Un caro saluto dal Congo. Vi spero bene in buona salute e sereni! […] È solo la forza che ci viene dallo Spirito Santo che ci spinge ad annunciare la Buona Novella di Gesù sapendo superare le diverse difficoltà che incontriamo nel nostro essere missionari nel Congo.
Repubblica Democratica del Congo: un grande e ricco paese, gente molto accogliente, allegra, ricca di fede e di sacrifici che continua a credere in un futuro più giusto e fraterno anche se il domani appare ancora incerto e insicuro… Le famose elezioni che dovevano realizzarsi l’anno scorso, poi quest’anno, saranno ancora rimandate al 2018 sperando che questo non provochi altri disordini, saccheggi, rivolte… la nostra gente è stanca.
Qui a Neisu c’è calma ma nello stesso territorio della diocesi le cose non sono tranquille, soprattutto i ribelli ugandesi Lra (Lord Resistance Army di Josef Koni) continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, …in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?
Arrivato in Congo nel 1991, non mi ricordo un anno tranquillo di pace su tutto il territorio di questa nostra nazione. Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa… pensieri che a volte arrivano alla testa ma non al cuore e allora, malgrado tutto, si continua, rinnovando il mio sì al Signore, che amandomi mi ha chiamato a vivere qui. La missione, lo sappiamo, non è mia ma sua! Il Vangelo è magnifico!
Continuate a essere missionari là dove il Signore vi ha chiamato e con tutta la Chiesa, in particolare con i missionari e le missionarie che amate, stimate, aiutate e per loro pregate tanto.
Da parte mia vi assicuro la mia preghiera, il mio grazie, il mio affetto. Con la Madonna continuiamo ad annunciare Gesù suo Figlio e nostro Salvatore. Un abbraccio fraterno,
padre Rinaldo Do Neisu, 03/10/2017
Trovare Neisu su una cartina geografica è molto difficile. Se provate con Google Earth o Map, non cercate Neisu, ma «Egbita», che è il nome del posto ai tempi coloniali. Lì c’era una piccola stazione della ferrovia a scartamento ridotto che arrivava fino a Isiro. L’ospedale si trova nel punto di incontro tra la curva del tracciato ferroviario e la strada che viene da Est. È riconoscibile per il profilo della torre dell’acquedotto e il grande edificio quadrato. Sulla cartina osservate la devastazione della foresta causata dallo sfruttamento illegale del legname e dalle miniere di coltan e altri minerali strategici.
Ho visitato il posto nel 1983, tanti anni fa, quando ancora era vivo padre Oscar Goapper e a Neisu c’era solo un dispensario vicino alla chiesa in costruzione. Allora era tutta foresta fittissima. Oggi alla devastazione dell’ambiente corrisponde il dramma di un popolo che vive da tanti anni nella precarietà e nell’insicurezza. Sono molti nel mondo i missionari come padre Rinaldo che condividono la sofferenza del popolo affidato loro.
Preghiera e Messaggi
Caro Direttore,
sto leggendo un libro di Saverio Gaeta: «Il veggente». Parla di Bruno Cornacchiola, devo spiegarle chi è? No vero, lo sa chi è (*). Ha trascritto un messaggio della Madonna datato, non è ben specificato, sembra il 9 gennaio 1986. «Vi dico che è realmente così: la vostra situazione è drammatica, è deleteria per le anime! Seguite la Chiesa di mio Figlio, perché essa non perderà mai la forza della verità, della salvezza, anche se gli uomini cercano di demolirla e indebolirla della sua forza divina: non riusciranno, i caparbi!».
E ancora: «Figli, ascoltate la Chiesa, autorità visibile, e con umile ubbidienza servitela nella verità! Contro di essa, Satana non può far nulla, perché è divina, ma contro le anime che vivono in essa può molto: anzi, presenterà il male sotto la veste morale, religiosa, politica e sociale! Verranno colpite le famiglie, specialmente trascinandole nell’indifferentismo e nell’incredulità, oppure a una forma esagerata di pietà devozionale rasentante l’idolatria! Questo è il male dei tempi in cui voi vivete, figli miei cari al nostro Cuore! È il male dilagante di ogni male nel tempo passato riunito nel tempo presente sotto ogni forma! Voi avete la terribile responsabilità di scegliere: o Dio o il mondo con tutte le sue mire ingannatrici!».
Una frase che ho sottolineato (evidenziata in corsivo, ndr) mi ha colpito. Conosco fratelli e sorelle che organizzano gruppi di preghiera dove si recitano rosario, coroncina, invocazioni a san Michele, a san Giuseppe, a santa Rita e altri santi. Chi partecipa anche più volte al giorno alla santa messa, digiuna, fa adorazione anche notturna. Tutto questo sarebbe «idolatria»? Perché non sta in famiglia, critica sovente il papa per le sue battute, si lamenta dei suoi familiari che non capiscono l’urgenza del momento – la battaglia finale – o solo perché manca l’atto d’amore? «Gesù ti amo!». Cordialmente saluto.
Emanuela Rossetto 08/06/2017
Abbiamo passato la lettera a don Paolo Farinella, ecco qui la sua risposta.
Gentile Emanuela,
lei porta un «nome» che è la sintesi di tutto e anche la risposta alla sua lettera: «Emanuela – Immànuel/Dio-con-noi» non nel senso blasfemo di Hitler (**), ma nel senso che egli è «con – tra – fra – dentro – in mezzo a noi».
Una delle parole più forti del Vangelo è: «Non abbiate paura». San Giovanni ci garantisce che «Io ho vinto il mondo». Se abbiamo più fede nel maligno che può distruggere le anime piuttosto che in Dio, il quale «vuole che nulla vada perduto», penso che abbiamo perso già in partenza. Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni, la mia vita è presa, vissuta e consumata dalla Parola di Dio «sulla» quale cerco di stare fermo, ma vivente, immerso e abbandonato.
Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: «Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes» non è meno cattolico di chi afferma di credervi.
Io penso che il ricorso continuo alle apparizioni nasca dalla poca frequentazione che si ha con la Bibbia, la Parola che fu «dal principio». Non basta una vita per assaporarla. Perché perdere tempo dietro ad aspetti secondari, per altro comuni a tutte le religioni (fatto che dovrebbe fare riflettere), e sottrarlo così al «mangiare il rotolo» per gustarne la dolcezza? (cf Ez 1).
Sono molto occupato a cercare di credere in Gesù Cristo, Dio incarnato, che non mi resta proprio tempo per preoccuparmi di chi è questo o quello. Non ho la pretesa di insegnare nulla, esprimo solo una via, un’esperienza, fondata sulla Parola di Dio e sulla mia serietà che è garantita dal mio totale disinteresse, sotto qualsiasi aspetto.
Lei sa che la Chiesa del secolo I-II scelse i nostri quattro vangeli tra il centinaio di apocrifi, per una sola ragione: erano e sono gli unici nei quali non vi è abbondanza di soprannaturale, mentre gli apocrifi abbondano di apparizioni, miracoli, straordinario. Ecco il criterio: la sobrietà.
Avere paura che il demonio possa avere il sopravvento significa non avere fede in Cristo risorto. A noi non è dato salvare il mondo, ma testimoniare Dio, Padre d’amore, che ci ama e non ci abbandona mai. Il resto, tutto il resto, anche le apparizioni, sì, possono venire dal maligno. «Preoccupatevi prima del Regno di Dio, il resto verrà da sé come un regalo» (cfr. Mt 6,33). Un caro saluto.
Paolo Farinella, prete
(*)Bruno Cornacchiola (1913-2001) di Roma, dal 1947 avrebbe avuto delle rivelazioni dalla «Vergine della Rivelazione» presso le Tre Fontane. È in corso la causa della sua beatificazione.
(**)Gott mit uns(in italiano: Dio con noi) era in origine il motto dell’Ordine Teutonico. Dopo la caduta dello stato dei Cavalieri Teutonici, divenne il motto dei re di Prussia, fino a divenire motto degli Imperatori tedeschi (da Wikipedia) e quindi dei loro soldati. Era il motto inciso nelle fibbie delle cinture dei soldati tedeschi e quindi anche di quelli nazisti.
Grazie
Ciao padre Gigi,
grazie per la fotostoria del XIII capitolo generale, non solo per le foto (belle e con opportuna didascalia) ma per la chiara e succinta informazione su ogni continente con statistiche problemi e proposte. Il tutto presentato in un clima di serenità e speranza, notando la novità e la continuità nella vita del nostro istituto. Che il Signore ci aiuti a portare nella nostra vita personale e comunitaria le «convergenze importanti».
Molto bello l’articolo sull’Isola «bella» col parroco africano. Anche questo rileva le novità. Opportuno anche il dossier sulla Corea del Nord. Grazie.
padre Mario Barbero 03/10/2017
Ciao
Preg.mo direttore, ciao.
A proposito dell’editoriale che lei ha definito poco originale e che invece è un autentico capolavoro di ricerca su un termine quanto mai originale e sale che da sapore a tutte le minestre (cfr. MC 8/9, 2017 pag. 3). Compiacimenti non solo per l’editoriale ma per tutta la rivista, con ricchi articoli di informazione e cultura tra cui la foto storia dal XIII Capitolo Generale, tanto necessaria per essere informati sul cuore pulsante della Missione Consolata.
Ho avuto occasione di leggerlo con interesse e tempo a disposizione perché costretto per un incidente a stare in casa. Non tutti i mali vengono per nuocere, in questo caso per apprezzare la vostra rivista. Esorto i lettori frettolosi che, come me un tempo, si riducono a una scorsa veloce, ad approfondire per apprezzarla.
Don Pietro Cioffi 27/09/2017
Parchi e uomini
Cari missionari,
credo abbiano ragione gli amici di Survival International quando, nel dossier pubblicato nel n.8/9 di MC, condannano un certo ambientalismo ipocrita e invitano a riflettere sul fatto che, in non pochi casi, proprio coloro che hanno ricevuto il compito di vigilare sull’integrità degli ecosistemi sono gli autori/complici degli abusi più gravi.
La denuncia di Survival mi ha fatto tornare in mente un libro letto una ventina d’anni fa, intitolato «Fight for the tiger» edito da Headline. Il suo autore, l’inglese Michael Day, raccontava le settimane trascorse nel Parco Nazionale di Khao Sok, nel Sud della Thailandia, e denunciava senza peli sulla lingua la cattiva gestione di quel parco, accusando i pezzi grossi, locali e nazionali, di essere responsabili della decimazione delle tigri nell’area, ben più di quanto fosse la gente del posto (***).
Ha ragione chi dice che gli uomini vengono prima dei parchi e che l’ambientalismo non può diventare il giustiziere delle popolazioni indigene. Ha ragione però anche chi ricorda che le accuse e le denunce devono essere il più possibile precise e circostanziate. Non si può far di tutta l’erba un fascio.
A me la dizione «Parchi Nazionali» non dispiace affatto. Dipendesse da me, ne istituirei anche degli altri, specialmente nei paesi dove vivono minoranze tribali, inserendoli nel programma Unesco «L’Uomo e la Biosfera» (****).
A fare la differenza non sono le etichette giuste ma le persone giuste. Tutti noi siamo chiamati a diventare giusti, non solo chi indossa una divisa o chi ha un certo titolo di studio e ha ricevuto una certa nomina.
Se un parco, o riserva, peggiora la sua condizione, è per colpa dei crimini di pochi, ma anche dell’indifferenza di molti. Se invece un parco migliora la sua condizione e anche le minoranze etniche che vivono all’interno di quel parco stanno meglio, è perché quell’indifferenza è stata combattuta, rintuzzata, superata, e anche coloro che prima abusavano, si sono ravveduti e hanno iniziato un nuovo percorso, una nuova carriera, una nuova vita. Una vita più gratificante, perché coltivare, custodire e conservare, anche sotto il profilo estetico, è meglio che abusare, depredare e distruggere. Cordialmente
Carlo Erminio Pace 08/09/2017
(***) Michael Day, Fight For The Tiger: One Man’s Fight To Save The Wild Tiger From Extinction, Trafalgar Square Publishing, Londra 1995.
(****) «Il Programma sull’uomo e la biosfera (o Programma Mab per l’uomo e la biosfera) è uno dei cinque programmi dell’Unesco nel quadro delle scienze esatte e naturali. […] Questo programma, iniziato nel 1968 e formalmente istituito nel 1971, mira a creare una base scientifica per migliorare i rapporti uomo-natura a livello globale» (Wikipedia).
«E prima di concludere un pensiero vorrei rivolgere alle sfide della Chiesa in Amazzonia, regione della quale siete giustamente orgogliosi, perché è parte essenziale della meravigliosa biodiversità di questo paese. L’Amazzonia è per tutti noi una prova decisiva per verificare se la nostra società, quasi sempre ridotta al materialismo e al pragmatismo, è in grado di custodire ciò che ha ricevuto gratuitamente, non per saccheggiarlo, ma per renderlo fecondo. Penso soprattutto all’arcana sapienza dei popoli indigeni dell’Amazzonia e mi domando se siamo ancora capaci di imparare da essi la sacralità della vita, il rispetto per la natura, la consapevolezza che la ragione strumentale non è sufficiente per colmare la vita dell’uomo e rispondere alla ricerca profonda che lo interpella.
Per questo vi invito a non abbandonare a sé stessa la Chiesa in Amazzonia. Il rafforzamento, il consolidamento di un volto amazzonico per la Chiesa che qui è pellegrina è una sfida di tutti voi, che dipende dal crescente e consapevole appoggio missionario di tutte le diocesi colombiane e di tutto il suo clero. Ho ascoltato che in alcune lingue native amazzoniche per riferirsi alla parola “amico” si usa l’espressione “l’altro mio braccio”. Siate pertanto l’altro braccio dell’Amazzonia. La Colombia non la può amputare senza essere mutilata nel suo volto e nella sua anima».
«Minga» Amazonica Trifronteriza
La situazione
Il Vicariato Apostolico di Puerto Leuguizamo Solano, nella Colombia Sud orientale, si estende su una vasta regione con caratteristiche particolari: il suo territorio infatti è distribuito tra tre dipartimenti, Caquetá, Putumayo e Amazonas, e sta a ridosso delle frontiere con Perù ed Ecuador. In esso avviene il 2,5% delle relazioni commerciali, sociali, culturali e politiche tra i tre paesi latinoamericani. Infine si trova al centro del 6% dell’Amazzonia colombiana.
Queste caratteristiche rendono il Vicariato un luogo di particolare interesse per il mondo intero, non solo perché in esso si incontrano diversi popoli, ciascuno con la propria visione ancestrale del mondo, ma soprattutto perché è il cuore di una grande biodiversità, ricchezza di acqua e di potenziale energia. Allo stesso tempo il suo territorio, compreso tra i fiumi Caquetá, Putumayo e loro affluenti, è segnato da una grande vulnerabilità, perché isolato e generalmente trascurato dallo stato. Il fatto che le uniche vie di comunicazione tra la zona del Vicariato e il resto del paese siano fluviale o aerea, comporta diversi problemi: l’alto costo della vita famigliare, lo spostamento di molti in altre regioni, il non soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, l’occupazione, e la presenza di gruppi armati che si spostano liberamente tra i dipartimenti e, in certi momenti, tra Perù, Colombia ed Ecuador.
Ad aggravare la situazione concorre anche l’attività di estrazione, sfruttamento e traffico delle risorse naturali. L’estrazione del caucciù all’inizio del XX secolo, per esempio, ha prodotto gravi danni ambientali e socioculturali, come la schiavitù a cui è stata sottoposta la popolazione indigena della zona e addirittura l’estinzione di vari gruppi etnici.
La proposta: «Minga», lavoriamo insieme
In questo contesto, gli incaricati della pastorale sociale, educativa e indigena del Vicariato hanno organizzato un incontro di studio e lavoro a inizio novembre allo scopo di incrementare l’impegno per il territorio e di renderlo maggiormente visibile, di promuovere una riflessione che permetta agli operatori pastorali di appropriarsi del contesto sentendosi parte di un popolo multietnico e di crescere nella capacità di custodire la Casa comune, senza sempre aspettare iniziative o proposte che vengano da fuori. L’incontro si chiama «Minga», un termine indigeno che indica il lavoro fatto insieme per il bene comune.
Borneo, giungla addio
La terza isola per estensione al mondo ha anche il primato della più alta concentrazione di biodiversità. Vi si trovano otto distinti habitat naturali. Oggi però circa la metà della sua superficie è deforestata, per far spazio alle palme da olio, oltre che per il saccheggio di preziosi legnami. Ma i suoi abitanti forse hanno capito come proteggere quello che resta.
Sandakan. Viaggiando da Kota Kinabalu, capitale del Sabah nel Borneo malese, a Sandakan sulla costa Nord orientale, la strada asfaltata affronta la dorsale montana del Crocker Range. Qui, dopo una serie di curve, compare in tutto il suo splendore il monte Kinabalu, la vetta più alta dell’isola con i suoi 4.095 metri. La cima, nera e frastagliata, si staglia verso il cielo, circondata da nuvole in rapido movimento. La strada prosegue poi scendendo dalla montagna coperta di vegetazione tropicale di una varietà sorprendente. Alberi altissimi ricoperti di innumerevoli piante parassite. Foglie enormi e fusti slanciati.
Ma quando si scende di quota ecco che compaiono le prime palme. E non sono palme originarie di qui e neppure piante qualsiasi. Sono le palme che producono il famoso olio, ingrediente ormai presente nella maggior parte dei nostri cibi. Continuando a scendere verso la costa, il panorama diventa terribilmente uniforme. Filari di palme da olio si susseguono, uno attaccato all’altro. In alcuni appezzamenti le piante sono piuttosto alte e mostrano i preziosi frutti: grappoli di noci rosso scuro e nere. In altri le palme sono ancora basse, mentre altre aree sono state recentemente ripulite e si presentano come distese brulle in attesa di piantumazione.
Questa visione prosegue per ore, ovvero centinaia di chilometri, mentre il nostro mezzo continua la sua corsa verso Sandakan. Palme da olio a perdita d’occhio. Intanto sulla strada incontriamo autobotti, che invece di trasportare carburante, riportano la scritta «Palm oil». Ogni tanto, una raffineria spunta in mezzo al «mare» di palme e inonda l’area circostante di fumi bianchi e neri.
L’isola misteriosa
Il Borneo ha una superficie complessiva di 743.107 km quadrati (due volte e mezza l’Italia) ed è suddivisa in tre stati: il Nord è parte della Malaysia (province Sabah e Sarawak), Sud e centro dell’Indonesia (il Kalimantan) e infine il piccolo ma ricchissimo stato islamico del Brunei (Nord). La terza isola al mondo per estensione (dopo Groenlandia e la vicina Nuova Guinea) era, in un passato non troppo remoto, ricoperta di foreste pluviali. Foreste considerate dagli esperti quelle a maggiore concentrazione di biodiversità del mondo. È stato infatti calcolato che il Borneo, sebbene costituisca l’1% della superficie terrestre, ha originato sul suo territorio una biodiversità pari al 6% di quella globale del pianeta. All’inizio del 1900 si calcola che il 96% della superficie dell’isola fosse occupata da foresta. Si tratta di diversi tipi di vegetazione, che costituiscono ben otto ecosistemi, dalla foresta tropicale montana alle mangrovie sulla costa, passando per la foresta pluviale di collina e pianura. Nel 2005 la copertura era ancora il 71%, mentre nel 2015 è scesa al 55%. Quasi la metà della superficie del Borneo è oggi deforestata1.
Quando negli anni ‘50 sono arrivati i caterpillar e le motoseghe il panorama è rapidamente cambiato. La foresta è stata penetrata e diverse strade l’hanno devastata, modificando irreversibilmente gli ecosistemi. La deforestazione è iniziata per scopi commerciali, inizialmente la vendita di legni pregiati e la produzione della gomma. Ma è a fine anni ’90 inizio 2000 che ha visto l’escalation maggiore2. In quel periodo si è infatti diffuso a livello mondiale il consumo dell’olio di palma e le foreste di Sabah, Sarawak e Kalimantan hanno subito un’aggressione senza precedenti. La crisi dell’estrazione della gomma aveva creato grande disoccupazione e la palma da olio è stata vista come la grande opportunità.
Dati del 2007 mostrano che Indonesia e Malaysia, insieme, producevano quasi il 90% dell’olio di palma consumato nel mondo3.
Uno studio4 pubblicato nel luglio 2014 sul giornale Plos One 4 da David Gaveau ricercatore del Center for International Forestry Research, Indonesia e i suoi colleghi, mostra che agli inizi degli anni ’70, circa il 75% del Borneo era ancora ricoperto di foreste, e dal 1973 al 2010, l’area forestale si è ridotta di circa il 30%, il che corrisponde a quasi il doppio della velocità di deforestazione osservata nelle foreste tropicali in altre aree del mondo.
È stato calcolato (fonte Wwf1) che oggi oltre 7 milioni di ettari in Borneo sono già coltivati a palma da olio e altri 6 milioni nel solo Kalimantan sono coltivati per produrre pasta di legno (materiale di basso livello per produrre mobili). E, ancora più grave, altri 10-13 milioni di ettari sarebbero in fase di deforestazione tra il 2015 e il 2020. Rimangono 40 milioni di ettari di foresta, dei quali una parte intatta e altra parzialmente distrutta. Di questi solo il 31% (ovvero il 17% dell’intera isola) è destinata ad aree protette, mentre il restante a «foresta produttiva». La copertura forestale rischia di scendere a un terzo di quella iniziale già nel 2020.
Lo spirito della foresta
Navigando con una piccola barca a motore sul fiume Kinabatangan, si possono scorgere sugli alti alberi delle rive molti animali. Dalle scimmie nasiche al più famoso orangutan (che in malay, lingua dei malesi, vuole dire l’uomo, oran, del bosco), ai molti macachi. Si può intravedere nelle acque un grosso coccodrillo, o essere sorvolati da famiglie di beceri (uccelli dal grande becco colorato), oppure vedere un coloratissimo martin pescatore (di una delle tante specie) all’opera.
Anche andare a piedi nella giungla è un’esperienza particolare. Ci si immerge subito in un mondo di «suoni» molto speciale: un crepitare di versi di ogni tipo che spesso sembrano attenuarsi e ripartire per andare, a tratti, all’unisono. Si cammina su un terreno umido, spesso fangoso, in mezzo a alberi e piante di una varietà sorprendente. Un vero e proprio «santuario» del mondo vegetale. Ma occorre fare attenzione alle sanguisughe (indossando apposite calze fin sopra al ginocchio) e a estese ragnatele sulle quali si dondolano grossi ragni. Il caldo, ma soprattutto l’umidità, possono a tratti toglierci il respiro.
Impatto devastante
La riduzione della foresta significa la perdita di biodiversità sia animale sia vegetale. Oltre a questo impatto enorme in termine di riduzione delle specie, gli altri effetti devastanti sono l’erosione dei suoli, il diffondersi di inondazioni, le frane e l’alto rischio di incendi. Quest’ultimo dovuto al fatto che le foreste naturali sono meno inclini agli incendi (più protette), mentre quelle parzialmente distrutte o influenzate dalla presenza umana sono molto più soggette, perché più secche.
Il taglio della foresta combinato con la pioggia torrenziale ha effetti disastrosi per l’erosione e la modifica dei fiumi, che causano devastazioni lungo il loro corso trasportando materiale a valle. Specie animali uniche in Borneo, come l’orangutan, la scimmia nasica e l’elefante pigmeo, vedono di anno in anno ridursi il loro habitat di percentuali a due cifre. Molto grave è anche il traffico illegale di animali esotici che diventa un effetto collaterale della deforestazione. Altre cause del taglio incontrollato di alberi sono legate alle concessioni minerarie, che vanno dagli scavi per il carbone a quelli per metalli e pietre preziose.
Il cuore del Borneo
Un passo positivo è stato fatto da Malaysia, Indonesia e Brunei, nella definizione del Heart of Borneo (HoB, Cuore del Borneo). Si tratta di un’area di circa 240.000 km quadrati (due terzi l’Italia), composta da diverse zone di foresta pluviale da proteggere. Nel 2007 i tre paesi hanno firmato una dichiarazione per dare vita al «HoB initiative». Lo scopo è la conservazione delle biodiversità, che tenga conto anche del bene della popolazione, tramite una rete di aree protette e, in parte, l’utilizzo sostenibile di terra forestale. Non si parla però di fare un unico parco naturale, ma piuttosto una situazione a macchia di leopardo, e, inoltre, occorre considerare che molte specie animali hanno il loro habitat fuori da questa zona. È un piccolo passo, che cerca il compromesso tra garantire la conservazione delle specie e della foresta, dell’ambiente di vita di alcuni gruppi etnici legati a questo habitat (come i Penan del Sarawak) e le esigenze di sviluppo economico dei paesi coinvolti.
Troppo tardi?
In Borneo sono ancora presenti «isole» protette di foresta primaria, ovvero quella foresta pluviale mai tagliata e ripiantata. Oggi sembra che la gente di questa splendida isola, unica al mondo, abbia imparato a rispettare queste aree e pure a trarne i mezzi di sussistenza, grazie a un turismo, di solito, non troppo invasivo. In questi luoghi si possono vedere delle perle di natura e immaginare come fosse un tempo l’intera isola. Ma ormai, per chi pensa al mito della giungla incontaminata del Borneo, è troppo tardi.
Marco Bello
Note
S. Wulffraat, C. Greenwood, K. Fahmi Faisal, D. Sucipto, The eviromental status of Borneo. Report 2016, Wwf.
Rhett A. Buttler, The Impact of Oil Palm in Borneo, mongabay.com
Sophie Yeo, 80% of Malaysian Borneo’s rainforests destroyed by logging, Climate change news, 2013.
David L. A. Gaveau et. al., Four Decades of Forest Persistence, Clearance and Logging on Borneo, PLoS ONE, 2014.
Una storia unica Il Sarawak dei rajah bianchi
Nel 1839 l’avventuriero inglese James Brooke approda per la prima volta nel Borneo Nord occidentale, nei pressi del villaggio di pescatori chiamato Kuching. Nell’area, controllata dal sultano del Brunei, è in corso una rivolta che coinvolge diversi gruppi etnici in lotta tra di loro. Brooke e il suo equipaggio, con le armi e il negoziato, riescono a riportare la pace. È per questo che il sultano Omar Ali Saifuddin II gli affida il governo del Sarawak nominandolo rajah. Inizia così un esperimento di geopolitica unico nella storia mondiale, che durerà 100 anni. James Brooke imposta un governo di tipo liberale, rispettoso dei diritti ma osservante delle regole, al quale fa partecipare i capi delle diverse etnie, nessuno escluso. James si guadagna molti alleati, anche se non tutti sono contenti e alcuni leader locali si oppongono al rajah bianco. In questa compagine si inserisce Sandokan, il longevo personaggio immaginario inventato dallo scrittore veronese Emilio Salgari.
James riesce a portare pace e prosperità in una regione agitata da scontri interetnici (vi operano i famosi Dayaki, i tagliatori di teste) e infestata dai pirati. Alla sua morte nel 1868 gli succede il nipote Charles Brooke (James non si era sposato e non aveva figli legittimi). Questi regnerà come secondo rajah bianco fino al 1917. Charles si inserisce sulla scia dello zio ma sviluppa il paese dal punto di vista infrastrutturale ed economico. Sotto il suo governo il Sarawak si estende con nuovi possedimenti, annettendo parte dell’attuale Sabah (Nord Est del Borneo). Il territorio viene anche protetto dall’invasione delle multinazionali straniere che disboscano la giungla per piantare il caucciù. Gli succede il figlio Charles Vyner Brooke, che regna fino al 1941, anno dell’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale. Charles Vyner riprende il potere per alcuni mesi nel 1946, quando nel luglio è costretto a cedere il Sarawak alla corona britannica.
Anthony Brooke (1912-2011), nipote di Charles Vyner è stato rajah Muda (principe ereditario) e ha combattuto nel movimento anti colonialista, che si è opposto alla cessione del paese ai britannici. Si è poi ritirato in Nuova Zelanda dove ha vissuto, continuando a viaggiare e tenere conferenze a supporto di diversi movimenti per la pace.
L’erede della dinastia è Jason Brooke (1985), figlio di James Bertram “Lionel” Brooke (1940-2017) e nipote di Anthony. Jason è impegnato tra la Gran Bretagna e il Sarawak nella promozione storica dei Brooke, anche attraverso l’associazione Brooke Trust (www.brooketrust.org).
Ma.Bel.
Corea del Sud: L’ospite d’onore
Ogni missionario sa che, dovunque si troverà a operare, sarà chiamato a scoprire e assumere usi e costumi diversi. La ricchezza della diversità è segno della creatività dello Spirito e, a volte, anche fonte di situazioni divertenti. Padre Gian Paolo, con il suo solito stile ironico e paradossale, ci racconta un paio di aneddoti coreani.
Chiunque si trovi a visitare un paese dell’area confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese) entra automaticamente in una di queste due categorie fondamentali: straniero o ospite. E per quanto riguarda l’ospitalità, non ho mai sperimentato tanta squisita gentilezza in vita mia come in Corea del Sud. Per questa cultura l’ospite va coccolato al massimo. Permettetemi di raccontarvi un paio di aneddoti veramente accaduti per farvi entrare «a pelle» nel mondo dell’onorevole ospite in Corea.
Ospite o straniero?
Potrebbe capitarvi di essere per strada e avere bisogno d’informazioni. Vi avvicinate a un coreano e cominciate gentilmente a tentare una comunicazione col vostro povero inglese. In quel momento il malcapitato coreano vede il suo mondo ordinato e pre programmato sconvolgersi. Ma questo dura solo per una frazione di secondo, perché subito nel coreano scatta una delle due possibili vie di reazione:
a) Pensa: «È uno straniero! Non posso capire cosa mi dice perché non conosco la sua lingua! Non posso aiutarlo». E così vi guarda come se avesse di fronte un fantasma: non vi sente e non vi vede, e anche se gli crollaste davanti per un colpo apoplettico rimarrebbe indifferente.
b) Oppure pensa: «È un ospite straniero». Allora, non solo vi spiega dove dovete andare, ma lui stesso vi accompagna, prende la metro con voi, vi offre un caffè, vi porta davanti a una porta e vi consegna a un’altra persona a cui si raccomanda di portarvi esattamente alla vostra destinazione e magari vi paga anche il taxi.
Ci è capitato una volta, al bancone di una banca, di rivolgerci in perfetto coreano a una signorina per alcune questioni. La signorina, che ci guardava direttamente in faccia, ci ha risposto: «Scusi, ma non ho capito niente di quello che ha detto, perché non so l’inglese». Accanto a lei lavorava, china su un computer, un’altra signorina. Lei non ci aveva guardati, aveva solo sentito la nostra voce, ed è intervenuta: «Ma se ha detto così e così e così!», ripetendo esattamente quello che noi avevamo detto in coreano. La spiegazione di questo aneddoto è che la signorina che ci aveva guardati in faccia, prima ancora che noi aprissimo bocca, era rimasta paralizzata dalla reazione: «È uno straniero. Non posso capirlo. Non so come interagire con lui».
E adesso lasciate che vi raccontiamo l’esperienza di Geoffrey, dalla sua viva voce, di quando è stato invitato a cena dopo poche settimane dal suo arrivo in Corea.
L’ospite, il nuovo arrivato
«Quel giorno, non ero solo un invitato, ma l’ospite d’onore. Ad accogliermi c’era la padrona di casa, con pettinatura e make up impeccabili, vestita con un hanbok (vestito tradizionale, ndr) stupendo, un sorriso smagliante e un inchino profondo. Appena mi ha accolto in casa… ha urlato. Ma perché? Eh dai, avrei dovuto saperlo che mai e poi mai si entra in una casa coreana con le scarpe. Solo un bruto che viene dall’occidente non lo sa. E sarebbe anche meglio avere i calzini nuovi, o perlomeno non rattoppati. Capito? Allora via le scarpe.
Quindi la signora mi ha offerto con un inchino e con le due mani un souvenir della Corea, impacchettato in modo artistico ed elaborato. Qui, anche se il regalo fosse uno stuzzicadenti, è immancabilmente presentato con un pacchettino elegante.
Quando ci siamo messi a tavola, la padrona di casa si è scusata che non era capace a far da mangiare, che c’era poca roba e senza sapore. Invece ai miei occhi è apparsa una tavolata piena di piatti e piattini saporiti e disposti con gusto, che sicuramente avevano richiesto una giornata intera di lavoro. Ma in questo mondo chi vi ospita deve sempre mostrarvi la propria umiltà e perorare la propria incapacità».
I pomodorini sulla torta
«Allora mi sono seduto a tavola. Con il trascurabile dettaglio che il tavolo è alto 40 cm da terra e che mi sono seduto su un cuscino sul pavimento al posto d’onore, al centro, cosa che mi tagliava ogni possibile via di fuga. Ovviamente non c’erano forchette ma i classici bastoncini. È facilissimo usarli, specialmente se la fame è molta. All’inizio molti bocconcini mi sono caduti sul tavolo, anzi sui calzini, visto che sedevo con le gambe incrociate. I coreani, quando mi hanno visto così imbranato, sono diventati ancora più gentili. A un certo punto è arrivata una torta con le candeline. Sì, io ero l’ospite e dovevo soffiare sulle candeline mentre gli altri cantavano tanti auguri a te. Io sono occidentale, gli occidentali mangiano pane, e la torta è pane. Forti di questa logica mi hanno piazzato una fetta da tre porzioni nel piatto, dopodiché la torta è stata portata via, visto che nessun altro commensale aveva intenzione di assaggiarla: l’importante era compiere il rito. Ma ci si aspettava che io la mangiassi. Quindi ho cominciato dalle ciliegine. Ehi, ma quelle non erano ciliegine, bensì pomodorini. “Sai – mi ha spiegato Gian Paolo -, in Corea i pomodorini non sono considerati verdura, ma frutta, per questo si mettono sulla torta”».
Con le lacrime agli occhi
«La cena è poi andata avanti: c’era una specie di minestra che bolliva su un fornellino al centro del tavolo. Il mio vicino ha subito preso un mestolo per riempire una scodella davanti a me. Era pieno di “bestie del mare”. Io sono un uomo di terraferma e tutto mi pareva molto strano. Ma, come dice quel cantico del breviario, “Mostri marini benedite il Signore”, e, pur di salvare qualche anima, ho cominciato a mangiare. Il brodo era color “rosso sangue dei martiri”, era un concentrato di peperoncino rosso piccantissimo. Comunque ce l’ho messa tutta per finire quel che c’era nel piatto. Ahimè, commettendo un bell’errore: in oriente se uno vuota tutto il piatto vuol dire che ne vuole ancora, quindi il mio vicino, come un fulmine, mi ha riempito di nuovo la scodella. Mi veniva da piangere. Oppure no. Ma le lacrime sicuramente mi sono venute. Per i Coreani un cibo è piccante quando cominciano a lacrimare gli occhi, e io avevo anche la bocca in fiamme e il naso che gocciolava. Purtroppo però mi avevano appena insegnato che una delle regole più importanti del galateo coreano è quella di non soffiarsi il naso in pubblico. Mai. Volevo alzarmi e uscire un momento ma le gambe mi si erano già addormentate e non riuscivo a muovermi. Il fazzoletto l’avevo dimenticato e non c’era il tovagliolo».
Il rito del Soju
«Mi sono guardato intorno e ho visto che miei confratelli, furbacchioni, si stavano concentrando su altri piattini che a loro piacevano di più. Ho visto una salsina fatta di gamberetti in miniatura. Era bianca, buon segno, perché ormai associavo il rosso al piccante, e se quella salsina era bianca non poteva farmi del male. Ne ho presa un po’ con il cucchiaio: era salatissima. Padre Tamrat che mi osservava di fianco a me mi ha detto: “Ma va, non si fa così, quella è una salsa: tu devi prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo intinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi parlava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la situazione. In men che non si dicesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca faceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pompieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nessuno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico dell’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena offerto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse caduta una barriera invisibile: gli altri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito».
Shiksa
«Abbiamo poi continuato a mangiare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”.
Poi improvvisamente la conversazione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era arrivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo immediato. Tra gli applausi tutti mi dicevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col successo… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bicchiere pieno dall’inizio ed era riuscito a fingere di portarlo alle labbra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne accorgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comincia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chiamando per andare in pista.
Finalmente oramai la cena era finita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa inculturazione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”».
Gian Paolo Lamberto
Come sta la sanità in Costa d’Avorio
Fra riforme che si concretizzano solo molto lentamente, cronica mancanza di risorse e diffusione di farmaci contraffatti, la Costa d’Avorio sta faticosamente cercando di darsi un sistema sanitario adeguato.
Dal 2014 in Costa d’Avorio la copertura sanitaria universale è legge. Il provvedimento, in francese Couverture maladie universelle (Cmu), è stato fortemente voluto dal presidente Alassane Dramane Ouattara, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna presidenziale del 2015, in seguito alla quale si è visto confermare dagli elettori il mandato per altri cinque anni. La Cmu mira ad estendere a tutta la popolazione la copertura sanitaria sulla base di due regimi: il primo, quello contributivo, si finanzia attraverso un contributo a carico dei cittadini, che è pari a mille franchi Cfa (circa un euro e 52 centesimi) al mese. Il secondo, non contributivo, riguarda le persone in stato di indigenza, per le quali sarà lo stato a coprire i costi quantificati, secondo il sito ivoriano di notizie abidjan.net, in 49 miliardi di franchi, pari a circa 75 milioni di euro.
I servizi a cui questa sorta di assicurazione medica pubblica permette di avere accesso comprendono le consultazioni prestate dal personale sanitario – infermieri, ostetriche, medici generalisti e specialisti – le analisi di laboratorio, gli interventi chirurgici, le ospedalizzazioni, i farmaci e riguardano le 170 patologie che maggiormente toccano la popolazione ivoriana.
Un piano sanitario indubbiamente ambizioso in un paese dove ad oggi solo il 5% della popolazione dispone di un qualche tipo di previdenza sociale. La messa in opera è cominciata nel 2015, mentre l’effettiva erogazione dei primi servizi dovrebbe iniziare ad aprile 2018. Ma le difficoltà di attuazione sono già emerse nella fase preliminare, quella della registrazione dei beneficiari. A luglio scorso, le persone che avevano completato il processo di registrazione erano 785mila mentre un milione e quattrocentomila erano quelle preregistrate, a fronte di una popolazione totale di oltre ventidue milioni.
Considerando che alla registrazione dovrebbe seguire l’effettiva immatricolazione – con consegna di una carta personale biometrica a ciascun cittadino – e che solo dopo dovrebbe cominciare la raccolta dei contributi mensili e l’erogazione dei servizi, ci sono gli elementi per dire che il processo procede a rilento. Fra le cause di questo ritardo ci sono l’isolamento delle zone rurali, dove un’ampia parte della popolazione ha a malapena ricevuto notizia di questa iniziativa, e le difficoltà di registrazione di quell’ampia parte di ivoriani che vive nell’informalità, lavorativa e abitativa. Non è un caso, infatti, che la fase cosiddetta sperimentale della Cmu sia cominciata dai lavoratori del settore formale, pubblico e privato, dagli studenti e dai pensionati.
Ma mentre realizza questa riforma per garantire a tutti l’accesso ai servizi sanitari, la Costa d’Avorio deve anche concentrarsi sul miglioramento dei servizi stessi. Secondo i dati della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il rapporto medici pazienti è pari a uno ogni settemila abitanti, a fronte di una media regionale dell’Africa subsahariana di uno ogni 3.300. Non va meglio con infermieri e ostetriche: uno ogni duemila ivoriani, contro uno ogni mille per gli altri africani. Partendo da questi dati sul personale sanitario di base, il fatto che la forza lavoro con competenze di chirurgia sia il doppio rispetto alla media africana – tre chirurghi ogni mille abitanti contro 1,7 nel continente – non migliora di molto il quadro. Secondo l’Atlante 2016 delle statistiche sulla sanità in Africa dell’Oms, la Costa d’Avorio era al sesto posto nel continente per tasso di mortalità degli adulti – un dato vicino a 400 persone ogni mille sia per i maschi che per le femmine – e all’undicesimo per mortalità materna con 645 decessi di madri ogni centomila nati vivi. Dei dieci sotto obiettivi di sviluppo del millennio in materia di sanità, la Costa d’Avorio ne ha raggiunti solo due: riduzione dell’incidenza dell’Hiv e del tasso di mortalità per tubercolosi. Per gli altri otto – fra i quali vi sono la riduzione della mortalità materna e dei bambini sotto i cinque anni, la copertura vaccinale contro il morbillo e i parti avvenuti in presenza di personale sanitario qualificato – le caselle ivoriane sono una sequela di not achieved, «non raggiunto». L’investimento in sanità da parte del governo è passato dall’1,6% del Pil del 1990 all’1,9 del 2013: il Ruanda, ad esempio, partiva dallo stesso dato iniziale per passare poi a un investimento del 6,5%.
Il giorno per giorno negli ospedali
Come si manifesta tutto questo sul campo? Un articolo apparso su Jeune Afrique lo scorso luglio permette di farsi un’idea della situazione. Nel centro ospedaliero universitario di Cocody, quartiere fra i più agiati della capitale economica Abidjan, i parenti dei pazienti si trovano spesso ad attendere seduti per terra nella hall. Il direttore dell’ospedale li invita ad andare a sedersi almeno sulle panchine dell’accettazione, ma è consapevole della mancanza di spazi adeguati per accogliere i familiari delle persone ospedalizzate. Le quali non di rado rimangono più di ventiquattr’ore ricoverati al pronto soccorso per mancanza di stanze ben equipaggiate nei reparti.
La morte, nel 2014, di una famosa modella ivoriana al pronto soccorso di Cocody e la denuncia da parte dei familiari delle gravi negligenze che, a loro dire ne aveva provocato il decesso, aveva acceso i riflettori sull’ospedale. Sull’onda dello scandalo, il presidente della Repubblica in persona aveva ordinato la messa a nuovo dell’ospedale, che è considerato uno degli ospedali-vetrina del paese e che vede sfilare annualmente 40mila pazienti solo al pronto soccorso. Nuovi materiali e strumenti sono in effetti arrivati – ecografia, radiologia, laboratorio per le analisi, ristrutturazione dei locali – ma il tasso di decessi è ancora al 20%. «Queste morti si spiegano con la gravità dei casi, i ritardi nella diagnosi per malattie come il cancro, i tempi di trasporto molto lunghi e a volte anche per il ritardo nella presa in carico del paziente», ammette il direttore dell’ospedale.
Al centro ospedaliero universitario di Yopougon, popoloso quartiere periferico, la situazione è ancora più difficile: su 495 letti teoricamente disponibili, solo 350 sono davvero utilizzabili. «Sono quattro anni che sento parlare di progetti di riabilitazione delle strutture, non so più se crederci», dice il professore Dick Rufin, presidente della commissione medica dell’ospedale, che confessa: «Se io o qualcuno dei miei familiari avessimo un problema di salute, andrei in una clinica privata».
Le cause principali alla base di questa situazione sono la mancanza di mezzi finanziari e l’incuria derivata da dieci anni di conflitto e crisi politiche ricorrenti. Gli investimenti governativi, a onor del vero, non sono mancati. Fra questi, lo sblocco degli stipendi dei medici, l’assunzione di oltre diecimila operatori sanitari, la costruzione di un centinaio di centri di sanità di base e l’istituzione di esenzioni dal pagamento dei farmaci. Ma gli effetti di questi interventi non sono ancora chiaramente percepibili. Nonostante le esenzioni, ad esempio, molti si trovano a doversi comunque pagare le medicine perché gli stock riservati ai pazienti esenti esauriscono troppo rapidamente.
C’è poi da lavorare sulla conduzione degli ospedali: secondo numerose testimonianze raccolte da Jeune Afrique, la pratica di chiedere ai malati una tangente per accelerare la loro presa in carico è ancora diffusa.
Salute: Zone rurali e farmaci contraffatti
Nelle aree rurali come quelle di Marandallah e Dianra, dove sono attivi i missionari della Consolata, le condizioni sono ancora più dure. Una delle difficoltà più grandi è legata alla scarsa informazione delle comunità che causa una quasi totale assenza di prevenzione e un costante ritardo nel recarsi presso le strutture sanitarie. «È fondamentale che il nostro personale possa continuare, e possibilmente intensificare, l’attività mobile, quella della visita ai villaggi», spiegava lo scorso gennaio il responsabile del centro di salute di Marandallah padre Alexander Mukolwe. «Senza un monitoraggio costante nei villaggi e la formazione comunitaria che gli operatori affiancano, durante le loro visite, alle sessioni di vaccinazione, alla diagnosi delle malattie e alla distribuzione di farmaci, continueremo a vedere persone arrivare al centro di salute in condizioni disperate e morire per patologie che si potevano curare in un paio di giorni». Basta pensare che in Costa d’Avorio su cento bambini sotto i cinque anni sei muoiono a causa della diarrea; solo il 17% dei piccoli affetti da questa malattia riceve un trattamento adeguato di reidratazione orale.
La necessità di rendere capillare e diffusa l’assistenza sanitaria è ancora più importante alla luce del fenomeno dei farmaci contraffatti e dei centri sanitari fai-da-te.
«Ne abbiamo avuto notizia anche noi», conferma padre Matteo Pettinari, responsabile del centro di salute di Dianra, a ottanta chilometri da Marandallah. «Individui con una formazione sanitaria limitata, o nulla, che avviano centri clandestini dove si fanno pagare per consultazioni improvvisate e farmaci contraffatti o scaduti oppure medicinali veri ma rubati nei dispensari ufficiali nei quali questi impostori hanno prestato servizio. È una cosa gravissima, specialmente in un contesto dove c’è così poca consapevolezza in materia di salute e le persone non hanno gli strumenti per difendersi da una truffa che può costare loro anche la vita». E non esagera, padre Matteo, se lo scorso settembre Radio France International (Rfi) si faceva megafono dell’allarme lanciato dai farmacisti ivoriani sulle medicine contraffatte. «I farmaci di strada sono la morte in strada», recita lo slogan con cui i farmacisti cercano di mettere in guardia i cittadini dai pericoli di un traffico che interessa il 30% dei farmaci venduti nel paese, con perdite di introiti per le farmacie legali stimato in circa 50 miliardi di franchi (76 milioni di euro). Un mercato che si avvia a superare quello della droga, sottolinea Rfi, che rileva come al mercato di Roxy d’Adjame, ad Abidjan, si trovino sui teli stesi a terra falsi vaccini, antimalarici, antibiotici, antiretrovirali, sacche di sangue fasullo e cosmetici contraffatti.
A facilitare l’ignobile commercio sono il prezzo più basso rispetto ai farmaci legali e le pene meno severe rispetto a quelle previste per i trafficanti di droga. I medicinali illeciti disponibili in Costa d’Avorio provengono in prevalenza dall’Asia o dai vicini Ghana e Nigeria.
Chiara Giovetti
Salute in movimento
MOSTRA DI SOLIDARIETÀ AMC / Torino
Quest’anno gli Amici Missioni Consolata hanno deciso di aiutare il progetto La salute in movimento, che si concentra sul sostegno ai centri di salute di Marandallah e Dianra nel Nord della Costa d’Avorio e, in particolare, all’attività di assistenza sanitaria mobile dei due centri.
Le équipe sanitarie – composte da infermieri e ausiliari – effettuano infatti visite regolari ai villaggi che costituiscono il bacino d’utenza dei due centri di salute. Queste visite si rendono particolarmente necessarie in zone come quelle di Marandallah e Dianra, che hanno un’estensione territoriale notevole e mancano quasi totalmente di strade asfaltate, rendendo molto più difficile per gli abitanti dei villaggi più remoti raggiungere i centri di salute. Spesso, per mancanza sia di risorse finanziarie che di informazioni adeguate su igiene e prevenzione, i pazienti rimandano il ricorso all’assistenza sanitaria fino a quando le loro condizioni non si sono aggravate al punto da rendere molto difficile, a volte impossibile, intervenire efficacemente per guarirli.
Il lavoro di assistenza mobile consiste nel monitoraggio dei casi di malnutrizione fra i bambini, delle condizioni di salute delle donne incinte, delle neo mamme e dei neonati, nelle campagne di vaccinazione, nel trattamento delle ferite legate all’attività agricola e nella diffusione di informazioni su igiene e sanità. Quest’ultima attività ha un ruolo cruciale nel permettere alle persone di prevenire o individuare in tempo le malattie più comuni, come quelle gastroenteriche, legate ad esempio all’utilizzo di acqua non adatta al consumo umano, o quelle delle vie respiratorie, ma soprattutto la malaria, principale causa di morte in Costa d’Avorio. Per la prevenzione e cura della stessa sono fondamentali le zanzariere impregnate di insetticida e la tempestiva diagnosi e successiva assunzione di farmaci antimalarici. Eppure, secondo i dati più recenti, dei bambini sotto i cinque anni solo uno su tre dorme sotto una zanzariera e solo uno su cinque con la febbre riceve un trattamento antimalaria.
I nostri missionari responsabili dei due centri di salute ci hanno indicato l’attrezzatura e l’equipaggiamento che permette loro di continuare con la stessa efficacia e costanza questo importante servizio alle comunità.
L’iniziativa degli Amici intende contribuire a coprire questi costi:
Insegnaci a pregare 9: Pregare, un collirio per la vista del cuore
Prima della riforma liturgica del Concilio ecumenico Vaticano II, valeva su tutto la «forma rituale»: non si parlava di «liturgia», ma di «sacre cerimonie», istituzionalizzate al punto da essere una materia obbligatoria di studio nella formazione dei preti, che dovevano studiare le «Rubriche» che contenevano le norme esatte per eseguire scrupolosamente i gesti, i movimenti e i tempi del rito (vedi «Rubrica»), e, come un galateo, regolamentavano tutto. Un’altra materia di studio era la «Sacra eloquenza» con cui s’insegnava al futuro predicatore l’arte dell’oratoria, mentre l’esegesi era relegata tra le materie minori. Nel messale tridentino (ultima edizione del 1962) all’inizio dell’offertorio vi era una pagina con un disegno dell’altare con le parti numerate e due schemi (a forma di croce e di cerchio) che insegnavano come incensare l’altare.
Dal rito alla Liturgia
Si giunse persino all’assurdo di considerare la validità della Messa a partire «dall’offertorio» in poi. Si poteva andare comodi in chiesa, «tanto la Messa è valida dall’offertorio», dispensandosi quindi completamente dalla già ridotta liturgia della Parola, dall’atto penitenziale e dal salmo d’introito, considerati accessori. La stessa Parola di Dio era pleonastica. Ciò che importava era la misteriosità della formula della consacrazione, l’atto magico per eccellenza di un rito anonimo cui era sufficiente «assistere» come ad un teatro per altro incomprensibile (v. 2a puntata). Al momento della consacrazione, il prete prendeva l’ostia, si chinava su di essa coprendola con tutto se stesso e sussurrava le parole latine sil-la-ban-do-le scrupolosamente e soffiandole (letteralmente) sul pane e poi sul calice. Durante la grande «preghiera» della Chiesa ognuno poteva fare quello che voleva: pregare per conto suo, sgranare il rosario, dormire e annoiarsi, oppure confessarsi. La Messa, che era affare privato del prete, era valida lo stesso perché era importante «soddisfare il precetto», cioè essere fisicamente presenti.
Rubrica e Precetto
a. Il termine «rubrica» deriva dall’aggettivo latino «rúber, rúbra, rúbrum» che significa «rosso». Ciò è dovuto al fatto che nei codici antichi di Messali e Corali (e anche oggi nelle edizioni ufficiali), le indicazioni delle modalità di preghiera (seduti, in piedi, braccia elevate, in ginocchio, voce alta, sottovoce, ecc.) erano scritte più piccole e in rosso per distinguerle dal testo scritto di norma in nero.
b. In ogni chiesa e parrocchia, la domenica, si celebravano le messe a ogni ora, al fine di dare a tutti la possibilità di «soddisfare il precetto», e per semplificare le cose si predisponevano le confessioni «durante la Messa», finendo per non fare bene né l’una né l’altra. In questo modo si privilegiava solo la comunione cui si poteva accostare «purché confessati», finendo così per ridurre il «sacramento della Confessione» a mera preparazione al ricevere la comunione nella Messa.
Aneddoto
Negli anni del pre-concilio, la questione della validità della Messa era diventata un’ossessione: bisognava essere in chiesa esattamente da quel momento «preciso», non un pelo di più non uno di meno, segno che ormai il legalismo aveva raggiunto le fibre profonde, corrompendo il cuore. A Genova, in una parrocchia della città alta, forse perché stanco di dovere richiamare «all’obbligo», vi fu un parroco che ebbe la stravagante idea di sistemare due semafori – sì, due semafori! – alla porta della chiesa, uno verde e uno rosso, comandati dall’altare. Quando iniziava la Messa, il celebrante pigiava il pulsante verde per avvertire che la Messa era iniziata e si poteva ancora entrare. Al momento dell’«offertorio», un attimo prima dello svelamento del calice, attendeva ancora qualche secondo e poi «zac!», pigiava il pulsante rosso. Da quel momento la Messa non era più valida. Eventuali ritardatari, erano fuori tempo massimo e dovevano andare a cercarsi un’altra messa per «soddisfare il precetto». Si poteva fare a meno della Parola di Dio, ma non del rituale, centrato tutto sul concetto di sacrificio.
In questo contesto pregare non era più rapporto di vita, ma una sudditanza di paura, un pedaggio da assolvere, un obbligo dovuto: si offrivano a Dio una serie di gesti rituali (e formali), nemmeno «ben fatti», in cambio della sua benevolenza. Il campanello suonato due volte dal chierichetto aveva la funzione pedagogica di ricordare alla massa anonima presente passivamente che il prete era giunto a metà Messa (1° campanello) o alla comunione, cioè quasi alla fine (2° campanello). Del tutto assente la preghiera corale della Chiesa. Come meravigliarsi della secolarizzazione dei decenni successivi che spazzò questa parvenza di religiosità in un batter d’occhi come pula dispersa dal vento? Eppure oggi sono in crescita gli adoratori di quel tempo che fu. Ciò che importava era la presenza «fisica» per il tempo necessario dell’obbligo o, come si diceva, del precetto, in attesa… che tutto finisse al più presto per riprendere la vita profana, lontano da Dio e… dai preti.
Dio è un idolo?
Spesso, nella concezione della preghiera ridotta esclusivamente a richiesta, riduciamo Dio a un «tappabuchi», per usare una magistrale definizione del grande teologo luterano Dietrich Bonhöffer (Resistenza e resa: lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 264). In altre parole ci attendiamo da Dio che compia quanto noi non siamo in grado di realizzare, per cui domandiamo tutto: dalla pace alla salute, dalla riuscita di un esame o di un concorso ai numeri del lotto. Il Dio che preghiamo è un idolo-giocattolo nelle nostre mani, un distributore automatico che risponde a gettone, secondo le necessità e le urgenze, ogni qualvolta lo vogliamo noi. Eppure il salmista ci aveva messo in guardia da confondere il Dio dell’alleanza con gli idoli alienanti:
«“Dov’è il loro Dio?”. 3Il nostro Dio è nei cieli, tutto ciò che vuole, egli lo compie. 4Gli idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. 5Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, 6hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. 7Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni» (Sal 115/114, 2-7; v. anche Sal 135/134, 15-17).
Eppure non dovremmo essere impreparati, se avessimo ascoltato i profeti che Dio, nella sua bontà aveva inviato alla sua Chiesa. Ne citiamo due soli nella marea di voci e di stili che hanno risuonato tra la fine del II e l’inizio del III millennio: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, la cui profezia fu riconosciuta da un Papa in maniera formale e pubblica, ammettendo così la responsabilità, se non la colpa, di chi li perseguitò in modo miope e sconsiderato. Con loro si potrebbero citare p. Davide Maria Turoldo e p. Camillo De Piaz, don Zeno Saltini di Nomadelfia, p. Ernesto Balducci, p. Aldo Bergamaschi, p. Giovanni Semeria e mille altri ancora, tutti colpiti o esiliati o ridotti al silenzio perché indicavano la via del vangelo.
Nota estemporanea a latere
Nel 2017, ricorrendo il 50° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, vi fu un pullulare di celebrazioni, specialmente dopo il duplice viaggio di papa Francesco a Bozzolo di Mantova e a Barbiana di Firenze (26 giugno 2017) per restituire la patente di ortodossia cattolica a due preti perseguitati dalla gerarchia del tempo: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. La retorica celebrativa, ieri come oggi, è una costante sia nella società civile sia ecclesiale: si celebrano entusiasticamente i «profeti morti», perché non possono dare più fastidio, mentre li si perseguita da vivi (cf Lc 11,47). Nelle celebrazioni retoriche del 2017, nessuno badò al fatto che i due preti, già negli anni ’50-’60 del secolo scorso avessero posto in evidenza il vuoto delle celebrazioni rituali che producevano solo disaffezione, allontanamento, disinteresse. Specialmente don Lorenzo Milani con l’opera «Esperienze pastorali», analisi spietata della realtà sacramentale del suo popolo che rispecchiava l’andazzo costante di tutta Italia e del mondo cattolico. Fu messo all’indice, non perché eretico, ma perché «inopportuno». Oggi quell’opera è un documento profetico ancora valido.
Per un approfondimento:
Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, in Tutte le opere, a cura di Federico Ruozzi et alii, tomo I, Mondadori, Milano, 477-80; Don Primo Mazzolari, La parrocchia, La Locusta, Vicenza, 1957; ora in Per una Chiesa in stato di missione, Editrice Esperienze, Fossano 1999; Tempo di credere, Vittorio Gatti, Brescia 1941.
Preghiera: estraniamento o passione di vita?
San Paolo, come abbiamo già visto, conferma il nostro timore e cioè che noi non sappiamo pregare: «Non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26). Pensiamo che la preghiera sia prevalentemente una recita vocale di formule, che con l’uso diventano meccaniche: le parole fluiscono per conto loro e il cuore naviga per conto proprio. Non è un caso che nella confessione, un «peccato» ricorrente, quasi un canovaccio, era: «Non ho detto le preghiere al mattino e alla sera», oppure, «Mi distraggo durante le preghiere». È facile confondere la preghiera con un bisogno psicologico di protezione o forse di alienazione: la vita è tanto dura e cattiva che ogni tanto fa bene ritirarsi in disparte e non pensare a niente. È la preghiera come estraniazione, ma spesso non sappiamo nemmeno che, mentre crediamo di pregare, stiamo solo parlando con noi stessi.
Ribadiamo, ancora una volta e con forza che prima di essere un momento o un atteggiamento, la preghiera è uno stato dell’essere, esattamente come l’amore che non è una caratteristica di qualcuno, ma la dimensione intima e univoca della vita, come sperimentò – lo abbiamo già sottolineato più volte – Francesco d’Assisi che diventò preghiera lui stesso perché amò Gesù e il suo messaggio «sine glossa» cioè alla follia e senza condizioni (cfr. Fonti Francescane, Movimento Francescano, Assisi 1978, 630). Non imparò prima a pregare per diventare discepolo di Gesù. Egli amò senza condizione, a fondo perduto, e la conseguenza fu la preghiera come identità di vita. Insieme a Francesco, una donna, anzi una ragazza, è stata capace di capire l’equazione della vita: pregare è amare. Alla sorella Céline che le chiedeva cosa dicesse quando pregava, Teresina rispondeva: «Io non gli dico niente, io lo amo». In altre parole, solo gli innamorati sanno pregare perché conoscono la dimensione della parola che diventa silenzio e conoscono il silenzio come pienezza della parola. Pregare è una relazione d’amore, e come tale esige un linguaggio d’amore con tempi e spazi d’amore.
Se amare è «perdere» tempo per la persona amata, allo stesso modo, pregare è perdere tempo per sé e Dio, perché la preghiera è lo spazio e il tempo riservati all’intimità d’amore. Più profondo è l’amore, più tempo è necessario, e spazio e tempo non possono essere gli scarti, ma devono essere scelte di prima qualità. Un tempo e uno spazio che non si esauriscono nello svuotamento di sé, ma nella pienezza che l’altro porta con sé. La pienezza di Dio è la Parola, il Lògos come progetto/proposta d’amore di Dio al mondo attraverso di me, orante/amante. La Parola di Dio diventa così il fondamento della preghiera, ma anche la dimensione e il nutrimento dell’orante. Come gli innamorati si educano a vedere il mondo e la vita con gli occhi dell’amato o dell’amata, arrivando addirittura a prevenirne i desideri, così l’orante è colui che sta «sulla Parola» (Gv 8,31) per imparare a vedere la vita, la storia e le proprie scelte con gli occhi di Dio.
Collirio per la vista
La preghiera è «il collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» di cui parla l’Apocalisse (cf Ap 3,18): illimpidirsi lo sguardo da ogni strato di sovrapposizione per essere in grado di vedere con lo sguardo dello Spirito. In questo senso la preghiera è alimento costante del dubbio perché toglie ogni sicurezza esteriore ed effimera: non è la garanzia della certezza, ma l’alimento della ricerca che esige l’umiltà come condizione. Purificarsi lo sguardo significa liberarsi dalle idee che si hanno di Dio e domandarsi sempre se quella che abbiamo conseguito è quella vera e definitiva. Finché vi sarà storia la preghiera cristiana amerà il dubbio non come sistema, ma come condizione di purificazione e di fedeltà. Paradossalmente il dubbio protegge Dio dal rischio di trasformarlo in «idolo».
Nel nostro modo di pregare siamo talmente presi dalle «cose da dire» che non ci rendiamo conto di non lasciare alcuno spazio all’eco della Parola di Dio: siamo talmente occupati ad ascoltare quello che diciamo che non lasciamo tempo all’ascolto di Dio, il quale tace, rintanato in un cantuccio perché il nostro pregare è solo un cuore in un vuoto di cui forse abbiamo paura. Quando abbiamo la sensazione che Dio taccia, è segno che noi parliamo troppo. Nella celebrazione dell’Eucaristia sono molto importanti i momenti di silenzio, perché costituiscono la cassa di risonanza della Parola. Se le parole si accavallano, si inseguono con la fretta di giungere alla fine, abbiamo compiuto un rito, ma non abbiamo celebrato. La Parola senza il silenzio è un suono senza senso, perché il silenzio è la mèta della parola.
La preghiera è comunicazione d’amore con una Persona che è il perno della vita: per questo deve essere centrata sulla stessa persona di Dio, come suggerisce l’inno trinitario all’inizio dell’Eucaristia, il Gloria a Dio. L’inno, databile sec. IV d.C., ha un andamento tripartito perché si rivolge a Dio Padre, a Gesù Cristo, allo Spirito Santo: tutto in questa preghiera, una delle più belle della liturgia di tutti i tempi, è centrato sulla Persona di Dio e costituisce così la preghiera «teo-logica» per eccellenza: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente».
Cinque azioni espresse dai verbi per una sola ragione: «Per la tua gloria immensa». Quante volte siamo passati sopra a questo vertice/vortice da capogiro e non ci siamo accorti di lambire il cuore stesso di Dio, mentre ci siamo affrettati a rotolare le parole senza nemmeno renderci conto del senso? Nella nostra chiesa, noi osserviamo, al modo monastico, una pausa di tre secondi ad ogni frase per permettere al cervello di assaporare l’irruzione della gratuità di Dio, spezzando la fretta e costringendo la superficialità a gustare ogni parola / evento perché gli occhi che leggono abbiano il tempo di accorgersi di essere penetrati nella «teo-loghìa», divenuta afflato di preghiera e d’intimità senza tornaconto. «Per la tua gloria immensa», cioè per te stesso, perché meriti di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché tu sei Dio e noi carne e sangue della tua divinità. La ragione del vivere e del pregare è «dare gloria» a Dio, che non significa cantare un canto, ma riconoscere la sua «gloria» nel senso ebraico del termine.
Kabòd/Dòxa
La «Kabòd» ebraica, che il greco traduce con «Dòxa», indica il «peso/la consistenza/la stabilità» di Dio. In altre parole «per la tua gloria immensa» significa prendere coscienza che Dio è il «valore/il peso» più importante della vita del credente. Non è un caso che al tempo di Gesù il termine «Kabòd» fosse uno dei Nomi santi con cui si indicava Dio, in sostituzione del «santo tetragramma» Yhwh. Ne consegue che «per la tua gloria immensa» significa che preghiamo per lui, perché merita di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché è Dio e noi carne e sangue della sua divinità.
Non siamo «in» Chiesa per adempiere un dovere o ottemperare a un obbligo, ma «siamo Chiesa» per partecipare al banchetto dell’amore e lasciarci immergere nel pozzo della misericordia di Dio che è la sua Gloria, la sua Kabòd/Dòxa. Quando preghiamo, infatti, se preghiamo nello Spirito, noi siamo abitati da Dio che ci accoglie nella tenda del suo amore per svelarci il suo nome, il suo volto e il suo cuore. Pregare è vedere Dio che contempla noi. Questa preghiera trasforma la nostra esistenza in Kabòd/Gloria di Dio. Come? Offrendo al Signore «presente, ma invisibile» tutto, istante dopo istante, ogni gesto, ogni scelta, ogni alito dell’esistenza, anche le cose più banali della nostra quotidianità (come fare la spesa, prendere un autobus, fare le pulizie in casa, studiare, preparare da mangiare o una lezione) e tutte le mille azioni «inutili» che spesso buttiamo perché non vi prestiamo abbastanza attenzione, affinché tutto lui trasformi in benedizione sul mondo che egli ama alla follia (Gv 3,16), attraverso di noi.
Schede. Dati demografici Le Chiese. Alcune date storiche.
Dal nazionalismo all’accoglienza
Germania: ieri, oggi, domani
Dopo gli orrori nazisti, la Germania è cambiata in maniera profonda e sorprendente. Potenza economica e politica, è la seconda destinazione a livello mondiale per le migrazioni, subito dopo gli Stati Uniti. Nonostante alcune tensioni e la presenza di movimenti xenofobi («Alternativa per la Germania» e «Pegida»), la Germania di oggi è un paese aperto, plurale e inclusivo. Anche se ora occorre attendere le (inevitabili) conseguenze del voto del 24 settembre 2017.
La Germania è il paese europeo dove l’ideologia nazionalista, portata alle sue più estreme conseguenze, ha messo in atto i crimini più feroci contro l’umanità. Il mito della razza ariana propugnato dai nazisti, quello di una presunta purezza etnica da conseguire e preservare a ogni costo, l’eugenetica e lo sterminio sistematico degli ebrei e di altre minoranze, rappresentano un’onta di infamia che, volenti o nolenti, sarà legato ancora a lungo al nome di questo paese.
Questo anche in ragione del fatto che, a dispetto di casi straordinari ma episodici come quelli di un Dietrich Bonhoeffer e degli studenti della Rosa Bianca, l’opposizione interna al Reich hitleriano e alla messa in opera della soluzione finale ha riguardato solo un numero assai esiguo di individui, incapaci di impensierire in alcun modo la colossale macchina della morte messa in piedi dal regime nazista e dalla sua propaganda. A fronte di ciò, come scriveva nella sua «Storia della Shoah» lo storico Georges Bensoussan, furono un milione i tedeschi coinvolti direttamente o indirettamente nello sterminio degli ebrei, fra campi di concentramento ed esecuzioni di massa delle Einsatzgruppen (le famigerate «unità operative» guidate da Reinhard Heydrich), soprattutto nei territori dell’Europa orientale, dove trovarono in molti casi terreno fertile anche fra le popolazioni locali. Assai più numerosi, inevitabilmente, i tedeschi che sapevano, oppure fingevano di non sapere, pur avendo avuto di fronte a sé segni inequivocabili e avvisaglie chiarissime rispetto a quanto avveniva.
Ciononostante, chi conosce bene questo paese dall’interno, non può che guardare con sincera ammirazione al cambiamento sociale e culturale avvenuto nella Repubblica Federale dal dopoguerra ad oggi. Un mutamento che ha investito il mondo della politica e della cultura, nonché le coscienze di milioni di tedeschi che prima hanno riconosciuto gli errori e orrori compiuti nel passato e poi hanno tentato di cambiare se stessi e il paese senza reticenze e compromessi. Il risultato che abbiamo di fronte a noi è per molti versi sorprendente. La Germania odierna è un paese aperto, plurale e inclusivo, a dispetto delle sfide della convivenza e dell’accoglienza, e delle inevitabili tensioni che ne sono sorte negli ultimi anni.
Non solo: forse più di ogni altro paese, la Germania di oggi ambisce a rappresentare un baluardo della tolleranza nel mondo, in anni – quelli che stiamo vivendo – dove le campagne elettorali europee (e non solo: basti pensare a Trump negli?Stati Uniti) paiono segnate in modo sempre più netto da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che si fanno avanti in modo rapido e spaventoso anche nei nostri media e nelle coscienze di molti di noi. Ed ecco allora che quella che è stata senza dubbio una tragedia e un’onta, quella dei crimini compiuti dai nazisti, si è trasformata per molti versi, inaspettatamente, anche in una risorsa e in un antidoto sicuro contro l’odio sempre più imperante nei confronti dei rifugiati e degli stranieri.
La Germania dopo il 24 settembre 2017
Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anche in Germania si è fatta avanti una destra populista e xenofoba, quella del partito «Alternativa per la Germania» (Alternative für Deutschland, Afd). Nelle elezioni del 24 settembre l’Afd ha raccolto il 12,6 per cento dei voti e ben 94 seggi nel Bundestag. Un partito, questo, che come il movimento anti-islamico di Pegida (Patriotische Europaeer Gegen die Islamisierung des Abendlandes, Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente), ad esso per molti versi associabile, raccoglie però consensi in modo assai più marcato nell’ex Germania orientale, dove gli spettri del totalitarismo comunista continuano a pesare. Ma non si tratta, purtroppo, in molti casi, solo di slogan e vuote parole. Crescono di frequenza anche le aggressioni, gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti del diverso, poco importa se si tratti di un rifugiato, di un musulmano o di un ebreo, tutti ugualmente colpiti negli ultimi anni. Eppure, considerando le sfide che il paese si è trovato ad affrontare soprattutto dal 2015 in poi, non si può che trarre un bilancio positivo, con una punta di invidia nei confronti di una macchina statale che è stata capace di reggere all’urto dei tempi, senza cercare facili capri espiatori o piegarsi, per mero interesse politico, agli slogan razzisti anche da noi fin troppo noti.
La crisi dei rifugiati (2015) e gli attentati (2016)
Dicevamo poc’anzi dello spartiacque epocale rappresentato per la Germania dal 2015. Ebbene, proprio da qui si deve partire per comprendere la situazione attuale: nel 2015 si era nel pieno della crisi dei rifugiati, quando erano in tanti – o, meglio, la quasi totalità – i giornalisti nostrani che, dal caldo delle loro poltrone a Roma e a Milano, davano politicamente per spacciata la Merkel, «colpevole», secondo molti di loro, di aver spinto troppo avanti la sua politica dell’accoglienza, nota come Willkommenskultur in tedesco. Le cifre degli arrivi, a ben guardare, sono davvero impressionanti, anche se oggi sappiamo essere un po’ inferiori a quelle gonfiate e diffuse dai media in quei mesi.
Sono stati 865.374 gli individui entrati illegalmente in Germania nel 2015, secondo i dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca lo scorso anno. Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225). Tutti, com’è facile notare, fuggiti da luoghi segnati da terrorismo, guerre o dittature feroci. Notevoli anche i dati di comparazione rispetto all’anno precedente. Dal 2014 al 2015 l’immigrazione dall’Afghanistan alla Germania è aumentata del 877%, dall’Iran del 1.005% e dall’Iraq (dove era in piena espansione lo Stato islamico) addirittura del 2.155%. Dati che rendono bene l’entità di un fenomeno che ha cambiato il volto del paese, ponendolo di fronte anche a una sfida politica e culturale di vaste proporzioni.
In Germania il 2015 non sarà ricordato solo per la crisi dei rifugiati. Anche il terrorismo, da molti anni assente, ha fatto il suo macabro ritorno nel paese provocando un mutamento dello scenario politico e della sicurezza altrettanto importante. Ricordiamo, su tutti, gli attacchi dell’estate di quell’anno, da Ansbach a Würzburg, entrambi rivendicati dall’Isis. L’anno successivo, invece, è stato funestato da episodi di ancor più vasta portata: la strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, dove hanno perso la vita 10 persone, e l’attacco terroristico al mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre, costato 12 vittime. Non si è trattato in tutti i casi di attentati a sfondo religioso. Tutti, invece, i protagonisti di questi macabri eventi erano, almeno per origine, stranieri. Ebbene, il clima che si respirava nelle strade, il dibattito sui media e su internet di quei giorni, non è minimamente paragonabile all’odio e alla tensione che hanno segnato la brutta estate italiana che ci siamo appena lasciati alle spalle.
L’odio non fa breccia
Quali sono le ragioni di questa differenza, che sempre più si configura a livello europeo come un’eccezione? Perché l’odio non fa breccia che in modo marginale nella Germania odierna? La prima risposta, come detto, va ricercata forse nella storia. La Germania risorta dalle macerie del Terzo Reich, sopravvissuta al terrorismo della Raf e agli anni di piombo, ha in sé più di altre nazioni gli anticorpi per resistere alla spirale cieca della violenza islamista e del razzismo. A Berlino, a Dresda, a Amburgo, a Stoccarda – città che solo pochi decenni fa erano un cumulo di macerie – sono ancora in pochi ad essere disposti a invertire l’orologio della storia, a subire il fascino del sangue e ad auspicare un ritorno ai proclami di guerra e alle crociate.
Ma non basta. Un altro punto fondamentale da ricordare, a mio avviso, anche in termini comparativi rispetto all’Italia e ad altri paesi dell’Europa orientale, dove le sirene dell’intolleranza trovano oggi orecchie più recettive, è che qui l’integrazione di milioni di cittadini di origine straniera è ormai un fatto compiuto da decenni, almeno nelle grandi città del Sud e dell’Ovest. Là dove la presenza è più recente, come nell’ex Ddr, servirà inevitabilmente più tempo, come d’altronde da noi in Italia. Non dimentichiamo infine che ad Est, punto da non trascurare, i dati sulla povertà e sull’emarginazione sociale sono ancora assai più alti che in altre parti del paese, con il solito, triste profilarsi di una guerra fra poveri.
Le paure dei tedeschi: una classifica
Dati alla mano vediamo com’è articolata la società tedesca di oggi, dove la componente legata all’immigrazione, come detto, è in continua crescita. Sono 18,6 milioni i residenti di origine straniera in Germania, pari a oltre un quinto della popolazione totale, che ammonta a 81 milioni di individui. Si è avuto, a tal proposito, un aumento record nell’ultimo anno, il 2016: +8.5% secondo i dati dell’Ufficio statistico federale, ovvero il più alto in oltre un decennio. Un fenomeno ancor più marcato nei grossi centri urbani dove le opportunità di impiego sono assai maggiori. Prendiamo ad esempio Stoccarda, dove l’anno prima, nel 2015 – e sono gli ultimi dati disponibili – il 42,2% dei residenti era di origine straniera, con punte del 58,2% per i minorenni. Numeri importanti, tali da mutare profondamente il volto di una città, dalle scuole fino al lavoro e al tempo libero. Eppure, anche a livello di percezione diffusa, le città sono sicure, assai più che in Italia, e l’immigrazione non risulta oggi al primo posto fra le preoccupazioni dei tedeschi. Il cambiamento climatico (71%) e il timore di nuove guerre (65%) la fanno da padrona, secondo una recente ricerca riportata sul quotidiano Westdeutsche Allgemeine Zeitung, staccando la paura del terrorismo (63%) e, di molto appunto, quella degli immigrati (45%).
Un mosaico multiculturale (con tanti cittadini comunitari)
Ma vediamo ora quali sono, fra i cittadini stranieri residenti in Germania, i gruppi nazionali più rappresentati all’interno del mosaico multiculturale tedesco. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio statistico federale, primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece noi italiani, 611mila (con una crescita di 15 mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni. Interessante notare come dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea sia più che triplicato. In un solo anno, il 2016 appunto, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in terra tedesca. Non sono quindi solo i cittadini cosiddetti extracomunitari a immigrare. Una Germania che rappresenta la seconda destinazione a livello mondiale per l’immigrazione, seconda solo agli Stati Uniti, stando a una ricerca dell’Oecd pubblicata nel 2014.
Numeri a parte, se visto dall’interno, il melting pot in salsa tedesca sembra funzionare piuttosto bene. Se forte è l’impegno delle scuole e delle istituzioni religiose nel fronteggiare la diffidenza nei confronti dell’altro e il razzismo, è anche il mondo del lavoro a fare la differenza. Sono sempre di più le aziende che scelgono come lingua di lavoro l’inglese nei loro uffici, ed è grande la richiesta di manodopera in alcuni Land, come quelli del Sud, dove si è raggiunta quasi la piena occupazione. All’ingresso del quartier generale della Mercedes, che ha sede qui a Stoccarda, e dove si usa sempre di più la lingua di Shakespeare per lavorare, si legge in un banner: «Qui non c’è posto per il razzismo». Certo, ancora una volta, non è tutto oro quello che luccica, e non vi è dubbio che siano in molti a sfruttare i nuovi arrivati, cui vengono proposti a volte contratti da precari e con retribuzioni sempre più basse, con il risultato che le diseguaglianze avanzano rapidamente, creando sacche di povertà sinora sconosciute soprattutto in provincia, nelle periferie e nelle città del Nord e dell’Est del paese.
Non si può tuttavia trascurare, ed è il dato di gran lunga più incoraggiante, come la risposta più efficace alla crisi dei rifugiati e all’insorgere del razzismo sia giunta proprio dalla società civile tedesca, che ha dato il suo meglio mobilitandosi dopo il 2015. In Germania, le persone in vario modo impegnate nel volontariato sono 31 milioni (pari al 38% della popolazione), in Italia invece – per fare un raffronto – solo 6 milioni (pari al 10%). Una differenza che si spiega anche con la grande generosità dimostrata dalle associazioni, dalle chiese e da tanti semplici cittadini che hanno sentito il bisogno di impegnarsi in prima persona per fronteggiare quella che forse è la più grande sfida del nostro tempo: la sfida dell’accoglienza.
Simone Zoppellaro
«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»)
le sfide dell’immigrazione
Si dice che l’immigrazione rappresenti per la Germania solo un’occasione per avere manodopera a basso costo. Questo probabilmente valeva ai tempi dei Gastarbeiter («lavoratori ospiti»). Oggi la situazione è diversa. Anche se i problemi non mancano. Come l’esistenza di profonde diseguaglianze e la scarsa mobilità sociale. Senza dimenticare la questione della vasta minoranza turca, divisa su Erdogan, il dittatore di Ankara su cui la stessa Europa rimane incerta.
Siamo alla fine di dicembre del 2015, in Germania, nel pieno della crisi dei rifugiati. Nel suo discorso di capodanno, il verde Winfried Kretschmann, governatore del terzo Land più popoloso della Federazione tedesca, quello del Baden-Württemberg, nell’affrontare il tema spinoso e dibattuto dell’immigrazione rievoca la sua esperienza familiare. I suoi genitori, racconta nel messaggio ai suoi concittadini, furono costretti a lasciare la Prussia orientale, ovvero l’odierna Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale, e giunsero in Germania come profughi fra grandi stenti e perdendo anche un figlio, un fratello maggiore del governatore, allora appena nato. Kretschmann, politico navigato e fra i maggiori esponenti del suo partito a livello nazionale, ben lungi dal cadere nella mera aneddotica, sapeva di toccare con le sue parole una corda profonda per molti tedeschi. Come a dire: i drammi di ieri e di oggi, in fondo, non sono così diversi.
Si stima che furono fra i 12 e i 14 milioni i tedeschi espulsi o fuggiti nell’immediato dopoguerra dai paesi dell’Europa orientale occupati dal Terzo Reich. La larga parte di loro si rifugiò in Germania, ma furono in molti a cercare fortuna negli Stati Uniti, in Australia, e in altri paesi. Un dramma di proporzioni bibliche, inevitabilmente oscurato ieri come oggi dal collasso militare tedesco e dai crimini compiuti dal nazismo, ma non per questo meno doloroso. In?Germania sono tantissime le persone che hanno ancora nei ricordi familiari dei loro genitori o nonni episodi come questi. Un dramma che si è riproposto con l’arrivo a Ovest di circa 4 milioni di profughi provenienti dalla Ddr, l’ex Germania comunista, nel corso della sua storia quarantennale.
Questi due eventi insieme, che investirono nell’arco di pochi decenni – come si desume dalle cifre appena riportate – una fetta enorme della popolazione tedesca, contribuiscono a dare oggi una connotazione diversa, meno astratta, più personale e simpatetica, al fenomeno migratorio, e in particolare nei confronti di quanti – e sono tantissimi – fuggono da guerre e persecuzioni, rischiando spesso la vita. E non sarà un caso, allora, come ci ha raccontato in un’intervista la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, che lo stato del Baden-Württemberg sia uno dei pochi luoghi al mondo ad aver fornito rifugio e assistenza a circa duemila fra donne e bambini appartenenti alla minoranza degli yazidi, in fuga dalla persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico. Una decisione, come ci ha spiegato la stessa Murad, dovuta a un interesse personale del già ricordato Kretschmann, cattolico praticante e figlio di profughi di guerra, che ha preso a cuore questa causa dimenticata da tutti. Non è difficile immaginare che per lui, come per tanti tedeschi, storie come questa risultino fin troppo famigliari, difficili da accantonare con una scrollata di spalle o con uno sbadiglio.
Il precedente storico dei «Gastarbeiter»
Il peso della storia, di una storia tragica e ingombrante, ancora una volta, fa la differenza. Il movimento per la pace, quello per il disarmo e contro la vendita di armi (specie se alle dittature), le manifestazioni di piazza e le attività organizzate dal basso, dalla società civile, per l’accoglienza e per contrastare il razzismo, sono oggi realtà assai più diffuse in Germania che in molti paesi europei. Uno fiorire straordinario che parte dalle parrocchie, dalle feste di quartiere, dalle scuole e da quella galassia sconfinata che è rappresentata dall’associazionismo tedesco. Sbaglia, affidandosi spesso a un ottuso cinismo, chi afferma che l’immigrazione per la Germania rappresenti solo un’occasione per avere manodopera a basso costo per le imprese. Semmai si dovrebbe sottolineare, cosa spesso ignorata da molti, come l’afflusso di profughi e immigrati negli ultimi anni abbia creato – parallelo all’impegno del volontariato – anche moltissimi nuovi posti di lavoro per i tedeschi, dall’insegnamento della lingua, al campo sociale, fino alla mediazione culturale.
Ammirevole anche la qualità dei servizi offerti da centri informativi e uffici per l’immigrazione, dove il personale risulta disponibile, ben attrezzato a interagire con persone di diversa cultura, e parla diverse lingue. Un altro mondo, rispetto alle esperienze spesso frustranti e umilianti che devono subire molti stranieri in Italia o nelle nostre rappresentanze all’estero, dove il servizio risulta in tanti, troppi casi davvero scadente, quando non lesivo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Certo, a nostra parziale discolpa bisogna sempre ricordare che il fenomeno migratorio in Germania ha radici più profonde rispetto a quelle del nostro paese, dove l’esperienza è ancora acerba e limitata. Radici che risalgono agli anni Cinquanta e al boom economico di una Germania federale risorta delle ceneri morali e materiali della caduta del nazismo.
Li chiamavano Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», con un eufemismo neanche troppo velato che stava a significare che sarebbe stato meglio se, una volta compiuto il lavoro, se ne fossero tornati al loro paese. Ma ciò, come ben noto, nella larga parte dei casi non è avvenuto, e furono anzi in molti a portare con loro in Germania partenti e amici. Fra i primi ad arrivare come manodopera per l’industria tedesca ci siamo proprio noi italiani, insieme a greci, turchi, marocchini e portoghesi. Si trattava in molti casi di accordi bilaterali stretti fra l’allora capitale Bonn e i governi di questi paesi. Dopo l’erezione del muro di Berlino, nel 1961, che ebbe l’effetto di far diminuire i profughi provenienti dalla Germania orientale, aumentò ulteriormente la richiesta di manodopera e, di conseguenza, l’arrivo di immigrati necessari soprattutto alla crescita dell’industria.
L’altra faccia della medaglia: grandi diseguaglianze, scarsa mobilità sociale
Storie di sacrifici e di fatica, di umiliazioni, riscatti o fallimenti, come lo sono sempre quelle legate all’immigrazione, in qualsivoglia tempo e paese. Storie difficili, che solo in rari casi portano a un’ascesa sociale nelle file della borghesia per la generazione successiva. Un divario sociale, culturale ed economico che, inevitabilmente, continua a pesare anche negli immigrati di seconda e terza generazione, ovvero nei figli e nei nipoti degli operai arrivati in Germania nel dopoguerra e negli anni del boom. Come dichiarato in una recente intervista dalla cancelliera Merkel: «C’è ancora un divario significativo tra i giovani che hanno una storia d’immigrazione e i giovani che non ce l’hanno». Certo, esistono eccezioni importanti in tal senso, e sono sempre più frequenti. Ne ricordiamo due, brevemente: il leader del partito verde Cem Özdemir, di origine turca e circassa (regione storica del Caucaso, ndr), che è fra i protagonisti indiscussi della scena politica odierna; o, ancora, il nostro Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit, uno dei più prestigiosi del paese, cresciuto in Italia fino all’età di undici anni.
Eppure, come sottolineato anche dalla cancelliera, tanto resta ancora da fare. La Germania, dati alla mano, è uno dei paesi in Europa dove le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono più alte e la mobilità sociale risulta ridotta ai minimi termini. Date queste premesse, la prospettiva di una completa parificazione sociale ed economica per le comunità di immigrati pare essere un obiettivo ancora lontano, innestando nei segmenti più fragili della popolazione, anche se in piccola parte, il germe dell’intolleranza, mentre parallelo, come vedremo, fra alcuni giovani immigrati cresce quello del radicalismo religioso. Ecco allora spiegata l’ascesa del partito «Alternativa per la Germania», che è riuscito per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco a riportare alla ribalta una politica, almeno in parte, riferibile alla galassia dell’estrema destra, infrangendo un tabù sociale e politico molto forte. Ma si tratta pur sempre, a ben vedere, di un unico partito, a fronte di uno schieramento politico – destra inclusa – che si mantiene compatto nel voler combattere la propaganda xenofoba e populista. Emblematico anche il panorama dei media, dove lo spazio dato a populisti e predicatori d’odio è incomparabilmente più basso che da noi.
Il caso della minoranza turca (e kurda)
Passiamo ora ad analizzare quello che è il fenomeno più rilevante, ma anche il più complesso e difficile, nella sfida dell’integrazione. Ci riferiamo al caso dei turchi tedeschi, la minoranza più rappresentata in Germania, come detto. Una comunità che, dopo la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Erdogan nel loro paese, sta pagando oggi in prima persona, vuoi le tensioni interne alla comunità, sempre più marcate, vuoi i rapporti sempre più tesi fra Berlino e Ankara. Punto di svolta, da questo punto di vista, è stato il tentativo di colpo di stato in Turchia del luglio 2016, cui è seguita un’ondata di repressione senza precedenti contro giornalisti, politici, intellettuali e forze dell’ordine, che ha trasformato un paese relativamente liberale in una dittatura spietata.
Dopo il fallito golpe in Turchia, migliaia di turchi si sono riversati nelle strade di molte città tedesche – da Berlino a Monaco, da Hannover a Stoccarda – per festeggiare lo scampato pericolo. Ma, dopo l’euforia, è arrivata l’ora della vendetta, e tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine. Puntuale e immediata, la resa dei conti contro i sostenitori di Fethullah Gülen – predicatore turco in autoesilio negli Stati Uniti, accusato di essere l’uomo ombra dietro al colpo di stato – si è allargata anche alla Germania. Una tensione che si è manifestata ovunque, dalle associazioni alle piazze, fino anche alle moschee e alle scuole. Il tutto mentre lo scontro contro la minoranza kurda, dopo un periodo di parziale riavvicinamento, è tornato a precipitare, quando si moltiplicavano ancora una volta gli arresti e le vessazioni. Un dato non irrilevante per il nostro discorso, data la fortissima presenza kurda in Germania, che ha anche, al suo interno, una componente assai politicizzata, che è scesa in piazza più volte in diverse città tedesche, arrivando in alcuni casi allo scontro verbale e fisico con i sostenitori di Recep Tayyip Erdogan, altrettanto numerosi.
Il risultato è una comunità a tratti lacerata, costretta – volente o nolente – a scegliere fra una fedeltà sempre più esigente alla madrepatria turca e al suo dittatore, e quella a una Germania che guarda con sempre più sospetto ad Ankara, anche a causa dell’arresto di diversi cittadini tedeschi. Fra questi, ricordiamo il noto giornalista con doppia nazionalità Deniz Yücel, imprigionato il febbraio scorso con l’accusa di essere una spia. Emblematico anche il caso del già ricordato Cem Özdemir, che ha ricevuto continue minacce di morte, e proprio da membri della comunità turca tedesca, a causa delle sue posizioni politiche di supporto all’opposizione turca colpita e repressa, e che oggi è sotto scorta. Il politico verde, fra l’altro, è stato anche fra i promotori della risoluzione del parlamento tedesco sul genocidio armeno, approvata il 2 giugno 2016. Un riconoscimento che ha creato ulteriori tensioni e fratture nella comunità, dato il persistente negazionismo di Ankara nei confronti del genocidio perpetrato nell’allora Impero Ottomano. Senza dubbio, un momento di crisi dura come l’attuale la comunità dei turchi tedeschi non l’aveva mai vissuto nella storia recente.
Sicurezza e benessere per tutti
Ma la sfida per l’accoglienza e l’integrazione in Germania risulta più ampia, e per molti versi meno drammatica. Superata al meglio la crisi del 2015, ci sono ottime ragioni per poter sperare in uno sviluppo armonico della società, eludendo i rischi e le tensioni sempre insiti, volenti o nolenti, in una società aperta e multiculturale. Su tutto, continuano a risuonare nelle orecchie dei tedeschi, come in un ritornello, le celebri parole con cui Angela Merkel ha più volte commentato la crisi dei rifugiati: «Wir schaffen das», «Ce la facciamo».
La Germania, vuoi per la sua storia tragica e insieme di riscatto, vuoi per il ruolo politico ed economico sempre più rilevante che riveste a livello internazionale, ha in sé tutte le carte in regola per riuscire a offrire una prospettiva di sicurezza e relativo benessere a tutte le componenti di una società sempre più plurale, senza rischiare di ricadere in un passato che nessuno, almeno da queste parti, sembra oggi più rimpiangere.
Simone Zoppellaro
Il lungo percorso del dialogo
Immigrazione e fedi religiose in Germania
Nel variegato panorama religioso tedesco, le due principali Chiese, la cattolica e la protestante, sono in prima fila nella battaglia per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza dei profughi. Con l’immigrazione è arrivata una crescita a due cifre dell’islam. In esso, accanto a una minoranza estremista vicina alla Stato islamico, si trova una maggioranza che ha accettato le regole della democrazia occidentale.
Il 19 ottobre 1945, a pochi mesi dalla capitolazione del regime hitleriano, i rappresentanti della Chiesa evangelica tedesca si riunirono a Stoccarda per riflettere sul ruolo e sulle complicità dei cristiani, e in particolare di una delle due anime principali del cristianesimo tedesco, quella protestante, rispetto agli orrendi crimini compiuti dal nazismo. Ne risultò un documento importante, noto come «Dichiarazione di colpa di Stoccarda» (Stuttgarter Schuldbekenntnis), in cui per la prima volta la Chiesa evangelica assunse la sua parte di responsabilità storica, per quanto non soffermandosi ancora in termini specifici sull’olocausto. Leggiamo nel documento: «Attraverso di noi infinita sofferenza è stata portata a molti popoli e paesi». Da parte sua, anche la Chiesa cattolica tedesca ebbe responsabilità importanti, fra cui quella di aver agevolato la fuga dalla Germania (soprattutto verso il Sud America, ndr), dopo la fine della guerra, a centinaia di criminali nazisti, grazie al rilascio di documenti di viaggio sotto falso nome.
Certo, non soltanto ai protestanti e ai cattolici tedeschi va attribuita la responsabilità di quanto avvenuto all’epoca del Terzo Reich, responsabilità che deve essere senz’altro condivisa ed estesa a ogni segmento sociale. Né è possibile tralasciare, d’altra parte, come già accennato, l’eroico sacrificio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o dei giovani cattolici del movimento studentesco della Rosa Bianca, che pagarono con la vita l’opposizione al nazismo. Eppure, come dimenticare che le vie dell’odio e del sangue passarono anche da qui, attraverso una distorta interpretazione e stravolgimento del messaggio cristiano?
Tutto ciò premesso, ancora una volta, è giusto riconoscere come il cambiamento avvenuto in seguito non sia stato affatto una semplice formalità, una svolta determinata esclusivamente dalla contingenza di una sconfitta militare. Ad ammissioni di colpa come quella di Stoccarda corrispose dunque in seguito un mutamento sociale e culturale profondo ed effettivo, tale da risultare per molti aspetti, se visto in prospettiva storica almeno, sorprendente. E stupisce così vedere come le Chiese tedesche, la cattolica come la protestante, siano oggi in prima fila a battersi per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza ai profughi. Sintomo che un percorso si è ormai concluso, e che la storia – quando affrontata con serietà e coraggio – può essere davvero maestra di vita. Un’apertura che ha portato, come avvenuto negli ultimi mesi, a esempi radicali in cui si è vista la chiesa, in questo caso quella evangelica, offrire alloggio e protezione a richiedenti asilo afghani e iraniani respinti e minacciati di espulsione dallo stato.
Le Chiese tedesche e gli ebrei
Le chiese in Germania hanno poi avuto, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo importante per un tema delicato e difficile: quello del ripristino di un rapporto di fiducia e collaborazione con gli ebrei dopo gli orrori della Shoah. Esistono oggi in Germania, a livello locale, oltre 80 associazioni per la cooperazione ebraico-cristiana (Gesellschaft für christlich-jüdische Zusammenarbeit), in cui sono impegnati sia protestanti che cattolici. Le prime erano state create proprio nel 1948 a Monaco, Stoccarda e Wiesbaden con il fine di promuovere un nuovo dialogo fra le chiese cristiane e gli ebrei. La dichiarazione Nostra aetate, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni, aveva dato poi ulteriore impulso da parte cattolica anche in Germania, per un ritorno al dialogo con la cultura ebraica dopo tanti, troppi secoli di misfatti e incomprensioni.
Anche grazie al contributo delle diverse chiese, si è potuto così assistere nel dopoguerra alla lenta rinascita dell’ebraismo in terra tedesca. Una comunità che è rimasta numericamente molto esigua ancora fino agli anni Ottanta, quanto nell’allora Germania Ovest gli ebrei erano fra i 25 e i 30mila. Assai più ridotto il numero, invece, nella Ddr comunista, dove gli ebrei erano poco più di un migliaio ed ebbero, in quanto comunità, possibilità assai limitate – anche a causa del pregiudizio ideologico del regime contro le religioni – tali da inibire ogni tentativo di dare vita a una rinascita culturale dopo il genocidio. Un notevole incremento si è avuto invece, nella Germania ormai riunificata, dopo la caduta del muro di Berlino, e questo soprattutto grazie all’arrivo di decine di migliaia di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Sono così saliti a più di 100.000 gli ebrei in Germania, in larga parte residenti nei grandi centri, e sono tante le nuove iniziative volte a far risorgere una presenza culturale ebraica, almeno nelle maggiori città.
Immigrazione e islam
Tra le comunità religiose tedesche legate all’immigrazione, la maggior crescita degli ultimi anni spetta senza alcun dubbio all’islam. Un islam non meno vario e diversificato del cristianesimo tedesco, dove convivono sunniti e sciiti, seguaci del predicatore turco in esilio Gülen e mistici sufi, insieme a infinite altre denominazioni, che in molti casi hanno anche finito per attrarre nuovi fedeli fra i nativi tedeschi. Ed ecco allora che i musulmani rappresentano oggi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il 4,9% della popolazione tedesca, pari a poco più di 4 milioni di persone, con una crescita annua che si attesta in un solo anno, fra 2015 e 2016, al 12,5%. Una crescita che corrisponde, sul versante cristiano, a un leggero calo su base annua, cosa che fa temere ad alcuni un sorpasso nei prossimi decenni come prima religione del paese: rispettivamente -0,8% per i cattolici, e -1,5% per i protestanti, che sono rispettivamente 23 e 21 milioni. Una differenza che si spiega, ancora una volta, con l’immigrazione: assai più numerosa è infatti quella proveniente dai paesi di confessione cattolica che protestante. Non vanno infine dimenticati i 2 milioni di cristiani ortodossi e gli oltre 800mila appartenenti ad altre denominazioni cristiane. Quanto al calo progressivo del cristianesimo in genere, questo si spiega anche in base a una caratteristica peculiare della legislazione tedesca, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa destinata alle chiese (e alle diverse fedi non cristiane) per chi rinunci formalmente alla sua appartenenza a esse, dichiarandosi non religioso. Una scelta, questa, sempre più gettonata, vuoi per il risparmio economico che ne deriva, vuoi perché si assiste oggi a una progressiva e sempre più rapida secolarizzazione della società tedesca.
Le molte facce dell’islam tedesco
Tornando all’islam tedesco, dicevamo – ed è un punto fondamentale da ricordare – che questo non è riducibile a un’unica matrice, ma è al contrario assai composito e multiforme. Se questo è vero per la religione musulmana in generale, che è nella realtà ben lungi dalle semplificazioni a cui ricorrono troppo spesso i nostri media, nel contesto tedesco questa pluralità risulta per molti versi ancora più accentuata. Da un lato, troviamo così luoghi e istituzioni all’avanguardia del mondo musulmano per modernità e apertura; dall’altro, un islam più tradizionale e ancorato nelle sue consuetudini nelle comunità immigrate più o meno recenti, da quella turca a quella siriana; infine, non manca una porzione, assai piccola da un punto di vista numerico, ma significativa perché senza dubbio pericolosa, di musulmani radicalizzati e spesso connessi, in modo più o meno diretto, alla galassia del terrorismo internazionale.
Ma, anche qui, ancora una volta, è importante combattere i pregiudizi e le facili semplificazioni. Estremismo religioso di matrice salafita e crisi dei profughi sono questioni distinte, che non vanno poste in diretta relazione. A spiegarcelo è Yan St-Pierre, esperto di antiterrorismo fra i più importanti in Germania e direttore del Modern Security Consulting Group di Berlino, che abbiamo interpellato: «La scena salafita in Germania è molto variegata. Mentre gli elementi stranieri svolgono un loro ruolo – sia tramite i migranti residenti a lungo termine, sia tramite la comunicazione internazionale – la maggior parte degli individui appartenenti a questi movimenti sono nati e cresciuti in Germania».
Il caso di Seyran Ates
Sempre per voler contrastare comode semplificazioni e luoghi comuni, ricordiamo come il luogo di culto musulmano più aperto in Germania, in tutti i sensi, sia iniziativa di un immigrata di prima generazione. Ci riferiamo a Seyran Ates, avvocata femminista di fede musulmana, nata in Turchia, che ha fondato a Berlino una moschea dove sono le donne a guidare la preghiera e la congregazione è mista e non separata. Un luogo di preghiera aperto a tutti, anche ai gay, ma curiosamente non alle donne che portino un velo integrale, dato che questo è ritenuto un modello di religiosità non auspicabile da questa congregazione, in quanto simbolo del patriarcato e non rimandabile in alcun modo direttamente al dettato coranico. Cosa peraltro verissima, quest’ultima, come sa bene chiunque abbia studiato il testo sacro dei musulmani.
Eppure, come testimoniano anche le continue minacce e intimidazioni subite dalla coraggiosa Seyran Ates, l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno radici anche in Germania. E ciò in ragione di una piccola minoranza il cui operato viene naturalmente amplificato dagli strumenti dell’odio e della violenza, assai più visibili e percepibili, purtroppo, del quietismo che contraddistingue la vita religiosa di larga parte dei musulmani tedeschi.
Islam e terrorismo
La violenza fa notizia, l’opera paziente dell’integrazione e della pace molto meno, come sappiamo. Abbiamo già parlato degli attentati di matrice religiosa compiuti in Germania in tempi recenti. A dispetto delle stime assai variabili e in parte contraddittorie, sono diverse centinaia i combattenti che negli ultimi anni hanno lasciato la Germania per unirsi ai miliziani del sedicente Stato islamico. Molti di loro, ricordiamolo, sono giovanissimi o persino adolescenti, che – in diversi casi attestati – non hanno nulla a che fare con un retroterra di immigrazione. Una storia, quella radicalismo islamico in terra tedesca, che in Germania ha radici profonde. Già sul finire anni ’90 era infatti attiva la cosiddetta «cellula di Amburgo», il cui leader, Mohammed Atta, è noto in tutto il mondo per aver guidato l’attacco dell’11 settembre.
Una sfida importante, quella contro l’estremismo. affrontata dalla società e dalle istituzioni tedesche. Importante perché investe non solo la sfera della sicurezza, ma inevitabilmente anche l’educazione e la prevenzione del radicalismo. Temi e questioni, questi, che spesso si intersecano gli uni alle altre, e che non possono restare separati. Come ci ha raccontato ancora l’esperto di antiterrorismo Yan St-Pierre: «La Germania è notevolmente migliorata nel suo modo di rapportarsi a tale questione. Ha adattato la sua strategia, passando da un puro sistema di forze di sicurezza a uno che risulti più inclusivo e flessibile, e preveda l’utilizzo di organizzazioni private, Ong e l’integrazione di approcci e idee provenienti sia dalla sfera civile che da quella delle organizzazioni di sicurezza». Una sfida su cui si gioca il futuro del paese, ma anche dell’Europa intera, dato il pericolo concreto di nuovi attentati e la centralità della questione nelle agende politiche del vecchio continente.
Ma non sono solo le tre religioni abramitiche, ovvero ebraismo, cristianesimo e islam, a contraddistinguere il panorama religioso della Germania di oggi. A parte gli oltre 29 milioni di tedeschi che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa, e rappresentano il 36,2% della popolazione, ovvero una fetta assai consistente e in continua crescita, troviamo altre minoranze religiose legate spesso alle migrazioni. Fra questi, ricordiamo almeno buddhisti, induisti e sikh. Da menzionare è anche il caso degli yazidi, minoranza religiosa perseguitata e sterminata dal sedicente Stato islamico, che secondo l’ultimo censimento risultano essere 60.000. In Germania si trova oggi, come dimostrato da una recente indagine demografica, più della metà della diaspora di questo popolo sofferente. Un’oasi di pace per una cultura che rischia di scomparire, ma anche un segno che la solidarietà in Germania ha dato buoni frutti.
La speranza di «House of One»
Per concludere con un altro segno di speranza, cosa quanto mai utile in un’epoca in cui alle religioni si associano sempre più di frequente intolleranza e violenza, parliamo di un progetto importante di convivenza e condivisione fra differenti culture e fedi: un unico edificio che raccolga sotto uno stesso tetto una chiesa, una sinagoga e una moschea, permettendo ai fedeli di diverse religioni di pregare fianco a fianco. Un sogno che diventerà presto realtà a Berlino, dove le tre grandi religioni di Abramo avranno per la prima volta uno spazio comune. Il progetto – realizzato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi che ha vinto il concorso indetto nel 2012 – sorge sul sito dove si trovano i resti della più antica chiesa di Berlino, la chiesa di San Pietro (Petrikirche), risalente al tredicesimo secolo e distrutta negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Questo è il messaggio della House of One, «la Casa dell’Uno», così chiamata in onore del Dio unico che contraddistingue e accomuna i tre monoteismi: un simbolo di pace, in un mondo dove fanatismo e odio avanzano in modo sempre più deciso. Ma, insieme, anche un segno concreto di rinascita e riscatto per una nuova Germania risorta dalle ceneri del nazismo.
Simone Zoppellaro
Schede
Dati demografici
Popolazione – 82 milioni di persone.
Stranieri – I residenti di origine straniera che vivono oggi in Germania sono 18,6 milioni, pari a oltre un quinto della popolazione totale, con un aumento record dell’8,5% nel 2016 rispetto all’anno precedente.
Nazionalità – I cittadini stranieri residenti in Germania in ordine per nazionalità: primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece gli italiani, 611mila (con una crescita di 15mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni.
Comunitari – L’immigrazione in Germania non riguarda solo i cittadini cosiddetti extracomunitari. Dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dai paesi dell’Unione europea è più che triplicato. Nel solo 2016, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in Germania.
Illegali – Numero di ingressi illegali nel paese nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati: 865.374 (dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca). Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225).
Le Chiese
Chiese e fedeli – Le prime due chiese per numero di fedeli sono la Chiesa cattolica con 23,6 milioni e la Chiesa evangelica 21,9 milioni.?Seguono la Chiesa ortodossa 2 milioni e altre Chiese cristiane 851mila. I musulmani sono 4,5 milioni, gli ebrei 99mila, i senza confessione o non religiosi 29,8 milioni.
1945, 19 ottobre: la Chiesa evangelica di Germania pronuncia la «Dichiarazione di colpa di Stoccarda».
Alcune date storiche
1945, 30 aprile: Adolph Hitler si toglie la vita nel suo bunker a Berlino.
1945, 7 maggio: il generale Alfred Jodl firma a Reims, in Francia, i documenti della resa tedesca.
1945, 26 giugno: nascita dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), il partito più importante della scena politica tedesca, di cui farà parte anche l’attuale cancelliera Angela Merkel.
1945, 20 novembre: si inaugura il processo di Norimberga contro alcuni dei maggiori criminali del regime nazista.
1949: la Germania viene divisa. Nascita della Repubblica federale tedesca ad Ovest, il 23 maggio, sotto l’influenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, mentre il 7 ottobre nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad Est, che gravita nell’orbita sovietica.
1950: ha inizio il boom economico della Germania federale.
1953, 17 giugno: un’ondata di scioperi nella Germania orientale viene soppressa nel sangue.
1955, 9 maggio: la Germania federale entra a fare parte della Nato.
1961, 13 agosto: costruzione del muro di Berlino.
1989, 9 novembre: caduta del muro di Berlino.
1990, 3 ottobre: la Germania viene ufficialmente riunificata.
2005, 22 novembre: Angela Merkel viene eletta cancelliere in un governo di coalizione fra i partiti della Cdu-Csu e della Spd (partito socialdemocratico).
2015: la crisi dei rifugiati tocca il suo punto più alto. La Germania della Merkel sceglie una politica delle porte aperte.
2016, 19 dicembre: attacco terroristico rivendicato dall’Isis al mercato di Natale a Berlino.
2017, 24 settembre: elezioni federali in Germania e rielezione di Angela Merkel (Cdu-Csu). Il partito Alternative für Deutschland (Afd) diventa però la terza forza nel Bundestag.
Simone Zoppellaro
Brasile: La lotta per la terra
Pur essendoci una enorme disponibilità di terreni coltivabili, in Brasile la terra è un privilegio riservato a pochi. Mentre quattro milioni di famiglie senza terra («sem terra») debbono lottare per la sopravvivenza quotidiana, i latifondisti – grandi sostenitori del governo golpista di Temer – sono oggi più spregiudicati che mai. Secondo l’annuale rapporto della «Commissione pastorale della terra» (Cpt), nel 2016 i conflitti rurali sono stati 1.079. Ecco perché in Brasile, il paese più violento al mondo, per la terra si uccide e si muore.
Colniza, cittadina del Mato Grosso, 19 aprile 2017. Quattro pistoleri, assoldati da un impresario del legno (madeireiro), uccidono 9 contadini tra i 23 e i 57 anni che si erano insediati su un’area in disputa. Vari corpi vengono trovati legati e due con la gola tagliata: la perizia stabilirà che le vittime sono anche state torturate.
«Questo massacro – scrive il 21 aprile la locale prelatura di São Félix do Araguaia (guidata da dom Adriano Ciocca Vasino e dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito) – accade in un momento storico di usurpazione del potere politico attraverso un golpe istituzionale (la destituzione della presidenta Dilma e la sua sostituzione con Temer, ndr). […] Viviamo in una situazione di “terra senza legge”, una vera guerra civile nel nostro paese».
Pau d’Arco, cittadina del Pará, maggio 2017. Fazenda Santa Lúcia, 5.694 ettari di terra di proprietà della famiglia Babinski. Dal 2013, su un’area non utilizzata della fazenda, si susseguono varie occupazioni di piccoli gruppi di contadini senza terra (sem terra) e azioni di recupero del possesso da parte del (supposto)1 proprietario (ações de reintegração de posse). Il 24 del mese la situazione precipita. Le forze di polizia – civile e militare, 29 persone in totale -, in combutta con l’impresa di sicurezza della fazenda (la Elmo Segurança Especializada), uccidono 10 contadini sem terra, compresa una donna.
Nel silenzio delle istituzioni, la presa di posizione congiunta di cinque importanti organismi della Chiesa cattolica brasiliana2 è immediata e durissima: «La versione ufficiale degli organi pubblici dello stato – si legge nella nota pubblicata il 31 maggio – è stata che le morti sono avvenute in un confronto armato, in quanto gli agenti di polizia erano stati accolti a fucilate. Questa versione pretende di far credere che il popolo brasiliano sia imbecille e non abbia capacità di discernimento. Com’è possibile che, in un confronto armato, nessuno dei 29 poliziotti coinvolti nell’azione sia stato ferito? Perché la scena del crimine è stata smantellata, con gli stessi poliziotti che hanno trasportato i corpi in città?».
«È evidente – continua la nota – che questa esacerbazione dei conflitti agrari per numero e violenza è collegata alla crisi politica e al prevalere delle forze dell’agroindustria sui poteri dello stato brasiliano».
A parte i due episodi qui raccontati (i più eclatanti a causa del numero delle vittime), nei primi sette mesi del 2017 sono stati assassinati 48 contadini. Secondo Conflitos no campo Brasil 2016, il rapporto della «Commissione pastorale della terra», lo scorso anno nel paese ci sono stati 1.079 conflitti agrari e 61 persone assassinate, 5 al mese.
I conflitti legati alla terra sono una costante del Brasile, paese che, tra l’altro, detiene – con 60.000 omicidi all’anno – il (poco lusinghiero) primato mondiale nella classifica della violenza3.
La concentrazione fondiaria e le terre improduttive
La causa prima della questione agraria in Brasile nasce dal latifondo e dalla concentrazione della terra in pochissime mani.
Basandosi sui dati (prudenziali)4 raccolti da Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária) con riferimento al 2010, il 55,8 per cento delle terre disponibili è in mano al 2,5 per cento dei proprietari (i latifondisti). Il restante delle terre si divide tra: il 19,9 per cento in mano a medi proprietari (7% dei proprietari), il 15,5 per cento a piccoli proprietari (26%, pari a circa 1,3 milioni di famiglie) e 8,2% a proprietari di minifondi (64%, circa 3,3 milioni di famiglie). Anche se la definizione di grande, media, piccola e mini non è stabilita dal numero di ettari, ma dai cosiddetti moduli (unità di misura variabili che tengono conto di vari parametri)5, è evidente che la maggior parte dei proprietari di piccoli fondi o di minifondi hanno vita dura, spesso ai limiti della sopravvivenza. Al fondo di questa scala della diseguaglianza, ci sono circa 4 milioni di famiglie contadine, corrispondenti a 20 milioni di persone, che non hanno accesso alla terra: sono i cosiddetti sem terra. In questo quadro fondiario s’inserisce un altro dato essenziale, quello delle terre improduttive: il 72 per cento dei latifondi – pari a 2,3 milioni di chilometri quadrati – è considerato tale.
Delle terre improduttive si è occupata la Costituzione del 1988 – negli articoli 184 e 185 -, prevedendo la loro espropriazione per interesse sociale e per i fini della riforma agraria.
La riforma agraria e l’Incra
L’Incra, nata nel 1970, è l’organismo federale che ha il compito di attuare la riforma agraria. Come?
Stando alla prima delle sue cinque direttive strategiche, essa dovrebbe promuovere la democratizzazione dell’accesso alla terra attraverso la creazione di insediamenti rurali sostenibili e la regolarizzazione delle terre pubbliche; la sua azione dovrebbe inoltre contribuire allo sviluppo sostenibile, alla riduzione della concentrazione della struttura fondiaria e alla riduzione della violenza e della povertà nelle campagne.
Se facciamo riferimento ai numeri da esso divulgati, l’istituto avrebbe beneficiato con un lotto di terra quasi un milione di famiglie brasiliane, per l’esattezza 977.039. Non è dato tuttavia sapere quante di esse siano ancora sulla terra assegnata e quante l’abbiano abbandonata o venduta.
«So – racconta fratel Carlo Zacquini da Boa Vista – di molti terreni abbandonati perché gli agricoltori non potevano viverci; non avevano la possibilità di vendere i loro prodotti, o non avevano accesso ad assistenza medica. Insomma, dovevano scegliere tra la terra e la vita».
Si calcola che un 12% dei lotti assegnati tornino all’Incra. Gli esperti spiegano che il problema dell’abbandono dipende dalla mancanza di una politica agricola (ad esempio, incentivi per produrre) e di infrastrutture negli insediamenti rurali.
In ogni caso, in Brasile la questione agraria rimane più viva che mai. Anzi, in questi ultimi venti anni si è aggravata per l’entrata in scena di una nuova, potente variabile: l’agronegócio.
I costi sociali e ambientali dell’agrobusiness
Dagli anni 2000 il panorama agricolo brasiliano è radicalmente mutato: alle tradizionali monocolture di canna da zucchero, caffè e cotone si sono aggiunte le grandi monocolture industriali – piantagioni di soia, coltivazioni per biocombustibili (sia biodiesel che etanolo), miglio, foreste coltivate a eucalipto e pino – e l’allevamento estensivo, bovino e avicolo. L’agronegócio (agrobusiness, in inglese) vale oggi il 23% del Prodotto interno lordo del Brasile. È l’unico settore produttivo che, in questi anni di grave crisi economica per il paese, ha continuato a crescere.?Anche nel 2017, nonostante lo scandalo della carne adulterata6.
Detto del suo peso e della sua importanza in ambito economico, occorre enumerare le conseguenze negative che l’agrobusiness comporta: accaparramento delle terre e conseguente incremento della loro concentrazione; inquinamento ambientale da utilizzo intensivo di agrotossici; devastazione ambientale causata dalla deforestazione e dalla perdita di biodiversità; riduzione della forza lavoro agricola e sfruttamento di quella impiegata; emarginazione e morte dell’agricoltura familiare. A ben guardare, dunque, i benefici economici dell’agrobusiness sono di gran lunga superati dai costi sociali e ambientali che lo stesso comporta.
Come ha ricordato la Conferenza dei vescovi brasiliani in un documento del 2014 sulla questione agraria, il predominio politico e ideologico dell’agrobusiness ha trasformato la terra in una merce qualunque, in palese contrasto con la funzione sociale e ambientale stabilita dalle norme costituzionali del 1988.
Il Movimento dei sem terra, la Chiesa, le occupazioni
Qualche anno prima dell’88, nel gennaio del 1984, a Cascavel, nello stato del Paraná, era nato il Movimento dei sem terra (Mst), un’organizzazione contadina che in poco tempo sarebbe diventata una protagonista della storia brasiliana. Già nel suo primo congresso, celebrato nel gennaio del 1985, il Movimento adotta il principio dell’«occupazione della terra come forma di lotta» (a ocupação de terra como forma de luta).
«I latifondisti – scrivono le autrici del libro La lunga marcia dei senza terra – definiscono le occupazioni di terre “invasioni”, un attentato al sacro diritto di proprietà garantito dalla Costituzione, e lo dicono senza pudore, come se le loro sterminate proprietà non fossero il frutto dell’invasione di terre indigene, del furto di terre pubbliche e del grilagem ai danni di piccoli proprietari e posseiros. […] L’occupazione, evidenziano [i senza terra], è in perfetto accordo con la Costituzione, la quale stabilisce che tutte le proprietà improduttive devono essere espropriate»7.
Il Movimento dei sem terra ha trovato un modus vivendi anche con la Chiesa cattolica brasiliana, come racconta bene La lunga marcia dei senza terra: «Se, negli anni Sessanta, la Chiesa cattolica aveva sostanzialmente appoggiato la dittatura militare, l’orientamento, grazie allo sviluppo della teologia della liberazione, era in seguito cambiato, traducendosi nella nascita della Cpt e nella formazione di una schiera di vescovi progressisti. Così, [sottolinea João Pedro Stédile, leader dei sem terra] “se in precedenza la linea della Chiesa era stata: “Non preoccuparti, avrai la tua terra in paradiso”, il nuovo indirizzo diventa: “Considerando che hai già la terra in paradiso, lottiamo perché tu l’abbia anche qui”»8.
Assai meno comprensivi della Chiesa cattolica sono i media, in particolare Rede Globo, la prima rete televisiva del paese, e Veja, il principale settimanale brasiliano. Questi non perdono occasione per attaccare frontalmente l’Mst, accusato di ogni cosa, finanche di terrorismo.
Il Movimento però non arretra. Anzi, nell’attuale clima di grave crisi politica, economica e morale, da luglio 2017 esso ha accentuato le occupazioni. Al grido di «Corrotti, ridateci le nostre terre», gruppi di senza terra hanno occupato fazendas di persone importanti. O di politici. Come una fazenda di Rondonópolis, nel Mato Grosso, appartenente al gruppo Amaggi, impresa della famiglia del ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, fazendeiro, uno dei più grandi produttori mondiali di soia (e uomo simbolo in tema di conflitto d’interessi).
Se il danno patrimoniale conta di più
Sotto il governo di Temer (persona indagata per corruzione, ma disposta a qualsiasi concessione alle lobbies parlamentari pur di rimanere in sella)9 la situazione sociale nel paese si è aggravata.
«La criminalizzazione e la destrutturazione di Incra e Funai (l’organismo che si occupa delle terre indigene, ndr) – si legge in un recente rapporto del Comitato brasiliano dei difensori dei diritti umani – sono utili per il proposito della bancada ruralista del Congresso nazionale di farla finita con le politiche agrarie che riguardano le lavoratrici e i lavoratori rurali sem terra, gli indigeni, i quilombolas10 e i restanti popoli della campagna, della foresta e delle acque»11.
Che il clima sia pesante per i diritti delle frange più deboli della popolazione lo si capisce anche dalla cronaca quotidiana. Lo scorso 9 agosto, a Belém, capoluogo del Pará, un giudice ha stabilito l’immediata liberazione degli 11 poliziotti militari e dei 2 poliziotti civili che erano stati incarcerati per il massacro del 24 maggio a Pau d’Arco, nel Sud dello stato, in cui erano rimasti uccisi 10 contadini (e di cui abbiamo parlato all’inizio).
Una decisione probabilmente avventata e incomprensibile, ma legittima, presa da un organo autonomo dello stato. Tuttavia, si fa notare, che i 22 contadini accusati di aver assaltato il 28 ottobre 2016 la Fazenda Serra Norte, a Eldorado dos Carajás (sempre nel Pará)12, sono ancora in carcere.
Davanti a questi fatti, si arriva alla conclusione che, nel Brasile del 2017, un danno patrimoniale è più grave di un omicidio. O almeno è così se la morte riguarda dei sem terra.
Paolo Moiola
Note
(1) Sulla fazenda in questione circolano voci di grilagem. Con tale termine si definisce l’occupazione di terre a partire da una frode e da una falsificazione di titoli di proprietà.
(2) Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conselho Pastoral dos Pescadores (Cpp), Serviço Pastoral do Migrante (Spm), Cáritas Brasileira, Conselho Indigenista Missionário (Cimi).
(3) Fonte: Ipea-Fbsp, Atlas da violência 2017, Rio de Janeiro, giugno 2017.
(4) La classificazione di Incra è stata fatta con i dati dichiarati dai proprietari.
(5) Un modulo è un’unità di misura, espressa in ettari, che tiene conto non soltanto dell’estensione, ma anche delle condizioni geografiche e ambientali che caratterizzano quella proprietà rurale. Un modulo può quindi variare da regione a regione e da municipio a municipio. Per esempio, un modulo dell’Amazzonia ha una dimensione diversa da quella delle regioni del Nordest o del Sud. Per approfondire la (complessa) tematica si consulti il sito di Incra.
(6) Si tratta dello scandalo carne fraca («carne debole»). Riguarda l’esportazione di carne – sia di bovino che di pollo – adulterata con prodotti chimici. Ha coinvolto anche i giganti brasiliani del settore: JBS e BRF.
(7) In Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, pag. 47.
(8) Ibidem, pag. 25.
(9) Pur coinvolto in uno scandalo di corruzione, il presidente golpista Michel Temer è stato salvato dal voto della maggioranza del Congresso nazionale (2 agosto). Un salvataggio che lo pone ancora più in balia dei gruppi parlamentari che lo sostengono. Ultimo dazio pagato è il decreto presidenziale che estingue la riserva amazzonica Renca, aprendo quel territorio incontaminato alle mire delle compagnie estrattive (23 agosto).
(10) Sono comunità etniche – quasi sempre costituite da popolazione nera – con tradizioni e pratiche culturali proprie. Si stima che nel paese siano oltre 3.000.
(11) In Vidas en luta, rapporto del «Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos», 2017, pag. 20.
(12) Eldorado dos Carajás è la località tristemente famosa per il massacro di 19 sem terra, avvenuto il 17 aprile del 1996, a opera della polizia militare dello stato del Pará.
Bibliografia
Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, Emi, Bologna 2014;
Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), A Igreja e a questão agrária brasileira no início do séc XXI, 2014;
Comissão Pastoral da Terra, Conflitos no campo 2016, maggio 2017;
Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos, Vidas em luta: criminalização e violência contra defensoras e defensores de direitos humanos no Brasil, 2017;
R.S.Caldart – I.B.Pereira – P.Alentejano – G.Frigotto (curatori), Dicionário da Educação do Campo, Rio de Janeiro – São Paulo 2012.
www.mst.org.br – Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (Mst)
www.incra.gov.br -Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária (Incra)
Popoli indigeni e sem terra
Evitare una guerra tra poveri e defraudati
La questione della terra riguarda sia i contadini che i popoli indigeni. Con differenze sostanziali.
Quali relazioni esistono tra la terra dei popoli indigeni e la terra reclamata dai sem terra? Sono soggetti in contrasto per uno stesso obiettivo? Un articolo pubblicato sul sito del Mst (25 aprile 2017) si concludeva così: «La alleanza tra sem terra e popoli indigeni è cruciale per affrontare il capitalismo e per combattere l’agrobusiness».
Al di là di una teorica alleanza (comunque non così scontata), ci sono situazioni che non possono non produrre contrasti, anche gravi: come comportarsi quando dei sem terra invadono e occupano un territorio indigeno? E se arrivano dei piccoli allevatori di bestiame? O dei contadini senza terra che si sono trasformati in garimpeiros (cercatori d’oro) o madeireiros (tagliaboschi)?
Detto questo, le differenze tra popoli indigeni e sem terra rispetto alla terra sono sostanziali.
Per l’aspetto socioeconomico e antropologico – I sem terra sono dei contadini che vedono la terra come elemento economico per il sostentamento loro e delle proprie famiglie. Essi praticano un’agricoltura di tipo stanziale. Per i popoli indigeni la terra ha in primis una valenza culturale e religiosa, mentre l’aspetto economico è secondario e anzi l’aggettivo «economico» risulta forzato. All’agricoltura stanziale gli indigeni preferiscono la caccia, la pesca e la raccolta dei frutti della foresta. È vero tuttavia che, dopo alcuni secoli di contatto (quasi sempre disastroso) con i non indigeni, alcuni popoli o singoli individui hanno acquisito abitudini occidentali e abbandonato usanze proprie.
Per l’aspetto giuridico – La politica agricola, quella fondiaria e la riforma agraria sono trattate dagli articoli 184-191 della Costituzione federale del 1988. Tuttavia, per i diritti dei sem terra occorre fare riferimento alla legge ordinaria. Per esempio, alla legge n. 4.504 del 30 novembre del 1964 che organizza la riforma agraria e la politica agraria. Per i popoli indigeni invece la fonte primaria dei loro diritti sulla terra è data dalla stessa Costituzione
del 1988, la prima tra le fonti del diritto. Gli articoli costituzionali 231 e 232 stabiliscono il diritto dei popoli indigeni al possesso permanente delle terre tradizionalmente occupate e all’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi che su quella terra si trovano. I popoli indigeni non ne sono però i proprietari e dunque, per esempio, non possono vendere la terra. La proprietà della stessa è del governo brasiliano, il quale si riserva anche il diritto di sfruttarne il sottosuolo. A livello giuridico internazionale, per i popoli indigeni è importante ricordare anche la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), che il Brasile ha sottoscritto.
Per l’aspetto istituzionale – I sem terra debbono fare riferimento all’«Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária» (Incra). L’organo federale di riferimento per i popoli indigeni è invece la «Fundação Nacional do Índio» (Funai). Sia Incra che Funai sono oggi sotto attacco da parte del governo e del Congresso nazionale. Un ruolo molto importante riveste, infine, il «Ministério Público Federal» (Mpf), il guardiano della Costituzione del 1988.
Paolo Moiola
I Perdenti 29: Don Giuseppe Rossi, martire della carità e della libertà
Martire della carità e della libertà, così è definito don Giuseppe Rossi, parroco della frazione di Castiglione Ossola, facente parte del Comune di Calasca – Castiglione nella provincia di Verbania. La sua figura di sacerdote e martire, s’inquadra nel fosco scenario del declino del regime fascista in Italia, in cui prese a brillare la luce della Resistenza. In quel periodo sia i partigiani, sia i nazifascisti in ritirata, negli scontri armati che ebbero, subirono rilevanti perdite. In mezzo finirono comunità innocenti decimate dalle rappresaglie, alcune di grande efferatezza come a Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ecc. dove le vittime si contarono a centinaia.
In questo martirologio di donne, bambini, vecchi, bisogna includere tanti sacerdoti e parroci delle zone coinvolte, che perirono insieme ai loro fedeli che non vollero abbandonare. Cercarono anzi di difenderli invitandoli a trovar «asilo» nelle chiese, cosa che però non fermò la ferocia dei nazifascisti.
Fra tanti eroici sacerdoti e parroci, ci è caro ricordare don Giuseppe Rossi.
Egli nacque il 3 novembre 1912 a Varallo Pombia (Novara), studiò nel Seminario diocesano e fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1937 a 25 anni. Era un prete alto e magro con occhiali rotondi, all’ordinazione scelse una frase di San Paolo come motto del suo ministero sacerdotale, che si rivelerà profetica: «Darò quanto ho, anzi darò tutto me stesso per le anime vostre».
Dopo qualche incarico come vice parroco, nel 1939 il vescovo lo nominò parroco di Castiglione Ossola. Un anno dopo, il 10 giugno 1940, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania di Hitler. Negli anni che seguirono don Giuseppe Rossi, come pastore e guida di quella comunità, fece quello che poteva per gli angosciati fedeli della sua parrocchia, fino all’offerta totale della sua vita.
Caro don Giuseppe, noi generazione che vive in tempi lontani dalla seconda guerra mondiale, guardando la tua fotografia vediamo un «pretino» magro e asciutto, con tanto di talare, che incarna il modello dei sacerdoti della tua epoca…
Quelli erano tempi difficili, portare la talare era normale, ma in certe circostanze significava assumere degli atteggiamenti che mettevano bene in luce da che parte si stava.
Nominato parroco di un paese di montagna in età abbastanza giovane, che iniziative prendesti quando arrivasti a Castiglione Ossola?
Cominciai a girare in bicicletta tutto il paese, visitando famiglia per famiglia, in questo modo mi accorsi subito che a causa della mancanza di generi alimentari, legata alla guerra in atto, molta gente viveva in povertà. Decisi di comprare il riso alla borsa nera per sfamare la mia gente. Mia sorella Maria cucinava diverse minestre che poi alla sera, approfittando del buio, io stesso distribuivo nelle case dei più bisognosi.
E a livello di azione pastorale quali furono le attività che mettesti in atto?
Organizzai l’Azione Cattolica per i ragazzi, la Conferenza di San Vincenzo per i più poveri. Con le poche risorse che riuscivo a racimolare cercavo di dare una mano alle missioni e nonostante il triste periodo della guerra mi impegnavo nell’attività catechetica. Attraverso la celebrazione della santa messa quotidiana, per quanto mi era possibile, cercavo di alimentare la speranza fra la mia gente.
Già, la guerra. Chi non l’ha vissuta non riesce a immaginare come essa ti sconvolga la vita, anche se non sei al fronte a combattere…
Infatti i giovani partiti per il servizio militare mi scrivevano lunghe lettere dai diversi fronti e io, parroco della loro comunità, rispondevo a ciascuno, cercando di far sentire la mia presenza accanto a loro assicurando la mia umile preghiera.
Dopo l’8 settembre del 1943, seguì un periodo di generale sbandamento e di grandi eventi politici e purtroppo anche tragici, molti dei giovani della Val d’Ossola, salirono sui monti dell’alta valle e si arruolarono nelle formazioni partigiane.
Nell’agosto-settembre 1944 nel territorio dell’Ossola fu istituita una Repubblica partigiana. Pur avendo chiaro da che parte stare, pubblicamente non presi posizione per nessuno, anzi cercai di mantenere una condotta il più prudente possibile per non far correre inutili pericoli alla mia popolazione.
L’episcopato piemontese del resto si era espresso molto chiaramente invitando il clero a non schierarsi per nessuna delle parti in causa, ma rimanere al di sopra di esse, proprio per offrire a tutti indistintamente un servizio come «Buoni pastori».
Per questo volli essere un riferimento per tutti quegli uomini di ambo le parti che cercavano testimoni che incarnassero valori morali e religiosi per i quali valesse la pena di vivere e non morire, ma nel contempo soffrivo nel profondo del mio cuore nel vedere i sacrifici che i miei giovani facevano per conquistare la libertà e abbattere la dittatura.
In questo senso è rimasta famosa fra la tua gente una tua frase: «Chiunque bussa alla mia porta perché ha bisogno, io lo aiuto».
Ne avevo coniato un’altra che esprimeva lo stesso concetto: «Io aiuto chiunque si rivolge a me, perché per me tutti sono figli di Dio».
E il 26 febbraio 1945 fu il giorno del dolore. I partigiani furono informati che una colonna di fascisti della brigata «Muti» stava salendo la Valle Anzasca da Pieve Vergone per stabilire un presidio proprio a Calasca-Castiglione. Si appostarono sulle rocce vicino al paese. Erano in pochi, ma una strozzatura della valle dava loro un enorme vantaggio naturale.
Nell’attacco morirono due fascisti e altri 15 rimasero feriti. I partigiani si dileguarono, ma i fascisti organizzano una feroce rappresaglia, bruciando le case delle frazioni più vicine al luogo degli spari e rastrellando quanti trovano in strada per gli interrogatori. Tutti gli abitanti maschi fuggirono dal paese, mentre le donne si chiusero in casa. Alcuni parrocchiani mi invitarono a seguirli nella loro fuga, ma io non mi mossi, preferendo restare al mio posto.
I militi della «Muti», non contenti di aver bruciato case e rastrellato una cinquantina di persone fra vecchi, donne e bambini, presero anche te – il parroco – accusandoti di aver fatto suonare le campane per segnalare ai partigiani il passaggio della colonna militare.
I fermati, o meglio gli ostaggi, furono trattenuti fino a sera dopo un intero giorno di interrogatori. Stando con loro, a tutti raccomandavo di avere fiducia e calma, perché si faceva largo nella mia coscienza il pensiero che se la sarebbero presa solo con il pastore del gregge, ovvero io, loro parroco. Infatti dissi loro: «Prima di voi ci sono io. Sarò solo io a essere ammazzato».
E andò proprio così?
Verso sera fummo tutti liberati e tornammo alle nostre case e io in canonica, dove mia sorella mi scongiurava di scappare in montagna; ma non ci fu il tempo, infatti dopo pochi minuti si presentarono quattro Camicie Nere che mi arrestarono senza darmi nemmeno il tempo di infilare le scarpe e mi portarono via.
Don Giuseppe da quella sera sparì, lo trovarono alcune settimane dopo in un vallone sotto il paese, sepolto in una fossa che era stato costretto a scavare con le proprie mani. Il cranio gli era stato spaccato dal calcio di un fucile, aveva ricevuto una pugnalata alla schiena ed era stato finito con un colpo sparato in viso. Non si seppe mai chi lo uccise. Il comandante del presidio fascista di allora fu condannato nel 1946 per crimini di guerra, poi dopo aver chiesto perdono alla mamma di don Giuseppe e al parroco don Severino Cantonetti suo successore, scontò solo qualche anno di carcere.
A cento anni dalla sua nascita, il gesuita novarese Francesco Occhetta, in un articolo su «Civiltà Cattolica» dell’agosto 2014, che illustrava i motivi dell’apertura della sua causa di beatificazione, scrisse chiedendosi se il suo sia stato un vero martirio: la risposta è più che ovvia, in quanto la sua «testimonianza di vita evangelica» – in greco, martyrion – va ben oltre la sua drammatica esecuzione e rimanda a un modo di appartenere a Cristo nascosto nell’anonimato nonostante le crisi. La fedeltà di una promessa è portata al sacrificio di sé per la salvezza degli altri. È quanto la Scrittura riassume in un versetto: «Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita» (Ap 2,10).
La vita di don Giuseppe Rossi, tramanda alle generazioni future la grandezza della missione sacerdotale nel cruento sacrificio del martire.
Don Mario Bandera
Don Giuseppe Rossi, un sacerdote «per tutto e per tutti»
Mons. Franco Giulio Brambilla (Vescovo di Novara, diocesi che territorialmente comprende anche tutte le Valli dell’Ossola) nella messa di chiusura dell’anno centenario della nascita di don Giuseppe Rossi, celebrata il 22/09/2013 nella sua parrocchia di montagna, con il successore don Severino Cantonetti, sacerdote quasi centenario, decano del clero novarese e intrepido custode della memoria del predecessore, si era chiesto in che cosa e perché il modello di prete incarnato da don Giuseppe Rossi fosse ancora di attualità. Aveva dato tre risposte.
Anzitutto perché «il sacerdote, che don Rossi incarnava, era “per tutto e per tutti”, egli era un prete che ha vissuto, oltre alla vicinanza, la dimensione della prossimità. La parrocchia potrà cambiare le forme, ma non dovrà mai perdere questo elemento decisivo, che caratterizzò il tempo di don Rossi: dovrà sempre essere “per tutto e per tutti”. La porta della chiesa deve avere la soglia più bassa; cioè la porta deve essere la più accessibile a tutti».
Il secondo motivo – disse Mons. Brambilla – è la cura personale verso ogni parrocchiano. Quel sacerdote modello ha fatto sì che la parrocchia tradizionale fosse anche «per ciascuno». Non era, cioè, riferita solo «al quantitativo, ma anche al qualitativo»: sapeva valorizzare la storia, la vocazione, l’intuizione di ciascuno, e curare le persone con uno sguardo personale. Don Giuseppe era un parroco che proprio grazie alla sua grande umanità ha costruito la sua storia, insieme alla storia delle famiglie della piccola porzione di terra che era chiamato a servire, il suo essere prete fu un servizio totale e gratuito alla sua gente fino all’offerta della propria vita.
Infine la terza dimensione – aveva concluso il vescovo – è quella di aver avuto a cuore «il privilegio dei poveri, quelli che hanno la vita che fa fatica ad andare avanti nelle relazioni. Le relazioni sono oggi quelle che vengono più penalizzate».
Il paradigma dello sfruttamento infinito delle risorse del pianeta rimane dominante, sebbene abbia evidenziato i suoi enormi limiti. Esiste però un movimento che mostra un nuovo equilibrio con la natura. La terra ci fornisce cibo, ma noi dobbiamo prenderci cura di essa. Nasce il concetto di «agricoltura permanente», che getta le basi per un diverso modello di vita.
È possibile progettare un nuovo tipo di sviluppo basato su sistemi di vita sostenibili sia per le persone, sia per il pianeta? Questa domanda è lecito porsela in un’epoca come la nostra contraddistinta da una serie di profondi scossoni a livello economico e sociale. Si continua a parlare di un modello di sviluppo fondato sulla «crescita economica», sulla globalizzazione dei mercati e delle merci e sullo sfruttamento delle risorse della terra. Tuttavia, questo paradigma dominante appare proprio quello che ha prodotto le ultime crisi economiche in varie zone del mondo. Ormai da tre decenni, sappiamo che l’umanità ha iniziato a vivere al di là dei propri limiti ecologicamente sostenibili. In pratica, consumiamo più risorse rinnovabili di quante il pianeta possa metterne a disposizione, come evidenzia l’organizzazione internazionale di ricerca Global Footprint Network, impegnata da decenni ad analizzare il peso dei nostri stili di vita sugli equilibri ambientali.
Il modello attuale ha una visione eccessivamente globale dell’economia, poiché le maggiori industrie e multinazionali hanno bisogno di espandere i loro mercati per sopravvivere e per avere profitti. Questo approccio non tiene però conto delle peculiarità locali e regionali, negando e annullando le specificità di un territorio e della popolazione che lo abita. Negli ultimi decenni il modello della crescita economica costante e infinita è stato più volte messo in discussione, tanto da far emergere alcune alternative che si prefiggono di recuperare i nostri legami con la natura per avere un impatto più leggero sul pianeta. Questa rivalorizzazione di un’ecologia profonda la troviamo per esempio nel movimento della permacultura, approccio che cerca di riprendere antichi saperi, fondati in parte sulla saggezza contadina, rielaborandoli e attualizzandoli con nuove filosofie.
Riprogettare e ridefinire i nostri stili di vita
Il punto centrale della permacultura è lavorare la terra senza sfruttarla in modo invasivo, rimanendo in armonia con essa. L’Accademia di permacultura italiana definisce questo approccio «processo integrato di progettazione che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico». Si tratta di un modello di progettazione, di conservazione consapevole ed etica di ecosistemi caratterizzati da diversità, stabilità e flessibilità tipiche degli ecosistemi naturali.
La permacultura può essere applicata a un balcone, a un piccolo orto, a un grande appezzamento o a zone naturali, così come ad abitazioni isolate, villaggi rurali e insediamenti urbani. Allo stesso modo si applica a strategie economiche e alle strutture sociali. Si tratta quindi di progettare il proprio sistema di vita e l’ambiente in cui si abita partendo da una visione consapevole. Oggi è fondamentale recuperare un’interazione dinamica, proficua fra uomo e ambiente.
Agricoltura «permanente»
La permacultura mette al centro il concetto e la pratica dell’ecologia consapevole, attuabile a livello territoriale, oltre che a livello di gestione economica e di insediamenti umani.
Non a caso il termine permacultura integra insieme i termini inglesi permanent e agricolture: una sintesi che sottolinea l’importanza di sviluppare un modello socio economico e ambientale fondato su bassi consumi di energia fossile e sulle colture che durano diversi anni.
È a partire dagli anni ’70 del secolo scorso che incomincia a diffondersi la permacultura. È grazie alle ricerche degli australiani Bill Mollison e David Holmgren, i primi a parlare di agricoltura permanente, secondo i quali una cultura umana non può sopravvivere a lungo senza la base di una agricoltura sostenibile e una gestione etica della terra. Solo nel 2000 questo approccio è stato diffuso in Italia.
Applicare nella vita
Allievo di Mollison (1928-2016), Holmgren (classe 1955) è autore di diversi libri, tra cui «Permacultura» (ed. Il Filo Verde di Arianna, 2012). Holmgren ha imparato a creare terreni ecosostenibili attingendo dalla natura e dalle tradizionali conoscenze contadine; a riciclare e a utilizzare con più efficienza e parsimonia le risorse. Tra i tanti concetti, ecco a cosa è giunto a pensare: «Se facciamo entrare i bambini quando sono ancora molto piccoli in contatto con la gioia di raccogliere la verdura direttamente nell’orto, sarà più alta la probabilità che crescano con una comprensione profonda e intuitiva della nostra dipendenza dalla natura e dall’abbondanza dei raccolti».
Da qui l’importanza di accompagnare bambini e adolescenti nelle fattorie didattiche e in tutti quegli spazi che offrano l’opportunità di mostrare loro che non esistono solo centri commerciali, panini e merendine preconfezionate ma che c’è tutto un mondo vivo, vitale al di là del cemento urbano e della scatola televisiva. Holmgren invita la gente a essere partecipe dei cicli della natura e a preservare la biodiversità. Ciò è possibile per esempio diminuendo il consumo di oggetti in plastica, scegliendo detersivi alla spina e altri prodotti per i quali si riducono gli imballaggi.
Altrettanto importante è cercare di produrre una parte del cibo quotidiano: dal pane alla pasta, dallo yogurt alle torte, dalla frutta alla verdura. Chi vive in campagna può scegliere di seminare e piantare le colture più adatte a quel tipo di habitat (in base al terreno e al microclima), realizzando così un progetto di autoproduzione per la famiglia. Chi invece vive in città può tessere relazioni sociali che gli permettano di utilizzare prodotti «a km zero»: come contattare qualche piccola impresa agricola non distante dalla città o rivolgersi al più vicino Gruppo d’acquisto solidale (Gas).
Fondamentale anche l’uso sapiente dell’acqua attraverso, per esempio, sistemi di immagazzinamento della pioggia.
Semplice, ma rivoluzionario
Sepp Holzer è tra i pionieri della permacultura. Austriaco, classe 1942, Holzer è contadino e autore di diverse pubblicazioni sull’agricoltura biologica, che hanno riscosso notorietà a livello internazionale. A Sud di Salisburgo, Holzer ha creato la fattoria detta Der Krameterhof, caratterizzata da una straordinaria biodiversità. Il padre gli aveva lasciato in eredità un appezzamento di terra di 20 ettari e lui, nell’arco di 50 anni, l’ha estesa sino a raggiungere 45 ettari, dove sono coltivati differenti legumi, verdure, funghi, erbe medicinali e diverse varietà di alberi da frutto. Vi sono allevati anche vari animali e pesci d’acqua dolce, come trote, carpe e lucci. Tutto questo in una fattoria situata a un’altitudine che va da 1.100 ai 1.500 metri sopra il livello del mare. Gli inverni sono molto rigidi, ecco perché questo luogo, abbarbicato sul monte Schwarzenberg, viene chiamato «la piccola Siberia austriaca». Ma qui non vi sono né steppe desertiche, né terreni aridi. Anzi, tutt’altro. In base alle caratteristiche del suolo, Sepp sceglie quali piante seminare: per esempio, nei terreni asciutti coltiva aromatiche come timo, salvia e maggiorana, oltre che grano amaranto che non richiede molta acqua. Inoltre, Sepp ha rigorosamente bandito le monocolture e i semi ibridi: le prime impoveriscono il terreno, i secondi minacciano la biodiversità e costringono i contadini ad acquistarne regolarmente. Negli ultimi decenni la questione della perdita di diversità genetica negli orti e nelle fattorie è diventata anche questione politica, tanto che la Commissione agricoltura del parlamento europeo, nel 1991, stabilì un programma di conservazione delle risorse genetiche vegetali, incentivando reti di raccolta e progetti europei di banca del gene. Il lavoro di Sepp risponde perfettamente all’esigenza di salvaguardia della biodiversità, poiché ha seminato differenti varietà di piante, seguendo al contempo le consociazioni vegetali, un metodo che evita l’utilizzo di pesticidi chimici. Ogni verdura e frutta viene infatti associata a piante che hanno distinte funzioni: vi sono quelle che allontanano i parassiti dalle coltivazioni principali, e altre che li attirano su di sé, in modo da richiamare insetti che sarebbero dannosi per i vegetali dell’orto. Piante consociabili per esempio ai pomodori sono le carote, il prezzemolo e il tagete, mentre alla lattuga e all’insalata si possono associare fragole e ravanelli. Il metodo delle consociazioni vegetali aiuta poi ad attirare nell’orto insetti benefici, come le api, importanti per l’impollinazione dei fiori, e le coccinelle, preziose alleate contro la diffusione di afidi e moscerini.
Un terreno più fertile
In permacultura è stata inoltre riscoperta l’antica pratica del sovescio, utilissima per rendere più fertili i terreni, soprattutto se esposti al sole o se soggetti a climi secchi. La tecnica consiste nel coltivare vari tipi di erbe quando il suolo è a riposo o quando si pratica la rotazione delle colture tramite un’alternanza stagionale o annuale delle piante seminate. I vegetali coltivati seguendo la pratica del sovescio vengono tagliati e poi mischiati al suolo in modo da apportare ad esso sostanze nutritive come l’azoto. In alternativa, le erbe e le piante una volta falciate possono essere lasciate sul terreno a decomporsi, in modo da formare un humus ricco di microelementi. Questa tecnica evita l’erosione dei terreni e li protegge dal vento, dalla siccità e da altre intemperie.
Un altro metodo impiegato anche in permacultura per ovviare alla carenza di sostanze nutritive nel suolo è la creazione delle cosiddette aiuole rialzate. Come suggerisce il nome si tratta di uno spazio nell’orto o nel giardino, generalmente di piccole dimensioni, realizzato al di sopra del terreno naturale. Le aiuole vengono rialzate di 20-30 centimetri e sono circondate ai lati da assi in legno o muretti a secco. Questo metodo è valido nel caso si vogliano coltivare fiori o verdure in un ambiente più ricco di elementi nutritivi rispetto al terreno che abbiamo a disposizione, perché troppo calcareo, o perché caratterizzato da un pH nocivo per le piante che vogliamo far crescere.
Ridurre gli scarti
David Holmgren suggerisce questo slogan: «Rifiuta, riduci, riutilizza, ripara e ricicla». Se si seguono questi consigli, la produzione di rifiuti – che rappresentano un vero problema per tutte le società, soprattutto per quella capitalistico-occidentale – diminuisce notevolmente. Ecco il significato dello slogan:
– rifiutare di farsi coinvolgere nella mania del consumare a ogni costo, comprando cose che in realtà non ci servono;
– ridurre materiali ed energia o la frequenza del loro consumo;
– riutilizzare oggetti, come i contenitori con tappo a tenuta ermetica o vecchi tessuti della nonna, o scatole di cartone delle uova;
– riparare, in primis indumenti, piuttosto che buttare e poi comprare oggetti nuovi;
– riciclare per esempio gli scarti vegetali per produrre compost.
Un approccio culturale
Come suggerisce la parola stessa, permacultura non è soltanto un metodo di agricoltura biologica, ma più complessivamente un modo di progettare e vivere la vita secondo una visione ecologica rispettosa dell’ambiente e delle relazioni umane. Centrale in tutto questo è la cultura intesa in modo «sostenibile», molto differente rispetto all’approccio industriale ancora dominante nel mondo, come mette in evidenza la tabella riportata in queste pagine.
Silvia C. Turrin
Perché fare un orto
Qualche decennio fa, molte famiglie disponevano di un orto, piccolo o grande che fosse. Poi c’è stato il boom del cibo facile e dei supermercati sottocasa dove trovare tutto con comodità. Da qualche tempo a questa parte in molte nazioni, Italia inclusa, si sta tornando indietro. C’è chi coltiva sul proprio balcone o si è creato in giardino uno spazio ad hoc per la semina di qualche ortaggio, oppure c’è chi ha preso in affitto un appezzamento di terra per autoprodursi cibo fresco. Queste scelte potrebbero davvero rivoluzionare i nostri stili di vita e il sistema in generale. Basta guardare cosa hanno realizzato i britannici durante la Seconda guerra mondiale seguendo le direttive del piano «zappare per la vittoria»: sono riusciti a raggiungere l’autosufficienza alimentare grazie alla messa a coltura di un milione e mezzo di lotti di orto, che hanno prodotto circa una tonnellata di cibo per ogni terreno.
I corsi Imparare la permacultura
Chi desidera conoscere più a fondo queste tematiche, e praticare concretamente i principi della permacultura, può seguire un corso introduttivo riconosciuto a livello mondiale da tutte le organizzazioni di Permacultura della durata di 72 ore. Si tratta del modulo standard, denominato «Corso di progettazione in Permacultura», che deve essere tenuto da un insegnante abilitato. Chi vuole compiere un passo in più, e diventare progettista in permacultura, può seguire un corso di apprendimento, sotto la supervisione di tutor, della durata di almeno due anni. Al termine, previa presentazione del progetto, verrà riconosciuto il Diploma di progettazione in permacultura applicata.
Per info:
http://www.permacultura.it
http://www.permaculturaitalia.com
Allamano, un carisma per essere sempre “di moda”
Sono arrivati, come frutto del Capitolo da poco celebrato, gli «Atti», un modesto fascicoletto i cui semi, macinati e impastati, dovranno diventare il pane buono che alimenterà la futura attività missionaria, «rivitalizzata e ristrutturata». Tra le varie indicazioni, non poteva sfuggirci un’annotazione, che così suona: «Al Consiglio Continentale spetta mantenere vivo nel Continente l’approfondimento, lo studio, l’inculturazione e la trasmissione del carisma… promuovendo momenti di spiritualità centrati sul carisma (esercizi spirituali allamaniani, pedagogia allamaniana, ecc.)» (cfr. nn. 30 e 169). Poche e timide righe per ricordare a tutti i missionari l’importanza di rivitalizzare il nostro carisma (cioè la nostra stessa vocazione) che ha come sua limpida sorgente Giuseppe Allamano. Il suddetto suggerimento non sarebbe tanto originale, se non fosse per due paroline decisamente interessanti e cioè che, oltre allo studio e approfondimento del carisma, bisognerebbe curarne anche «l’inculturazione e la trasmissione». Per questo, l’invito viene rivolto non tanto all’Istituto nella sua totalità (come avveniva nel passato), ma ai singoli Continenti dove sono presenti i missionari e che, dal Capitolo, sono usciti come i veri protagonisti della missione Imc. Queste parole allargano il cuore perché, anche se appena sussurrate, ci confermano che l’Allamano non è un dono solo per noi, italiani o europei, ma può esserlo anche per altri popoli, altre culture, altri mondi diversi dal nostro (Allamano, missionario doc!). In più, questo dono non è relegato in un museo o in un santuario, ma è vivo e deve essere accolto da quelli che amano e invocano il Fondatore dei missionari della Consolata; occorre, perciò, «trasmettere e far conoscere» ciò che lui è stato per la Chiesa e il mondo. Proprio come avevano scritto i missionari, preparandosi al Capitolo: «Tra le ricchezze del passato che ci appartengono, c’è anche Giuseppe Allamano, un gioiello prezioso che non può rimanere chiuso in un forziere per paura di perderlo, ma deve tornare ad essere indossato, perché è soltanto esibendolo che potremo far vedere a chi ci incontra come il suo stile possa adattarsi anche alla moda del tempo presente. Uno dei nostri obiettivi consiste nel far nuovamente “indossare” il Fondatore. Non è parlando di lui che se ne mostra la bellezza spirituale, è “vivendone il carisma” che il suo pensiero, la sua dimensione spirituale, la sua ricchezza e profondità possono tornarci a dire qualcosa, anche oggi».
Giacomo Mazzotti
«Voi badate ai miei comandi, alle mie esortazioni e anche ai semplici desideri, che ben conoscete. Ecco ciò che vorrei da voi: la buona volontà, lo sforzo generoso e costante di assimilare lo spirito dell’Istituto». (Giuseppe Allamano)