A 50 anni dal primo trapianto di cuore
Sudafrica | testi di Ernesto Bodini |
Da sempre l’idea del trapianto affascina l’umanità. Nel 1967 un cardiochirurgo del Sudafrica riuscì nell’intento di trapiantare addirittura il cuore. Riviviamo la storia di un evento che entusiasmò il mondo.
I trapianti di parti del corpo umano da un individuo all’altro affascinano l’uomo da tempo immemorabile. Assai noto, ad esempio, è un dipinto del XVI sec. che raffigura la storia di un presunto miracolo operato dai due santi e fratelli Cosma e Damiano (medici anargiri del III secolo che visitavano e curavano i malati senza farsi pagare, ndr) i quali, secondo la tradizione, presero una gamba sana da un etiope deceduto e la posero al posto di una gamba affetta da cancrena di un uomo bianco.
Non sorprende quindi che l’evoluzione della medicina moderna sia stata accompagnata da continui tentativi di trapianto, che hanno evidenziato al tempo stesso le difficoltà operative e i limiti delle conoscenze biologiche alla base delle tecniche impiegate, soprattutto nell’ambito della cardiochirurgia. Nel suo libro del 1896 sulla chirurgia, il chirurgo inglese Stephen Paget (1855-1926) scriveva: «La chirurgia del cuore ha probabilmente raggiunto il limite impostato per natura a tutti gli interventi chirurgici; nessun nuovo metodo e nessuna nuova scoperta possono superare le difficoltà naturali che attendono una ferita del cuore».
Una tappa fondamentale nella trapiantologia si è raggiunta nel 1967, quando il cardiochirurgo sudafricano Christiaan N. Barnard (1922-2001), suo fratello Marius (1927-2014) e uno staff di 30 operatori tra medici, infermieri e perfusionisti all’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, effettuarono il primo trapianto cardiaco al mondo. Un mondo che subito si chiese chi fosse questo chirurgo anonimo, divenuto in poco tempo un idolo, adorato ovunque.
Christiaan Neethling Barnard nacque in uno dei sobborghi più poveri di Johannesburg, secondo di quattro fratelli (il padre, Adam, era un pastore della comunità bianca). Dopo la laurea in medicina nel 1946 e un tirocinio di tre anni al Groote Schuur, fece pratica come medico di famiglia dal 1948 al 1951, per poi trasferirsi negli Usa dove conseguì la specialità in chirurgia generale con il prof. Owen H. Wangensteen (1898-1981), ottenendo il riconoscimento di un livello superiore e un dottorato di ricerca per esercitare in Sudafrica. Il prof. Wangensteen gli fece avere una borsa di studio e una macchina cuore-polmone che permise a Barnard di portare la chirurgia di by pass cardiopolmonare a Città del Capo, dove tornò nel 1954 per far parte del Dipartimento di chirurgia come aiuto. Da quel momento in poi si dedicò alla chirurgia sperimentale intervenendo su cavie (prevalentemente cani), quale presupposto per agire poi sull’uomo, grazie alla tecnica acquisita da due cardiochirurghi americani della Stanford University, Norman Shumway (1923-2006) e Richard Lower (1929-2008) che Barnard visitò nel 1966.
Dai suoi esperimenti si convinse sempre di più che, nonostante la disponibilità dei farmaci, l’unico vero trattamento per l’insufficienza cardiaca fosse il trapianto.
Il primo ostacolo che Barnard dovette affrontare fu quello di trovare il paziente adatto per il primo trapianto di cuore: doveva essere un malato terminale sul quale fosse inutile ogni cura conosciuta e anche un intervento chirurgico tradizionale.
Il 10 novembre 1967 Louis Washkansky si rivelò essere il paziente ideale in quanto affetto da «respiro di Cheyne-Stokes» a causa di insufficienza cardiaca, diabete e cellulite agli arti inferiori. Nel pomeriggio del 2 dicembre 1967 la giovane Denise Darvall subì un incidente stradale con conseguente grave trauma cranico, e giunta al pronto soccorso dell’ospedale le fu riscontrata la morte cerebrale. Il capo della cardiologia, il dottor Schrire, acconsentì di considerare come donatrice Denise Darvall e come ricevente Louis Washkansky. Seguì il consenso del padre della giovane appena deceduta, il quale, rivolgendosi a Barnard, disse: «È una bella fortuna, se non puoi salvare mia figlia, devi provare a salvare quest’uomo».
Sulla questione etica del decretare la morte cerebrale come irreversibile, Barnard nella sua autobiografia scrisse: «La maggioranza dei cardiochirurghi sono d’accordo con il pontefice Pio XII il quale, già nel febbraio 1957, disse a un gruppo di medici che non vi è l’obbligo morale di usare mezzi artificiali e straordinari per resuscitare un corpo, purché sia esclusa ogni speranza di ripresa» (facendo riferimento a un discorso del papa del 24 febbraio 1957 su tre quesiti della «Società Italiana di Anestesiologia», ndr). Ciò valeva per Denise Darvall il cui cervello era stato distrutto.
Il grande evento avvenne il 3 dicembre 1967. Nel reparto di cardiochirurgia era già tutto predisposto nella sala B. Il giovane Barnard, coadiuvato dai dott. Rodney Hewinston e Terry O’Donovan, asportò parte del cuore della ragazza; simultaneamente, nella contigua sala A, un’altra équipe asportò parte del cuore del paziente ricevente. Bloccando i grossi vasi, Barnard estrasse il cuore di Denise e lo depositò per un istante in una bacinella tenuta dall’infermiera Peggy Jordan. Ora cominciava la parte più delicata dell’intervento. Prendere il cuore di Denise e trapiantarlo nel petto di Washkansky. Barnard, rifacendosi al metodo ingegnoso ideato da Shumway, procedette alla saldatura: non si asportava tutto il cuore, ma se ne lasciava in situ la «calotta», ossia la parte superiore. Immerso in una soluzione ghiacciata di acido lattico, sembrava molto piccolo accanto a quello del ricevente. Non si vedevano segni di attività, ma Barnard sapeva che vi era una scintilla di vita, e sapeva che l’organo si sarebbe messo a battere non appena le prime gocce di sangue caldo ossigenato fossero arrivate attraverso le arterie coronariche. E solo allora il cuore avrebbe ripreso vita salvando l’uomo che Denise Darvall non conosceva. L’intervento raggiunse la fase cruciale. Il cuore di Denise, privato della sua «calotta», venne accollato al «residuo» del cuore di Washkansky. In pratica, circa i due terzi inferiori del cuore della ragazza vennero accostati e suturati al terzo superiore del cuore del ricevente. Quasi un «gioco ad incastro». Terminato l’intervento, seguirono lunghi minuti di silenzio, nella trepidante attesa che il cuore trapiantato desse i primi segni di un’attività autonoma. Il giovane cuore di Denise riprese a battere nel petto di un uomo di trent’anni più anziano. Il più bel tramonto del mondo al giovane cardiochirurgo non sarebbe sembrato altrettanto stupendo. Diciotto giorni dopo il paziente subì un’infezione polmonare che lo portò al decesso.
Ma Barnard non si scoraggiò e il 2 gennaio 1968 effettuò il suo secondo trapianto su Philip Blaibertg. «Questa – spiegò – è stata un’operazione veramente importante. È stato in questo caso che il mondo ha conosciuto il trapianto cardiaco. Abbiamo dovuto dimostrare che un paziente sottoposto a un trapianto di cuore era in grado di riprendersi dall’intervento, di lasciare l’ospedale e di condurre una vita normale». Infatti, il paziente sopravvisse 593 giorni (19 mesi) dopo il trapianto. Il famoso clinico effettuò altri 51 trapianti prima di «depositare» il bisturi a causa di una grave forma di artrite. Morì il 2 settembre 2001 a Cipro in seguito ad un attacco acuto di asma, e non per arresto cardiaco come divulgato da alcuni mass media.
Ernesto Bodini