Donne Yazide: Schiava dell’Isis


Hana è una giovane donna yazida1, infermiera nell’ospedale di Duhok, Kurdistan irakeno2. Il 3 agosto del 2014 si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar, quando arrivano i miliziani dell’Isis. Perde subito il fratello e la madre. Lei viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore. Il romanzo di Claudia Ryan, pur narrando una storia di fantasia, racchiude in sé il dramma di persone reali.

Il 3 agosto del 2014 la città di Sinjar, nel Nord dell’Iraq, nella Regione autonoma del Kurdistan irakeno, viene presa d’assalto dai miliziani dell’Isis. Improvvisamente.

Sinjar è uno dei centri più importanti dei fedeli Yazidi, minoranza religiosa considerata «infedele» dal Da’esh. In pochi giorni migliaia di Yazidi vengono uccisi o costretti alla conversione (se uomini o ragazzi, dagli 11 anni in su), o ridotti alla schiavitù sessuale (se donne, o ragazze anche di 9 anni).

Secondo il rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’Onu intitolato «They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis»3 (Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi) redatto nel giugno 2016, si è trattato di un vero e proprio genocidio. Nel report non si indicano cifre esatte, a parte il dato di 3.200 donne e bambini che, ancora a giugno 2016, erano in stato di schiavitù tra Siria e Iraq.

Il bisogno di conoscere

Questo è, a grandi linee, il contesto geopolitico nel quale Claudia Ryan inserisce la storia raccontata nel suo romanzo «Hana la yazida», edito per San Paolo nel 2016. Colpita dalle notizie che nell’estate del 2014 arrivavano da quelle zone di guerra, l’autrice ha voluto approfondire, prima studiando la situazione e la storia di quelle terre, poi compiendo, nel 2015, un viaggio in prima persona in Kurdistan. Lì ha avuto modo di incontrare e di parlare con diverse vittime.

Dal loro racconto è nata la figura di Hana, personaggio di fantasia che racchiude in sé il dramma vissuto da molte persone reali.

La storia

Giovane donna emancipata, infermiera nell’ospedale di Duhok, il 3 agosto del 2014 Hana si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar. Con l’arrivo dei miliziani dell’Isis perde il fratello e la madre e viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore, della quale perderà quasi subito le tracce.

Il romanzo inizia al tempo in cui Hana è già libera e decide di registrare sul suo tablet la propria storia, raccontandola ad alta voce per elaborare l’orrore vissuto. Sappiamo da subito, quindi, che Hana è sopravvissuta e che è tornata a fare il suo lavoro, ma che l’ombra della violenza subita non l’ha ancora lasciata, insieme all’angoscia per la sorte della sorella. Quello che si sviluppa nelle registrazioni che Hana cerca di fare con costanza è il racconto della sua schiavitù sessuale, dell’umiliazione, del senso di colpa, della paura costante provati nell’essere venduta ripetutamente, usata da uomini senza scrupoli, fino alla fuga, all’incontro con persone che rischiano la propria vita per proteggerla, e al ritorno alla sua piena libertà.

Senza scendere mai in dettagli morbosi e cercando di raccontare in modo umano le situazioni disumane della schiavitù subita dalla protagonista del suo romanzo, Claudia Ryan ci offre l’opportunità di comprendere meglio un fenomeno che forse abbiamo conosciuto solo per i suoi grandi numeri, incontrando da vicino una vittima e approfondendo la conoscenza del suo contesto sociale e culturale.

L.L.

Note:

1- Sulla minoranza yazida abbiamo recentemente pubblicato un dossier: Simone Zoppellaro, Yazidi, Missioni Consolata, marzo 2017, pp. 35-50.

2- Sul Kurdistan irakeno si veda il dossier: Simone Zoppellaro, Orgoglio Kurdo, Missioni Consolata, luglio 2017, pp. 35-50.

3- Human rights council, They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis, 15 giugno 2016.

Il libro

Claudia Ryan, Hana la yazida. L’inferno è sulla terra, San Paolo, Milano 2016, 140 pp, 14,50 €.

Il sito dell’autrice

www.claudiaryan.net


Intervista all’autrice

Nel Kurdistan hanno vissuto l’orrore

Com’è nato il suo libro?

«Un giorno, casualmente, ho letto nel web un articolo che parlava di queste giovani donne rese schiave sessuali dai Da’esh. Mi ha colpito profondamente, lasciandomi attonita. Ho cercato altre storie, altri articoli, anche in lingua inglese, fino ad arrivare a leggere le relazioni di Human Rights Watch. In realtà all’inizio non l’ho fatto con l’intento di scrivere un romanzo, era solo puro interesse personale, ma poi, poco alla volta, è nata una storia e ho sentito l’esigenza di scriverla. A quel punto, però, era molto importante andare nel Kurdistan iracheno».

Perciò fondamentali sono state le ricerche e, soprattutto, il viaggio in Kurdistan.

«Sì, il viaggio che ho intrapreso mi ha messo in diretto contatto con la loro realtà e con le persone. Non si può scrivere di qualcosa che non si conosce.

In Kurdistan ho potuto vedere i luoghi dove sviluppare la storia, capire cosa si mangia, come si vestono, guardare le persone negli occhi, ascoltare direttamente le loro storie. Inoltre le guide e gli interpreti mi hanno spiegato meglio la religione yazida, la società curda e, nello specifico, yazida».

Può raccontarci un episodio o suggestione significativa di quel viaggio?

«Difficile… tutto il viaggio è stato una suggestione, è stata un’esperienza magnifica e profondamente umana. Gli episodi più commoventi sono stati quando ho parlato direttamente con le donne che erano state schiave, sabaye. Ogni volta mi sentivo devastata, ancora oggi a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi.

È stato bello, invece, ascoltare le storie di chi, quel 3 agosto 2014, riuscì a fuggire, di come ci riuscì, e poi essere invitata a pranzo o a cena nelle case private, toccare con mano la loro ospitalità. Inoltre è stato molto interessante visitare la città santa yazida, Lalish, ed è stato un onore poter parlare con uno dei loro capi religiosi, Baba Chawish».

Hana è un personaggio inventato che riassume le esperienze reali di diverse donne.

«Esatto. Il libro non racconta una storia vera, ma una storia plausibile, in quanto basata su testimonianze lette o ascoltate in prima persona. Hana, nella narrazione, incontra ragazze le cui vicende sono invece prese dalla realtà.

Il modo in cui Hana, nel libro, fugge, è una mia invenzione, ma poi ho scoperto che una giovane donna yazida è scappata davvero in un modo molto simile!».

Può raccontarci qualcosa degli incontri con le donne che hanno subito la schiavitù?

«Ho intervistato donne dai 17 ai 45 anni. Hanno visto cose terribili, come i propri cari venire uccisi sotto i loro occhi. Sono state umiliate, hanno perso la loro libertà, nel senso più vero della parola. Chi è giovane può superare il trauma, rifarsi una vita, ma le donne che hanno visto morire il marito e i figli maschi, che magari hanno una figlia ancora in mano ai Da’esh e non sanno dov’è… be’ per loro è impossibile riprendersi».

Cosa desiderava comunicare con il suo libro?

«Volevo raccontare cosa accade a queste donne, cercare di far immedesimare il lettore/lettrice nel vissuto di Hana, così che fosse più comprensibile, che colpisse il cuore prima dell’intelletto. Per questo ho preferito la formula del racconto in prima persona, per narrare le vicissitudini con i Da’esh. Spero che chi legge questo libro possa poi sentirsi più simpatetico con i popoli del Medio Oriente».

Lei è insegnante in un liceo, ha mai raccontato quello che ha visto in Kurdistan ai suoi studenti? Quali reazioni ha visto in loro?

«Oltre alla presentazione del libro, ho organizzato una conferenza sugli Yazidi, il genocidio che hanno subito, la schiavitù delle donne. Ho parlato di questi argomenti nella mia e in altre scuole: due ore di conferenza con ragazzi (una volta ne avevo davanti circa 250) assolutamente attoniti, concentrati, commossi. Ho avuto la loro totale attenzione per tutto il tempo e tante domande alla fine, tutte le volte. Penso sia importante parlare ai giovani di questi argomenti, sensibilizzarli, e quando si trovano davanti qualcuno che riporta ciò che ha visto e ascoltato in prima persona, per loro è più coinvolgente».

L.L.




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti




I Perdenti 27.

Spartaco e la rivolta degli schiavi


Una delle più grandi rivolte di schiavi che l’antica Roma dovette affrontare fu quella capeggiata da Spartaco. Già due volte nella storia secolare di Roma c’erano state cruente ribellioni da parte degli schiavi, la prima tra il 136 e il 132 a.C., la seconda tra il 102 e il 98 a.C., ambedue in Sicilia dove gli schiavi vivevano in condizioni particolarmente dure lavorando nelle miniere e nei campi.

Queste «guerre servili» erano state represse con estrema durezza dalle autorità romane che consideravano gli schiavi degli oggetti di proprietà del padrone, che era libero di fare di loro quello che voleva. Ma la «terza guerra servile», capeggiata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C. fu la più pericolosa, coinvolse oltre centomila schiavi e indigenti e obbligò l’esercito romano a intervenire con le sue legioni migliori.

Il leader di questa ribellione era uno schiavo che proveniva dalla Tracia, un territorio che corrisponde oggi al Sud della Bulgaria più l’estremità orientale della Grecia e la parte europea della Turchia.

Le poche notizie storicamente certe che abbiamo ci presentano Spartaco arruolato nelle truppe ausiliarie romane, poi ridotto successivamente in schiavitù a seguito di un tentativo di diserzione. Molto dotato fisicamente, venne venduto a un lanista (padrone di gladiatori) di Capua e addestrato per quei giochi mortali nell’arena della città. Si racconta che fosse intelligente, acculturato e possedesse oltre a grandi doti umane anche un notevole acume tattico e una profonda conoscenza delle strategie militari romane, come dimostrato dall’abilità con la quale seppe riunire e guidare il suo esercito di schiavi.

Il suo nome nei secoli è stato un punto di riferimento fondamentale per moltissimi «ribelli»,  per tutti coloro che non accettano di essere ridotti in schiavitù e anelano ad avere un’esistenza dignitosa a misura d’uomo.

Visto che tra i personaggi dell’antichità il tuo nome e la tua storia godono di una immensa considerazione, puoi dirci come ebbe inizio la tua vicenda…

Tutto cominciò nel 73 a.C., a Capua, nei pressi di Napoli, in una scuola di addestramento per gladiatori, dove insieme ad altri schiavi prigionieri anch’io ero recluso. Circa duecento di noi organizzammo un complotto per fuggire, però all’ultimo momento il piano venne scoperto e alla fine riuscimmo a scappare solo in una sessantina.

Come siete riusciti a farla franca e a mimetizzarvi nel bel mezzo della società romana?

Durante la fuga avemmo la fortuna di imbatterci in un convoglio di carri pieni di armi destinate agli spettacoli dei gladiatori, le stesse che avremmo dovuto usare gli uni contro gli altri, e dopo un violento scontro ce ne impadronimmo, mettendo in fuga le guardie che lo accompagnavano, dopo di che ci rifugiammo sui versanti del Vesuvio.

La notizia delle vostre gesta si propagò con una velocità incredibile tra gli schiavi.

Questa fu la fortuna degli esordi, la fama che si creò attorno al piccolo nucleo iniziale di fuggitivi divenne come una calamita che attirò poi, un po’ per volta, schiavi e sbandati di ogni genere, attratti soprattutto dal nostro sistema di dividere «democraticamente», in parti uguali, il bottino che incrementavamo sempre più grazie alle razzie che compivamo in villaggi isolati lontano dalle città e dalle grandi vie imperiali di comunicazione. Tutto questo si svolgeva nell’indifferenza di Roma, che ci considerava né più né meno che una banda di piccoli delinquenti dilettanti che non meritavano poi una grande attenzione.

Ma le cose poi cambiarono…

In seguito a un conflitto con una guarnigione di legionari romani avvenuto quasi per caso, il nostro gruppo, che poteva considerarsi ormai un piccolo esercito, s’impadronì di un grosso quantitativo di armi da battaglia. Con queste sconfiggemmo le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare quella che – secondo il Senato di Roma – rischiava di diventare una minaccia seria per tutto il territorio della Campania.

Come si svolsero i fatti?

Il console Caio Clodio fece l’errore di attestare i suoi soldati all’imbocco dell’unica strada che discendeva lungo il Vesuvio. Noi riuscimmo a colpire le legioni romane prendendole alle spalle con un’azione di sorpresa, ovvero calando di notte giù per il declivio più scosceso un buon numero di combattenti legati con delle corde. Questa fu la prima azione eclatante del nostro esercito formato da pochi mesi, in quella occasione riuscimmo persino ad impadronirci di un certo numero di cavalli e delle insegne dei fasci littori della loro guarnigione, cose, queste ultime, ritenute quasi sacre dall’esercito romano.

Se ben capisco, c’erano ormai tutte le caratteristiche per una guerra vera e propria tra voi e la più grande potenza militare di allora…

Dici bene, in breve tempo la rivolta si estese in gran parte del Sud della penisola italica, gli scontri coinvolsero la Campania, la Lucania e l’Apulia. Altri schiavi in diverse parti dell’impero romano si ribellarono massacrando indiscriminatamente i loro padroni, crimini ed efferatezze gratuite che io stesso tentai inutilmente di bloccare.

In seguito a questi avvenimenti tu concepisti un piano per sfruttare al meglio la libertà conquistata…

Il piano che cominciavo a intravedere era quello di risalire la penisola e oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi che si erano uniti a noi. Purtroppo non tutti erano d’accordo con me, per esempio gli schiavi originari dalla Gallia decisero di separarsi da noi.

E questo perché?

Loro intendevano combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe, io invece avevo delle vedute più realistiche, se vuoi più modeste, ero infatti convinto che noi – sia per numero come per preparazione militare – non avevamo nessuna possibilità di vittoria in uno scontro frontale con il formidabile e preparatissimo esercito di Roma.

Non tutti però la pensavano come te…

Purtroppo mi accorsi che l’enorme massa di uomini che mi aveva seguito ragionava più da gladiatore che da soldato, la gran parte di loro infatti voleva vendicarsi dando una sonora lezione ai romani per pareggiare il conto delle umiliazioni e delle angherie patite durante gli anni della schiavitù.

In ogni caso ci furono degli scontri con le legioni romane.

Sì, nel nostro peregrinare nella penisola ci scontrammo diverse volte con truppe dell’esercito di Roma e alcune battaglie sul campo le vincemmo noi, tant’è vero che alla fine di ogni scontro si radunavano nel nostro accampamento molti mercanti pronti ad acquistare il bottino che avevamo conquistato, ma io proibii di ricevere in cambio oro e argento: i miei uomini dovevano accettare solo ferro e rame, metalli necessari per forgiare nuove armi.

Roma non poteva tollerare ulteriormente che un piccolo per quanto agguerrito esercito di schiavi e fuoriusciti dalla società potesse esistere e ingrandirsi senza nessuna conseguenza, eravate come un tumore che bisognava estirpare ad ogni costo.

Per sottrarmi alle legioni romane che mi davano la caccia decisi di riparare in Cilicia (odierna parte Sud della Turchia), ma non riuscii a realizzare il mio piano a causa del tradimento dei pirati con cui mi ero incontrato e che, all’ultimo momento, ci rifiutarono le navi necessarie.

Con quel tradimento tu con i tuoi uomini sei rimasto intrappolato sulla punta estrema della penisola italiana.

Il peggio è che Crasso, sopraggiunto alle mie spalle ebbe l’idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria appunto) per toglierci ogni via di fuga: fece costruire una palizzata dalla costa ionica a quella tirrenica, lunga 300 stadi pari a 55 km dei vostri. Ma nell’inverno del 72-71 a.C., dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, ci riuscimmo attraverso un vallone in una notte di tempesta.

Poi che successe?

Crasso richiese altri aiuti dal Senato, che gli inviò Pompeo con le sue legioni appena rientrato dalla Spagna, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo al comando delle sue legioni. Il cerchio si stringeva attorno a noi, a questo punto decisi di dirigermi verso Brindisi, nel tentativo di attraversare l’Adriatico.

Riusciste nell’impresa?

Purtroppo un buon numero di schiavi galli e germani durante la notte disertò, indebolendo decisivamente le nostre forze. Messo al corrente dell’imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, decisi di tornare indietro e mi diressi ad Apulia con i miei compagni verso le truppe di Pompeo, in quella terra ebbe luogo la battaglia finale, dove fummo non solo sconfitti ma sbaragliati e annientati completamente.

 

La morte di Spartaco, crocifisso lungo la via Appia (secondo una tradizione non accolta però dagli storici romani), marmo bianco di Louis-Ernest Barrias, 1871, ora a Parigi, Giardino delle Tuileries.

L’ultimo atto della guerra contro Spartaco, lo schiavo che osò ribellarsi a Roma, fu un’autentica carneficina, rimasero uccisi sul campo di battaglia migliaia di schiavi tra i quali lo stesso Spartaco, il cui corpo comunque non fu mai ritrovato. I romani persero solo mille uomini e fecero seimila prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che da Capua porta a Roma). Altri reparti dell’esercito di Spartaco, circa cinquemila uomini, tentarono la fuga verso Nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così in un bagno di sangue la rivolta di Spartaco.

Quello che è certo è che la ribellione degli schiavi scosse profondamente il popolo romano, che «a causa della grande paura cominciò a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare.

Le idee di Spartaco, a distanza di secoli, entrarono a far parte del pensiero politico moderno, personaggi come Carlo Marx e Rosa Luxembourg lo presero a modello nei loro programmi di emancipazione come simbolo della rivolta delle classi servili (cioè gli operai) contro quelle padronali.

Il mito di Spartaco si staglia nei secoli più nitido che mai.

Don Mario Bandera




Beato Allamano:

Caldo, fuoco e ceneri


L’estate dardeggia ormai sulle nostre povere teste e il desiderio di fuga verso un po’ di riposo e di fresco irrompe ovunque (sindrome, forse, dell’ormai famosa «chiesa in uscita»). Anche i nostri «padri capitolari», dopo il mese di soggiorno romano, sono rientrati nelle sedi più disparate del pianeta, – pardon! – della geografia missionaria. Soltanto alcuni di loro (i «quattro dell’Ave Maria») ripeteranno il cammino inverso per rientrare nell’Urbe e, insieme a padre Stefano, riconfermato padre generale, cercheranno di aiutare i Missionari della Consolata nel non facile cammino della RIVITALIZZAZIONE e della RISTRUTTURAZIONE (le due famose passwords del Capitolo appena concluso). Guidati, in questo, dalla presenza paterna del nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano, e dalla fedeltà al suo carisma, cioè quella destinazione tenace e irrinunciabile ad gentes, che è il succo e il sapore della nostra vita. E, tutto, con il fervore degli inizi, quando lui, il Fondatore, era ancora presente e cercava in tutti i modi di far capire a quei primi giovani, preti e laici, che non aveva senso sognare l’Africa e andarvi, se non si era prima uomini veri, cristiani senza sconti… insomma: santi! Proprio durante il Capitolo, circolava tra i missionari uno strano frammento apocrifo rivolto ai missionari (qualcuno, più addentro alle cose, sosteneva di riconoscervi l’inconfondibile stile di papa Francesco) che diceva pressappoco così: «Dopo più di 100 anni, il vostro carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! E, poi, il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire «pietrificarlo» o metterlo in un quadro. Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato Giuseppe Allamano non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione «significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri». L’Allamano non vi perdonerebbe mai di perdere la libertà e trasformarvi in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro!». Non ci mancava che l’accenno al fuoco, in questa calda e torrida estate! Ma, senza questo fuoco che ci rende «discepoli missionari», non si farà molta strada; altro che rivitalizzazione e ristrutturazione…
Buon cammino, allora, sempre ispirati e trepidamente seguiti da lui, il nostro Padre Fondatore!

Giacomo Mazzotti

Leggi tutte le sei pagine nello sfogliabile.

 




Sommario agosto-settembre 2017


Survival International ci fa vedere con occhi nuovi il rapporto tra conservazionismo (e parchi e riserve nazionali) e popoli indigeni. – Scopri la potenzialità di un semplice “Ciao”. – Partecipa al Capitolo generale dei Missionari della Consolata. – Scopri una scuola che costruisce la pace in Colombia – E le Chiese evangeliche in America Latina. – Vai nel Montenegro, in Liberia, in Marocco e gioca a pallone in Cina. – E ancora: di preghiera, di Turismo sostenibile, di Spartaco e del Beato Allamano …

Clicca sui  ??? per il pdf sfogliabile
Clicca su ??? per il web classico


???  03  ???   Editoriale: Ciao

Dossier

???  35 ???    La loro terra, il nostro futuro di Survival International

Articoli

??? 10  ???   Colombia: La Pace passa per la Scuola di Marco Bello
??? 16  ???   Italia: Tornare alle radici della Missione di Gigi Anataloni
??? 21  ???   America Latina: A ogni Fede la sua Sharia di Paolo Moiola
??? 27  ???  Marocco: Assetati d’argento di Daniela Del Bene
??? 51  ???  Montenegro: Sotto l’ombrello della Nato di Francesco Martino (Obc)
??? 57  ???  Liberia: Cronache dal Paese inventato di Valentina Giulia Milani
??? 63  ???  Cina: Se Pechino porta il Pallone di Gianni Scravaglieri

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 31  ???   Insegnaci a pregare 7. Dio, Amico e Padre di Paolo Farinella
??? 68  ???   Librarsi: Schiava dell’Isis di Luca Lorusso
??? 70  ???   Cooperando: Turismo sostenibile /2 di Chiara Giovetti
??? 74  ???   I Perdenti /27 Spartaco di Mario Bandera
??? 77  ???  ALLAMANO a cura di Sergio Frassetto


Se MC vi piace e interessa,
sostenetela e diffondetela
. Grazie.

Su Facebook ci trovate a:
https://www.facebook.com/missioniconsolata/




Lumache e camaleonti


Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.

Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.

«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.

Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?

Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.

E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.

Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.

Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».

Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».

Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?

 




Kurdistan: Orgoglio Kurdo


È uno stato

Introduzione

a) La carta d’identità

FAMIGLIA LINGUISTICA – Ramo iranico delle lingue indoeuropea, con rilevanti affinità con il persiano parlato in Iran. La lingua kurda si divide a sua volta in due varianti, Sorani e Kurmanji, con notevoli varietà dialettali.

DOVE SONO – Nord dell’Iraq, al confine con Siria, Turchia e Iran, zone anch’esse abitate dai Kurdi. I territori indicati dalla Costituzione irachena del 2005 come Regione autonoma del Kurdistan sono inferiori rispetto all’area occupata dai Kurdi, oggi contesa fra Baghdad ed Erbil (il capoluogo della regione).

CAPOLUOGO – La città di Erbil.

POPOLAZIONE – 5-8 milioni, a seconda delle stime.

RIFUGIATI E SFOLLATI – Si trovano oggi in Kurdistan circa 2 milioni di rifugiati e sfollati, la larga parte dei quali giunti negli ultimi tre anni in seguito all’avanzata dello Stato islamico (Isis-Daesh).

ORGANIZZAZIONE POLITICA – I Kurdi in Iraq vivono, con un’ampia autonomia politica ed economica, all’interno della Regione autonoma del Kurdistan, sancita, dopo la caduta di Saddam, dalla costituzione irachena del 2005. I territori in essa inclusi sono però di molto inferiori rispetto a quelli effettivamente controllati dai Kurdi, il che provoca frequenti diatribe con Baghdad.

RELIGIONE – Circa il 94% degli abitanti del Kurdistan iracheno sono musulmani sunniti.

MINORANZE – Siriaci, armeni, turkmeni e arabi. Da un punto di vista religioso, si trovano inoltre musulmani sciiti, cristiani, zoroastriani, yazidi, ebrei, shabaki, kakai, mandei e bahai.

MONETA – Dinaro iracheno.

BANDIERA – Un tricolore a bande orizzontali rossa bianca e verde, con un sole al centro. La bandiera fu per la prima volta introdotta dai leader Kurdi presenti alla conferenza di pace di Parigi del 1919-20, quando la nascita di uno stato chiamato Kurdistan sembrava imminente. Oggi questa bandiera è bandita in Turchia, in quanto ritenuta simbolo delle aspirazioni kurde all’indipendenza, mentre è assai diffusa nel Kurdistan iracheno.

PETROLIO – Con una riserva stimata attorno ai 45 miliardi di barili, il petrolio rappresenta una voce fondamentale dell’economia del Kurdistan, oltre che un elemento di attrito continuo con Baghdad.

b) Le date principali

  • 1918: con la sconfitta dell’Impero ottomano nel primo conflitto mondiale, il territorio dell’attuale Kurdistan iracheno diventa parte del dominio della corona britannica.
  • 1919: creazione ex novo dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico.
  • 1920: il trattato di pace di Sèvres, firmato dall’Impero ottomano, prevede la nascita di uno stato kurdo, cui avrebbero potuto unirsi – tramite referendum – anche i Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul.
  • 1922: Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la loro aviazione e schiacciando la rivolta.
  • 1923: il trattato di Losanna dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
  • 1943: Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida una rivolta che riesce a strappare per breve tempo al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan.
  • 1946: nasce un’effimera, ma importante, Repubblica di Mahabad, entità statale kurda nel Nord Ovest dell’Iran che durerà meno di un anno.
  • 1980-88: la guerra Iran-Iraq causa migliaia di morti, persecuzioni e divisioni politiche all’interno del Kurdistan iracheno.
  • 1986-89: campagna di al-Anfal compiuta da Saddam Hussein contro i Kurdi, che porterà alla morte di migliaia di persone.
  • 1988: attacco chimico di Halabja compiuto dalle forze irachene contro i Kurdi.
  • 1991: i Kurdi riescono finalmente, dopo una sollevazione, a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia, quella della regione del Kurdistan, resa effettiva anche grazie alla no flight zone americana.
  • 2005: la nuova costituzione irachena, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq, riconosce l’autonomia kurda nel Nord del paese.
  • 2014: l’Isis avanza in Iraq, compiendo un genocidio contro gli Yazidi e costringendo i Kurdi siriani e iracheni a una strenua resistenza. La regione diviene approdo, in breve tempo, di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.

Simone Zoppellaro


Kurdistan: uno, tanti, nessuno

Storia della regione kurda dell’Iraq

Nel mondo si stimano esistere tra i 20 e i 40 milioni di Kurdi. Costituiscono la più grande nazione senza uno stato (riconosciuto dalla comunità internazionale). Il nostro collaboratore è andato a vedere cosa succede nel Kurdistan iracheno, che un tempo era la mitica Mesopotamia, mentre oggi è l’unica entità territoriale kurda vicina alle caratteristiche di un vero e proprio stato indipendente.  

Quello del Kurdistan è un nome divenuto ormai noto a tutti in questi ultimi anni, seppure si riferisca a una realtà per molti aspetti sfuggente, dai tratti incerti e in parte persino misteriosi. Non sarà un caso: costretta a cavallo dei confini di diversi stati – Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia, con una notevole presenza diasporica in Europa – quella dei Kurdi rappresenta oggi la più grande nazione al mondo senza uno stato. Una frattura difficile da sanare causa di numerose altre ferite: non solo le persecuzioni e le discriminazioni subite periodicamente nei diversi contesti, ma anche le divisioni politiche, talora fratricide, che hanno segnato il destino di questa gente pur legata da una cultura salda e antica. Il risultato è che oggi non esiste un solo Kurdistan, ne esistono diversi o, almeno da un punto di vista del riconoscimento internazionale, non ne esiste ancora nessuno. Eppure, situato com’è nel cuore del Medio Oriente, forte di una popolazione complessiva stimata (ma i dati sono assai dibattuti) fra i 20 e i 40 milioni di persone, il Kurdistan è uno dei luoghi del mondo tra i più caldi e cruciali dal punto di vista geopolitico, strategico e delle risorse. E questo non certo da oggi.

Un tempo era la Mesopotamia

Troppe volte in passato questa splendida terra, fertile e dai paesaggi rigogliosi, è stata contesa da potenze straniere e dai loro eserciti. Limitandosi al solo Kurdistan iracheno – che tratteremo in modo esclusivo in questo nostro lavoro – si parla di una regione che ha radici antichissime, che arrivano fino agli albori stessi della civiltà. In questo spazio si trovava infatti parte della Mesopotamia propriamente detta. Nella piana di Ninive, gli storici ritengono sia avvenuto lo scontro decisivo fra Alessandro Magno e i persiani. Ci riferiamo alla battaglia di Gaugamela, snodo fondamentale per la storia antica nel determinare le fortune del Macedone e il tramonto, almeno temporaneo, dell’impero di Persia.

In epoca più recente, quello che oggi chiamiamo Kurdistan iracheno è stato soggetto alla dominazione ottomana. Proprio sotto questa dominazione, fra battaglie e rivolte represse nel sangue, va forgiandosi e definendosi l’identità kurda di questa popolazione di origine iranica. Nel 1918, con la sconfitta della Sublime Porta nel primo conflitto mondiale, questo territorio passa a essere dominio della Corona britannica. Dell’anno successivo è invece la creazione dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico. Un’entità statale, come diverse altre in Africa e in Asia, che è in ultima analisi solo una creazione realizzata a tavolino dalle potenze coloniali, senza alcun riscontro storico preciso. È così che una porzione di Kurdistan diviene parte di uno stato che un secolo dopo, a dispetto dei tanti mutamenti, esiste ancora. Il risultato di tale disegno, concepito su esclusivo interesse di capitali lontane anziché sui bisogni delle popolazioni locali, è sotto gli occhi della comunità internazionale ancora nel 2017. Una delle caratteristiche dell’esperienza coloniale è che essa è durata ben oltre la fine del colonialismo stesso.

La svolta: il trattato di Sèvres

La mancata nascita di uno stato kurdo viene vissuta da questa minoranza, nel frattempo galvanizzata da aspirazioni nazionaliste e irredentiste, come un tradimento. Il trattato di pace di Sèvres del 1920, firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero Ottomano, prevede infatti di dare voce ai Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul sul loro destino. Questi dovrebbero poter decidere, tramite un referendum, se unirsi a un nascente stato kurdo previsto più a Nord, che dovrebbe includere città dell’attuale Kurdistan turco quali Diyarbakir. Ma né l’una né l’altra ipotesi diventano realtà, e i territori a maggioranza kurda – complice anche la nascita della Turchia kemalista – vengono spartiti senza che i loro abitanti possano esprimersi in alcun modo sul loro futuro. Da questo passaggio storico fondamentale avranno origine una serie di rivolte espressione delle rivendicazioni nazionaliste dei Kurdi.

Barzani e i Peshmerga

Nel 1922 Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio a essa adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la Royal Air Force, l’aviazione. Una serie di bombardamenti aerei colpiscono Barzinji e i suoi uomini per circa un anno fra il 1923 e il 1924, fino alla resa finale. Il primo tentativo di realizzare uno stato kurdo finisce quindi in un bagno di sangue.

Barzinji, che è stato protagonista di una rivolta già in precedenza, nel 1919, si ritirerà in seguito sui monti, dove tenterà inutilmente di fare esplodere di nuovo la scintilla dell’irredentismo kurdo. Valente guerriero, il suo ricordo si imprimerà nella memoria delle successive generazioni di Kurdi, quale simbolo di libertà e rivalsa nei confronti del giogo coloniale. Nel frattempo il trattato di Losanna, firmato nel 1923, dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.

Nel 1932 un’ulteriore rivolta segna l’inclusione dell’Iraq nella Lega delle Nazioni, evento che ha luogo ignorando ancora una volta le ambizioni e le richieste politiche dei Kurdi. Proprio il Kurdistan iracheno dà i natali a quello che è probabilmente il maggior leader kurdo del secolo scorso, Mustafa Barzani (1903-1979). Proveniente anche lui, come Barzinji, da una famiglia di importante tradizione sufica, Barzani sarà per mezzo secolo una spina nel fianco di Baghdad, nonché simbolo vivente della lotta per l’indipendenza dei Kurdi. Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida nel 1943 un’ennesima rivolta che riesce a strappare al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan. Nel 1946 si afferma come comandante della Repubblica di Mahabad, nel Nord Ovest dell’Iran. A Barzani si deve infine anche la fondazione del «Partito democratico del Kurdistan» (riquadro pagina seguente), che rimane fino ad oggi il maggior partito politico kurdo dell’Iraq.

Dopo la fine dell’esperienza di Mahabad nel 1947 (riquadro in alto), Barzani si rifugia nell’Azerbaigian sovietico, dove rimane fino alla rivoluzione irachena del 1958. Dopo il ritorno e un fallito accordo con il governo di Baghdad, nel 1960 si rifugia in montagna, da dove guida per oltre un decennio i suoi uomini, i Peshmerga, alla resistenza contro le forze irachene. Muore in esilio negli Stati Uniti nel 1979, dopo essere stato infine sconfitto militarmente dal regime di Saddam Hussein, con la complicità dello scià iraniano. E proprio gli anni di governo del dittatore si dimostreranno i più duri per i Kurdi iracheni.

Sotto Saddam Hussein

La repressione inizia in sordina negli anni Settanta con una campagna di arabizzazione della regione, che mira a sopprimere l’identità kurda insieme a quella delle altre minoranze etniche e religiose.

Le cose precipitano in seguito con la guerra fra Iran e Iraq, combattuta fra il 1980 e il 1988. I due maggiori partiti politici kurdi si dividono, e quello di Barzani appoggia apertamente l’Iran, voltando le spalle a Baghdad. Una volta che inizierà a profilarsi la fine del conflitto, arriverà puntuale la vendetta di Saddam con la campagna di al-Anfal. Secondo i Kurdi (e non solo), un genocidio che costerà la vita a decine di migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire. Altre migliaia di vittime costerà l’attacco chimico nella città di Halabjah, nei pressi del confine iraniano. Crimini poco noti al grande pubblico, ma fra i più efferati commessi negli ultimi decenni nell’intero Medio Oriente.

Nel 1991, dopo una sollevazione, i Kurdi riescono finalmente a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia resa possibile anche grazie alla no-flight zone americana dello stesso anno, che permette ai Kurdi di tirare il fiato dopo anni terribili in cui i baathisti al potere a Baghdad avevano commesso contro di loro i crimini più atroci.

Il Kurdistan oggi

Questa regione dalla storia travagliata è stata negli ultimi trent’anni teatro di massacri e genocidi. Nonostante ciò, il Kurdistan iracheno è riuscito a conoscere uno sviluppo economico e urbanistico senza precedenti che, seppure non scevro da gravi contraddizioni quali speculazione, corruzione e disuguaglianze, ha permesso ai Kurdi di raggiungere una notevole autonomia politica ed economica, e di sognare l’indipendenza. Un passo avanti di portata storica per questa gente che, a dispetto delle reiterate promesse di un riconoscimento statuale da parte delle ex potenze coloniali, non aveva mai fino ad ora potuto godere di una così ampia libertà di determinare il proprio destino.

Oggi molti Kurdi dei paesi vicini guardano a questa regione autonoma dell’Iraq con grande attenzione e partecipazione. Ricordo come un ragazzo, uno studente kurdo iraniano conosciuto a Teheran, mi raccontasse trasognato la sua scelta di studiare a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno. Il semplice fatto di poter studiare e parlare nella propria lingua madre, il kurdo, rappresentava per quel giovane – come per molti altri Kurdi dei paesi confinanti – un vero sogno, la realizzazione di oltre un secolo di aspirazioni, lotte e persecuzioni.

Benché già in essere dal 1991, l’autonomia kurda diviene una realtà con la nuova Costituzione irachena del 2005, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq. Da qui, come detto, ha inizio una stagione di grande sviluppo che entrerà in crisi solo negli ultimissimi anni con l’avanzata dell’Isis. E così ai crimini già ricordati si aggiungerà anche il genocidio della minoranza yazida iniziato nel 2014 e tuttora in corso (si veda MC marzo 2017). La presenza di centinaia di migliaia di profughi e sfollati è un altro prodotto importante di questa nuova crisi, che è divenuta anche economica.

Tra Erbil e Baghdad

In questa situazione complessa e delicata, sono ancora una volta i contorni stessi del Kurdistan a essere in questione. Se sono solo quattro in totale i governatorati riconosciuti ufficialmente parte di questa regione (Duhok, Erbil, Sulaymaniyah e Halabja), assai più ampia è però l’area controllata dai Peshmerga kurdi, che rivendicano un territorio ancora più vasto. Emblematico a tal proposito il casodi Kirkuk, città contesa da Baghdad e Erbil. In questo caso come in altri, non si tratta di un caso di facile soluzione: come capita spesso in Medio Oriente e nel Caucaso, si tratta di territori tutt’altro che omogenei da un punto di vista etnico e religioso, cosa che dà adito a infinite manovre e giochi di potere che, inevitabilmente, finiscono per essere pagati dalle fasce più deboli della popolazione e, in primis, dalle minoranze. Difficile anche stabilire con esattezza il numero di abitanti della regione autonoma del Kurdistan. Se le autorità di Erbil parlano di oltre cinque milioni di abitanti, secondo Baghdad si tratterebbe invece di un milione di meno.

Kurdistan turco e Kurdistan siriano

Numeri e politica a parte, l’importanza del Kurdistan iracheno è enorme anche solo da un punto di vista umano e culturale. Mentre la morsa del presidente turco Erdogan si fa sempre più stretta sui Kurdi di Turchia, e perdura la guerra nel Kurdistan siriano (noto come Rojava), costata infinite sofferenze, la relativa stabilità del Kurdistan iracheno è un approdo sempre più insostituibile per i Kurdi della regione. Un ruolo prominente attribuitogli anche dalla collocazione geografica, oltre che dall’evoluzione storica recente: situata com’è al centro della regione, la porzione irachena mette in comunicazione le altre parti del mondo kurdo separate nelle diverse nazioni. Un dato positivo, senza dubbio, che finisce però per produrre numerosi contraccolpi, scaricando su questa regione tutte le tensioni che investono i Kurdi nei paesi limitrofi.

Simone Zoppellaro


I Kurdi e il dna linguistico

Lingua, cultura, identità

Essendo distribuite su vari paesi (Iraq, Turchia,?Siria, Iran), le popolazioni kurde possono avere caratteri culturali molto diversi. Ma sono unificate da un unico idioma (che è una lingua indoeuropea), pur con tutte le sue varianti.

Il Kurdistan iracheno è un territorio ricco di storia e cultura, cosa che si evince anche dalla grande diversità linguistica, religiosa e culturale che vi si incontra. I Kurdi stessi che lo abitano, ben lungi dall’essere un monolite, hanno partiti politici, usi, costumi e idee molto diversi dai loro omologhi turchi e siriani, e proprio qui in Iraq hanno sviluppato un tassello fondamentale – per quanto tuttora incompiuto – nella loro lunga marcia verso l’autonomia e l’indipendenza. Ma non sono solo il passato e la tradizione a colpire il viaggiatore. Città come Erbil e Dohuk appaiono moderne e completamente rinnovate negli ultimissimi anni, per quanto nel loro tessuto sia facile scorgere edifici costruiti a metà, basi militari e campi profughi, cicatrici dovute a quello spartiacque che è stato l’ascesa dello Stato islamico ai confini di questa regione.

In questo articolo cercheremo di fornire al lettore di Missioni Consolata un quadro il più possibile aggiornato della società kurdo-irachena di oggi, muovendoci dalla lingua alla cultura, dall’economia alla politica, facendo anche tesoro di un viaggio appena concluso in questa regione.

Una lingua indoeuropea

Scrive il linguista e politologo Noam Chomsky: «Una lingua non è fatta solo di parola. È una cultura, una tradizione, il collante di una comunità, una storia intera che determina ciò che una comunità rappresenta. E tutto ciò è incarnato in una lingua». E proprio questo aspetto, quello linguistico, è il principale che determina ieri come oggi l’identità dei Kurdi, in contrapposizione ai vicini sia arabi che turchi, entrambi in maggioranza di fede musulmana, ma che usano idiomi molto lontani, riconducibili a famiglie linguistiche assai diverse. Il kurdo, invece, nelle sue diverse varianti appartiene alle lingue iraniche, come il persiano, parte della comune famiglia indoeuropea. E proprio con la lingua parlata in Iran si scoprono punti di contatto sorprendenti. Per limitarci a un solo esempio, che ho rilevato di persona parlando io persiano, prendiamo il caso dei numeri. Una cosa, questa, che mi ha permesso facilmente di dire molte cose in kurdo, senza aver fatto neppure una lezione o aperto una grammatica. Non mi era mai capitato di imbattermi in due lingue che avessero le medesime parole, perlopiù con variazioni minime di alcune vocali, per indicare tutti i numeri. Eppure, è esattamente quello che succede fra persiano e kurdo, lingue che hanno un legame profondo e antico.

Una lingua, tanti alfabeti

Tornando al kurdo, è giusto ricordare che non si tratta di una lingua unificata: esistono almeno due tipologie linguistiche del kurdo, chiamate Kurmanji e Sorani, presenti entrambe in Iraq. Queste sopravvivono senza che una sia riuscita a prendere il sopravvento sull’altra, tanto nella lingua parlata che in quella scritta e nella letteratura. Non ancora standardizzato è anche il modo in cui si trascrive questa lingua. Accanto al kurdo in caratteri arabi – egemone e preponderante in Iraq, dai cartelli stradali, ai libri e alle scuole – sopravvive ancora l’uso di trascrivere la lingua in caratteri latini. Non si deve dimenticare, infine, come il kurdo sia stato usato, anche da un punto di vista letterario, in un terzo alfabeto: quello cirillico, usato soprattutto quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Per un breve periodo, infine, negli anni venti, fu usato anche nell’alfabeto armeno, sempre nell’Urss. Una grande varietà che è, certo, conseguenza della storica mancanza di uno stato, di un centro di riferimento che sia in grado di imporre un canone, ma anche segno di una commistione culturale e linguistica che ha prodotto notevoli frutti.

Erbil e le università italiane

Se gli albori letterari della lingua kurda risalgono alla prima fioritura poetica del XVI secolo, le radici di questo popolo e di questa terra, come detto, sono però assai più antiche. A testimonianza di ciò è la cittadella di Erbil, patrimonio dell’Unesco, la cui vista che domina e sovrasta il centro della capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Una presenza tanto più importante, in quanto sia la furia iconoclasta dell’Isis che il boom edilizio degli ultimi decenni hanno cancellato molte delle tracce storiche di questa terra in rapida evoluzione. E proprio la cittadella è al centro di un progetto di studio e valorizzazione promosso dalle autorità kurde insieme con la «Missione archeologica italiana nel Kurdistan iracheno» (Maiki: www.maiki.it), portata avanti da ormai molti anni dall’Università la Sapienza di Roma.

L’eccezionalità di questa altura artificiale, simile a quella che domina il centro di Aleppo in Siria, sta nella sua capacità di raccontare come un libro aperto migliaia di anni di storia racchiusi nei vari strati di sedimentazione di cui è composta. I reperti più antichi trovati in essa risalgono, infatti, addirittura al Paleolitico. Su questa altura sorgeva un tempo di Ishtar, ed oggi, racchiusa fra la possente cinta muraria, si trovano case storiche d’epoca ottomana, oltre che una moschea. Un altro importante lavoro archeologico, sempre italiano, è quello dell’Università di Udine, impegnata a investigare e valorizzare la piana di Ninive. Un progetto, questo, che ha individuato oltre centocinquanta insediamenti che coprono un arco cronologico che parte dalla preistoria per giungere fino all’epoca ottomana. Grande attenzione è poi riservata alla cultura assira, un altro importante tassello della storia di questa regione. Infine, come detto, proprio qui potrebbe aver avuto luogo una delle battaglie più importanti della storia antica. Come si legge in un articolo apparso di recente sul bimestrale Archeologia Viva:

«Le indagini degli archeologi udinesi hanno confermato che la storica battaglia di Gaugamela, vinta da Alessandro Magno contro il persiano Dario III nel 331 a.C., si svolse probabilmente nella grande piana di Navkur, al cui centro si trova il sito di Tell Gomel. Grazie a una precisa ricognizione delle fonti testuali, unita a un’esplorazione topografica, è stato accertato che la zona ha le caratteristiche presenti nelle antiche descrizioni».

Uno sviluppo convulso

Meno suggestivo è invece il lato moderno, del tutto preponderante, delle città kurde irachene di oggi, che è però anch’esso parte integrante della vita di questa regione, nient’affatto statica o persa in un suo lontano passato. Certo è che le maggiori città, quali Erbil e Dohuk, appaiono edificate in fretta e furia negli ultimi decenni, lasciando forse poco spazio sia alla memoria che all’immaginazione. Uno sviluppo convulso e, soprattutto nella capitale, per molti aspetti fuori controllo, ma che, esattamente come nell’Italia del dopoguerra, ha rappresentato per i Kurdi il simbolo liberatorio di una rivalsa nei confronti di un passato di repressione e sofferenze. Un panorama urbano, quello contemporaneo, dove a dominare sono anonimi quartieri sorti dal nulla e centri commerciali, e dove la disuguaglianza segna purtroppo in modo netto la differenza fra un’élite assai esigua e la larga maggioranza della popolazione molto lontana dagli standard dei primi.

A rendere ancora più stridente questo contrasto è la massiccia presenza, percepibile non appena si esce fuori dalle città, dei campi di profughi e sfollati. Si stima infatti che siano più di due milioni i rifugiati e sfollati interni presenti nel Kurdistan iracheno. Secondo il governo regionale del Kurdistan, questi rappresenterebbero oggi il 28% della popolazione totale della regione. Cifre importanti, che dovrebbero far riflettere chi oggi parla con troppa leggerezza di un’invasione in Italia o in Europa. Campi, quelli che ho visitato, dove manca di tutto: dall’elettricità alle cure mediche, alle terapie di recupero per i molti profughi che hanno subito violenze indescrivibili da parte dell’Isis e non solo.

Indipendenza da Baghdad?

Il tema politico più importante dibattuto in questi mesi dai Kurdi iracheni è quello di un possibile referendum sull’indipendenza da Baghdad, più volte annunciato, e sempre con maggior insistenza, ma finora non ancora messo in atto. Secondo gli interpreti più smaliziati, si tratterebbe solo di un escamotage per strappare ulteriori concessioni all’Iraq. Ma è pur vero che non va sottovalutata la portata simbolica dell’evento, il cui richiamo andrebbe a travalicare i confini della regione. Per i Kurdi, dopo un secolo di lotte, una simile opportunità rappresenterebbe un’occasione storica forse irripetibile. Certo è che a Erbil, a Dohuk e in altre città è assai raro vedere una bandiera irachena, mentre il tricolore kurdo, con il sole al centro, sventola con orgoglio ad ogni angolo e in ogni occasione.

Legata a doppio filo alla politica è l’economia del Kurdistan iracheno, marcata da diseguaglianze feroci, anche se, almeno per gli standard mediorientali, la povertà non è a livelli fuori controllo.

Una triste realtà di questa regione è poi la corruzione, come mi racconta un’antropologa sociale che ho intervistato a Dohuk, e che mi ha chiesto di rimanere anonima. Un argomento tabù, difficile e pericoloso da trattare per i media locali, che pure hanno conosciuto negli ultimi anni (si pensi al caso della televisione satellitare Rudaw, vedi foto a lato) un successo internazionale senza precedenti. Oltre al settore delle costruzioni, e al notevole sostegno finanziario ricevuto dai creditori internazionali, a fare la differenza nell’economia locale è la presenza del petrolio. Causa di frizione fra i Kurdi e Baghdad, una parte dei proventi di questa importante risorsa ha sostenuto lo sviluppo economico della regione, attirando l’attenzione di due potenze regionali come la Turchia, dove giunge la pipeline Kirkuk-Ceyhan da cui passa il petrolio kurdo, e l’Iran, che punta a sviluppare nuovi progetti.

Piccole e grandi frontiere

Se non mancano le basi storiche, economiche e sociali per un futuro prospero e democratico che superi le tante problematiche del presente, vi è però un ostacolo fondamentale da superare: la guerra, che insanguina da tanti, troppi decenni il Kurdistan iracheno. Se il germe del radicalismo non ha attecchito in una società in buona parte laica come questa, il contesto geopolitico incandescente ha lasciato però poca scelta alla società kurda, che vive in uno stato di perenne militarizzazione. Ed ecco allora che una delle presenze più evidenti, che scandiscono continuamente i panorami mozzafiato di questa regione, è quello dei check point militari. Piccole frontiere che moltiplicano le grandi frontiere e le rafforzano, lacerazioni del passato e del presente di questa terra.

Simone Zoppellaro


Dalla tolleranza ai drammi del presente

I cristiani e le altre minoranze religiose

Per cristiani dell’Iraq – passati da 1,4 milioni a soltanto 250 mila persone – il presente è drammatico. E tuttavia almeno nel Kurdistan la tolleranza religiosa resiste.

Circa il 94% dei kurdi iracheni sono musulmani, con una netta prevalenza di sunniti e una minoranza sciita nella zona di Khanaqin, nei pressi del confine con l’Iran. Il sufismo ha una ruolo importante nella regione, come si evince dal fatto che i maggiori leader kurdi siano affiliati a questa corrente.

Dall’avvento dell’islam in avanti, e ancora fino a un’epoca assai recente, il Medio Oriente non ha mai smesso di essere patria di una pluralità religiosa sorprendente, inimmaginabile nell’Europa preilluministica. Una realtà storica diametralmente opposta a quella prevalente nell’immaginario comune e nei media, che tendono a rappresentare la religione islamica come unicamente fanatica, intollerante e spietata nei confronti delle altre fedi. In realtà, ebrei, cristiani e zoroastriani – fra gli altri – hanno goduto per secoli sotto la mezzaluna di una libertà inconcepibile in Occidente, giungendo in moltissimi casi ai massimi vertici della vita politica, culturale ed economica dei territori dell’ecumene musulmana. Un patrimonio religioso, sempre declinato al plurale, che neppure la cieca violenza del fondamentalismo islamista è riuscita a sradicare del tutto.

Una tolleranza che affonda peraltro le sue radici nel dettato coranico stesso, che riconosce e tutela – accanto alla nuova fede di Muhammad – le altre religioni monoteistiche preesistenti, garantendo loro buoni margini di autogoverno per molti aspetti della vita privata e religiosa delle comunità minoritarie. Alle «genti del Libro», come le definisce il Corano alludendo alla Bibbia, come alla Torà e all’Avesta, va così garantita protezione da parte della maggioranza musulmana, a patto di un versamento di un’imposta personale chiamata jizya. A testimonianza ulteriore di una relativa apertura, come dimostrano gli studi più recenti in questo campo, anche l’estrema lentezza con cui la conversione all’islam si affermò nei territori via via conquistati nell’impero nato con la nuova fede del profeta Muhammad.

Caso esemplare a tal proposito è quello dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, quando la presenza di cristiani ed ebrei nelle corti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale divenne così forte da minacciare la stessa egemonia culturale e religiosa dei musulmani. Questo grazie alla presenza di numerosi cristiani fra le fila dei mongoli stessi, fra cui generali di primo piano e persino alcune regine.

Il Kurdistan, esempio di pluralità di fedi

In tutto questo, i territori facenti oggi parte del Kurdistan iracheno – con la loro storia millenaria – rappresentano un caso positivo esemplare, che si distingue in modo netto dalla persecuzione che afflige le minoranze nelle zone fuori della regione. Anche il viaggiatore più distratto non potrà fare a meno di notare la sorprendente presenza di una pluralità di fedi, una accanto all’altra, i cui segni sono assai diffusamente presenti, nonostante le brutali persecuzioni degli ultimi anni. Nel territorio della Piana di Ninive, ad esempio, affiorano spesso nel paesaggio urbano e nelle campagne i profili di chiese e croci, oppure i bianchi tempietti della minoranza yazida con il loro caratteristico profilo conico. Oltre a ciò, armeni e siriaci – nonostante la drammatica crisi del cristianesimo iracheno dopo l’invasione americana del 2003 – continuano a trasmettere di generazione in generazione non solo la loro fede e il loro patrimonio culturale e liturgico, ma anche le loro lingue, diverse da quelle della maggioranza kurda e araba. In queste lingue si canta, si prega e si tengono le funzioni religiose nelle chiese, spesso estremamente suggestive. In diverse scuole e nelle parrocchie si studiano e si coltivano così il neo-aramaico, un’evoluzione moderna della lingua parlata da Gesù, e l’armeno, ognuna con i rispettivi alfabeti usati spesso anche nelle insegne e nei negozi. Lettere che si fanno simbolo di un’identità rivendicata con orgoglio nello spazio pubblico, di un’appartenenza che sfida apertamente l’insorgere del fondamentalismo in tutto il Medio Oriente, da cui per fortuna – oggi come ieri – il Kurdistan è ancora in larga parte immune.

Ma non solo i luoghi di culto e le insegne a marcare la presenza delle minoranze religiose nel territorio. Nel villaggio cristiano di Alqosh, ad esempio, sventola con orgoglio su molte case la bandiera siriaca, mentre nel villaggio di Havresk, allo stesso modo, non manca appeso alle finestre il tricolore armeno. Piccoli segni che però non possono lasciare indifferenti, dato il contesto in cui si trovano: quest’ultimo villaggio, ad esempio, è ad appena a una trentina di chilometri dalla diga di Mosul, città ancora contesa fra lo Stato islamico e Baghdad. E proprio in molti di questi villaggi e insediamenti cristiani e yazidi si incontrano di continuo sfollati interni sfuggiti dalla furia omicida dell’Isis. Un gruppo, quest’ultimo, che con la assurda pretesa di richiamarsi ai fondamenti del credo islamico rinnega invece oltre un millennio di storia che, pur fra eccezioni e contraddizioni a volte violente, va ascritto sotto il segno benevolo della tolleranza religiosa. Un’eredità portata avanti invece dai kurdi, una società dai tratti in larga parte secolare, almeno per gli standard vigenti oggi nel Medio Oriente.

La paura

Oggi, purtroppo, la paura è il sentimento dominante fra le minoranze, che non possono dimenticare i genocidi, le stragi, la resa in schiavitù e i continui soprusi che ancora avvengono nei loro confronti a poche decini dei chilometri da qui. Questa gente non parla d’alto, e non potrebbe essere altrimenti. Un timore tanto più grande, ripetono i cristiani di qui, proprio perché non limitato ad alcuni gruppi terroristici, ma anche alle zone grigie, alle complicità e ai fiancheggiamenti dimostrati da tanta gente comune, soprattutto nei centri a maggioranza araba e sunnita. La paura la fa da padrona, dicevamo, ma insieme dominano anche l’amarezza e la solitudine. La domanda che ricorre forse più di frequente nelle persone che ho intervistato – a volte esplicitata, altre semplicemente implicita, ma sempre presente – è perché l’Europa e l’Occidente si ostinino a voltarsi dall’altra parte di fronte al perpetuarsi delle orribili violenze dell’Isis, e non solo, nei confronti delle minoranze. Una frustrazione che si alterna però di continuo al sogno (perché di ciò soltanto si tratta) di una salvezza che giungerà presto da Occidente, dando finalmente sicurezza e autonomia alle minoranze dell’Iraq. Difficile dire se ci credano davvero, in un Medio Oriente dominato in modo sempre più esclusivo dai semplici interessi economici e dallo sfruttamento. Certo è che la speranza, anche in questi luoghi che traboccano di sofferenze, trova sempre la sua via nella mente e nei cuori degli uomini. Non sarà un caso: troppo il bagaglio di orrore che questa gente porta sulle spalle ogni giorno da anni.

La sparizione dei cristiani

Per quel che riguarda i cristiani in Iraq, la situazione è particolarmente drammatica. Si è passati da 1,4 milione di cristiani, prima del 2003, a meno di 250.000 persone. Il rischio concreto, come denuncia il recente rapporto «No Way Home: Iraq’s Minorities on the Verge of Disappearance», da cui riprendiamo questi dati, è quello di una definitiva scomparsa di questa e delle altre minoranze dal paese. Siamo dunque sull’orlo di un baratro, dopo oltre un millennio di convivenza. «Tredici anni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti di lungo termine per la società irachena», ha dichiarato Mark Lattimer, direttore esecutivo di Minority Rights Group International. «L’impatto sulle minoranze è stato catastrofico. Saddam era terribile, ma la situazione da allora è peggiorata. Decine di migliaia di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose sono state uccise e in milioni sono fuggiti per avere salva la vita».

Forse ancora più drammatica, rispetto ai cristiani, è la situazione dell’altra minoranza religiosa più importante del Kurdistan iracheno, quella yazida (cui abbiamo dedicato un dossier su Missioni Consolata di marzo 2017). Il tutto è avveuto con la complicità di molti arabi sunniti, i quali, vedendosi spodestati dal loro ruolo egemone con la caduta di Saddam, e sentendosi discriminati a loro volta dai governi succedutisi negli ultimi anni a Baghdad, hanno almeno in parte appoggiato l’ascesa dell’Isis sperando in una rivalsa sociale ed economica.

Piccoli segni di speranza

In questa situazione tragica non mancano però alcuni segni positivi che ho riscontrato nel mio viaggio. Ora più che mai, è giusto dare voce anche ai casi positivi, se non altro per non dare adito al messaggio nichilista – spesso del tutto egemone, ma falso – che la violenza sia una situazione invariabile e immutabile nel mondo musulmano. Non lo è oggi, come non lo è mai stata. Gli uomini sono liberi di scegliere il loro destino, come non lo siamo di scegliere se voltarci dall’altra parte o se invece di impegnarci per scongiurare guerre e catastrofi. Nella città di Dohuk, ad esempio, il sacerdote armeno locale mi ha raccontato come la chiesa, da poco costruita e il centro culturale Ararat ad essa adiacente – usato per matrimoni e feste – siano state costruite con il sostegno pubblico della regione kurda. O ancora, ho avuto occasione di intervistare Hussein Hasun, yazida, consigliere speciale del primo ministro del Kurdistan per i procedimenti legali legati ai genocidi. Una parola che usa al plurale: le autorità kurde, infatti, nonostante la scarsa collaborazione di Baghdad, stanno raccogliendo testimonianze ed ogni genere di prove per dimostrare che le violenze subite dalle minoranze religiose in questi anni siano casi di genocidio. No

n mancano infine contatti e incontri fra le diverse comunità religiose, e il rispetto reciproco è ancora alla base della convivenza fra i cittadini di diverse fedi, nonostante le ferite del presente.

Da segnalare infine come sia stato da poco inaugurato un tempio zoroastriano a Sulaymaniyah, oltre al progetto di edificare una sinagoga ad Ebril, dove lo scorso anno si è tenuta per la prima volta una commemorazione dell’Olocausto ebraico insieme alla piccola comunità ebraica locale. Piccoli segni, forse, ma che testimoniano che è una sfida che si può e si deve vincere, quella per la sopravvivenza dei cristiani e delle minoranze tutte, almeno qui in Kurdistan iracheno. Una sfida tanto più importante, proprio perché unica, preziosa e antica è l’eredità religiosa di cui è depositaria questa terra. E mentre Baghdad e la Siria sono allo sbando, potrebbe essere proprio da qui – dai kurdi, essi stessi vittime di tante persecuzioni nell’ultimo secolo – che la convivenza potrà rinascere appieno, scongiurando il rischio che il cristianesimo e lo yazidismo in Medio Oriente divengano solo un ricordo, cancellati per sempre, come in una tabula rasa.

Simone Zoppellaro

Schede


Lotte interne e strane alleanze

La scena politica e militare del Kurdistan iracheno di oggi appare dominata in modo pressoché esclusivo da due partiti storici, conosciuti con due acronimi, il Pdk e l’Upk. Il primo, il «Partito democratico del Kurdistan», affonda le sue radici nella Repubblica di Mahabad, dove è nato, e nella figura carismatica del suo leader combattente, Mustafa Barzani. Una storia importante, raccolta non a caso dal figlio di questi, Masud Barzani, l’attuale presidente della regione kurda. Più recente è invece il Upk, l’«Unione patriottica del Kurdistan», partito fondato a metà degli anni settanta e guidato oggi dall’ex presidente iracheno Jalal Talabani. Anche il suo successore alla guida del paese, Fuad Masum, è fra i fondatori del partito, nato da una costola del Pdk, critica nei confronti della leadership dopo la sconfitta dei Kurdi nella rivolta del 1974-1975. I due partiti, in seguito, sono arrivati più volte a scontrarsi, fino a giungere a una vera e propria guerra civile negli anni Novanta.

Il presidente dell’Iraq Jalal Talabani (AP Photo/Hadi Mizban, File)

Se comune a entrambi è una storia di lotte per la causa kurda, e l’ambizione dell’indipendenza da Baghdad, a distinguere oggi i due partiti è anche un diverso orientamento geopolitico: se il Pdk di Barzani è particolarmente vicino alla Turchia, prima sostenitrice del Kurdistan iracheno, l’Udk guarda invece più a Oriente, all’Iran. Due potenze regionali che hanno un’influenza enorme sulla vita politica ed economica del Kurdistan iracheno. E così, per un amaro paradosso, Erbil finisce per essere legata a doppio filo ad Ankara, ovvero con il nemico più acerrimo dei kurdi turchi e siriani. Un legame, questo, che produce una grave frattura all’interno del mondo kurdo. A tal proposito, non va trascurata infine la presenza politica e militare del Pkk, il «Partito kurdo dei lavoratori» di Ocalan, per quanto i suoi supporter vengano tenuti ai margini dai vertici politici ed economici di Erbil. Una presenza che ha prodotto, anche di recente, frizioni e persino scontri aperti con gli altri partiti kurdi.

Si. Zo.


Terra?adorata

Ricordiamo una poesia del poeta kurdo Hemin Mukriyani (1921-1986), uno degli eroi della breve esperienza della Repubblica di Mahabad, stroncata nel sangue:

«Terra adorata, mia terra,
amore che ho perduto
se tu fossi remota
in un cielo inaccessibile
o su una vetta ai limiti del mondo
saprei correre da te
anche con scarpe di ferro.
Ma ti separa da me un tratto sottile.
L’invasore lo chiama confine».

Dal volume «Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo», a cura di Laura Schrader (Newton, 1993).



I domenicani Garzoni e Campanile

I primissimi studi europei sulla lingua e la cultura dei kurdi sono opera di due missionari italiani, veri e propri pionieri in questo campo: i padri domenicani Maurizio Garzoni (1734-1804) e Giuseppe Campanile (1762-1835). Il primo raggiunge Mosul nel 1762, per poi stabilirsi nella vicina Amadiya, città ieri come oggi a maggioranza kurda. Qui studia e raccoglie materiali per la sua opera, la «Grammatica e vocabolario della lingua kurda», la prima in assoluto nel suo genere, pubblicata a Roma nel 1787. Pochi decenni più tardi toccherà invece al suo successore, Giuseppe Campanile, eletto nel 1800 Prefetto apostolico nella Mesopotamia e il Kurdistan, un altro primato: quello di aver pubblicato, con la sua «Storia della Regione del Kurdistan» pubblicata a Napoli nel 1818, il primo resoconto organico su questa parte del mondo. Un lavoro ulteriormente arricchito dalle esperienze personali dell’autore. Entrambe le opere, al di là del primato temporale, rappresentano ancora oggi fonti preziose ed uniche nel ricostruire la storia, la lingua e la cultura dei kurdi nel loro tempo. A un missionario di Basilea, Gottlieb Christian Hörnle (1804-82), spetterà invece la prima versione biblica in questa lingua, con la traduzione del Vangelo di Giovanni nel dialetto kurdo di Mokri.

Si.Zo.


Rabban Ormisda

«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo». Con queste parole il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako, ha lanciato ad aprile la Marcia Interreligiosa della Pace, che ha coinvolto nella settimana santa pellegrini di varie nazionalità, oltre a molti abitanti della Piana di Ninive appartenenti alle diverse religioni. Punto di arrivo di questa marcia, luogo per nulla casuale, quello che è forse il luogo più suggestivo dell’intero Kurdistan iracheno: il monastero di Rabban Ormisda, situato nei pressi del villaggio cristiano di Alqosh.

Fondato nel VII secolo, porta il nome del monaco che lo fondò: Rabban Ormisda. Si tratta di un capolavoro nell’interazione fra architettura e paesaggio. Scavato nella roccia sulla parete di un monte affacciata sulla Piana di Ninive, il monastero è un angolo di tranquillità e pace in una terra che continua ad essere segnata dalla guerra. Da qui si può vedere l’orizzonte per chilometri, in un paesaggio mozzafiato, il tutto con una doppia funzione: difensiva ed estetica. Per alcuni secoli, fu sede dei patriarchi nestoriani, a testimonianza dell’importanza rivestita. Più volte distrutto e ricostruito, l’ultima volta a metà ottocento con il supporto del Vaticano, questo monastero e il vicino villaggio rappresentano un simbolo di pace e convivenza, dato che per secoli furono sede di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per ebrei e musulmani.

Si.Zo.


Infodossier

Autore e curatore di questo dossier:

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016), Armenia (ottobre 2016) e il dossier sugli Yazidi (marzo 2017).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Cari Missionari


Mama Ufariji

Bambini dell’Ufariji

Era il lontano agosto del 1979 quando per la prima volta volai in Kenya. Non era il classico viaggio turistico, era un viaggio diverso, speciale, organizzato per i missionari da Alda Barone che, facendoti visitare il Kenya, ti faceva conoscere la realtà delle missioni della Consolata, era insomma il viaggio che da anni sognavo di fare. L’itinerario della prima settimana prevedeva la visita di diverse missioni ed è così che, per la prima volta, ho avuto l’opportunità di incontrare e conoscere i missionari con i quali sono tutt’ora in contatto. Padre Adolfo De Col era a Kangeta (nel Meru) all’epoca e padre Giuseppe Quattrocchio era a Westland (Nairobi) a gestire il suo negozio con tanti oggetti che tu acquistavi per portarti a casa un pezzo di Kenya (ora sono tutti e due in casa madre a Torino, sempre arzilli nonostante gli anni si facciano sentire, ndr). A Kangeta ho tenuto a battesimo una bellissima bambina, Cristina, che ho potuto seguire per anni.

A quella prima esperienza ne seguì una nel 1982 sempre in agosto quando, con mio marito Gianni, siamo ritornati in Kenya per trascorrere alcune settimane nella missione di Kangeta. Viaggio indimenticabile anche perché eravamo a bordo del primo aereo che arrivava dopo il colpo di stato. Ma questa è un’altra storia. Il periodo a Kangeta è stato incredibilmente importante perché ha consolidato il mio rapporto con la congregazione che non ho più lasciato.

Sono poi trascorsi moltissimi anni, perché nel frattempo sono diventata mamma ed ho aspettato che mio figlio crescesse per poter ritornare con lui e far conoscere anche a lui quel mondo al quale sentivo di far parte. Così nel luglio 2000 siamo ritornati tutti e tre insieme. Il quarto viaggio risale al giugno del 2006 sempre per la durata di qualche settimana passando da una missione all’altra per reincontrare gli amici missionari e consolidare la nostra amicizia. Sono ritornata poi nel luglio del 2009 portando un’amica.

Bambini dell’Ufariji con Liliana Valle

Quando decisi di smettere di lavorare per poter finalmente realizzare il sogno che avevo nel cassetto per quasi 40 anni, e cioè di trascorrere un periodo più lungo in missione, ne ho parlato con un amico missionario che mi fece conoscere la Familia ya Ufariji (a Kahawa West, Nairobi) che visitai nell’aprile 2010. Qui vengono ospitati bambini che vengono trovati a vagabondare nelle strade, alcuni sono orfani, alcuni hanno famiglia ma la realtà nella quale vivono è talmente difficile che i genitori, magari anche alcolizzati, non sono in grado di provvedere loro.

Così ebbe inizio la più bella «avventura» della mia vita. Era il gennaio 2011. Trascorsi ben tre mesi con i «miei» ragazzi a Kahawa West. Certo non è stato così semplice all’inizio, ho dovuto farmi accettare dai ragazzi, con i più piccoli naturalmente è stato più facile, ma con i più grandi c’è voluto un po’ di tempo. Alla fine ce l’ho fatta, ed è stato veramente gratificante. Con i missionari e lo staff di Familia invece non c’è stato alcun problema, sono stata accettata da tutti con affetto e mi hanno fatto subito sentire parte della famiglia.

Da parte mia c’è sempre stata la massima disponibilità per aiutare in molteplici attività: cucire, lavare, cucinare, seguire i ragazzi nei compiti a casa, metterli a letto alla sera, ma soprattutto cercare di trasmettere loro tutto l’amore di cui ero capace e di cui avevano tanto bisogno. Insomma ero diventata «mamma Ufariji» per tutti.

Sono così ritornata l’anno successivo e quello dopo ancora. E così quest’anno è stato il mio settimo anno da keniana, perché ormai mi sento di esserlo al cinquanta per cento. I miei ragazzi sono cresciuti, i grandi sono usciti, perché a diciotto anni per legge si deve uscire dalla Familia; qualcuno è già papà, molti hanno trovato un lavoro, alcuni hanno finito gli studi universitari, altri stanno ancora studiando, pochissimi hanno scelto una strada sbagliata. Insomma, come in tutte le famiglie, ci può sempre essere una pecora nera. Ma il lavoro che hanno fatto negli anni i missionari è fantastico: hanno cresciuto i bambini con amore, li hanno fatti diventare uomini e hanno fatto il possibile per prepararli alla vita che dovevano affrontare. Negli anni si sono aggiunti altri piccoli che hanno arricchito la famiglia ed hanno contribuito alla sua continuità come realtà molto importante per la loro crescita.

Certo che di soddisfazioni ne ho avute ed in abbondanza. Ho tanti episodi che ricordo con piacere che mi fanno capire di essere stata utile ed il mio lavoro necessario. Mi sopravvaluto? Spero di no, gli abbracci dei ragazzi quando mi accolgono al mio arrivo, i contatti che continuo ad avere con i più grandi anche se sono già usciti, il rapporto bellissimo ed affettuoso con i missionari e lo staff mi fa dire che ho scelto e seguito la strada giusta, che spero di poter proseguire per molti anni ancora, fino a quando il buon Dio continuerà a regalarmi una buona salute.

Liviana Valle
o, meglio, mamma Ufariji, 17/05/2017

Complimenti

Complimenti, padre Gigi, per «Interrogativi» (MC 4/2017), così puntuale, limpido, e ricco di indicazioni e di suggerimenti. E soprattutto di «chiamate a correo» (richiamo alla corresponsabilità, ndr) quanto mai opportune e necessarie. Cordialmente.

Ferdinando Albertazzi
18/05/2017

Grazie dei complimenti. Sono un incoraggiamento a fare ancora meglio. Ci proviamo con l’aiuto di Dio e mettendoci il cuore.


Capitolo generale

Spett.le Direttore Missioni Consolata,
ho dato una scorsa alla vostra rivista di maggio, notando che sul Capitolo in corso avete dedicato solo l’editoriale e un trafiletto a pagina 7. Data l’importanza del Capitolo per l’istituto, mi sarei aspettato maggiore spazio ad esso dedicato, almeno il documento redatto dal padre generale di preparazione e programmazione, debitamente commentato.

Don Pietro C.,
vostro lettore, 12/05/2017

Essendo io stesso membro del capitolo generale, mi sono trovato un po’ «inguaiato» da un accumularsi di impegni da portare a termine prima dell’inizio del capitolo stesso il 22 maggio, senza avere il tempo materiale per fare quello che lei ha suggerito e che anch’io avevo pensato: una presentazione articolata dei punti forti del dibattito capitolare, in una maniera comprensibile a tutti. Ho optato per l’editoriale nella speranza di riuscire poi, durante e, soprattutto, dopo il capitolo, a condividere con i lettori e gli amici il cammino che sarà fatto. Grazie per il suo accompagnamento nella preghiera, affinché, come ha scritto al nostro padre generale «la Consolata, quale Madre del suo istituto e Consigliera mirabile, vi consoli aiutandovi a realizzare al meglio i lavori di preparazione, di esecuzione e attuazione del poderoso impegno capitolare».

Le sto scrivendo (a inizio giugno) in uno dei pochi momenti liberi del capitolo, al quale sono stato, tra l’altro, l’ultimo ad arrivare per poter partecipare il 21 maggio alle cresime dei ragazzi della parrocchia in cui sono viceparroco a Torino.

Siamo riuniti a Roma in 45 missionari: 23 africani, 8 latinoamericani e 14 europei. Rappresentiamo missionari di 23 nazionalità diverse che lavorano in 26 paesi in quattro continenti (non abbiamo nessuno in Oceania). Nel cuore portiamo la passione per la Missione, che è opera di Dio e non nostra, e che vorremmo servire con dedizione e «professionalità». Siamo coscienti che per fare questo servizio nella Chiesa non basta la buona volontà e non servono operazioni cosmetiche, ma ci viene richiesta una vera conversione, a cominciare da noi stessi.

Quasi in contemporanea con noi, anche le nostre sorelle, le missionarie della Consolata, dal primo maggio, stanno facendo il loro capitolo, occasione di grazia per rilanciare con coraggio il loro servizio alla Missione come impegno a vita che le porta a uscire dai propri paesi di origine per l’annuncio del Vangelo ai non cristiani. Hanno già rieletto la loro superiora generale, confermando suor Simona Brambilla per un altro sessennio ed eletto un nuovo consiglio. A loro va la nostra vicinanza nella preghiera, nella condivisione della stessa vocazione, dello stesso carisma e degli stessi fondatori, il beato Giuseppe Allamano e la Vergine Consolata.

Mentre le scrivo siamo a metà del capitolo. Quando questa rivista sarà nelle sue mani avremo già concluso e saranno stati eletti (o rieletti) i membri della nuova direzione generale. Sul numero di agosto-settembre della rivista spero proprio di raccontarvi qualcosa dal di dentro di questo evento così importante per noi.

Eucarestia con il Card Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano

 

Mancanza di serietà?

Buongiorno,sono scandalizzato da due testi apparsi sull’ultimo numero della vostra rivista (MC maggio 2017): a pagina 8 si parla dei Dalit, ma non si dice cosa siano. Sono persone costrette a togliere dalle latrine delle altre caste le feci umane, spesso a mani nude, ecc. (v. la vostra rivista del marzo 2016). Alla pagina successiva, sotto il titolo che sembra sarcastico di «Libertà religiosa», si parla delle attività religiose in Cina, senza dire le cose essenziali: innanzitutto la libertà religiosa lì non esiste affatto, nemmeno sulla carta. Anzi, i veri credenti sono puniti coi lavori forzati nei laogai, con le torture e la pena di morte. Perciò vi chiederei perlomeno, nel prossimo numero, di scusarvi per la disinformazione, e soprattutto di trattare quei temi, magari succintamente, ma con la dovuta serietà. Cordiali saluti, in Cristo. Nel frattempo sospendo ogni mio finanziamento alla vostra rivista, nella speranza di poterlo riattivare.

dott. Carlo C.
15/05/2017

Caro dott. Carlo,
saluti a lei. In verità la sua email mi ha sorpreso. Ammetto che il semplice titolo «Libertà religiosa» non è forse esaustivo, ma certo non è sarcastico. I contenuti della breve notizia sono molto chiari e non lasciano dubbi. Quanto ai Dalit, non sono sconosciuti ai lettori di MC; lei stesso ci ricorda l’ultima volta che ne abbiamo parlato in un articolo ben documentato sulla loro condizione. Lo stile delle notizie in quella rubrica è molto scarno ma non superficiale, e i titoli devono essere brevi.

Onestamente non pensiamo di essere stati ingiusti verso i Dalit né superficiali su un tema grave come quello della libertà religiosa cui dedichiamo da anni ampio spazio, né scorretti con i nostri lettori che proprio dalla nostra pubblicazione ricavano informazioni spesso ignorate dagli altri media. Certo, non siamo esenti da errori, ma le assicuriamo che cerchiamo di fare il nostro servizio di informazione con amore alla verità e profondo rispetto per le persone di cui scriviamo e per i nostri lettori.

Sorpresa e tristezza

Con sorpresa ho visto la pubblicità sul quotidiano «la Stampa» di martedì 16 maggio u.s. con la richiesta di sostenere le Vostre opere in varie parti del mondo. Purtroppo i brutti articoli apparsi su «la Repubblica» riguardanti le lotte intestine nel vostro istituto (Roma contro Torino) ed il mormorio negativo tra i cittadini non lasciano immaginare pensieri benevoli nei vostri confronti da sempre considerato dai piemontesi ente con un alto impegno verso i più deboli. Chiedo scusa ma è lo sfogo di una persona che da generazioni ha sentito parlare delle vostre attività meritorie e ne ammirava l’operato. Con ossequio.

Fiorella Comoglio
22/05/2017

Gentile Sig.ra Fiorella,
ho ricevuto la sua email piena di tristezza alle notizie apparse su «la Repubblica». Quegli articoli hanno fatto male anche a noi. Le garantisco che molti missionari hanno pianto di fronte a quelle notizie che, pur avendo un fondo di verità, vengono presentate in modo da infangare tutto l’istituto. Le posso comunque assicurare che non c’è alcuna lotta intestina tra i missionari di Roma e quelli di Torino, solo un faticoso cammino per gestire con trasparenza, onestà e responsabilità, un bene sul quale l’istituto ha investito allo scopo di sostenere le sue opere in missione e i suoi missionari anziani.

Gli errori (probabilmente anche in buona fede) di alcuni missionari, non intaccano l’impegno generoso per i più deboli di centinaia di missionari della Consolata. Come direttore della rivista e impegnato nella comunicazione da quaranta anni, e come missionario che ha passato 21 anni in Kenya, conosco bene il lavoro dei miei confratelli e so come la maggior parte di loro abbia veramente donato tutta la vita e la stia dando ogni giorno per testimoniare il Vangelo ed essere con i poveri e per i poveri. Vivendo ora in Casa madre a Torino, le assicuro che è per me una sofferenza grande vedere alcuni di loro tornare dalle missioni consumati, con una sola valigia (perché hanno dato tutto e lasciato poi tutto laggiù) e malati. Sono davvero testimoni viventi di una dedizione che nessuno scandalo può cancellare.

Vorrei, tramite la rivista e anche la piccola campagna che abbiamo fatto per il 5×1000, continuare a dar voce all’«erba che cresce in silenzio», come i molti miei confratelli che continuano a dare la loro vita per servire la Missione di Dio, senza farmi spaventare dal fragore dell’«albero che cade».

 




Brasile: Dove un indio

non vale una vacca /2


Nel Brasile degli scandali e dei politici corrotti, l’oligarchia dei proprietari terrieri ha assunto il potere e sta smantellando l’apparato giuridico che aveva riconosciuto i diritti dei popoli indigeni, a iniziare dal diritto alla terra. La vicenda che vede coinvolti i Guarani Kaiowá del Mato Grosso del Sud è soltanto uno dei tanti esempi possibili. Ne abbiamo parlato con il cacique Ládio Veron (Ava Taperendi), il cui padre venne assassinato nel 2003 dai sicari dei latifondisti.

Tra il 1915 e il 1928 nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud furono create 8 riserve indigene per un totale di 17.975 ettari. La maggiore (e più problematica) tra queste riserve è quella di Dourados, sorta nel 1917. Dourados è vasta circa 3.600 ettari, oggi occupati da una popolazione di due etnie (Guarani e Terena) per un totale di oltre 15.000 abitanti (1).

I numeri sono importanti, ma detti così non sono sufficienti per riuscire a comprendere la situazione. È utile allora fare una piccola e facile ricerca sul web. Cerchiamo, per esempio, le fazendas (aziende agricole) in vendita nel Mato Grosso del Sud, esteso quanto la Germania ma con nemmeno tre milioni di abitanti. Ebbene, su YouTube (2) ne possiamo trovare varie. Prendiamone tre a caso. Le loro estensioni sono di 22.410 ettari, di 28.000 ettari e di 41.000 ettari. Si possono vedere le grandi case dei proprietari (costruite nei pressi dei pochi alberi rimasti), i recinti con le vacche e i cavalli, gli immensi pascoli o le estensioni con le monoculture, le strade sterrate in terra rossa, i corsi d’acqua o i laghetti. La terza fazenda viene ceduta con tutta la mandria di 22.000 bovini.

Istruttivo è leggere i commenti di chi ha visto i video di queste fazendas in vendita. Uno dei visitatori virtuali chiede: «È con indigeni o senza? I senzaterra sono tutti una piaga» («é com índios o sem índios os sem terra todos são uma praga»).

Esproprio bianco

Lungi dal voler tentare un’analisi critica del diritto di proprietà, vogliamo mettere in evidenza alcuni fatti concreti. «A partire dal 1920, e più intensamente a partire dal 1960, ebbe inizio una colonizzazione sistematica ed effettiva dei territori guarani, innescando un processo di espropriazione metodica delle loro terre da parte dei coloni bianchi» (pib.socioambiental.org). Insomma, i proprietari originari delle terre erano gli indigeni e lo erano da secoli. Con la creazione delle riserve indigene da parte del «Servizio di protezione dell’indigeno» (Spi) nel Mato Grosso del Sud si diffuse il convincimento che «le fazendas occupate attualmente dai coloni e rivendicate dagli indigeni non siano mai appartenute ad essi, poiché l’idea dominante è che le terre degli indigeni siano le riserve» (XXII Simpósio nacional de história, 2003).

In un Brasile travolto dagli scandali, il Mato Grosso del Sud è un esempio lampante del progetto di criminalizzazione dei popoli indigeni e dei loro alleati messo in moto negli ultimi anni da latifondisti, potere politico dominante e molti media.

Oggi nel Mato Grosso del Sud, oltre alle riserve, ci sono 96 terre indigene (fonte Cimi, agosto 2016), quasi tutte teoriche. Nella realtà gli indigeni vivono confinati nei ghetti delle riserve o in fazzoletti di terra, se non addirittura ai margini delle strade. Stanchi di attendere di vedere attuati i propri diritti, molti gruppi hanno preso l’iniziativa da soli con la cosiddetta «retomada», il recupero, la riconquista delle loro terre.

Di fronte alla resistenza e alle iniziative indigene sono aumentati la violenza e l’odio nei loro confronti. Sono decine gli attacchi compiuti da squadre paramilitari al soldo dei latifondisti (con la complicità delle autorità). Secondo i dati del Consiglio indigenista missionario (Cimi), nel Mato Grosso del Sud sono stati 36 gli indigeni assassinati nel 2015 e 426 nel periodo tra il 2003 e il 2015. E dove non è arrivata la violenza diretta sono arrivati i suicidi: 45 nel solo 2015 e ben 752 tra il 2000 e il 2015.

L’offensiva anti-indigena del governo Temer

Il Consiglio indigenista missionario ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi lottare per i diritti indigeni e contro il sistema che li nega. L’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud ha istituito una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão Parlamentar de Inquérito, Cpi) per mettere sotto accusa il Cimi, inclusi i suoi primi rappresentanti, il presidente dom Roque Paloschi e il segretario esecutivo Cleber César Buzatto.

Nelle 222 pagine della relazione finale (Relatório final da Cpi do Cimi), presentata nel maggio 2016, le parole sono forti: «Causa indignazione, perplessità e repulsione il fatto che un’entità legata alla Chiesa cattolica abbia causato tanti danni» (pag. 194); ci sono indizi fortissimi sulla «partecipazione del Cimi nell’incitamento alla violenza e nell’invasione di proprietà private» da parte degli indigeni (pag. 205).

Latifondisti e politici non si sono fermati qui, ma hanno replicato la strategia alla Camera dei deputati federale creando una Commissione d’inchiesta sulla Funai (Fundação Nacional do Índio) e sull’Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária). Con essa si chiede l’incriminazione di decine di leader indigeni, antropologi e procuratori della Repubblica (questi ultimi successivamente esclusi) che difendono la demarcazione delle terre indigene.

L’offensiva anti-indigena del governo (golpista e corrotto) di Michel Temer pare inarrestabile. Lo scorso 9 maggio a capo della Funai è stato nominato, come ai tempi della dittatura, un generale dell’esercito, Franklimberg Ribeiro de Freitas. La Federazione dei popoli indigeni del Brasile (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil, Apib) ha giustamente parlato di un’inaccettabile militarizzazione dell’organo in vista dell’espansione delle frontiere agricole e dei progetti imprenditoriali sulle terre indigene. Queste ultime rischiano di essere ridimensionate o spazzate via se dovesse essere approvata la Proposta di emendamento costituzionale n. 215 (Proposta de Emenda à Constituição, Pec 215). Essa prevede di trasferire al Congresso nazionale la prerogativa di demarcare le terre indigene, trasformando un diritto originario in un mero oggetto di negoziazione.

Ládio Veron e la «retomada de Takuara»

Ládio Veron non vuole sorridere davanti alla fotocamera. «Non c’è niente da ridere» dice serio. Lo comprendiamo.

Cinquant’anni, cinque figli ed otto nipoti, maestro di scuola, Ládio Veron (Ava Taperendi, in lingua indigena) è cacique della comunità Guaranì Kaiowá di Takuara. La terra indigena Takuara, nel municipio di Juti, ha una superficie di 9.700 ettari. Essa coincide con alcune aziende agricole, in particolare con la fazenda Brasilia do Sul, dedita soprattutto alla monocoltura della soia (foriera di pesanti conseguenze sull’ambiente).

Tra l’11 e il 13 gennaio del 2003 il fazendeiro Jacinto Honório da Silva e suoi dipendenti assalirono l’accampamento indigeno. Alla fine arrivò anche un gruppo di sicari (pistoleiros) che attaccarono la comunità. Nella lotta che ne seguì rimase coinvolto il cacique Marcos Veron di 72 anni, che morì in ospedale per le ferite subite. Marcos era il padre di Ládio, che nella lotta per il diritto alla terra ha perso anche fratelli e parenti. «Perché dobbiamo morire per una terra che è nostra?», chiede.

Se i primi anni erano occupazioni (retomadas) di una terra reclamata, oggi Takuara ha superato il lungo e complesso processo di riconoscimento giuridico ed è a tutti gli effetti una terra di proprietà indigena. Eppure non è stata ancora restituita. Anzi, i giudici del Mato Grosso del Sud emettono continuamente ordini di sgombero. «La Funai – spiega Ládio – non ha la forza per procedere con la demarcazione delle nostre terre. Chiediamo un cambio. Chiediamo di avere in essa alcuni nostri rappresentanti. Abbiamo indigeni preparati per questo».

«A Takuara siamo circa 70 famiglie che occupano non più di 90 ettari di territorio», assicura Ládio. «Eppure dobbiamo sopportare che centinaia di camion carichi di soia passino per la nostra aldeia».

Una lotta, quella dei popoli indigeni, disperata e disperante che genera rabbia e impotenza. Ci affidiamo alle parole di un editoriale di Porantim, rivista del Cimi: «La terra è un bene comune, ereditato da tutti gli esseri che su di essa abitano. Il suo valore è incalcolabile e, proprio per questo, essa non dovrebbe essere ridotta a una merce ed essere commercializzata come un qualsiasi altro prodotto» (3).

Proprietà privata: sempre legale e legittima?

Il sentimento prevalente verso i popoli indigeni è ricordato dal missionario Egon Heck: «Rivelatrice è l’affermazione dell’ex governatore [del Mato Grosso del Sud] André Puccinelli (2007-2014): “È un crimine dare un palmo di terra produttiva agli indigeni”».

Sul sito della potente Federazione dei produttori agricoli e degli allevatori dello stato (Federação da Agricultura e Pecuária do Estado de Mato Grosso do Sul, Famasul), sospettata di armare milizie paramilitari, di indigeni non si parla se non per ricordare uno sgombero di terre da loro occupate (4).

È opinione dominante che l’agrobusiness (agronegócio) e lo sviluppo non possano fermarsi davanti alle rivendicazioni territoriali dei popoli indigeni e, men che meno, davanti alla cosmovisione indigena, considerata un insieme di concetti astratti se non inverosimili. Non importa se i diritti sono sanciti dalla Costituzione del 1988 e se l’agrobusiness arricchisce un’esigua minoranza e distrugge un bene comune quale l’ambiente naturale.

Nella presentazione dell’annuale rapporto «Violenza contro i popoli indigeni in Brasile» (Violência contra os povos indígenas no Brasil) (5), dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, ha scritto: «Denunciamo il potere giudiziario che, nei suoi giudizi, dà la priorità alla difesa della proprietà – non sempre legale, non sempre legittima – a discapito dei diritti originari dei popoli indigeni».

Paolo Moiola

Note al testo

(1) I dati sulle terre indigene sono visibili su questo sito: https://terrasindigenas.org.br.
(2) La ricerca può essere fatta con questa richiesta: «fazendas para comprar no estado de Mato Grosso do Sul».
(3) Editoriale di Porantim, gennaio-febbraio 2013, pag. 2.
(4) Testuale: «a reintegração de posse de quatro fazendas ocupadas por índios guarani-kaiowá». Il sito della Federazione: famasul.com.br.
(5) Conselho Indigenista Missionário – Cimi, Violência contra os povos indígenas no Brasil – Datos de 2015, pag. 11; il rapporto è scaricabile dal sito www.cimi.org.br.

 

 


01- Breve scheda storica

La terra indigena sono le riserve

È questo l’obiettivo dei governi brasiliani. 

  • 1610 – In una vasta regione comprendente Paraguay e porzioni di Bolivia, Brasile, Argentina e Uruguay, i gesuiti fondano le prime «riduzioni» (reducciones de indios) dove vengono accolte le locali popolazioni indigene.
  • 1759 – 1767 – I gesuiti vengono espulsi prima dalle colonie portoghesi e poi da quelle spagnole; nel 1773 il loro ordine sarà soppresso da papa Clemente XIV; i Guaranì delle riduzioni vengono uccisi o ridotti in schiavitù.
  • 1915 – 1928 – Il «Servizio di protezione degli indigeni» (Serviço de Proteção aos Índios, Spi) costituisce in Mato Grosso (nel 1977 divenuto Mato Grosso del Sud) 8 riserve indigene.
  • 1920 – 1960 – A partire dal 1920 e ancora con più intensità dal 1960 inizia una sistematica colonizzazione dei territori guaranì da parte di coloni bianchi che si installano sulle loro terre distruggendo la foresta per far posto all’allevamento e all’agricoltura estensiva.
  • 1946 – 1988 – Nel suo documento conclusivo (del 2014), la «Commissione nazionale della verità» conferma le gravi violazioni dei diritti dei popoli indigeni perpetrate nel periodo esaminato.
  • 1967 – Durante la dittatura militare, lo Spi viene sostituito dalla «Fondazione nazionale dell’indio» (Fundação Nacional do Índio, Funai) che non cambierà le modalità d’azione.
  • 1988 – Il Brasile adotta una nuova Costituzione nella quale vengono riconosciuti i diritti dei popoli indigeni.
  • 2016, maggio – Viene resa pubblica la relazione finale della «Commissione parlamentare d’inchiesta» (Cpi) del Mato Grosso del Sud sull’operato del Consiglio indigenista missionario (Cimi). È un durissimo attacco all’operato del Cimi. La magistratura archivierà la relazione della Cpi nell’aprile del 2017.
  • 2017, 9 maggio – Il governo nomina alla presidenza della Funai un generale dell’esercito Franklimberg Ribeiro de Freitas.
  • 2017, 17 maggio – A Brasilia viene approvata la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) sulla Funai e Incra. Il relatore è il deputato Nilson Leitão, presidente del Fronte parlamentare degli imprenditori agricoli e degli allevatori (Frente parlamentar da agropecuária).
  • 2017, 24 maggio – Impopolare, accusato di corruzione e abbandonato anche da Rede Globo, il presidente Temer rischia di essere esautorato.

(Pa.Mo.)

 


02 – Breve scheda etnografica

Le popolazioni dei Guaranì

Sono distribuite in cinque stati dell’America Meridionale. 

  • Famiglia linguistica: tupi-guarani;
  • Dove sono: in Argentina (provincia di Misiones), in Bolivia (Chaco boliviano), in Uruguay, in Paraguay e in Brasile (Mato Grosso del Sud);
  • Quanti sono: in totale circa 90.000 (ma le cifre sono spesso incerte e variabili a seconda delle fonti);
  • Sottogruppi principali: Kaiowá (45.000, localizzati soprattutto nel Mato Grosso del Sud), Mbya (30.000, la maggior parte nel Paraguay) e Ñandeva (13.000);
  • Organizzazione: i Guaranì Kaiowá sono organizzati in comunità macrofamiliari (2-5 famiglie estese), riunite in un luogo denominato «tekoha», inteso come unico luogo – di terra, foresta, acqua, piante, animali – dove si può realizzare la propria condizione («teko») di Guaranì.
  • Film sui Guarani: «Mission», film del 1986, ambientato nel 1750, nella foresta sopra le Cascate dell’Iguazú al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay dove i missionari gesuiti avevano aperto alcune missioni (note come «riduzioni») tra gli indios guaranì; «La terra degli uomini rossi», film del 2008, ambientato in Mato Grosso del Sud e riguardante la lotta tra i Guaranì Kaiowá e i fazendeiros (latifondisti).

(Pa.Mo.)


03 – Breve scheda del Mato Grosso del Sud

Latifondisti al potere

In questo stato brasiliano comandano i latifondisti. A?Brasilia anche.

  • Superficie del Mato Grosso del Sud (MS): 357 mila chilometri quadrati (superficie Portogallo: 93 mila kmq);
  • Popolazione: 2,6 milioni (fonte Ibge);
  • Economia: allevamento bovino e agricoltura (soia, canna da zucchero, cotone, eucalipto);
  • Bovini in MS: 21 milioni e settecentomila (9 vacche per abitante); sono 215,2 milioni in Brasile (fonte Ibge, settembre 2016);
  • Popolazioni indigene in MS: 77 mila, di cui 43 mila Guaranì (fonte Ibge, 2010), seguiti dai Terena e – con poche centinaia di individui – dai Kadiwéu, dai Guató e dagli Ofaié ;
  • Riserve indigene in MS: 8 (istituite dallo scomparso Spi);
  • Terre indigene in MS: 96 (fonte Cimi, agosto 2016);
  • Indigeni assassinati in MS: 36 nel 2015 (fonte Cimi); 426 tra il 2003 e il 2015;
  • Indigeni suicidatisi in MS: 752 tra il 2000 e il 2015 (fonte Cimi);
  • Proprietari terrieri in MS: contro il Cimi (Consiglio indigenista missionario) con una Commissione parlamentare d’inchiesta (settembre 2015 – maggio 2016); accuse poi archiviate;
  • Proprietari terrieri a Brasilia: la «bancada ruralista», in alleanza con la «bancada evangelica», è schierata a favore dell’emendamento costituzionale – noto come «Pec 215» – che trasferirebbe dall’organo esecutivo a quello legislativo l’ultima parola sulle questioni relative alle terre indigene.

(Pa.Mo.)

 

ARCHIVIO MC

SU YOUTUBE

 




Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano