senza limiti. Necessitiamo di un’educazione nuova, basata su un’altra mentalità, che ci renda persone responsabili nell’uso delle risorse. Il mondo ci chiede di essere responsabili con il pianeta, con la nostra casa comune, con la natura che Dio ci ha regalato».
Il nostro reportage lungo il río Putumayo proseguirà in terra peruviana fino alle comunità di Soplín Vargas e Nueva Angusilla.
• Dedica
Questo dossier è dedicato a padre Antonio Bonanomi, scomparso domenica 7 gennaio. Per molti anni padre Antonio – una vita in Colombia, soprattutto tra gli indigeni del Cauca – è stato assiduo informatore dell’autore sulle cose colombiane, nonché guida durante il primo viaggio in quel paese. Mancherà a tanti. (Pa.Mo.)
Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano
· FONDAZIONE
Il 21 febbraio 2013. Da allora è retto da mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza.
· GEOGRAFIA
Si estende in tre dipartimenti colombiani: Caquetá, Putumayo e Amazonas. È caratterizzato dalla presenza di due grandi fiumi: il río Caquetá e il río Putumayo, più i loro affluenti. In esso si trovano il Parco nazionale naturale La Paya, il Parco nazionale naturale Chiribiquete e la Zona di riserva forestale dell’Amazzonia. I centri urbani principali sono Puerto Leguízamo (Putumayo), Solano (Caquetá) e Puerto Alegría (Amazonas).
· POPOLI?INDIGENI
Kichwa (Quechua), Koreguaje, Siona, Huitoto (ramo Murui), Inga, Nasa, Andoque.
· ALTRE?POPOLAZIONI
Meticci (campesinos) e comunità di afrodiscendenti.
· DATI
SUPERFICIE: 64.912 km2;
POPOLAZIONE: 46mila abitanti;
RELIGIONE: 36mila cattolici.
Tunisia: di nuovo in strada (ma non è primavera)
Testo di Angela Lano |
Dopo le rivolte del 2011, a gennaio 2018 i tunisini sono tornati in piazza per una rivolta eminentemente economica. Il partito (laico) al potere sta deludendo le aspettative e tutti i problemi sono rimasti insoluti. Il partito islamico (Ennahda), accusato di essere filoterrorista dai suoi detrattori, rimane in attesa.
I tunisini sono scesi nuovamente per strada, a manifestare la loro rabbia contro le ingiustizie sociali ed economiche, e la mancanza di prospettive e di futuro. La «primavera» del 2011 sembra un lontano ricordo o forse, soprattutto, una grande delusione.
Il bilancio della sommossa popolare di gennaio 2018 è di oltre 800 persone arrestate, centinaia di altre ferite, e negozi saccheggiati, veicoli danneggiati, caserme di polizia incendiate.
Le misure finanziarie dettate al governo dal Fondo monetario internazionale per il prestito di 2,8 miliardi di dollari, hanno scatenato la rivolta: aumento del costo della vita, licenziamenti nel settore pubblico, tagli alle pensioni, inflazione che supera il 6%, disoccupazione giovanile al 30%. La corruzione è dilagante e investe ogni settore, sia pubblico sia privato. La «casta» Ben Ali non è stata estromessa con la rivoluzione del 2010-2011: sono state allontanate le figure più in vista, ma l’estesa rete di «famigli» e «clientes» è rimasta e continua a gestire, in pretto stile mafioso, gran parte degli affari politici ed economici del paese.
Da Ennahda a Nida’a Tunis
Attualmente alla guida del paese c’è un governo del movimento Nida’a Tunis1. Si tratta di un partito laico, ma composto da personaggi dubbi coinvolti nel regime di Ben Ali e riciclati in funzione anti Ennahda, che accusano di appoggio al terrorismo.
«Tuttavia – ci hanno spiegato Kais e Debora, le nostre due interlocutrici -, i dirigenti di Ennahda sono persone colte e con progetti intelligenti. Si sono occupati anche di questioni sociali ed economiche, di diritti individuali, che altri non hanno avuto il coraggio di affrontare: interruzione del digiuno in pubblico, omosessualità, diritti personali. È dalla fine del 2012 che l’opposizione, anche di sinistra, delegittima questo partito. In Tunisia, come era avvenuto anche in Egitto, la sinistra aveva chiesto, paradossalmente, l’intervento dell’esercito per destituire Ennahda. La situazione si era risolta grazie al “Quartetto per il Dialogo nazionale”2». Il sindacato Ugtt si era offerto come mediatore politico per far uscire il paese dalla crisi.
Era stato dunque nominato un nuovo governo provvisorio, con un rimpasto di ministri, e si era evitata la guerra civile, come invece era accaduto in Egitto e in Libia. Nel 2014 Ennahda ha perso le elezioni, e anche il consenso interno. Le decisioni successive sono andate contro «lo spirito rivoluzionario», di cambiamento, richiesto dal popolo, soprattutto dagli strati sociali più giovani: è stata messa in atto una strategia di auto conservazione dei vecchi partiti filo Ben Ali che si sono infiltrati nel processo di cambiamento in corso, dando vita a una contro rivoluzione. E gli effetti si sono visti: disoccupazione, crisi economica, disperazione, fino alle sommosse di gennaio 2018.
In realtà questa fase di «restaurazione» era scattata già subito dopo la fuga di Ben Ali: il vecchio establishment si era subito messo in moto per rimanere all’opera nonostante la rivoluzione.
Ora Ennahda è di nuovo il primo partito, dopo la spaccatura di Nida’a. Nonostante abbia apportato importanti cambiamenti politici e sociali, negli anni di governo, dal punto di vista economico rimane neoliberista, come il resto della Fratellanza musulmana da cui trae le proprie radici politico ideologiche. «Sul fronte del centrosinistra, invece – hanno aggiunto Kais e Debora -, c’è il vuoto: gli attivisti o sono andati all’estero o sono stati assorbiti dalle Ong internazionali. Una parte della popolazione giovanile rivoluzionaria, dopo il 2011, ha iniziato a dedicarsi ad altro, e non più alla politica, perché ne è stata delusa».
Tuttavia, ci hanno fatto notare gli attivisti incontrati, qualcosa di positivo è stato messo in atto, ed è la cosiddetta «Istanza della Giustizia di transizione»: un processo sociale, politico e giuridico per accertare le responsabilità del regime dittatoriale e dei suoi esponenti. La «riconciliazione nazionale» deve passare attraverso il riconoscimento dei crimini commessi durante la dittatura e l’ascolto delle storie delle vittime, per evitare che si ricreino le stesse dinamiche. Per questo motivo nel dicembre del 2013 è stata promulgata la legge sulla Giustizia di transizione che ha creato l’«Istanza Verità e Dignità», con mandato fino al 2019: vengono raccolte e valutate le denunce dei cittadini che hanno subito violazioni dei diritti umani dal 1956 in poi.
Sono 63.000 i dossier raccolti – hanno aggiunto Debora e Kais -, e sono relativi a vari tipi di violazione dei diritti – civili, economici, politici – e comprendono anche torture, stupri, sparizioni, decessi in carcere e altre morti sospette, impedimento dell’accesso all’istruzione, matrimoni forzati. I responsabili sono diversi: lo stato e i singoli individui. Nei casi di corruzione viene chiesto ai responsabili la restituzione delle somme rubate. Il processo serve più alle vittime: «è un flusso della coscienza», una rielaborazione della memoria. Le vittime hanno la libertà di nominare pubblicamente i torturatori, gli oppressori, di raccontare le loro storie, durante udienze mandate in onda anche in Tv e che durano diverse ore. Ci sono state anche le testimonianze di membri di Ennahda imprigionati per anni dal regime di Ben Ali.
La Tunisia ha dinamiche europee anche sul fronte della società civile c’è molto attivismo: radio comunitarie, organizzazioni femminili, alternative economiche e lavorative finanziate da Ong, cooperative e donatori internazionali. È molto attiva la cooperazione internazionale, che ha parecchia influenza sulla società: alcune Ong europee o statunitensi orientano determinate politiche, quindi, di fatto, rappresentano una forma di controllo esterno.
L’economia nazionale è improntata sugli investimenti esteri. L’establishment nazionale pone infatti molti ostacoli agli investimenti locali, in quanto, come accennato sopra, rimane dominato dalla corruzione. Se a tutto questo aggiungiamo anche il crollo del turismo, che costituiva una delle risorse economiche tunisine, a seguito degli attacchi terroristici, la situazione è tornata esplosiva, come dimostrano le proteste di gennaio. Le regioni interne del paese, dove la disoccupazione e la povertà sono più forti, sono in continua agitazione, con molte manifestazioni antigovernative.
Al museo del Bardo: da 500 a 10 visitatori giornalieri
Dal centro di Tunisi aspettiamo un taxi che ci porti al museo del Bardo, nell’omonimo quartiere periferico. Dopo più di mezz’ora di vana attesa, si ferma un’auto con due giovani donne a bordo, velate, e ci offrono un passaggio. Sono madre e figlia, ma sembrano due sorelle. La ragazza è una studentessa universitaria di Scienze tecnologiche. L’apparente contrasto è forte: abiti islamici, radio sintonizzata su sure del Corano, e l’aria di due donne indipendenti, aperte al prossimo e molto cordiali, a dimostrazione che esistono tanti e variegati modi di vivere l’islam. Ci lasciano davanti al museo, quasi stupite che vogliamo visitarlo. Le guardie all’ingresso perquisiscono le borse, e blocchi di cemento impediscono l’accesso ad auto e moto. Sono le misure di sicurezza adottate dopo l’attentato terroristico del 18 marzo del 2015, che costò la vita a 25 persone, straniere e locali. Quel giorno i terroristi ebbero facile accesso, sembra. Ora ci sono controlli, ma non ci sono più turisti. In piena estate siamo in tre in tutto il museo. Una tragedia sia per il Bardo sia per lo stato tunisino.
Al-Mat?af al-wa?an? bi-l-B?rd? è l’ampio, modernissimo, organizzato e famoso museo archeologico, situato nella residenza (secolo XIX) del bey (re), che raccoglie reperti di età preistorica, punica, romana, cristiana e arabo-islamica. Si possono ammirare opere come «Ulisse e le Sirene», «Il poeta Virgilio con le muse Calliope e Polimnia», «Il Trionfo di Nettuno» e altre meraviglie. Le sale di arte arabo-islamica sono altrettanto affascinanti.
Prima dell’attentato, i turisti erano almeno 500 al giorno, secondo quanto ci hanno raccontato gli operatori del museo. Dal 2015 in poi, se va bene, ne arrivano 10. Fuori dal complesso, i venditori di souvenir, disperati, svendono per pochi spiccioli le loro mercanzie. Nell’ingresso, una lapide accoglie i visitatori con i nomi delle vittime. Il piano terra è dedicato all’archeologia preislamica: cartaginese, pagano-berbera, ebraica e cristiana. Dal primo piano si accede alle belle sale dell’ex residenza del bey e poi all’ala che ne ospitava il fratello e l’harem.
Ala’ Eddine Hamdi, giovane guida del Bardo e studente di lingua e letteratura russa, ci accompagna nelle sale dove avevano cercato riparo, invano, un gruppo di turisti inseguiti dai terroristi. Quel luogo è carico di contrasti, tra la magnifica estetica degli intarsi, degli azulejos e delle ambientazioni, e la morte di cui sono stati palcoscenico. Ne rimaniamo profondamente colpiti: alcune colonne e pareti portano ancora i segni dei fori, degli sfregi e dei vetri rotti provocati dai proiettili. Due «islam», qui, sono a confronto: quello portatore di civiltà, arte, cultura, scienza, e quello dell’estremismo politico-religioso-ideologico seminatore di morte. Ma questo paradosso è retaggio di tutte le religioni, purtroppo.
Ala’ Eddine ci dice che la presenza del Daesh in Tunisia è iniziata con Ennahda al potere, nel 2011. «Non intendo dire che siano loro i terroristi, ma che hanno fatto entrare predicatori, reclutatori di combattenti, e hanno permesso a molte ragazze di diventare delle prostitute dei jihadisti. Migliaia di giovani si sono uniti al Daesh per andare ad addestrarsi in Libia e poi a combattere in Siria, passando dalla Turchia. C’era una rete ben organizzata, quella della Fratellanza musulmana, che ha funzionato come “distributore di terroristi”. Da qui sono partiti 3.000 combattenti, dai 18 ai 30 anni». Dichiarazioni forti, che noi non possiamo verificare, ma che fanno parte di una diffusa vulgata.
Per questo e altri giovani, la rivoluzione tunisina è stata un disastro, in quanto ha eliminato un tiranno corrotto per sostituirlo con tanti altri. È uno dei tanti delusi che ha perso la speranza di vedere cambiamenti politico-sociali del paese, e come altri, è un forte oppositore dei gruppi islamisti, che vengono percepiti, nella secolare Tunisia, come portatori di arretratezza sociale, in particolare verso le donne.
Attentati e terrorismo
Dalla rivoluzione del 2011, la Tunisia è stata oggetto di attentati da parte del Daesh: oltre al già citato attacco al Bardo, ricordiamo quello dentro a un resort turistico a Marsa al-Qantawi, nei pressi di Sousse, il 26 giugno del 2015, e rivendicato sempre dal Daesh, nel quale 39 persone vennero uccise a colpi di kalashnikov e altre 39 ferite; quello del 24 novembre 2015, contro un autobus con a bordo guardie presidenziali, che percorreva una strada di Tunisi, sempre rivendicato dal Daesh. A seguito di quella strage, il governo tunisino impose un severo controllo sulle moschee, chiudendo quelle che non risultavano rispettare una normativa che impone agli imam di essere autorizzati dal ministero per il Culto. L’11 maggio 2016, alcuni sospetti terroristi furono uccisi e altri arrestati durante scontri armati con le forze di sicurezza tunisine nel distretto di Mnihla, nella grande Tunisi. Quattro guardie nazionali furono uccise in un attacco suicida durante un’operazione di sicurezza a Tataouine, nel Sud del paese. Infine, quella nota come la «Battaglia di Ben Guerdane», al confine con la Libia, il 7 marzo 2016: forze del Daesh tentarono di mettere sotto assedio la cittadina tunisina, ma furono respinti dai militari. Gli scontri proseguirono anche nei giorni successivi. L’attacco jihadista causò la morte di 52 persone, tra cui 35 aggressori che erano entrati dalla Libia, quattro dei quali erano cittadini tunisini.
La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da «al-Qa’ida nel Maghreb Islamico» (Aqmi) e da estremisti libici collegati allo Stato islamico (Daesh).
La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile e densa di conflitti, e con una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici.
Le forze di sicurezza tunisine sono state ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.
Va ricordato che i tunisini costituiscono il gruppo più numeroso del multietnico e globalizzato Daesh: dalla Tunisia, negli ultimi anni, si sono arruolati nelle fila dello Stato islamico migliaia di giovani. Secondo dati ufficiali rilasciati dal governo tunisino nel 2013, circa 3.000 giovani si sono uniti ai gruppi takfiri dello Stato islamico, mentre i rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni parlano di 5.000 – 7.000 combattenti.
Inoltre, è balzata tristemente alle cronache la vicenda del Jihad al-Nikah, il «jihad sessuale» chiesto dal Daesh alle giovani donne arabe. Dalla Tunisia ne sono partite diverse decine, destinate alla prostituzione tra i combattenti in Siria. A sostenere l’esistenza di questa tratta ci sono anche le dichiarazioni di politici tunisini, tra cui il ministro dell’Interno Lofti Bin Jeddo.
Il ritorno dei jihadisti tunisini
A settembre 2017, secondo quanto riportato da vari giornali arabi, il governo di Tunisi ha avviato un piano di deradicalizzazione delle diverse migliaia di «jihadisti di ritorno», cioè giovani tunisini che hanno combattuto a fianco di formazioni del Daesh in Libia, Siria, Iraq e in altri paesi. Si tratterebbe di un progetto che prevede la «riabilitazione» dei foreign fighters, o combattenti stranieri. In Tunisia, come in Marocco, la gente non vuole che questi soggetti radicalizzati ritornino a casa, poiché sono un pericolo, una fonte di destabilizzazione e di potenziale terrorismo. Infatti, in occasione degli attacchi sopracitati sono state organizzate diverse marce di protesta. La Tunisia, diversamente dalla Libia postregime di Gheddafi, e dall’Egitto (con una storia notevole di islamismo politico, dal quietista al violento, e formazioni attualmente molto attive nel Sinai), non permette lo sviluppo interno del jihadismo. Dunque, chi si sente attratto da questa visione politica violenta sceglie di andare a combattere fuori dal paese. Ecco perché i jihadisti tunisini del Daesh sono il gruppo nazionale più numeroso, seguito da libici e algerini.
Come abbiamo spiegato su questa rivista in precedenti articoli , a spingere verso la radicalizzazione è, in genere, un insieme di cause. Nel contesto tunisino agiscono l’emarginazione sociale, politica ed economica, la mancanza di prospettive; la delusione provocata in certi strati sociali dalla decisione di Ennahda di limitare i propri riferimenti all’ambito politico: questo ha portato alcuni a rifugiarsi in altre realtà dell’islamismo ideologico per trovare punti di riferimento e motivazioni. Inoltre, non va dimenticato che molti islamici radicali tunisini arrivano dalle aree di confine con Algeria e Libia.
Angela Lano (sesta puntata – continua)
Note
(1) ?araka Nid?? T?nus, Movimento dell’appello della Tunisia, è stato fondato nel 2012 dal premier di allora, Beji Caid Essebsi. Alle elezioni presidenziali del 2014 diede vita a una coalizione elettorale con il Partito repubblicano: l’Unione per la Tunisia. Le elezioni parlamentari del 2014 furono vinte da Nid?? T?nus (85 seggi su 217). Ennahda ne ottenne 69.
(2) Al-?iw?r al-Wa?an? al-T?nus? è composto da quattro organizzazioni della società tunisina: l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt); la Confederazione tunisina dell’industria (Utica); la Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo (Ltdh); l’Ordine nazionale degli avvocati (Onat). Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la pace «per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia, sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011».