Islam 3: I motivi della deriva islamica


Il radicalismo islamico ha le sue ragioni. Quelle endogene: le correnti del rinnovamento non hanno mai trovato sbocchi. E quelle esogene: i grossolani errori dell’Occidente come l’appoggio incondizionato a Israele, la corrività con regimi reazionari, le ingerenze neocoloniali. Incontro con il professor Massimo Campanini, islamologo.

Prosegue la nostra inchiesta sul radicalismo islamico, o «islam politico», per cercare di capire quali sono i termini, gli attori e le dinamiche in gioco, sia a livello storico che attuale, che coinvolgono popoli e aree travalicando frontiere e culture. Per una miglior comprensione del complesso fenomeno è importante definire sia una terminologia appropriata sia il contesto ideologico e storico.

Ne abbiamo parlato con il prof. Massimo Campanini, uno dei maggiori studiosi e islamologi contemporanei del Vicino e Medio Oriente arabo, docente associato di Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e autore di numerosi e interessanti saggi sull’islam e il mondo arabo-islamico.

L’uso politico dell’islam

Prof. Campanini, fondamentalismo, integralismo, radicalismo, islam politico, islamismo: qual è il termine più corretto per definire l’uso politico dell’islam?

«La definizione di una terminologia precisa per definire un fenomeno sfuggente è naturalmente molto importante. Tutti quelli suggeriti sono nomi potenzialmente utili che catturano almeno un aspetto del fenomeno; ma ciò dimostra come tale fenomeno sia poliedrico e vario, e niente affatto monolitico, come perlopiù la stampa e i mass-media lo dipingono. Proprio per la complessità del fenomeno i termini elencati risultano comunque insoddisfacenti. Che l’islam nelle sue espressioni radicali sia fondamentalista è vero, ma è anche una verità ovvia: quale religione o ideologia non sono fondamentaliste? Un ebreo farebbe a meno di ricorrere alla Torah? O un cristiano ai Vangeli? O un comunista al Capitale di Marx? Dunque dire che l’islam è fondamentalista perché ricorre al Corano e alla sunna del Profeta è un’ovvietà che non spiega nulla. Oltre a questo, c’è da dire che la definizione di fondamentalismo è derivata dai cristiani radicali, soprattutto anglosassoni, per cui non è immediatamente applicabile a contesti storici e culturali diversi.

Il termine islam radicale è altrettanto corretto se si indicano le tendenze estremiste, magari di lotta armata, ma l’islamismo, cioè l’idea fondamentalista dell’islam, non è per ciò ipso facto radicale dal punto di vista politico, né automaticamente votato al jihad. Molte correnti che possono dirsi “islamiste” come i salafiti di al-Albani o Ibn Baz o l’organizzazione di origine palestinese di Nabhani sono a-politiche e/o quietiste. D’altro canto, islamismo in sé è troppo generico, poiché rappresenta un ombrello troppo ampio. A mio parere quindi, la locuzione migliore è quella di “islam politico” in quanto indica la volontà da parte degli islamisti riformatori di impegnarsi in politica mirando a ricostituire una società e uno stato islamici. Tuttavia, i suddetti salafiti quietisti non rientrano in questa prospettiva, per cui, per esempio, sono avversari dei Fratelli musulmani che partecipano all’agone elettorale o alle lotte sindacali. Insomma bisogna adattarsi a scelte terminologiche perlopiù soggettive, con la consapevolezza che nessun termine è davvero soddisfacente e onnicomprensivo».

Le correnti islamiche

Islam politico come «alternativa islamica»: è una lettura che decostruisce diversi luoghi comuni. Ce ne vuole parlare?

«La tesi che ho sostenuto in diversi libri tra cui, appunto, L’alternativa islamica è che l’islamismo riformista o riformismo islamista (le due locuzioni funzionano entrambe e sono speculari) hanno rappresentato per un breve periodo di tempo, diciamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, una tendenza potenzialmente costituente di un nuovo ordine politico. Mi riferisco, ovviamente, in primo luogo al Khomeinismo, prima che degenerasse in clericalismo e autocrazia, e a realtà di grande complessità teorica e organizzativa come Hezbollah, ma anche alla cosiddetta “Sinistra islamica”, sunnita, che si è espressa spesso in “teologia islamica della liberazione” (Hasan Hanafi) in paesi come l’Egitto o la Siria-Libano. Gli stessi Fratelli musulmani, riemersi dalle persecuzioni durissime dell’epoca del nasserismo, o quantomeno gruppi di azione politica e sociale che provenivano da quell’ambiente, come la cosiddetta Wasatiyya (“Via Mediana”) studiata soprattutto da Raymond Baker, hanno saputo esprimere per qualche tempo una vena di rinnovamento endogeno all’islam che richiamava quella di Muhammad ‘Abduh agli inizi del Novecento. Tutte queste tendenze sono poi state purtroppo neutralizzate sia dall’emergere di correnti jihadiste violente, sia dal loro stesso elitarismo, sia dall’indifferenza o ostilità di cui li ha circondate l’opinione pubblica occidentale che ha continuato a vedervi forze “terroristiche” e dunque non ne ha appoggiato lo sforzo modernizzante pur espresso nel quadro dell’islam. Un grave errore politico da parte dell’Europa».  

Gli errori dell’Occidente

Quali sono, secondo lei, i contesti politici e culturali in cui si è sviluppato il radicalismo islamico?

«Il radicalismo islamico ha rappresentato la reazione esasperata a tre fattori: a) l’inasprirsi della crisi economica a partire dagli anni Settanta che ha pauperizzato le classi medio-basse e proletarie; b) il soffocamento della società civile da parte di regimi autocratici o francamente tirannici, sortiti dai processi di decolonizzazione, i quali, invece di condurre una funzione egemonica in favore delle popolazioni, si sono alleate alle lobby economiche; c) last but not least, l’infinita serie di errori della politica occidentale euro-americana in Medio Oriente, dall’incondizionato e pregiudiziale appoggio a Israele – a prescindere da qualsiasi legittimità delle richieste arabe -, al saccheggio delle risorse energetiche, dalla corrività con regimi reazionari come l’Arabia Saudita (o l’Egitto di Mubarak o la Tunisia di Ben ‘Ali), all’ingerenza neocoloniale, o neocrociata, nelle dinamiche geopolitiche della regione mediorientale. Più difficile dire se il richiamo ad aspetti come il jihad, costitutivi della tradizione politico teologica islamica siano stati il motore o non piuttosto l’effetto della strumentalizzazione della religione di cui si è imbevuto il messaggio terrorista ed estremista. Quest’ultimo ha certo trovato nell’ideologia giuridica classica del jihad un sostegno teorico, ma altrettanto certamente l’ideologia del jihad è stata interpretata in modo conveniente ai fini politici dei gruppi eversivi».

La Fratellanza musulmana

Quale ruolo ha avuto e ha tuttora la Fratellanza musulmana nelle dinamiche geopolitiche attuali e, in specifico, nei movimenti radicali?

«Dipende dai contesti. In Egitto, dopo la feroce repressione di al-Sisi tra il 2013 e il 2014, la Fratellanza musulmana è temporaneamente fuorigioco, ma certo starà lavorando sottacqua e probabilmente cercando di riorganizzarsi anche all’estero. In molti altri paesi arabi operano gruppi che si richiamano a una matrice comune alla Fratellanza musulmana transnazionale, ma che non sono più Fratellanza musulmana in senso stretto. Penso al partito Justice et Développement in Marocco, attualmente al governo, o ad Ennahda in Tunisia, che ha governato e che ora, pur non essendo più il partito di maggioranza, lavora ancora attivamente e proficuamente nel sociale e nel campo politico. Non credo sia possibile oggi divinare quale sarà il futuro di queste organizzazioni: stanno vivendo una fase di transizione e di trasformazione anche ideologica i cui esiti saranno tutti da verificare».

Al-Qa’ida e Daesh

Lei afferma che al-Qa‘ida e Daesh, in quanto deriva terroristica del radicalismo, hanno interrotto il processo di costruzione dell’«alternativa islamica». Quali sono gli scenari del prossimo futuro?

«Ridurre al-Qa‘ida e l’Isis a puri fenomeni terroristici, siano essi causati dall’irrazionalismo nichilista, come vuole Oliver Roy, o dalla radicalizzazione ideologica dell’islam, come vuole Gilles Kepel, è insufficiente: essi sono i prodotti delle circostanze che ho chiarito poco sopra, per cui, sconfitti loro, e lo saranno certamente prima o poi, riemergeranno altre organizzazioni estremiste. Per affrontare l’estremismo armato bisogna sanare le ferite che lo hanno provocato: dalla crisi economica all’autoritarismo violento dei regimi dei paesi islamici agli incredibili errori dell’Occidente. Ma non mi pare di vedere segni positivi in questa direzione. Le strategie sono sempre le stesse, almeno per ora».

Alcuni studiosi ritengono che già alla sua nascita l’islam si fosse manifestato come «anti-sistema» – se pensiamo al potere esercitato dal clan Quraish ai tempi del profeta Muhammad -, che poi la sua carica rivoluzionaria si sia persa dopo il periodo dei «califfi ben guidati» (VII?secolo d.C.), che successivamente sia stata ripresa dai kharijiti e poi dal pensiero radicale di Taymiyya e altri. Cosa ne pensa?

«Ali Shariati (sociologo iraniano, 1933-1977, ndr) affermava che l’islam è una religione per natura rivoluzionaria, e con lui i teologi della liberazione della alternativa islamica, come Hasan Hanafi. È proprio in tal senso che essi consideravano il profeta Muhammad o suo nipote Husayn come leader anti-sistema. Il periodo successivo alla fitna (dissenso, ndr), allorché la guerra civile tra alidi (i seguaci del califfo ‘Ali, ndr) e omayyadi (un potente clan meccano, ndr), ha frantumato la Comunità e “falsificato la coscienza islamica” (espressione di Nasr Abu Zayd) attraverso la strumentalizzazione politica della religione, ha in certo senso deviato, senza più possibilità di ritorno, almeno finora, il percorso storico ideologico dell’islam. Ibn Taymiyya (giurista e teologo, 1263-1328, ndr) ha proposto una sorta di rinnovamento dello stato sulla base della sharia, la legge religiosa, ma non può essere considerato il responsabile dell’esclusivismo che, nel corso dei secoli, ha spesso caratterizzato l’islam conservatore e tradizionalista. Era un pensatore intransigente, ma i qaidisti o gli estremisti dell’Isis che lo evocano utilizzano il pensiero di Ibn Taymiyya, enfatizzandone gli aspetti di rigore estremo, e senza cogliere la novità di una proposta di metodo prima ancora che di merito che era utile nel periodo (XIV secolo) successivo alla scomparsa del califfato».  

Il fallimento delle «primavere arabe»

«Primavere arabe»: nate da uno slancio di cambiamento e ricerca di giustizia sociale e politica, si sono trasformate in conflitti permanenti o in instabilità. Cos’è, secondo lei, che non ha funzionato? Quale è stato il ruolo dell’islam o dei movimenti radicali nelle rivolte arabe?

«A mio parere le “primavere arabe” sono fallite per molti motivi: a) lo spontaneismo acefalo delle prime fasi delle rivolte che non si sono coagulate in proposte politiche effettive; b) l’incapacità dei partiti islamici che hanno gestito la fase centrale della transizione rivoluzionaria di esercitare “egemonia” in senso gramsciano, e dunque di essere veramente le guide intellettuali, morali e politiche delle masse in cerca di una direzione, c) il prevalere di forze centrifughe tribali (Libia, Yemen) o alimentate da attori esterni ambigui (Siria, dove l’Arabia Saudita e il Qatar hanno favorito l’affermarsi di gruppi radicali armati); d) il fatto di essere “scoppiate” in un contesto storico indebolito dalla crisi dei regimi così come dalle precedenti infiltrazioni qaidiste e dalle ingerenze interessate delle grandi potenze che spesso si sono tradotte in stallo invece che in dinamismo (le rivalità aspre tra Arabia Saudita e Iran, ma soprattutto tra Stati Uniti e Russia). D’altra parte, le primavere arabe hanno rappresentato un potenziale laboratorio politico per l’islamismo, ma i Fratelli musulmani sono stati ferocemente repressi; Ennahda in Tunisia ha negoziato una transizione democratica che l’ha assorbita in un quadro politico tradizionale; le tensioni tribali tra sunniti e sciiti in Yemen hanno in breve tempo neutralizzato gli effetti di riforma istituzionale della “rivoluzione”».

Oltre i gruppi radicali

Osservando gli sviluppi in corso in Libia e Siria viene da pensare che ci sia stata un’alleanza «tattica» tra agende occidentali e certi gruppi radicali islamici. Cosa ne pensa?

«La domanda, allo stato delle cose, mancando documentazione certa e certezze interpretative, può avere una risposta solo “dietrologica”. Mi limito perciò a dire che con tutta probabilità Gheddafi in Libia è caduto più per l’intervento diretto dell’Occidente che per la forza dei rivoltosi; mentre l’affermazione dell’Isis in Iraq e Siria deve essere stata “aiutata” se non addirittura “preorganizzata” da qualcuno che ha lavorato in incognito approfittando del marasma seguito alla sciagurata guerra di George Bush nel 2003: e i paesi occidentali, più, ovviamente, Israele su cui sempre si tace, sono i candidati naturali per ricoprire questo ruolo».

Il caso della Libia

Qual è stato il ruolo della Fratellanza musulmana e di altri movimenti dell’islamismo politico in Libia?

«Al momento della rivolta contro Gheddafi, apparentemente minimo. Quando Gheddafi è stato ucciso e la Libia è stata “liberata” è ovvio che le organizzazioni dell’islamismo politico abbiano trovato terreno fertile dove intervenire e consolidarsi, magari dietro il paravento di governi più o meno legittimi».

Angela Lano
(terza puntata – continua)

I libri di Massimo Campanini

  • Storia del pensiero politico islamico, Mondadori / Le Monnier, 2017;
  • Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi, Mulino, 2017;
  • Storia del Medio Oriente, Il Mulino, 2014;
  • Le rivolte arabe e l’islam: la transizione incompiuta, Il Mulino, 2013;
  • L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, 2012;
  • Ideologia e politica nell’islam: fra utopia e prassi, Il Mulino, 2008;
  • I sunniti, Il Mulino 2008;
  • Arcipelago Islam, Laterza, 2007;
  • Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, 2006;
  • Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, 2005;
  • Storia dell’Egitto contemporaneo, Edizioni Lavoro, 2005;
  • Islam e politica, Il Mulino, 1999.

 




La Croazia: Una spiaggia non basta


Indipendente dal 1991, la Croazia racchiude molteplici identità, una ricchezza che spesso produce tensioni. Le cicatrici della storia ad esempio riemergono periodicamente sia all’interno del paese sia nei rapporti con gli ex fratelli jugoslavi, in primis con la Serbia. Ai problemi politici si sono aggiunti quelli economici e sociali. L’entrata nell’Unione europea e il boom del turismo non sono stati sufficienti a evitare anni di recessione economica e la fuga dei giovani dal paese.

Est o Ovest? Europa centrale, Balcani o Mediterraneo? La geografia e la storia della Croazia non sono d’aiuto quando si tratta di posizionare il paese all’interno di queste categorie concettuali. La giovane repubblica, indipendente dal 1991, ha infatti diverse anime, che si ritrovano nei suoi dialetti, nei suoi stili architettonici e persino nella sua gastronomia. Terra di isole adriatiche, montagne innevate e pianure danubiane, la Croazia trae dalla propria ricchezza culturale le sue multiple identità: romana, slava, veneziana, austro-ungarica, jugoslava, europea… Un patrimonio di influenze e di sfumature, da cui derivano però anche le tensioni del presente. Le interpretazioni del passato, le opinioni sulla religione o ancora i rapporti con i paesi confinanti, scatenano periodicamente dei dibattiti capaci di spaccare in due la società croata, producendo un costante senso di lacerazione, che nemmeno l’ingresso nell’Unione europea, nell’estate del 2013, è riuscito a placare.

Se la presidente guarda a Višegrad

«Vorrei che non si utilizzasse più l’espressione “Balcani occidentali” per indicare questa regione. Parliamo piuttosto di Sud Est europeo». Nel novembre del 2015, in occasione di un vertice multilaterale, la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovi? ha espresso così il suo punto di vista sulla questione geografica della Croazia e dei suoi vicini. Il termine «Balcani» veniva allora bandito dai discorsi ufficiali della capo di Stato, eletta ad inizio 2015 tra le fila del partito conservatore Hdz e decisa ad avvicinare il paese al cosiddetto gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Anche se la diplomazia internazionale ha in realtà mantenuto il vecchio vocabolario, per la Croazia, l’approccio di Grabar-Kitarovi? ha marcato un cambio di passo, confermato in quello stesso mese di novembre anche dal risultato delle elezioni legislative. L’Hdz, vincitore relativo dello scrutinio, è riuscito infatti a tornare al potere dopo una parentesi socialdemocratica (2011-2015) ed il governo che ne è risultato, guidato dal premier tecnico Tihomir Oreškovi?, ha riaperto in meno di un anno tutte le ferite proprie del tessuto sociale croato.

Le cicatrici della storia

L’esempio più significativo è quello di Zlatko Hasanbegovi?, uno storico accusato di revisionismo e negazionismo, ma nominato ministro della Cultura. Tra dichiarazioni sprezzanti e decisioni liberticide (ad esempio, la sospensione dei fondi pubblici ai media no-profit e al quotidiano della minoranza italiana «La Voce del Popolo»), Hasanbegovi? si è fatto notare anche per le sue osservazioni sul campo di concentramento di Jasenovac, il lager croato in cui morirono durante la Seconda guerra mondiale più di 83mila persone. «Tra le 20mila e le 40mila», è stata invece la stima del ministro, fatta proprio alla vigilia della cerimonia commemorativa nell’aprile 2016, boicottata allora dai rappresentanti delle vittime serbe ed ebree. Accadeva appena un anno fa, ma le radici del dibattito vanno cercate nel 1941, «l’anno che continua a tornare» come l’ha definito il celebre storico croato-bosniaco Slavko Goldstein. Nel 1941, lo scoppio della Guerra mondiale ha diviso il paese in due: tra ustascia e partigiani, i primi sostenitori dello Stato indipendente croato (Ndh), alleato della Germania nazista e dell’Italia fascista e guidato da Ante Paveli?; i secondi schierati con Josip Broz, detto Tito, diventato poi il leader della Jugoslavia socialista. E da allora, il 1941 «continua a tornare» come una maledizione.

Lo scontro sui diritti civili

La carriera ministeriale di Hasanbegovi?, convinto che la Croazia abbia «perso la Seconda guerra mondiale», è durata appena un anno. Nel giugno del 2016, il primo ministro Oreškovi? è stato sfiduciato, dopo che uno scandalo di corruzione aveva diviso i due partiti di maggioranza. Tuttavia, anche se si è trattato del «governo più breve della storia croata», come l’ha battezzato la stampa locale, diverse polarizzazioni proprie del paese sono state accentuate proprio in quel periodo. Oltre al caso Hasanbegovi?, che ha portato nel paese anche una missione del Consiglio d’Europa preoccupato per lo stato della libertà di espressione, un secondo terreno di scontro è stato quello della questione dell’aborto e dei diritti civili. Già nel 2013, ai tempi del governo socialdemocratico (Sdp), il fronte conservatore «Nel nome della famiglia» (U ime obitelji) era riuscito a rendere illegale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dopo aver organizzato un referendum costituzionale. L’esecutivo aveva risposto approvando le unioni civili anche per le coppie omosessuali, ma non era riuscito a chiudere il dibattito, in un paese che si professa cattolico quasi al 100%.

Durante il mandato di Oreškovi?, quindi, questo stesso movimento è tornato alla ribalta organizzando una «Marcia per la vita», con l’obiettivo di «proibire l’aborto in Croazia», come assicurava allora uno dei registi dell’evento, Vice John Batarelo, presidente dell’Ong «Vigilare». Al corteo, a cui presero parte migliaia di persone, sfilò in prima fila anche la moglie del premier, mentre a qualche metro di distanza si teneva una seconda manifestazione, voluta dai gruppi femministi e Lgbt della capitale e con obiettivi diametralmente opposti. Anche se è difficile che i militanti di «Nel nome della famiglia» arrivino a vietare l’interruzione di gravidanza, va detto che il tribunale di Zagabria, rispondendo ad una denuncia del 1991, ha dato al parlamento croato due anni di tempo (fino al 2019) per aggiornare la normativa in materia di aborto (che risale al 1978) in modo da renderla pienamente compatibile con l’ordinamento nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia. La riforma della normativa non mancherà dunque di riaccendere il dibattito.

Croazia-Serbia: una ruggine che non passa

Un’altra questione religiosa – e legata anch’essa all’anno 1941 – ci porta ad affrontare il capitolo dei rapporti con la Serbia. Il caso del cardinale croato Alojzije Stepinac provoca infatti degli scontri regolari tra le cancellerie di Belgrado e di Zagabria. In breve, Stepinac (1898-1960), che fu arcivescovo nella capitale croata durante la Seconda guerra mondiale, è accusato dalle autorità serbe di crimini di guerra e di collaborazionismo con il regime di Ante Paveli? e, proprio per questo, fu condannato a 16 anni di prigione nel 1946 dalla giustizia jugoslava. Ma per la Croazia, Stepinac fu in realtà una vittima del comunismo, come dimostra il fatto che papa Giovanni Paolo II lo abbia proclamato «beato» nel 1998 e che una commissione in Vaticano stia discutendo ora della sua eventuale santificazione. Lungi dall’essere aneddotica come potrebbe sembrare, questa vicenda funge da leitmotiv nelle relazioni bilaterali serbo-croate, intervallate dagli anniversari del conflitto e dalle frequenti dichiarazioni incendiarie.

Anche in questo caso, l’apice della tensione diplomatica tra Croazia e Serbia è stato raggiunto durante il mandato di Oreškovi?, quando il ministro degli Esteri di Zagabria era Miro Kova? – uno dei falchi dell’Hdz – ed il suo corrispettivo serbo era Ivica Da?i?, alla guida del Partito socialista (Sps) che fu di Slobodan Miloševi?. Nell’estate del 2016, Belgrado si è spinta fino a scrivere all’Unione europea per protestare contro «la riabilitazione dell’ideologia ustascia in Croazia», mentre a livello locale continuavano le provocazioni, almeno fino alla nuova tornata elettorale croata. La nuova vittoria dell’Hdz, epurato questa volta dal suo vecchio leader Tomislav Karamarko e guidato dal più moderato Andrej Plenkovi?, ha portato ad una rosa di ministri quasi completamente rinnovata. Lungi dall’aver estinto le fonti di conflitto all’interno della società, il «riaccentramento» dell’esecutivo croato ha comunque contribuito a limitare la retorica nazionalista nei confronti dei vicini.

La stanchezza dei giovani

In questo contesto pesantemente influenzato dal passato (dal 1941, prima ancora che dal 1991), che ne è delle giovani generazioni? Anche qui, si fa sentire la stessa divisione che attraversa la società nel suo insieme, ma con una novità. Se è vero che una parte della gioventù croata rimane sensibile ai discorsi che ruotano attorno alla retorica conservatrice, un’altra parte, stanca del dibattito politico nazionale e avvilita dalle magre prospettive economiche, sceglie sempre più spesso la via dell’emigrazione (a maggior ragione dopo il 2013, anno dell’ingresso del paese nell’Ue). Spinti da una disoccupazione giovanile che supera il 30% (dati fine 2016), i ventenni croati preferiscono traslocare in Irlanda, Germania o in altri paesi dell’Europa settentrionale. E non sono un’eccezione: secondo un sondaggio realizzato a febbraio 2017 dal portale MojPosao.hr, quattro cittadini su cinque sono pronti a lasciare il proprio paese pur di trovare un posto di lavoro. Una vera e propria emorragia, al punto che secondo alcuni osservatori la Croazia conterebbe oggi meno di 4 milioni di abitanti, contrariamente a quanto affermato dal censimento del 2011, che ne rilevava 4,3 milioni.

Instabilità

Colpita da sei anni di recessione (2009 – 2015) e prigioniera delle ricorrenti discussioni politiche e religiose, la Croazia fatica dunque a trovare quella serenità necessaria a costruire il suo tanto agognato futuro europeo. Il ritorno della crescita, sostenuta soprattutto dal turismo che nel 2016 ha portato nel paese 16 milioni di visitatori (rappresentando quasi un quinto del Pil, vedi pag. 28) e l’elezione di un governo più moderato (ma già in crisi a metà 2017) sembrano rappresentare le giuste condizioni per voltare pagina in Croazia. Ma gli sforzi di una parte della società croata per lasciarsi alle spalle i fantasmi del nazionalismo dovranno fare i conti con il contesto regionale, caratterizzato da una crescente instabilità nei Balcani. In bilico tra passato e futuro, Zagabria ha oggi l’urgenza di completare il processo di riconciliazione con la propria storia recente e con i suoi vicini. Solo su delle basi prive di retorica, il paese potrà finalmente abbracciare tutte le sue identità.

Giovanni Vale*

* Giornalista professionista, Giovanni Vale è collaboratore di diverse testate italiane e francesi. Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste, scrive perlopiù di Balcani per Il Piccolo, Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa e per Pagina99.

 


Migranti e «rotta balcanica»

Più Budapest che Bruxelles

La crisi dei migranti non ha risparmiato Zagabria. Che ha fatto le sue scelte.

La «rotta balcanica». Con quest’espressione, la stampa internazionale ha battezzato, nell’estate del 2015, il flusso di rifugiati che ha attraversato per mesi la Turchia, la Grecia e alcuni paesi dell’ex Jugoslavia, portando decine di migliaia di persone all’interno dello spazio comunitario. Siriani, iracheni o, ancora, afghani in fuga dai conflitti in Medio Oriente, hanno raggiunto in questo modo il territorio dell’Unione europea (e più precisamente lo spazio Schengen) nella speranza di ottenere una protezione umanitaria. Per la Croazia, questo flusso migratorio ha rappresentato una sfida logistica, prima ancora che politica. Il paese è stato coinvolto nella cosiddetta «rotta» a partire dal 15 settembre 2015, ovvero da quando il governo di Budapest ha ultimato il suo «muro», una barriera provvista di filo spinato e lunga più di 170 km con cui ha sigillato il confine serbo-ungherese. Da allora, la colonna di rifugiati che quotidianamente attraversava il Nord della Serbia in direzione settentrionale ha deviato verso ovest, entrando sul territorio croato.

Il governo di Zagabria, allora guidato dal premier socialdemocratico Zoran Milanovi?, ha dapprima deciso di far proseguire il flusso verso l’Ungheria, poi – dinanzi alla costruzione di una seconda barriera da parte di Budapest (questa volta al confine croato) – ha ripiegato sulla Slovenia. Data la geografia della Croazia, che pone la capitale lontana dalle pianure della Slavonia, interessate da questi eventi, si può dire che pochi cittadini croati abbiano realmente percepito la crisi migratoria del 2015, come è invece avvenuto nella vicina Serbia o ancor più in Grecia. Inoltre, similmente agli altri paesi della regione, soltanto un numero insignificante di rifugiati ha fatto domanda di asilo alle autorità croate, preferendo piuttosto proseguire verso la Germania e l’Europa settentrionale. Ciononostante, la questione migratoria ha avuto delle conseguenze politiche, prima nei rapporti con i vicini (tensioni con l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia), poi, dal punto di vista interno.

Le elezioni di fine 2015 hanno infatti portato ad un cambio di governo a Zagabria ed il nuovo esecutivo si è schierato su posizioni più filo ungheresi sul tema delle migrazioni. Come la presidente Grabar-Kitarovi? aveva manifestato il suo appoggio ai paesi del gruppo di Višegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia), così il premier Oreškovi? ha assicurato fin da subito di capire il bisogno di sicurezza di Budapest e Vienna. Nella primavera del 2016, gli stati della «rotta balcanica» (Austria compresa) hanno dunque deciso di contraddire apertamente la posizione di Bruxelles, decidendo autonomamente di sbarrare il passaggio ai profughi, prima permettendo l’accesso a soltanto tre nazionalità (siriani, afghani e iracheni), considerati a priori come legittimi beneficiari della protezione umanitaria, poi chiudendo definitivamente l’ingresso in Macedonia ed isolando così la Grecia. L’accordo turco-europeo ha poi permesso di includere anche Atene in una soluzione comune.

Gio.Va.


La Chiesa cattolica croata

Diffusa, forte e schierata

In Croazia nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica. Limitata e ostacolata all’epoca della Jugoslavia socialista, oggi la Chiesa croata è su posizioni conservatrici e nazionaliste.

A lungo controllata all’epoca della Jugoslavia socialista, la Chiesa cattolica croata si è schierata fin dall’indipendenza nel 1991 su posizioni molto conservatrici. Vicina all’«Unione democratica croata» (Hdz) – il principale partito di destra – la Chiesa svolge tuttora un ruolo di primo piano nel dibattito politico nazionale. Ferocemente anti-comunista e spesso apertamente nazionalista, la gerarchia ecclesiastica croata si esprime sia tramite il suo quotidiano, il «Glas Koncila», sia per mezzo dei suoi alti prelati, periodicamente autori di dichiarazioni forti e schierate.

Alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, ad esempio, il vescovo di Sisak Vlado Koši? ha invitato espressamente i suoi concittadini a votare per l’Hdz e non permettere un ritorno dei socialdemocratici al potere. L’anno prima, nel maggio del 2015, l’arcivescovo di Zagabria Josip Bozani? aveva invece celebrato una messa a Bleiburg in Austria, in occasione del 70° anniversario del massacro di migliaia di cittadini croati compiuto nel 1945 dai partigiani jugoslavi. Ogni anno, la commemorazione di questa vendetta degli uomini di Tito contro gli esponenti dello sconfitto «Stato indipendente di Croazia» (Ndh) raduna nella piccola cittadina dell’Austria meridionale migliaia di militanti croati di estrema destra ed alcuni dei suoi rappresentanti politici. La presenza di alti esponenti ecclesiastici è perciò vista come controversa, così come lo è la figura di Alojzije Stepinac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria che la Chiesa croata vorrebbe santo ma che la Serbia considera un criminale di guerra (vedi pezzo principale).

Dalle questioni legate al matrimonio e all’aborto fino alla battaglia contro le unioni omosessuali (contro cui la gerarchia cattolica croata si è battuta con successo nel 2013), gli interventi della Chiesa nel dibattito politico della Croazia sono dunque numerosi e costanti. Nel paese, nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica.

Giovanni Vale


Ex Jugoslavia

Ci eravamo tanto amati

Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con gli ex «fratelli» sono all’insegna del sospetto reciproco.

Il golfo di Pirano, la frontiera sul Danubio o ancora il ponte di Sabbioncello. Ecco tre dossier bilaterali che la Croazia discute oggi con i suoi vicini. Si tratta di questioni nate con la dissoluzione della Jugoslavia e con la necessità di dividere un patrimonio che prima era comune e che non sono ancora state risolte.

Il primo caso è quello che coinvolge Croazia e Slovenia, tuttora impegnate a tracciare una frontiera marittima nelle acque del golfo di Pirano, poco lontano da Trieste. È una controversia vecchia di 25 anni e che ha visto diverse evoluzioni, ma nessuna soluzione condivisa. Lubiana chiede un accesso indipendente alle acque internazionali e rivendica una sovranità più ampia sulla baia, incontrando però l’opposizione di Zagabria. Negli anni, i negoziati si sono susseguiti così come le proposte di nuove carte nautiche. Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, il diverbio è finito davanti ad una corte internazionale di arbitrato, ma nell’estate del 2015, quando il tribunale stava per esprimersi, una fuga di notizie tra i giudici e i rappresentanti sloveni ha convinto le autorità croate ad abbandonare il processo. Così, ad oltre un quarto di secolo dalla fine della Jugoslavia, i pescatori di entrambi i paesi non sanno ancora dove finiscono formalmente le acque del proprio stato ed iniziano quelle dei vicini.

Anche con la Serbia, una frontiera precisa rimane da tracciare. I paesi sono separati dal corso del Danubio, ma la Croazia fa appello a dei documenti catastali di epoca austroungarica e reclama alcuni ettari di terra che si trovano oggi oltre il fiume. Belgrado, inutile dirlo, si oppone ed ecco che la disputa – anche qui, vecchia di oltre 25 anni – ha permesso la “nascita” del Liberland, uno “stato” autoproclamatosi indipendente su un isolotto che nessuno dei due stati rivendica come proprio. E se la vicenda del confine tuttora da definire fa capolino solo raramente sulla stampa locale, è soltanto perché i motivi di tensione tra i due paesi non mancano: dalla tutela della rispettive minoranze al trattamento dei crimini di guerra, passando per la più recente (e spesso esplicita) corsa agli armamenti, le relazioni bilaterali serbo-croate sono già ben fornite.

Infine, con la Bosnia-Erzegovina, Zagabria discute due temi principali: le sorti dei croati residenti in Bosnia, che premono per la creazione di una «terza entità» federata nel paese, ed il modo in cui bypassare il corridoio di Neum, unico acceso al mare bosniaco ma causa dell’isolamento della contea di Dubrovnik dal resto della Croazia. Il primo argomento è decisamente molto spinoso, perché prevede una riforma dei trattati di Dayton del 1995 che equivarrebbe ad aprire il vaso di Pandora del delicato sistema istituzionale bosniaco. Più abbordabile, invece, il dossier di Neum. A questo proposito, due paesi hanno trovato un accordo per la costruzione di un ponte che collegherà la penisola di Sabbioncello alla terraferma dalmata e i lavori dovrebbero iniziare entro la fine del 2017.

Gio.Va.


Turismo e ambiente

Turisti: tanti, forse troppi

Fonte primaria dell’economia della Croazia, il turismo incontrollato comincia a produrre danni collaterali.

Sedici milioni di visitatori l’anno, con un contributo pari a quasi il 20% del Prodotto interno lordo (Pil). Il turismo rappresenta per la Croazia una priorità economica ed è un settore a dir poco strategico. Ogni anno, l’inizio dell’estate in Dalmazia, in Istria e sulle isole marca una delle ricorrenze annuali più importanti per il paese, che dipende in larga misura (forse eccessivamente) dai risultati della stagione turistica. E se nei fatti, la Croazia registra ogni anno dei nuovi record nel numero di arrivi o di pernottamenti, questo continuo boom comincia già a provocare i primi danni collaterali.

A Dubrovnik o al parco nazionale dei laghi di Plitvice, il numero dei turisti supera ormai la quota massima indicata dall’Unesco come parametro per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Si parla di 10mila persone al giorno in fila sui bastioni della vecchia Ragusa e di oltre 15mila all’interno del celebre parco croato: un flusso eccessivo per l’Unesco che ha già intimato alle autorità di Zagabria di rimediare alla situazione. Inoltre, altre conseguenze negative, anche se più difficilmente quantificabili, colpiscono le città della costa e le comunità che le abitano. Accade così che nel centro di Spalato ci sono sempre meno residenti locali, seguendo l’esempio di quanto già successo per le vie della vicina Traù (Trogir). Il successo della spiaggia di Zr?e sull’isola di Pago rappresenta anch’esso un’opportunità e una sfida per le autorità locali, impegnate ora a trovare un equilibrio tra il turismo di massa legato alle discoteca e la voglia di promuovere i propri siti storici e culturali.

Proprio per rimediare a questa strategia mono-settoriale che colpisce le coste croate, un movimento si è sviluppato negli ultimi anni in Dalmazia. Si tratta del «movimento delle isole» (Pokret Otoka), un’iniziativa lanciata da un gruppo di giovani abitanti (perlopiù donne) con l’obiettivo di immaginare e pianificare un futuro sostenibile per le mille isole croate. Nato a fine 2015, Pokret Otoka ha creato una rete per lo scambio di idee e buone pratiche e ha recentemente portato alla firma di una «Dichiarazione dell’isola intelligente» (Smart Island Declaration), presentata a fine marzo 2017 a Bruxelles.

Gio.Va.

 




Insegnaci a pregare 6. Dio ci prega


Nella puntata precedente abbiamo preso in esame, seppure velocemente, la preghiera sotto due profili. Dal punto di vista dell’uomo che ha il desiderio di Dio, come magistralmente dice Sant’Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – Ci hai creati per te e inquieto sta il nostro cuore finché non riposi in te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1), e dal punto di vista di Dio che con la stessa intensità e la stessa passione di un innamorato, nella perifrasi del Cantico dei Cantici, fatta dal Targùm, anela e desidera di «ascoltare la voce dell’Assemblea riunita». Abbiamo desunto da quel testo della tradizione ebraica la prospettiva della preghiera come bisogno di Dio di stare con noi. Ci eravamo lasciati con l’impegno di riprendere questo aspetto nello «Shemà’ Israel», superficialmente definita, come vedremo subito, la preghiera più importante di Israele.

«Shemà’ Israel»

Il testo completo si trova nel libro del Deuteronomio (vedi qui sotto) che riportiamo per esteso. In esso formalmente parla Mosè, ma il mandatario è Dio, in nome del quale, il grande profeta e servo, Mosè, riassume tutti gli interventi di Dio. Possiamo dire che è Dio a parlare a Israele per mezzo di Mosé. Le parole pronunciate da quest’ultimo sono «Parole di Dio»:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).


Deuteronomio

Nella Bibbia ebraica, il 5° libro si chiama «Devarìm – parole», plurale del sostantivo singolare «Davàr – parola/fatto». Il termine Deuteronomio è preso dalla Bibbia greca cosiddetta LXX, scritta per gli Ebrei di Alessandria di Egitto che non conoscevano più l’ebraico. Poiché il suo contenuto è legislativo, il libro ha ricevuto in lingua greca il titolo di «Seconda legge – Dèuteros nòmos». L’immagine della seconda legge fa riferimento a un testo ritrovato durante lavori di restauro del tempio, sotto il regno di Giosìa, il quale, motivato da questa scoperta, diede impulso a una grande riforma religiosa nell’anno 622 a.C. Si chiama «seconda» in riferimento alla «prima» che è e resta quella del Sinai. Il Deuteronomio riporta tre grandi discorsi di Mosè al popolo prima dell’ingresso nella terra promessa:

1° discorso (Dt 1,1-4,43): è il riassunto di tutti gli interventi di Dio in favore di Israele dall’Egitto alle soglie della terra promessa: premessa storica dell’alleanza.

2° discorso (Dt 4,44-26,19): è un’omelia, una riflessione sull’alleanza e, infatti, comprende il codice dell’alleanza rinnovata nel segno della «Seconda Legge». Seguono una serie di benedizioni e maledizioni con il rinnovo ufficiale degli impegni e la conclusione dell’Alleanza (27,1-28,68).

3° discorso (Dt 28,69-30,20): è una ripresa degli eventi accaduti e un invito pressante alla fedeltà al Signore della Storia e della terra. Seguono ultime disposizioni e la morte di Mosè (31,1-34,12).
Il testo finale, come lo possediamo oggi, è databile nei sec. V-IV a.C., ma contiene testi molto più antichi del tempo della riforma del re Giosìa del sec. VII a.C. (anno 622) e altri più antichi ancora. Si può quindi considerare questo libro come il frutto della riflessione di una «scuola» che, dopo l’esilio di Babilonia, ha rielaborato materiale antico unendolo alle riflessioni teologiche del momento attuale, richiamandosi allo spirito profetico e in modo particolare a Geremia.


Lo «Shemà’ Israel» si trova nell’ambito del 2° discorso che Mosè fa a nome di Dio. Appartiene quindi alla riflessione sull’Alleanza. Alle soglie della terra promessa, nelle «Parole» che Dio rivolge al popolo d’Israele per bocca del profeta Mosè, per sette volte si ripete l’espressione: «Shemà’ Israel – Ascolta, Israele (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1; 20,3; 27,9) che è quasi un legame letterario di tutti e tre i discorsi. È strano che in un testo legislativo si trovino parole come «amore – ahavàh», espressive di sentimenti di reciproco affetto. Eppure questo accade e ha il suo senso nel fatto che non può esistere alcuna legge che possa avere forza obbligante se la si teme e non la si ama in quanto segno e strumento di una relazione vitale. La legge esige amore e non schiavitù.

Comunemente, con l’incipit «Shemà’ Israel» – come solitamente si dice – si indica la preghiera ufficiale che ogni pio israelita deve recitare due volte al giorno. In realtà lo «Shemà’ Israel» non è una preghiera di Israele a Dio, ma la richiesta da parte di Dio di una professione di fede, di una dichiarazione di amore esclusivo come pegno per il futuro. Nemmeno questo però è sufficiente, perché se guardiamo in profondità, scopriamo che l’atto di fede più esclusivo del popolo d’Israele è una invocazione di Dio al suo popolo perché presti attenzione alle parole che egli pronuncia attraverso il suo profeta e non defletta dalla sua fede nell’unicità di Dio.

Amare e pregare sono sinonimi

Nello «Shemà’ Israel», è Dio che s’inginocchia davanti a Israele e lo supplica di «ascoltarlo». In altre parole, è Dio che prega il suo popolo, quasi avesse paura di perderlo. Inaudito! L’ingresso nella terra promessa coincide con la preghiera di Dio al popolo, non il contrario: Dio supplica il suo popolo di non abbandonarlo, perché egli non può essere Dio senza il suo popolo Israele, come lo sposo non può essere sposo senza la sposa, come il padre non può essere padre senza il figlio. Ogni volta, pertanto, che ascoltiamo o leggiamo o preghiamo con queste parole, dobbiamo avere coscienza di vedere Dio inginocchiato davanti a noi che ci supplica di ascoltare il suo «Davàr», la sua «parola/fatto» che per noi cristiani, testimone Giovanni evangelista, è il Lògos-sarx, Gesù di Nàzaret in cui Parola e carne, divinità e fragilità diventano un corpo solo, una unità sponsale (cf Gv 1,14).

In questa supplica di Dio al suo popolo, egli esige l’esclusività perché per natura l’amore è esclusivo: «Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore – Yhwh ’elohènu Yhwh ’echad». Come un innamorato o innamorata che prima di innamorarsi ha la possibilità di scegliere tra tutte le donne e tutti gli uomini, ma una volta che s’innamora esclude tutte e tutti tranne una o uno, così anche Dio supplica Israele di sceglierlo come «unico» e di restargli fedele. Non solo, in un testo giuridico che stabilisce norme per ogni aspetto della vita, si stagliano parole d’amore che sono tra i vertici della letteratura e della spiritualità di tutti i tempi: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). In ebraico si usa il verbo «’ahavàh – amare» che abbiamo già esaminato (Il Tallìt di Dio, MC 6/2017, p. 32), affermando che numericamente ha un valore di «13», cioè la metà di «Yhwh» che vale invece «26». A suo tempo abbiamo detto anche che Dio è un amore al quadrato e solo mettendo insieme ciascuno il proprio pezzo d’amore con i frammenti di amore degli altri si può raggiungere la pienezza di Dio che «è Amore – Agàp?» (1Gv 4,8). La Bibbia LXX, infatti, nel brano in questione, traduce «’ahavàh – amare» col il verbo «agapà? – io amo senza pretendere in cambio nulla» che nella Scrittura è un verbo riservato quasi esclusivamente a Dio.

Cuore, anima e beni materiali

«Tutto il cuore» riguarda la totalità della persona perché il cuore, per i semiti, è la sede dell’intelligenza e della coscienza, il profondo dove si forma e abita l’identità. Ancora di più. In ebraico la parola «cuore» si dice in due modi: «leb» e «lebàb» (pronuncia: levav): il primo con una «b» e il secondo con due «b». Il testo dello «Shemà’ Israel» riporta la versione con «due b: lebàb». I rabbini si domandano perché questa differenza e danno una risposta sorprendente. Essi insegnano che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore» (Dt 4,5). La Mishnàh, Berakòt – Benedizioni 9,5, infatti così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, con le due tendenze: il bene e il male». Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede perché immaginano un puritanesimo che non esiste e Dio stesso ne è consapevole fino a farne un comando d’amore.

«Tutta l’anima» si riferisce alla capacità di relazione sia in senso orizzontale (con gli altri diversi da sé) sia in senso verticale (con l’Altro che è il fondamento della relazione con sé e con gli altri). In altre parole si tratta della vita in tutta la sua espressione umana che si esprime e si consuma nella fecondità del rapporto con gli altri che sono sempre, per chi crede, la parte migliore perché sacramenti della presenza di Dio.

«Con tutte le forze» ha un significato preciso e significa «con tutti i tuoi averi» per evitare che s’illuda di chiudersi dentro uno spiritualismo di comodo, come avverte San Giacomo (cfr. Gc 2,2) che a sua volta richiama il Vangelo di Luca e la requisitoria di Gesù contro i ricchi (cfr. Lc 6,24-26). È facile amare Dio con i sentimenti e senza alcun impegno di vita, ma se occorre mettere in gioco il portafogli e i beni materiali, allora la questione si fa seria e tocca l’etica dell’economia, l’etica della politica, l’etica del guadagno, l’etica della tassazione, l’etica della condivisione, l’etica della distribuzione secondo giustizia dei beni della terra, che sono di Dio ma affidati a noi per custodirli e condividerli.

Queste tre condizioni e stati di essere, cuore, anima e beni materiali devono stare radicati nell’io (nel cuore) perché la preghiera non sia un atteggiamento evanescente e sulfureo, un mero obbligo materiale come «recitare» Lodi, Vespro e il resto o «dire» Messa, tutto logicamente in fretta e furia perché «maiora praemunt – cose più importanti urgono». Dio prega il suo popolo di «ascoltare», che non significa stare a sentire, ma immergersi nella persona che parla e diventare la parola che dice. Oggi, troppo spesso, la superficialità e la fretta fanno perdere anche la dimensione della buona educazione, cui non facciamo più caso.

Quando si riceve una persona per un colloquio bisognerebbe essere totalmente alle sue dipendenze e «ascoltare» con cuore, anima e beni materiali: disponibilità senza riserve. Troppo spesso, invece, capita, durante un colloquio, che uno risponda al cellulare o guardi l’orologio o si estranei rispondendo a un sms o consultando il web. È un costume tanto diffuso che non ci rendiamo più conto che in tal modo mettiamo il valore della persona sotto i piedi. Nessuno pensa che quello potrebbe essere l’ultimo colloquio della sua vita e che potrebbe presentarsi a Dio adducendo come scusa che «stavo rispondendo al telefono». Siamo diventati schiavi del cellulare e non ce ne accorgiamo nemmeno. Pregare è «ascoltare» Dio che prega e poiché Dio è relazione non può farlo da solo, ma ha necessità di pregare in compagnia. Pregare è perdere tempo senza chiedere nulla in cambio e dire all’altro quanto sia importante per me e anche porlo al centro della propria attenzione, del proprio cuore, della propria anima e dei beni materiali. Ascoltare gli altri è pregare vivendo.

«Voce di silenzio sottile»

Per il Targùm pregare è rispondere all’anelito di Dio di vedere il volto del suo figlio/figlia. Pregare è non solo regalare il proprio tempo a Dio per permettergli di contemplare l’assemblea orante, ma illuminarsi lo sguardo per vedere la vita e gli eventi e le persone con gli occhi di Dio. Sì, pregare è esercitarsi a somigliare a Dio, imparando da lui come si agisce nella storia, come si accolgono le persone, come si progetta il futuro, come si legge il presente e come si cammina con gli altri nei propri tempi che sono sempre «tempi di Dio». Nessun tempo può essere privilegiato, perché «io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,28) e se lui è con noi sempre, giorno dopo giorno, abbiamo l’obbligo di «stare con lui» per imparare come lui sta con noi e fondere in un unico modo i due versanti fino a diventare uno perché uno è il Signore nostro.

Per vedere Dio, è sufficiente lasciarsi contemplare dall’Invisibile mentre si prega. «Ascoltare» non significa dire parole e formule, ma essere «silenzio», cassa di risonanza che fa rimbombare la Parola «sottile» di Dio, che, sebbene Parola creatrice, è sempre un «silenzio sottile», flebile, gracile, un soffio appena sussurrato che deve essere custodito. È l’esperienza di Elia che non vide Dio nelle manifestazioni rumorose del vento, del terremoto e del fuoco, ma nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Due ossimori potenti: «voce-silenzio» e «silenzio-sottile». Veramente Dio è un grande umorista che sa cogliere con brio il senso e il nesso delle cose. Se la parola non si fa silenzio non può mai divenire Parola; se il silenzio che è già pieno senza necessità di nulla non diventa ancora più sottile, cioè più profondo, affilato come spada (cfr. Eb 12,4), perde il contatto con la Parola: Parola e silenzio mantengono la propria identità se scompaiono l’uno nell’altra. Quando diciamo di pregare, anche molto, e che nonostante ciò Dio non ci ascolta, ammettiamo solo che teniamo separati Parola e silenzio, presenza e assenza.

L’anelito di Mosè e quello del Cantico dove Dio smania per vedere il volto della sposa orante, si prolunga anche nel NT, nei Greci giunti a Gerusalemme come cervi assetati alla sorgente. Essi rivolgono a Filippo e ad Andrea il loro anelito di desiderio: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Il Signore risponde rinviandoli alla morte in Croce: per vedere Dio bisogna salire il Calvario e sostare ai piedi della Croce per contemplare l’uomo crocefisso che incarna il volto dell’Invisibile. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12,23-24). La Croce esprime una doppia prospettiva: dal basso, dove stanno il discepolo e la madre che guardano il volto di Dio crocifisso, e dall’alto dove il Dio morente guarda l’uomo e la donna, novelli Àdam ed Eva (cf Gv 19,25-27), segno sacramentale dell’intera umanità immersa nella visione del Dio invisibile che i cieli dei cieli non possono contenere (2Cr 2,5). È la croce il punto di congiunzione tra la morte e la risurrezione.

Pregare è solo perdersi in un afflato d’amore in cui si confondono e si fondono insieme due desideri fino a diventare uno solo, fino a sperimentare una sola vita. L’Eucaristia è tutta qui: lo spazio della visione sperimentata. L’Assemblea si raduna non per adempiere un precetto, pena il peccato, ma per permettere a Dio di contemplarla nello stesso momento in cui si pone davanti a Dio per vederne la Gloria, toccarne il lembo del mantello e mangiare il «Lògos della vita» (1Gv 1,1)

Paolo Farinella (6 – continua)




Zimbabwe: Mugabe, 93 anni, pronto a ricandidarsi nel 2018


Il più longevo dei governanti africani ha portato il suo paese sull’orlo del baratro. Un tempo granaio d’Africa, lo Zimbabwe soffre oggi continue crisi alimentari. Ma Mugabe, come sostiene sua moglie, «sarebbe rieletto anche da morto». Intanto si prepara, con difficoltà, la sua successione.

Robert Mugabe ha compiuto 93 anni. È il più anziano leader africano ed è in carica dal 1980. Ma, nonostante l’età, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Si ricandiderà alla presidenza nel 2018. E certamente sarà rieletto. Perché, come dice sua moglie Grace: «Robert verrebbe rieletto anche se fosse morto».

In 37 anni di potere pressoché assoluto, Mugabe ha creato un apparato di consenso fortissimo che, come diceva Benito Mussolini, sa usare «il bastone e la carota».

Le mani sulle istituzioni

«È molto abile nel giocare al “divide et impera” – spiega un missionario che da anni opera in Zimbabwe e che, per motivi di sicurezza, vuole rimanere anonimo -. Nella mia ingenuità, nel 1980, quando finì il governo razzista di Ian Smith, pensavo che fosse positivo che Mugabe non avesse una propria corrente nel suo partito, lo Zanu Pf (Zimbabwe african national union). La sorpresa è stata grande quando ci siamo resi conto che lui amava governare mettendo uno contro l’altro sia all’interno del suo partito sia a livello di paese».

Ma il suo non è solo un gioco politico. È qualcosa di più. È in grado di mantenersi al potere attraverso la forza del ricatto. Promuove alle cariche più importanti le persone che sa di poter tenere in pugno. Si racconta che un politico sia stato nominato ministro dopo aver ucciso l’amante di sua moglie. Si narra anche che abbia nominato governatore di una provincia un membro del suo partito che era stato fermato con feticci che utilizzava nelle messe nere. Mugabe conosceva i loro reati e sapeva anche che avrebbe potuto tranquillamente ricattare i due politici se non avessero eseguito pedissequamente i suoi ordini.

D’altra parte, il presidente zimbabweano ha una forte presa su tutto l’apparato statale: polizia, forze armate, servizi segreti, magistrati. La maggior parte dei giudici proviene dalle file del partito di governo. Non tutti, ma se un caso approda di fronte al giudice «sbagliato», il regime è in grado di allungare i tempi delle indagini e dei processi in modo tale che non si giunga mai a un verdetto. È il caso delle cause intentate dall’opposizione per 26 seggi vinti dallo Zanu Pf nelle elezioni del 2002. I giudici avrebbero dovuto esprimersi sulle violenze e sulle intimidazioni delle milizie del partito di governo, ma 15 anni dopo non è stata emessa alcuna sentenza.

Il presidente Robert Mugabe e la sua moglie e first lady Grace Mugabe. / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

La moglie Grace

Da tempo, ormai, a fianco del presidente è comparsa sua moglie Grace. Mugabe l’ha sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie (Sally Hayfron). Il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, ma senza aspettare che Grace avesse divorziato dal primo marito Stanley Goreraza, un pilota militare zimbabweano. Fin da subito, Grace si è rivelata una donna ambiziosa. Come segretaria personale del presidente, lo ha spinto a prendere decisioni al limite del ridicolo. Come quando alla signoraè stato riconosciuto il dottorato in Sociologia due mesi dopo l’iscrizione all’università. L’influenza del marito ha certamente contato più delle ore passate sui libri. Ma, ciò che è più grave, ne ha influenzato e ne influenza le decisioni politiche. Dando al regime quell’impronta radicale che ha assunto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano inserito la signora Mugabe nella lista delle personalità zimbabweane soggette a sanzioni per il loro ruolo assunto nel regime.

Grace Mugabe, che ha 52 anni, però non si ferma. Il suo obiettivo è prendere il posto del marito alla presidenza. Fino ad alcuni anni fa, la candidatura sembrava non avere rivali. Poi, lentamente, i gerarchi dello Zanu-Pf hanno iniziato a mettersi di traverso ostacolando con tutti i mezzi possibili la sua ascesa. Lo stesso Mugabe ha ammesso che all’interno dello Zanu-Pf c’è chi la detesta e fa di tutto per sbarrarle la strada. Tutto ciò fa presagire le tensioni che potranno esserci in Zimbabwe dopo la morte del presidente.

Secondo la studiosa di questioni africane, Teresa Nogueira Pinto, intepellata dal quotidiano francese «Le Monde», si prospettano tre scenari possibili per la successione: l’ascesa del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il quale potrebbe aprire a riforme e, quindi, a una transizione morbida; la vittoria di Grace, che porterebbe a gravi tensioni all’interno del partito e quindi un’instabilità continua; l’implosione dello Zanu-Pf che significherebbe guerra civile, caos e violenze.

Protesta ad Harare. / Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Opposizione in catene

L’opposizione non ha vita facile in Zimbabwe. La principale formazione che lotta contro lo strapotere di Mugabe è il Movement for Democratic Change (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, per anni Segretario generale dello Zimbabwe Congress of Trades Unions. È un partito di matrice socialdemocratica nato non nelle aree rurali, ma nelle principali città e, in particolare, nella capitale Harare. L’Mdc si è candidato nelle elezioni del 2000, ma solo nel 2008 è riuscito a portare una consistente pattuglia di deputati in parlamento. Lo stesso Mugabe, in una dichiarazione che gli è sfuggita, ha ammesso che Tsvangirai avrebbe il 73% dei consensi in un’elezione presidenziale trasparente e che si svolgesse secondo le regole democratiche.

Ma Tsvangirai non è l’unico oppositore a dar fastidio a Mugabe. Negli ultimi mesi è emersa la figura del pastore battista Evan Mawarire. Il 19 aprile 2016 il religioso ha pubblicato su Facebook un video nel quale, in prima persona e con una bandiera zimbabweana al collo, chiede che il Governo avvii una serie di riforme politiche ed economiche. Quel video è diventato virale e il movimento #ThisFlag, cresciuto a livello nazionale, ha iniziato a promuovere scioperi tra i più partecipati negli ultimi anni in Zimbabwe. Ovviamente, il regime gli si è rivoltato contro. Mawarire, dopo essere stato criticato apertamente dallo stesso Mugabe, è stato arrestato in luglio per incitamento alla violenza pubblica, ma poi è stato rilasciato. Ha deciso così di rifugiarsi negli Stati Uniti, anche per fuggire alle minacce di morte alla moglie e ai figli. Quando il primo febbraio ha deciso di rientrare in patria, ha trovato alla frontiera la polizia che lo ha arrestato di nuovo con l’accusa di voler rovesciare il governo, reato per il quale è prevista una pena di vent’anni di carcere.

La protesta ha fatto altre vittime oltre a Mawarire. La polizia ha incarcerato gli attivisti Linda Masarira, Acie Lumumba, Denford Ngadziore, il giornalista Whatomore Makokoba, l’ex leader studentesco Promise Mkwananzi, il sindacalista Stan Zvorwadza e il pastore Philip Mugadza.

Il pastore Evan Mawarire, leader di un movimento di protesta / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

Cristiani divisi

Le Chiese cristiane non hanno posizioni comuni e sono spaccate al loro interno. Alcune parti della Chiesa cattolica hanno provato a opporsi a Mugabe. Monsignor Pius Aleck Mvundla Ncube, arcivescovo di Bulawayo (la seconda città del paese), per anni è stato uno dei principali oppositori di Mugabe. Le sue invettive colpivano duro il regime. Ha organizzato diverse manifestazioni di protesta e in lui molti vedevano un possibile leader dell’opposizione politica. Uno scandalo sessuale però l’ha travolto e indotto a uscire di scena. Un giornale controllato dal governo ha pubblicato nel 2007 alcune foto che ritraevano un uomo nudo insieme a tre donne. Le immagini erano sfocate, ma il quotidiano affermava che quell’uomo fosse proprio mons. Ncube. Papa Benedetto XVI gli ha così chiesto di rassegnare le dimissioni. Cosa che lui ha fatto l’11 settembre 2007 per poi sparire dalla ribalta mediatica e dalla scena politica zimbabweana.

«Alcune frange della Chiesa cattolica – spiega un altro missionario, anche lui sotto richiesta di anonimato – continuano però a denunciare le ingiustizie del regime. E lo fanno con molta più forza di quanto facessero sotto il regime bianco di Ian Smith. Questo è un segnale positivo. Sarebbe però utile che tutti i cristiani fossero uniti, mentre così non è».

La Chiesa anglicana, molto forte nel paese, ha resistito a un tentativo del presidente Mugabe di prenderne il controllo. Alcuni anni fa, Norbert Kunonga, un religioso fedelissimo di Mugabe, ha provato, istigato dal regime, a creare una Provincia anglicana indipendente in Zimbabwe. Ma è stato sconfessato dalla Comunione anglicana e la maggior parte dei fedeli si sono rifiutati di seguirlo.

«Le Chiese cristiane indipendenti – continua il missionario -, supportano apertamente Mugabe soprattutto quando il presidente si scaglia contro gli omosessuali e invita le donne a “rimanere al proprio posto”, cioè a casa. Queste uscite di Mugabe gli garantiscono un forte supporto. Le Chiese pentecostali invece si proclamano apolitiche e non si interessano in alcun modo della lotta per il potere, promuovendo il successo in campo economico».

Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Quel che resta dell’economia

L’economia è al collasso. Il regime segregazionista di Ian Smith, deprecabile e condannabile sotto il profilo politico e sociale, aveva però lasciato in eredità al paese un’economia funzionante. L’agricoltura era organizzata in modo industriale e riusciva a produrre un surplus che veniva esportato garantendo un’ottima fonte di valuta pregiata. Lo Zimbabwe poi aveva un buon tessuto industriale che creava profitti e occupazione. Le risorse non erano ben distribuite, ma una buona politica economica avrebbe potuto portare una equa redistribuzione dei redditi a vantaggio di tutta la società.

Il primo colpo a questo sistema è stato dato dall’accettazione da parte di Mugabe delle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale. Queste, negli anni, hanno portato a un progressivo impoverimento industriale. «Oggi le statistiche ufficiali – continua il missionario – parlano di un’industria che funziona al 30% delle sue reali potenzialità. In realtà, non esiste più un’industria zimbabweana. Per comprenderlo è sufficiente fare un giro nelle periferie di Harare e di Bulawayo».

Un secondo e mortale colpo all’economia è stato dato dalla riforma agraria del 2000. Fin dai primi giorni dell’indipendenza, Mugabe aveva parlato della necessità di una redistribuzione ai coltivatori neri delle terre in mano ai latifondisti bianchi. Una politica che non era avversata di principio dai grandi farmer, ma che stentava a decollare. La maggior parte delle terre migliori, alla fine degli anni Novanta, era ancora in mano ai bianchi che, però, solo in parte erano gli eredi dei coloni britannici. Mugabe, cogliendo l’occasione del mancato supporto dei bianchi a un suo progetto di riforma costituzionale (che prevedeva la nomina a presidente a vita dello stesso Mugabe), nel 2000 ha varato una riforma agraria che ha espropriato le terre dei bianchi assegnandole però non ai contadini neri, ma ai fedelissimi del regime (in maggioranza incapaci di gestire una grande tenuta). L’economia è così crollata.

Oggi lo Zimbabwe è un paese che deve importare derrate agricole. Per placare l’inflazione, la valuta locale è stata ritirata e sostituita dal dollaro statunitense. Il 70% della forza lavoro è disoccupata. Ma forse Mugabe si occuperà di questa crisi nel prossimo mandato.

Enrico Casale




Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»


C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.

«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».

La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.

L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».

Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.

Flussi tra montagna e città

Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».

I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».

«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».

Servizi addio

Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.

Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».

Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.

Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».

Migranti in quota

A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.

«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.

In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».

«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».

Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».

Rancore o accoglienza?

Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.

«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».

Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.

«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».

Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.

«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».

Turismo «dolce»

Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.

Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.

Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.

Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».

Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.

Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.

È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.

I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.

Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».

Vado a vivere in montagna

Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.

«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.

Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.

«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.

Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.

Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.

Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.

Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».

Marco Bello

 




Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), dai neuroni ai muscoli


La Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) è una malattia degenerativa tra le peggiori. In Italia si stimano 1.000 nuovi casi all’anno. Le cause rimangono sconosciute. Non esistono cure, ma solo la possibilità di rallentare il decorso. E le famiglie sono spesso lasciate sole.

Il 29 giugno di ogni anno è il Global day, la giornata dedicata in tutto il mondo ad una terribile malattia, la sclerosi laterale amiotrofica o Sla, capostipite di un gruppo di patologie neurodegenerative dette malattie del motoneurone o Mnd (motor neuron disease). Queste patologie colpiscono selettivamente i motoneuroni, cioè le cellule nervose che controllano l’attività della muscolatura striata o volontaria, la quale presiede alla fonazione, alla deglutizione, alla respirazione e a tutti i movimenti del corpo, quindi anche alla deambulazione, funzioni che vengono impedite dalla atrofia muscolare progressiva. Queste patologie sono progressive, gravemente invalidanti e dall’esito fatale per compromissione soprattutto della respirazione. La più grave del gruppo è la Sla, una malattia che colpisce il primo e il secondo motoneurone che sono localizzati a livello dei centri motori della corteccia cerebrale (il primo) e a livello del midollo spinale (il secondo). L’impulso nervoso che va a contrarre un muscolo, parte dal primo verso il secondo, e da questo va alla fibra muscolare.

Cos’è la Sla

La Sla, detta anche Morbo di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore americano di baseball, che ne fu vittima, o anche malattia di Charcot, dal nome del neurologo francese che la descrisse nel 1860, è una patologia che colpisce solitamente dopo i 50 anni e che nel 5-10% dei casi si presenta in forma familiare mentre nel rimanente numero dei casi è sporadica. L’incidenza della Sla, cioè il numero di nuovi casi per anno, è di 1,5-2,4 su 100.000 persone con 3 nuove diagnosi al giorno e la sua prevalenza, cioè il numero di pazienti con Sla su 100.000 persone per anno, è di 4-8 casi. Purtroppo in Italia non esiste ancora un registro di questa patologia, tuttavia si stima che i casi di Sla siano attualmente almeno 6.000, con circa 1.000 nuovi casi all’anno. Attualmente al mondo ci sono circa 200.000 malati di Sla, ma secondo uno studio italo-americano condotto dal prof. Adriano Chiò del Centro Sla delle Molinette di Torino e dal dr. Bryan Traynor del National Institute of Health di Bethesda e pubblicato su Nature Communication, nel 2040 si arriverà a circa 370.000 casi. L’aumento di questi non sarà lineare in tutti i continenti, essendo le cifre dipendenti dall’invecchiamento della popolazione e si stima che esso vada da circa il 20% in Europa a oltre il 50% in Cina e al 100% in Africa, con una media mondiale del 32%. Per motivi tuttora ignoti sembrano essere più colpite le donne degli uomini.

L’esordio e il decorso della malattia sono variabili da persona a persona e dipendono dalla forma di Sla da cui si è colpiti. Generalmente i primi sintomi sono brevi contrazioni muscolari detti fascicolazioni, crampi (soprattutto notturni) o rigidità muscolare, debolezza muscolare, che influenza la motilità degli arti e voce non comprensibile. Questo tipo di esordio, detto spinale, rappresenta circa il 75% dei casi, mentre il rimanente 25% presenta l’esordio bulbare, caratterizzato dalla difficoltà di parola fino alla perdita della capacità di comunicare verbalmente e dalla disfagia, cioè difficoltà di deglutizione. I due tipi di esordio dipendono da quale motoneurone è colpito per primo: se è il primo, a livello di corteccia cerebrale, abbiamo l’esordio bulbare, se è il secondo, a livello di midollo spinale, abbiamo l’esordio spinale. Fino a qualche tempo fa si pensava che i malati, sebbene colpiti da paralisi muscolare progressiva, mantenessero sempre intatte le proprie capacità cognitive. Purtroppo recenti studi condotti con tecniche di imaging hanno rivelato che questo non è sempre vero e in qualche caso la Sla aggredisce anche il lobo fronto-temporale, portando così a demenza. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, restano perfettamente integre le funzioni sensoriali, cognitive, sfinteriali, sessuali e il muscolo cardiaco.

Come si scopre

La diagnosi di Sla viene posta grazie a successivi esami neurologici, esami del sangue, un approfondito studio neurofisiologico mediante elettromiografia, elettroneurografia ecc., nonché risonanza magnetica nucleare dell’encefalo e del midollo spinale. Negli ultimi anni sono stati messi a punto dei marcatori biologici per la diagnosi di Sla, i quali hanno dimostrato un grado di accuratezza di circa il 90%. Si tratta in particolare di tre proteine, che si trovano in concentrazioni sotto la media nel liquor cefalorachidiano dei malati di Sla.

Le cause

Le cause di questa patologia restano al momento sconosciute. Le molteplici ricerche in questo campo hanno portato a ritenere che la Sla sia una malattia con cause multifattoriali, la cui insorgenza cioè sia determinata da una concomitanza di cause genetiche e ambientali. In particolare sono stati individuati una ventina di geni, ciascuno dei quali, se mutato, avrebbe un carattere predisponente per la malattia. Tra questi c’è il gene Sod1, che codifica un enzima che ha il ruolo di ripulire le cellule da un particolare radicale libero. Quando questo enzima non funziona, si verifica un accumulo tossico del radicale libero, che alla lunga uccide le cellule, in particolare i neuroni. Per quanto riguarda le cause ambientali, è risultata statisticamente significativa l’associazione tra l’esposizione a campi magnetici a frequenza estremamente bassa e la Sla per gli uomini, che lavorano in loro presenza. È stata inoltre osservata un’associazione positiva, sebbene non statisticamente significativa, tra la malattia e l’esposizione a solventi e a metalli pesanti. Si ipotizza che possano avere un ruolo nell’insorgenza della Sla anche gli shock elettrici, i fitofarmaci, il fumo di sigaretta, i traumi e l’attività fisica-sportiva intensiva. Quest’ultima ipotesi è stata avanzata dopo avere osservato che la malattia sembra essere particolarmente presente tra gli sportivi, tra cui diversi calciatori come Stefano Borgonovo, Lauro Minghelli, Adriano Lombardi, Albano Canazza, Piergiorgio Corno e Gianluca Signorini, tutti deceduti di Sla. Essa prende infatti uno dei suoi nomi da Lou Gehrig, giocatore di baseball deceduto a causa della Sla a 38 anni nel 1941.

Il decorso

Per quanto riguarda l’evoluzione della Sla, il decorso medio di questa malattia, senza ventilazione invasiva, è di 3-5 anni, il 50% dei pazienti muore entro 18 mesi dalla diagnosi, il 20% supera i 5 anni e il 10% i 10 anni. Ci sono rarissimi casi di una forma di Sla meno aggressiva, in cui la malattia resta stabile per più di 30 anni. Questo potrebbe essere il caso del famosissimo matematico, fisico, astrofisico britannico e candidato al premio Nobel (per la sua teoria sui buchi neri) Stephen Hawking, al quale la diagnosi di Sla venne posta nel 1963, anche se la progressione particolarmente lenta della sua malattia fa propendere alcuni studiosi per la diagnosi di atrofia muscolare progressiva, altra malattia del motoneurone (colpisce solo il 2°) a decorso particolarmente lento e che permette una sopravvivenza decisamente maggiore.

Le cure

Attualmente non esiste una cura efficace per la Sla. L’unico farmaco approvato dalla Fda (Federal drugs administration statunitense) in grado di rallentarne il decorso per qualche mese è il riluzolo, che in Italia viene somministrato solo a livello ospedaliero.

La Sla è una patologia che colpisce gravemente la persona, ma coinvolge anche tutta la sua famiglia, per cui è necessario un approccio multidisciplinare al paziente e un supporto informativo per lui e per i suoi familiari, per renderli edotti soprattutto sulle questioni di natura respiratoria, come l’arresto respiratorio improvviso o altre problematiche respiratorie acute che potrebbero comportare un intervento urgente con necessità d’intubazione e il passaggio alla tracheostomia, come spiega il Professor Mario Melazzini, medico e malato di Sla, nonché presidente di Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica) e autore di un’autobiografia dal titolo «Lo sguardo e la speranza. La vita è bella non solo nei film» (Ed. San Paolo, 2015).

Occorre prendersi cura

Tra i principali problemi, che richiedono un monitoraggio attento del paziente con Sla ci sono, come visto sopra, quelli respiratori, quelli di deglutizione e la scialorrea. Si è visto che la sopravvivenza dei pazienti può essere migliorata da un trattamento precoce dell’insufficienza respiratoria (dovuta a progressiva atrofia dei muscoli respiratori) mediante ventilazione non invasiva con maschera facciale.

La disfagia, che può insorgere nel corso della malattia, può portare a una scarsa alimentazione con conseguente deperimento del paziente, per cui diventa importante il parere di un dietologo, che eventualmente consigli l’uso di addensanti per i liquidi, qualora la disfagia ne impedisca l’assunzione e l’adattamento della consistenza degli alimenti per soddisfare le esigenze del paziente. Se quest’ultimo non è più in grado di alimentarsi e idratarsi a sufficienza, diventa necessario l’intervento del gastroenterologo per il ricorso alla gastrotomia percutanea endoscopica per via enterale (il paziente viene alimentato attraverso un tubicino collegato allo stomaco).

La scialorrea è l’iperproduzione di saliva, che può verificarsi in questi pazienti e che può diventare una ulteriore complicanza. In questi casi si effettua un trattamento con anticolinergici o, nei casi resistenti, con tossina botulinica iniettata nelle ghiandole parotidi o sottomandibolari.

Oltre ai problemi respiratori e di deglutizione, il paziente con Sla può essere afflitto da problemi di comunicazione, di immobilità, di spasticità e da quelli psicologici. È evidente quindi che la sua presa in carico da parte sia dei servizi di neurologia, che delle istituzioni (che dovrebbero garantire anche l’assistenza domiciliare) rappresenta per il malato un bisogno essenziale e purtroppo attualmente non sono molte, in Italia, le strutture o i centri in grado di farsi pienamente carico dei pazienti con Sla.

Una malattia di famiglia

Per i pazienti di Sla (e di molte altre gravissime patologie, cancro in primis) e per i loro familiari è inoltre fondamentale il supporto psicologico, poiché una diagnosi come questa cambia improvvisamente la qualità della vita dell’intero nucleo familiare che all’improvviso si trova catapultato nel mondo della malattia e della disabilità. Quando la malattia irrompe nella vita delle persone, infatti, cambiano improvvisamente non solo le abitudini, ma spesso le relazioni con il mondo circostante, a partire dal mondo del lavoro, e con le varie dimensioni che fanno parte della vita quotidiana, come quella dello sport, degli hobby e così via. All’improvviso ci si trova immersi in un mondo nuovo fatto di medici, tecnici, infermieri, dove spesso è difficile individuare i raccordi tra le diverse figure professionali, quindi una figura di supporto potrebbe essere d’aiuto anche in tal senso. I pazienti e le loro famiglie inoltre dovrebbero essere sempre informati sulle caratteristiche della malattia, sulle attuali cure e sulla loro possibilità di scegliere il percorso terapeutico che preferiscono, soprattutto quando si tratta di decidere se ricorrere o no alla tracheostomia, che comporta un successivo percorso adattativo della capacità di comunicazione del paziente.

Purtroppo le malattie degenerative come la Sla hanno un forte impatto sulle famiglie sia a livello affettivo che relazionale ed economico. Qualcuno definisce la Sla una «malattia per ricchi». Sarebbe auspicabile una politica sanitaria in grado di far sì che tutte le famiglie dei malati di Sla o di altre patologie gravemente invalidanti siano supportate sia culturalmente che economicamente (non si deve dimenticare che spesso i familiari che assistono un malato grave in casa devono rinunciare alla loro attività lavorativa e nel contempo affrontare ingenti spese per i presidi medici necessari), in modo da limitare al massimo le ospedalizzazioni dei malati e da migliorare così la qualità della loro vita.

Rosanna Novara Topino
(quarta puntata – continua)




Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)

 




Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi

 




I Perdenti 26. Anita Garibaldi


Anita nacque in Brasile, a Morrinhos nello stato di Santa Catarina, il 20 agosto 1821. Il suo nome completo era: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, figlia del gaucho (mandriano) Bento Ribeiro da Silva e di Maria Antonia de Jesus Antunes che ebbero tre figlie e tre figli. Battezzata Ana, era chiamata in famiglia Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Sarà in seguito Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale noi la conosciamo. Negli splendidi panorami della sua terra e nelle ampie distese della pampa imparò presto a cavalcare e sin dalla sua adolescenza dimostrò di avere un carattere forte e deciso. Nel 1834 la sua famiglia si trasferì nella cittadina di Laguna, sempre nello stato di Santa Catarina, dove purtroppo pochi anni dopo trovarono la morte il padre e i tre fratellini a causa di una epidemia di tifo. Un suo zio, al quale dopo la morte del padre si era molto affezionata, la iniziò agli ideali di giustizia sociale, in un paese governato con il pugno di ferro dai governatori dell’impero luso-brasiliano.

Nel 1835 scoppiò la rivolta dei farroupilha, ossia la rivolta degli straccioni. La sommossa popolare segnò profondamente l’animo di Anita, che guardava con ammirazione i ribelli, sognando di poter un giorno compiere le loro stesse gesta. Il 22 luglio 1839, i rivoltosi conquistarono la città, e gran parte degli abitanti di Laguna si recarono in chiesa per intonare un Te Deum di ringraziamento al Signore, tra loro c’era Anita. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta Giuseppe Garibaldi, presente insieme agli altri protagonisti della rivoluzione. Il giorno seguente i due si incontrarono di nuovo, lui la fissò intensamente e le disse: «Tu devi essere mia». Da quel momento Anita sarebbe diventata la compagna fidata di tutte le battaglie di Garibaldi e la madre dei suoi figli.

Anita, sembra quasi che sin dalla più tenera età tu fossi destinata ad avere un ruolo da protagonista sia nella storia del Brasile e dell’Uruguay come nella storia del Risorgimento italiano…

Il merito va tutto a mio zio Antonio, che dopo la morte del mio povero babbo mi prese sotto la sua protezione, insegnandomi fin da bambina ideali di libertà e giustizia. Egli seppe trasmettermi il suo atteggiamento responsabile di fronte ai problemi sociali che andavano delineandosi, facendomi capire che non si poteva rimanere neutrali di fronte ai soprusi che venivano compiuti dai prepotenti di turno.

Ma il tuo non fu un atteggiamento di semplice simpatia e di sostegno solo teorico verso i più deboli…

Una volta assunta la causa degli oppressi, passai subito nelle truppe degli insorti e insieme ad altre donne del popolo combattemmo al fianco dei nostri uomini. Il compito a cui più spesso ero assegnata era quello di difendere le casse di munizioni, sia durante gli attacchi navali che negli scontri a fuoco che si susseguivano a terra.

Ma il 12 di gennaio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, fosti fatta prigioniera dalle truppe imperiali luso-brasiliane…

Già, ma il comandante commise un errore fatale, in quanto mi concesse di dare sepoltura ai cadaveri dei miei compagni rimasti sul campo di battaglia. Io, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, afferrai un cavallo e riuscii a fuggire.

Quell’anno fu particolarmente importante per te e per il tuo Giuseppe, che voi chiamavate Josè.

Direi proprio di sì. Il 16 settembre 1840 nacque il nostro primo figlio al quale demmo il nome di Domenico. Sarebbe stato chiamato Menotti per tutta la sua vita, in onore del patriota modenese Ciro Menotti.

Poche settimane dopo il parto, tu Anita riuscisti a sfuggire avventurosamente a una nuova cattura.

I soldati imperiali avevano circondato la nostra casa e ucciso gli uomini lasciati da Garibaldi per la difesa, cercando di farmi prigioniera, ma io, con mio figlio in braccio, saltai da una finestra, montai a cavallo e fuggii nel bosco. Rimasi nascosta nel fitto della boscaglia per quattro giorni, con il neonato al petto, finché Garibaldi e i suoi mi ritrovarono. Dovevi vedere con che tenerezza il mio Josè portava il piccolo Menotti in un foulard a tracolla riscaldandolo con il calore del suo corpo durante la ritirata nella sierra.

Però gli avvenimenti si susseguivano implacabili: nel 1841, essendo divenuta ormai insostenibile la situazione militare della rivoluzione brasiliana, tu e Garibaldi prendeste congedo da quella guerra e vi trasferiste a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

Quella che doveva essere una tappa passeggera della nostra vita si trasformò in un’avventura che segnò non poco le nostre esistenze. In Uruguay restammo sette anni, durante i quali Garibaldi si guadagnò da vivere per mantenere la nostra famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica.

A Montevideo coronaste anche religiosamente il vostro legame di vita.

È vero, il 26 marzo 1842 ci sposammo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi. Nel 1843 nacque Rosita, che purtroppo morì a soli 2 anni, nel 1845 Teresita e nel 1847 Ricciotti quarto e ultimo figlio.

Al di là delle vostre vicissitudini familiari, pensi che l’esperienza latinoamericana, vissuta in modo così intenso da Garibaldi, vi abbia preparato a vivere il Risorgimento italiano?

Penso proprio di sì. Le vicende vissute dal mio Josè in Sud America hanno dell’incredibile. La sua epopea latinoamericana durò una dozzina d’anni di cui sette in Uruguay e cinque in Brasile. In Uruguay erano gli anni della guerra civile (1840-1852), che vide il Blancos (sostenuti dall’Argentina) e Colorados (sostenuti da francesi e inglesi) combattere sanguinose battaglie. Garibaldì formò e comandò la legione italiana schierata con i Colorados. Tutto questo senza mai rinunciare alla tenerezza reciproca, all’affetto della famiglia e alla nostra love story.

È per l’impegno profuso in quegli anni che poi Garibaldi si guadagnò la nomea di «Eroe dei due mondi».

Sì, si può dire che Garibaldi, in Brasile prima e in Uruguay poi, fu un condottiero muy valiente. Le sue vittorie militari si realizzarono per terra (tra scontri campali e ardite azioni di guerriglia) e per mare (fu ufficiale della marina uruguaiana sul Rio de la Plata e nei fiumi che lo generano). Era ai nostri occhi un vero libertador di stampo sudamericano, casualmente nato a Nizza.

Però nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, il tuo Josè nonostante le lusinghe che gli facevano i governanti uruguayani affinché rimanesse, ti imbarcò con i figli su una nave diretta a Genova con destinazione finale Nizza dove fosti ospitata da sua mamma, mentre lui si fermò per sistemare le ultime cose e vi raggiunse con un altro bastimento qualche mese più tardi.

L’accoglienza che ci riservò la mamma di Josè fu straordinaria, l’abbraccio che diede a me e ai suoi nipoti era carico di amore e tenerezza. Ospitati nella sua casa attendemmo di settimana in settimana l’arrivo di Garibaldi, ma quando lui giunse, accompagnato da un sessantina dei suoi legionari, si fermò poco tempo. Infatti avevano portato la notizia che il 9 febbraio 1849 a Roma era stata proclamata la Repubblica Romana, ed egli voleva raggiungere la città eterna con un corpo di volontari che erano subito accorsi per mettersi ai suoi ordini.

E tu lo seguisti?

Qualche tempo dopo decisi di raggiungerlo. Arrivai a Roma in tempo per assistere alla sconfitta che i volontari romani guidati da Garibaldi fecero subire ai francesi. Purtroppo in quella battaglia restarono sul terreno centinaia di morti. A seguito di quello scontro venne stabilita dalle due parti una tregua con scadenza il 3 giugno. In realtà i francesi stavano preparando una trappola per guadagnare tempo e fare arrivare altri rinforzi.

Quindi che successe dopo?

Quando ripresero i combattimenti, la superiorità francese era evidente a tutti e, nonostante la strenua resistenza dei volontari italiani sul Gianicolo, a poco a poco le forze della Repubblica Romana persero terreno, finché il 4 luglio 1849, venne decisa la resa.

Garibaldi però non si arrende e decide di andare con tutti coloro che intendevano seguirlo a Venezia che ancora resiste agli austriaci. Sebbene inseguito dai corpi di spedizione di quattro eserciti inviati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Regno delle due Sicilie, Garibaldi riesce a condurre in salvo i suoi uomini nel territorio straniero di San Marino dove scioglie la sua brigata di volontari. Anita in quei giorni è febbricitante e, sebbene incinta, segue il marito a cavallo. Lo segue anche nella cavalcata verso Cesenatico. Quando vi giunge è letteralmente consumata dalla febbre. Garibaldi con duecento seguaci cerca di raggiungere Venezia con delle imbarcazioni da pesca. Ma le navi austriache che controllano il litorale adriatico impediscono di proseguire. Alcune barche si arrendono, altre si avvicinano a terra. Tra queste quella di Garibaldi e Anita, che cercano di sfuggire agli austriaci che li cercano. I garibaldini si sparpagliano su strade diverse per sfuggire alla caccia dei soldati austriaci e dei gendarmi pontifici.

Garibaldi rimane solo con Anita e con il fedelissimo Capitano Leggero. Nelle valli di Comacchio i fatti precipitano. La donna perde conoscenza. Pur braccati dai nemici, Garibaldi e Leggero con l’aiuto di amici fidati caricano Anita su una piccola barca e poi, su un vecchio materasso, la trasportano nella fattoria Guiccioli in località Mandriole di Ravenna, dove cercano disperatamente di rintracciare un medico, il quale accorre immediatamente ma può solo constatare che Anita è spirata: è il 4 agosto 1849. Anita non ha ancora ventotto anni. La sua avventura umana, storica e sentimentale accanto a Giuseppe Garibaldi è durata appena undici anni.

Don Mario Bandera


Errata-corrige: la foto a pagina 72 MC non rappresenta Garibaldi e Anita, ma Garibaldi con la seconda moglie, Francesca Armosino, che gli diede tre figli.




Ora sai che sei amata

Sono dodici anni ormai. Il sangue non si arresta nemmeno di notte. Lo senti fluire continuamente, a volte goccia a goccia, a volte abbondante. È un’emorragia che ti svuota.

Da tempo non pensi ad altro. Non ti senti più tu, ti vergogni a uscire per strada, ti chiedi continuamente il perché. E hai visto le persone care allontanarsi.

Hai cercato la guarigione per molte vie: sei passata da una terapia a un’altra, da un medico a un altro, senza tralasciare alcuna opzione alla tua portata. Ma lo svuotamento non si è fermato.

Oggi sei scesa in strada perché hai sentito dire che c’è un uomo straordinario nel tuo villaggio. Qualcuno dice che è il medico più bravo mai visto, alcuni che è un mago, altri un profeta.

Ti infili tra la gente, cerchi di non farti notare perché gli sguardi indiscreti sul tuo corpo ti feriscono. Quasi subito ti senti soffocare. Quando decidi di tornare a casa ti si apre un varco e lo vedi.

Uno dei capi della sinagoga, Giairo, è ai suoi piedi, lo prega di salvare la figlia in fin di vita. Lui lo prende per mano, lo solleva e gli chiede di fargli strada. Pensi che di fronte a una figlia morente la tua emorragia non sia importante, e rinunci a chiedere aiuto, ma, quando l’uomo si avvicina, cedi all’impulso di toccarlo.

Gli sfiori appena il mantello, e subito senti che il flusso si ferma.

Sei stupita e confusa. E quando senti quella voce domandare alla folla chi avesse toccato il suo mantello, ti spaventi.

Vorresti sparire, ma il suo sguardo ti cerca.

Di nuovo quell’impulso ti prende e ti spinge avanti. Ti getti ai suoi piedi e senti la tua bocca pronunciare parole che non hai mai detto nemmeno a te stessa. Non descrivono la patologia del sangue, ma la tua vita. Senti che lo sguardo di quell’uomo ha il potere di tirare fuori da te la tua verità. E l’osservi mentre l’accoglie.

Lui ti prende la mano e ti solleva. Ti riconosce: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,25-34).

Subito pensi che sei già guarita, poi capisci che il tuo male non era l’emorragia.

Ora sai che sei amata.

Buona estate da amico,

Luca Lorusso