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Questo numero si apre con il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale della pace, continua con padre Ugo per le strade di Seul in Corea del Sud, ci racconta del coraggio dei giovani di Brazzaville, entra nel mondo di un gruppo particolare di migranti (artisti, scrittori, professionisti, intellettuali …), riflette sulla “delusione” Europa, in Nicaragua ci fa incontrare la dinastia Ortega, svela le vergogne dell’inquinamento in Catalogna, si interroga su quale futuro con il presidente Trump, con il dossier entra nel mondo dei cinesi in Italia, inizia un cammino alla scoperta della Preghiera nella Bibbia … e tanto, tanto di più.
Messaggio di papa Francesco per la cinquantesima Giornata Mondiale per la Pace: La nonviolenza, stile di una politica di pace. ? sfogliabile | ? classica
Questo dossier introduce una tematica – i Cinesi d’Italia – di cui Missioni Consolata non si è mai occupata, se non in maniera occasionale. Lo abbiamo affidato a un giovane sinologo, Gianni Scravaglieri, che insegna la lingua cinese nelle scuole superiori della Lombardia. Queste pagine sono soltanto un inizio. È nostra intenzione tornare sull’argomento in un vicino futuro. Chi – cinese o italiano – voglia raccontare la propria esperienza scriva alla redazione. Nel frattempo, buona lettura. (pa.mo.)
Foto di Roberto Brancolini – A cura di: Paolo Moiola
Introduzione
Siamo cinesi
I lettori mi perdoneranno se, per introdurre questo dossier, partirò da alcuni ricordi personali. Molti, troppi anni fa vissi per qualche mese a San Francisco, in Califoia. Abitavo in centro, vicino a Chinatown. Era quest’ultimo un luogo che mi attraeva perché mi offriva una sensazione di esotico fino allora estranea alla mia esperienza d’italiano. Per approfondire quella sensazione, un paio di anni dopo feci un lungo viaggio in Cina, via terra e via fiume. Era trascorso un anno e mezzo dalla protesta di piazza Tienanmen (aprile-giugno 1989) e la Cina era ancora quella delle biciclette e delle campagne. Poi, nel giro di circa un decennio, tutto è cambiato in forza della globalizzazione e delle nuove dinamiche geopolitiche. La Cina è diventata la potenza industriale e commerciale che tutti conosciamo. Grandi aziende occidentali sono state comprate dai cinesi. Addirittura importanti squadre di calcio italiane sono passate nelle loro mani. In quasi ogni città del pianeta si sono costituite forti comunità cinesi, coese e laboriosissime. Con esse sono cresciuti anche miti e stereotipi. Oggi in Italia ci sono – stando ai dati Istat del 1 gennaio 2016 – 271.330 cinesi, pari al 5,4% del totale degli stranieri regolarmente registrati (5.026.153). Gli studi dicono che la grande maggioranza dei cinesi arriva dalla provincia di Zhejiang e in particolare dalla città di Wenzhou. Nelle mia piccola città natale, Rovereto, i cinesi sono poco più di un centinaio (su 5.000 stranieri), ma hanno avviato decine di attività imprenditoriali. Sono ristoratori, parrucchieri, estetisti, gestori di supermercati. Non è una leggenda metropolitana che, in generale, essi siano dei gran lavoratori, anche se spesso a scapito della concorrenza. Un taglio di capelli da un cinese costa la metà o anche meno che da un italiano. Stessa cosa vale nei ristoranti. Eppure, anche qui le cose stanno cambiando. Le cosiddette seconde generazioni parlano italiano e, pur non rinnegando le «guanxi» (il complesso sistema di relazioni familiari e sociali proprie del mondo cinese), sono più inserite nella società italiana. Magari con dubbi, perplessità, domande senza risposta, ma ci sono e vogliono progredire nel paese d’adozione, pur senza mai dimenticare la patria dei loro genitori. Anche per questo è interessante andare a leggere le esperienze riportate – in perfetto italiano – nel sito di Associna. «Nell’Italia della grande migrazione – si legge nell’ormai datato I cinesi non muoiono mai -, alla voce segni particolari, gli stranieri devono esibire indicazioni precise: sul musulmano abbiamo pregiudizi nitidi come cristalli, all’albanese imputiamo la violenza, allo zingaro i furti, al cinese rimproveriamo innanzitutto il mistero». In questi anni il rapporto con la comunità cinese ha imboccato percorsi molto diversi e certamente meno banali.
Paolo Moiola
Dai primi immigrati alle seconde generazioni
Il cuore (e il peso dei valori)
Il pensiero confuciano e il sistema delle «guanxi» rimangono centrali nella comunità cinese d’Italia. I giovani sono sicuramente più integrati dei genitori nella società d’adozione, ma il ruolo delle tradizioni resiste. Nel frattempo, con l’esplosione economica della Cina e la crisi italiana, i flussi migratori sono diminuiti. E, a volte, si sono invertiti.
I secoli di vita contadina, caratterizzati dalla precarietà del raccolto, dalla fatica nei campi, dall’assenza di giorni di riposo, dalla gestione oculata delle risorse, dal dovere dell’accoglienza, dall’assoluta necessità di aiuto reciproco, tra gli abitanti di uno stesso villaggio, hanno forgiato il carattere dei cinesi.
Alessandro Cheung: «Ci aiutiamo moltissimo tra di noi, tra parenti, tra amici. E questo è un sistema che noi chiamiamo guanxi, basate sull’onore, il rispetto, l’amicizia. Ed è per questo che noi ragazzi anche piuttosto giovani riusciamo a far partire delle aziende di una certa importanza».
Le guanxi non sono soltanto un elenco dei nomi scritti sulla rubrica del telefono. Le guanxi sono tutte quelle persone a cui posso, nel bisogno, chiedere aiuto e a cui devo, nel bisogno, dare aiuto. Nelle guanxi, con un diverso grado di priorità, rientrano i familiari, i parenti, i vicini, i colleghi, gli amici. Questo meccanismo di reciproco aiuto ha reso possibile l’immigrazione cinese in Italia e il suo successo.
Malia Zheng: «Questo senso di appartenenza, di grande famiglia allargata, ha determinato il grande flusso migratorio in Italia: il primo arrivato ha aiutato il secondo, il secondo ha consigliato il terzo e così via».
L’influenza del pensiero confuciano
Le tradizioni e i rapporti all’interno della comunità, della famiglia, tra genitori e figli, in particolare, hanno a volte pesato molto sulla personalità dei giovani delle seconde generazioni, figli degli immigrati cinesi degli anni Ottanta. Il pensiero tradizionale confuciano prescrive che i genitori debbano occuparsi dei figli e i figli debbano rispettare i genitori. In concreto ciò significa continuare i loro affari, ascoltare i loro consigli, prendendosi cura di loro nella vecchiaia o nella malattia.
Valentina: «i miei genitori vorrebbero che io continuassi la loro attività lavorativa. Stiamo aprendo un altro negozio. Io non voglio deluderli. Penso che si sono sacrificati fino ad ora per darmi un’istruzione, quindi è giusto che li ripaghi, quindi alla fine ho deciso di continuare la loro attività».
Chi non rispetta però queste regole tradizionali, in qualche modo decide di rompere un patto culturale e familiare fortissimo, rischiando di ritrovarsi senza più appoggi da parte dei genitori.
Chen Lele:«ho avuto una bellissima bambina con un ragazzo italiano. Ho perso il vostro sostegno e non immaginate quanto abbia bisogno di avervi accanto, di avere la vostra approvazione e di sentirvi felici per la donna che sono diventata».
Da dove tutto partì
Nel 1984 Wenzhou, città nella provincia costiera del Zhejiang, da cui provengono quasi il 90% dei cinesi in Italia, insieme ad altre zone economiche speciali, venne aperta agli investimenti stranieri, grazie alle riforme promosse da Deng Xiaoping. Da quel momento l’arrivo di capitali, la possibilità di lavorare e di condurre buoni affari, ma anche la possibilità di ottenere finalmente un passaporto per emigrare, divenne il tema di discussione tra amici e parenti.
La stragrande maggioranza aveva già un mestiere e non emigrò per disperazione. Il progetto era quello di andare a lavorare presso i parenti o conoscenti già presenti da tempo in Italia o in altri paesi europei, seppur in numero esiguo, dai quali ricevere un supporto concreto all’inizio, per poi tentare di aprire una piccola impresa propria. Ovviamente non per tutti fu un successo.
Yang Shi: «I miei genitori in Cina avevano una discreta posizione sociale. Appena abbiamo avuto una possibilità di andare all’estero, subito ne abbiamo approfittato. Non pensavamo di impoverirci venendo in Italia e invece ci siamo impoveriti».
In quegli anni cominciarono a emigrare venditori ambulanti, falegnami, carpentieri, piastrellisti, muratori, cuochi, camerieri, insegnanti, contabili, ristoratori, baristi, gestori di locali. In un secondo momento sarebbero arrivate le mogli, grazie alla possibilità del ricongiungimento familiare o delle non rare sanatorie decretate dal governo. Infine i figli, arrivati dalla Cina o nati qui.
Le vie del successo
Questa prima generazione di cinesi, detta di nuova immigrazione, arrivò in Italia anche per vie traverse, grazie ai soldi raccolti tra i parenti e i conoscenti. Per ripagare il loro debito, gli immigrati di Wenzhou dovettero lavorare gratis per un certo periodo nei ristoranti o nei laboratori di pelletteria, di maglieria, di tappezzeria, nelle ditte per la lavorazione conto terzi di scarpe o di divani dei loro connazionali. Quando il debito veniva estinto, l’immigrato poteva cominciare a guadagnare. Inutile dire che durante questo esodo di persone si sono verificati anche casi di corruzione, di ricatto, di sfruttamento, di violenza e di truffa.
Tuttavia, l’immigrazione cinese portò sostanzialmente vantaggi all’Italia. A Prato, ad esempio,il tessile al momento dell’arrivo dei cinesi era già in crisi. Le imprese cinesi, anche grazie ai loro modi non sempre trasparenti di lavorare per conto terzi, hanno comunque ravvivato la produzione, permettendo anche oggi alle imprese e ai grandi marchi italiani del settore di avere prezzi concorrenziali su tutto il mercato europeo. Lo stesso fenomeno si è verificato a Milano, in zona Paolo Sarpi, che all’arrivo dei cinesi non era già più il vivace quartiere di negozianti e artigiani degli anni precedenti. La stessa amministrazione ha concesso ai cinesi le licenze per aprire negozi di vendita all’ingrosso sul finire degli anni Novanta, collegando il quartiere all’import-export con la Cina, che nel 2001 sarebbe entrata nel Wto. Non sono mancati momenti di conflitto tra comunità cinese e abitanti italiani del quartiere. Oggi la situazione appare sostanzialmente pacificata.
Le seconde generazioni
I giovani delle seconde generazioni in genere hanno vissuto con i genitori quando erano molto piccoli, poi rimandati in patria dai nonni per frequentare le scuole primare e imparare la lingua cinese, infine tornati in Italia, dopo qualche anno, a frequentare le scuole e ad aiutare i genitori magari nella piccola impresa familiare.
Lin Jie: «Tutto era nuovo per me: il cibo, la casa, la scuola, le facce, il colore dei capelli e degli occhi. Mi divertivo quando le maestre cercavano di insegnarmi la “R”, facendomi vedere la lingua tremante per minuti. Tuttavia avevo nostalgia della Cina, degli amici, dei compagni di scuola, della nonna, dell’alzabandiera che si faceva ogni mattina, dell’inno nazionale che alle prime note imprimeva energia, della campagna vicino a casa».
Famiglia e Cina, un legame che in questi ragazzini, seppur a volte attenuato non si è mai spezzato.
Qi Yan: «Abbiamo studiato nelle scuole italiane, abbiamo un sacco di amici italiani e ci sentiamo sempre in qualche modo legati alla Cina, un legame che difficilmente si interrompe, un legame soprattutto rafforzato dalla nostra curiosità e dall’orgoglio dei nostri genitori nell’essere cinesi».
Oggi, diventati grandi e assorbita anche la cultura italiana, in molti si ritrovano a dover rimettere insieme una identità multiforme, con l’intenzione e la difficoltà di tenere tutto insieme, quello che è Italia e quello che è Cina.
Yu Ruijue: «In Cina vengo considerata troppo italiana, in Italia mi sento troppo cinese. Delle due metà in cui il mio “io” si divide, nessuna riesce a prevalere sull’altra. Inoltre, so bene che, se mancasse anche una sola delle due, perderei inevitabilmente me stessa».
Quelli delle seconde generazioni sono in genere giovani con un diploma e sempre più spesso una laurea in tasca. Chi di loro non è riuscito o non ha voluto fare il libero professionista o il dipendente in una multinazionale, resta a lavorare nelle imprese di famiglia. Principalmente nel settore dei servizi: ristoranti, negozi di scarpe, di accessori, di vestiti, sartorie, lavanderie, tintorie, negozi alimentari, centri massaggi, bar, sala giochi, negozi di riparazione computer e cellulari.
La crisi e l’ipotesi del ritorno
Dopo la crisi del 2008 però fare affari nel nostro paese diventa sempre più difficile e anche per molti cinesi si affaccia alla mente l’ipotesi di tornare in Cina. Quelli della prima generazione, verso i sessant’anni d’età e con decenni di lavoro in Italia, potranno decidere di ritirarsi nel paese natale a passare la vecchiaia. Ma per le seconde generazioni di ventenni e trentenni, magari già con figli piccoli che frequentano le scuole italiane e con una mentalità e un modo di vivere, che negli anni si è per così dire «italianizzato», sarà molto più difficile farlo.
Mary Pan: «Se ci pensiamo bene, non possiamo fare a meno dell’Italia. Perché ci ha dato la possibilità di crescere e migliorare, sebbene con molti sacrifici».
Per le seconde generazioni anche per un altro motivo, pur volendolo, sarà complicato tornare o trasferirsi in Cina, cioè a causa del suo costo della vita e del suo dinamismo sociale.
Yan Tianyou: «In Cina la concorrenza è feroce e il nostro potere d’acquisto si è ridotto. Adesso è più intelligente investire in Italia. In Cina non posso permettermi neppure un appartamento. Inoltre i miei parenti sono tutti in Europa».
Anche per i cinesi in Cina però, con la crescita del loro tenore di vita e la crisi in Italia, che dal 2008 blocca la ripresa, emigrare come un tempo è un gioco che non vale quasi più la candela. Oggi dalla Cina e verso la Cina si spostano solo gli imprenditori in cerca di affari e investimenti, compreso l’acquisto di aziende. E anche i giovani per studiare nelle accademie o nelle università, con i programmi Marco Polo e Turandot.
Qi Yan: «Ormai i cinesi poveri non spendono più tanti soldi per venire in Occidente senza documenti, rischiando mille avversità per affrontare una vita misera e povera senza molte possibilità di fare fortuna per via della crisi economica fuori dalla Cina».
Integrazione nella globalizzazione
Per le seconde generazioni la via del successo personale passerà sempre più attraverso una maggiore integrazione nel tessuto sociale italiano, ma senza rinunciare alla loro parte di identità cinese che, in un contesto di globalizzazione delle professionalità, li può portare ad essere un ponte ideale fra i nostri due paesi amici.
Angelo Hu: «Il cambiamento è in corso grazie ai giovani delle nuove generazioni, molti dei quali vanno all’università, e che stanno uscendo dalle attività commerciali tipiche della prima immigrazione di cinesi».
In questo però il Parlamento dovrebbe dare una mano, sboccando la proposta di legge di riforma della cittadinanza, già approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015, ma ferma in Commissione affari costituzionali del Senato. L’Italia non può permettersi di deludere o di lasciarsi sfuggire questi giovani, proprio nel momento in cui diventano maggiorenni, trattandoli come semplici immigrati. L’Italia ha un debito nei loro confronti, quanto meno per la fiducia ricevuta. Anche se non nelle carte bollate, i cinesi nati o cresciuti qui sono già italiani nel cuore.
Lin Jie: «Finalmente arrivò il decreto di conferimento della cittadinanza. Dal momento in cui ho presentato la domanda mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito a identificarmi come italiano senza alcun indugio. Ogni dubbio mi svanì nell’ufficio del sindaco quando ho pronunciato queste parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». Avevo trovato la mia risposta: «Il mio cuore è italiano tanto quanto cinese».
Gianni Scravaglieri
L’associazione Associna
Per togliere le spine serve tempo e pazienza
Quando arrivarono i primi gruppi di immigrati cinesi erano gli anni Ottanta. Da allora molto cose sono cambiate: dalla lingua cinese sempre più richiesta e studiata al primo carabiniere cinese. L’immigrazione cinese in?Italia in un convegno di Associna, associazione nata nel 2005.
Il 26 marzo 2005, a poco più di vent’anni dall’inizio della cosiddetta nuova immigrazione cinese in Italia, vedeva la luce Associna, l’associazione delle nuove generazioni sino-italiane. Associazione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia, che nel tempo è diventata uno dei punti di riferimento nazionali per tutti gli attori istituzionali e privati, impegnati nella costruzione di una nuova società, più forte, più ricca, più libera e più inclusiva. A partire dal diritto di cittadinanza per tutti coloro che qui in Italia sono nati o cresciuti. Con un impegno volontario e quotidiano questi giovani sino-italiani continuano a testimoniare con le loro attività in modo vivo e tenace un punto di svolta storico e sociale, che non può più essere da nessuno cancellato: l’Italia ha dei nuovi cittadini, di fatto se non ancora di diritto, nati da genitori stranieri, ma che stranieri non sono mai stati, che parlano italiano, amano, come i figli degli italiani, il nostro paese, la nostra cultura, le nostre città.
Certo, la vita non è tutta rose e fiori, dice un antico proverbio. E un concetto simile è riportato nel loro sito internet: «La convivenza è la rosa della società umana, bisogna sempre ricordarsi di tagliare le spine dell’egoismo e della paura del diverso». Possiamo solo aggiungere che prima di parlare di diritti e di doveri, è necessario accettare l’altro come una presenza possibile. Ancora oggi però una parte della società guarda alla diversità non come a una ricchezza, ma come a una minaccia.
La lingua cinese è sempre più studiata
Sabato 15 ottobre 2016, Associna ha organizzato a Milano il secondo Convegno Nazionale delle Seconde Generazioni sino-italiane, presso l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. La finalità dell’incontro è spiegata dal Presidente di Associna Prof. Gianni Lin: «Quest’anno abbiamo deciso di organizzare il nostro convegno annuale a Milano, in quanto vogliamo evidenziare il ruolo delle seconde generazioni italo-cinesi nelle relazioni economiche e finanziarie tra Italia e Cina. Lo scambio economico tra Lombardia e la Cina costituisce il 40% del totale italiano (45 miliardi di Euro), per cui non potevamo scegliere luogo più emblematico». I lavori della giornata sono stati aperti con i saluti iniziali di Francesco Wu, vicepresidente di Associna, e moderati da Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera.
La parola è quindi stata presa dalla professoressa Elisa Maria Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio presso l’Università Cattolica di Milano, che ha ricordato che la lingua cinese è sempre più studiata dai giovani italiani e dagli stranieri residenti, ma anche da un crescente numero di adulti.
Iacopo Lin, il primo carabiniere cinese
L’integrazione ha bisogno del suo tempo. Dei simboli però possono favorirla in modo decisivo. Come quello di Iacopo Lin, premiato in questa occasione per essere stato il primo carabiniere della storia di origine cinese. Egli ha avuto il grande merito di eliminare la sensazione del noi e del voi riportando in primo piano il servizio allo Stato e l’amore per l’Italia.
Mentre Cristina Tajani, assessore al lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, ha sottolineato il messaggio positivo, che emerge dalle statistiche della Camera di Commercio di Milano, specialmente nei settori della moda e del design, che dimostrano come le aziende e gli investimenti dei cinesi abbiano dato respiro al tessuto economico milanese, anche sotto l’aspetto dei posti di lavoro, dopo la grave crisi che ci ha colpito dal 2008. Evidentemente la sinergia creatasi con la comunità cinese, sottolineata anche dal gemellaggio di Milano con la città di Shanghai, ha portato i suoi frutti.
Il console Meng, si è fatto portavoce di un messaggio inviato dal console generale di Milano sig.ra Wang. Il cuore del messaggio è stato rivolto al carattere tradizionalmente laborioso, intelligente, tenace del popolo cinese. Ribadendo il fatto che ogni volta che gliene viene data occasione esso applica alla vita associata, come puntualmente è anche successo in Italia con le cosiddette seconde generazioni cinesi, i suoi talenti nel campo della politica e dell’economia. Infatti i giovani cinesi delle seconde generazioni sono riusciti ad essere degli apripista per promuovere i legittimi interessi di tutti gli altri cinesi, che magari nati qui in Italia sono tuttavia ancora privi della cittadinanza italiana. Sono moltissime le aziende, legate alle seconde generazioni, che quotidianamente incrementano l’integrazione sociale, anche grazie alla loro naturale capacità di mediazione tra lingue e culture diverse. Il mutuo beneficio tra generazioni italiane e cinesi deve essere strategicamente l’orizzonte che ci guida.
Il professor Daniele Cologna, dell’Università dell’Insubria e fondatore di Codici s.c., ha aperto il suo intervento con una sorta di monito, in quanto per tutti noi le seconde generazioni cinesi sono «uno squillo di tromba», che non si può non cogliere. Abbiamo infatti bisogno di un’Italia diversa, più matura, meno infantilmente atteggiata verso la Cina. Ma ci vogliono anche delle istituzioni più sensibili alle esigenze delle seconde generazioni di immigrati, persino verso coloro, che pur essendo nati in Italia, a causa di una legge farraginosa, non possono ancora ottenere la cittadinanza. Oggi in Italia abbiamo oltre 270 mila residenti cinesi. Il tema dell’acquisizione della cittadinanza resta fondamentale, anche se non tutti coloro che ne hanno diritto iniziano le pratiche per ottenerla.
Tra la prima e la seconda generazione
Il fatto macroscopico a cui si assiste è il passaggio di testimone tra la prima e la seconda generazione nelle imprese. Mentre i cinesi arrivati nei decenni precedenti avevano un grado di istruzione basso ed erano impegnati in lavori con minimo contatto con la popolazione italiana, oggi tra i giovani delle seconde generazioni crescono i laureati che parlano sia il cinese che l’italiano. Se è pur vero che i rapporti gerarchici all’interno delle famiglie cinesi rimangono quelli tradizionali e i giovani vengano chiamati ai loro doveri familiari, è anche vero che una volta nel mondo del lavoro tendono a scegliere approcci operativi non sempre in linea ai modelli di business comunitario ed etnico dei loro genitori. Così ad esempio a Milano i giovani cinesi puntano alle imprese di servizi, rivolgendosi a una clientela trasversale, spesso proprio a quella fascia di italiani maggiormente impoveriti dalla crisi economica. A livello culturale è importante notare che le reti familiari, le cosiddette guanxi, sono al centro dei rapporti sociali sia tra cinesi che tra italiani. Soprattutto le reti informali costruite negli anni, durante il percorso scolastico, dai giovani delle seconde generazioni anche col tessuto sociale degli italiani, costituiscono una carta in più da impiegare nella costruzione di una più ampia rete di relazioni rispetto a quella a disposizione dei loro genitori. In prospettiva quindi, soprattutto per i giovani italiani che studiano la lingua cinese, si apre un mondo di collaborazione reciproca con le seconde generazioni cinesi, che li proietta a livello internazionale a relazionarsi, a livello commerciale e culturale, in modo più efficacie anche con la stessa Cina. L’ideale per i nostri giovani sarebbe proprio l’acquisizione di un trilinguismo pieno, giocato tra italiano, cinese e inglese. Pensiamo soltanto 17 miliardi di euro investiti dall’impresa cinese in Italia e dalla crescita del turismo cinese nel nostro paese.
I cinesi e il sistema bancario
Andrea Orlandini presidente e fondatore di Extrabanca, unica banca presente nel sistema economico italiano nata per dedicarsi unicamente agli stranieri. Con sedi a Milano, Prato, Brescia, Roma. Con il 70% di clienti cinesi business. Apre il suo intervento ribadendo il concetto già espresso dall’assessore Rozza sulla predisposizione dei milanesi a considerare la dedizione al lavoro il vero passaporto dell’accoglienza e dell’integrazione. In questo la comunità cinese ha sempre dimostrato di essere all’altezza della sfida con la sua proverbiale laboriosità, che si è sempre espressa nella puntualità del rimborso delle rate dei prestiti bancari. Tuttavia il rapporto che essi hanno attualmente con le banche in genere pecca ancora di una certa mancanza di trasparenza nella tracciabilità degli investimenti e nell’impiego dei prestiti. Questo comportamento non favorisce i legittimi controlli delle autorità di vigilanza ed è un fatto a cui porre al più presto rimedio, anche considerando che sempre di più l’immigrazione cinese in Italia non sarà legata alla ricerca di una occupazione, ma alla ricerca di buoni investimenti. I problemi aumentano riguardo ai correntisti cinesi e allora serve una campagna di informazione capillare su quelle che sono le regole contabili, le scadenze di legge e i corretti comportamenti da seguire nei rapporti con la banca e con il fisco. Si nota infatti che una volta ben informati i correntisti cinesi tendono a rispettare tutte le regole. Un altro aspetto è dato dalla insufficiente professionalità dei consulenti a cui si rivolgono. Infatti un buon professionista è quello che trova la forza di imporre al cliente il rispetto delle regole nell’interesse dello stesso cliente e della sua attività economica sul medio lungo periodo. Una caratteristica tipica dell’economia degli immigrati cinesi è che ad esempio in banca lavorano più donne che uomini, ciò è dato dal fatto che il cinese appena possibile vuole aprire la sua attività in proprio, da questa propensione diffusa emerge che l’imprenditore cinese è molto legato all’economia reale piuttosto che a quella finanziaria.
Riflessioni pratiche e impegni reciproci
Wang Hong – responsabile in Italia della Zheijang Rifa Precision Machinery Co Ldt -, parlando della politica di investimenti in Italia della sua multinazionale, ha sottolineato che le lor recenti operazioni di acquisizione di aziende italiane non sono rivolte alla semplice acquisizione delle tecnologie, ma in generale a un radicamento nel contesto produttivo della nostra penisola. La finalità è di sviluppare tutte le potenzialità dell’azienda acquisita, compresa la professionalità dei lavoratori italiani, che con la loro esperienza e le loro competenze si situano nella fascia alta delle professionalità. Un appunto ai lavoratori italiani viene però fatto sull’aspetto della conoscenza delle lingue, in particolare l’inglese e il cinese, la cui conoscenza darebbe a tutti i lavoratori quella marcia in più assolutamente necessaria per competere sui mercati inteazionali. L’invito esplicito è quindi rivolto alle nuove generazioni di italiani a compiere uno sforzo in più e a non limitarsi soltanto allo studio della lingua cinese, ma spingersi oltre nella comprensione della cultura cinese, la cui familiarità è fondamentale per convivere e crescere in azienda. Una riflessione è rivolta quindi agli studi universitari. Esistono delle lauree che garantiscono più di altre la possibilità di trovare un posto di lavoro, come ad esempio ingegneria, soprattutto nelle aziende con un respiro internazionale. Tuttavia resta anche chiaro che se il territorio continuerà a non offrire importanti opportunità ai giovani, essi si rivolgeranno all’estero e questo sarebbe una gravissima perdita per tutti. Italia e Cina possono quindi collaborare per mantenere aziende e lavoro sul territorio a vantaggio di entrambi i paesi. Per fare questo serve che il legame tra generazioni cinesi in Italia sia mantenuto e non disperso, poiché le tradizioni culturali, così importanti nelle nostre relazioni inteazionali, passano attraverso i legami di sangue tra genitori e figli.
Jin Yangkun, direttore generale della sede milanese della Industrial and Commercial Bank of China, la banca più capitalizzata al mondo, ha impostato il suo intervento con una panoramica complessiva. Ha sottolineato che i rapporti tra Italia e Cina sono antichi di secoli e si sono sviluppati lungo l’antica Via della Seta. Anche memore di questi legami, nel contesto odierno della globalizzazione la Cina è il terzo partner commerciale sia per l’import che per l’export dell’Italia. I settori maggiormente interessati sono quello meccanico, alimentare, della moda e del design. Per fare in modo che questi rapporti continuino sul lungo periodo bisogna creare rapporti più solidi basati sul reciproco vantaggio economico e sull’approfondimento dei rapporti umani tra le popolazioni. In Cina ad esempio c’è necessità urgente di lavorare alla costruzione di uno stato sociale, che metta in relativa sicurezza sia la sua popolazione anziana, che quella bisognosa di cure e assistenza sociale. Le eccellenze italiane nel campo sanitario e della cura alla persona, nonché la vivibilità delle medie città italiane possono diventare un modello da cui la società cinese può prendere spunto. In tutto questo i giovani di oggi in generale e in particolare le seconde generazioni si devono considerare il futuro per i rapporti tra Cina e Italia. Il loro contributo è fondamentale nella definizione di nuove idee, energie, competenze nel mondo del lavoro. A tutto ciò si aggiungono due premesse indispensabili. Da parte italiana è necessario garantire di più l’ottenimento della cittadinanza da parte dei cittadini cinesi nati o cresciuti in Italia. Da parte cinese è necessario assumere l’impegno di fare in modo che i media nazionali si occupino di più delle seconde generazioni all’estero, anche quando esse cambiano cittadinanza, valorizzandone la loro preziosissima funzione di ponte culturale ed economico tra la Cina e il mondo e l’Italia in particolare.
Gianni Scravaglieri
Testimonianza di Francesco Wu
Erano due etti di prosciutto spalla
Con il fratello gestisce un ristorante, ma Francesco Wu è anche presidente dell’«Unione imprenditori Italia-Cina» (Uniic). Si è fatto così conoscere che è finito sulla copertina di un noto settimanale italiano. Ecco cosa ci ha raccontato.
L’ingegner Francesco Wu, giovane presidente dell’Uniic, «Unione Imprenditori Italia Cina – Nuove Generazioni», è un personaggio in vista nell’ambiente delle relazioni imprenditoriali e culturali italo-cinesi. La fiducia che negli anni ha saputo raccogliere tra i suoi connazionali residenti nel Bel Paese e tra le stesse istituzioni italiane, lo porta oggi ad essere uno degli interlocutori più affidabili e dinamici nel processo di integrazione in corso, tra società italiana e giovani delle cosiddette «seconde generazioni» sino-italiane.
I fratelli Wu, Francesco e Silvio, gestiscono a Legnano, a pochi minuti a nord di Milano, il ristorante-pizzeria Al Borgo Antico. Dal menù alla carta tipicamente italiano, compresa la cantina dei vini, si sottolinea subito un fatto importante: uscire dagli stereotipi può essere il primo passo per abbattere gli steccati della diffidenza reciproca e arricchire così la nostra società di nuove energie e nuova umanità. Così appare ovvio che la ricchezza e la varietà di cibi della tradizione culinaria italiana e cinese sono dei tesori tutti da scoprire e da gustare. Tuttavia ognuno dovrebbe essere libero di esprimere i suoi talenti indipendentemente dalla sua origine etnica. Un napoletano potrebbe scegliere di cucinare riso alla cantonese e bere tè verde, così come un cinese ha deciso di cucinare pizza alle quattro stagioni e bere vino rosso.
Francesco Wu, oggi potremmo dire «come tutti noi», ha la sua pagina Facebook, sulla quale scrive e condivide con gli altri inteauti pensieri, ricordi, riflessioni, più o meno personali, ma anche occasioni pubbliche di incontro e momenti più istituzionali legati al suo ruolo di rappresentanza. L’8 ottobre del 2016 ha scritto un post, intitolato «meglio la spalla cotta che il prosciutto gran biscotto», che descrive un episodio della sua infanzia, ma che può essere preso ad esempio per cominciare a riflettere sul passato e il comune vissuto di moltissimi giovani sino-italiani delle «seconde generazioni».
Genitori e figli: fatica e impegno
Racconta Francesco Wu che quando era piccolo, durante i primi anni in Italia, i suoi lavoravano duramente ma i soldi che giravano in casa non erano molti. Per fortuna, diremmo oggi, si arrivava a fine mese, ma per farlo bisognava farsi quotidianamente i conti in tasca. Non di rado la madre lo mandava a fare la spesa, che comprendeva anche pane e prosciutto, per preparare la merenda per lui e il fratello. Siamo nella Milano del secolo scorso, zona Affori, dal macellaio che a quel tempo aveva l’attività in via Brusuglio. Qui il piccolo Francesco Wu acquistava 1-2 etti di spalla cotta, invece che del buon prosciutto di qualità, che faceva bella mostra di sé in vetrina. Troppo costoso a quel tempo per le sue tasche.
«Vedevamo tuttavia che il buon prosciutto cotto di qualità costava molto di più e non ci passava per la testa l’idea di comprae, anche perché non sarebbero bastati i soldi per comprare tutto il resto, e inoltre la mamma ci avrebbe rimproverato».
Subito seconda tappa al panificio di fronte per le tigelle modenesi. Un’ottima merenda davvero, i due fratelli ne mangiavano anche tre panini a testa. Ma come spesso accade ai bambini che nascono in famiglie popolari, non è tanto riempire la pancia il problema vero, ma soddisfare il desiderio di essere all’altezza degli altri bambini. Tutti noi sappiamo e ci ricordiamo di quanto possano essere duri i momenti di confronto, ma di quanto nello stesso tempo siano fondamentali per darci una spinta in più verso la crescita e il successo personali. Un po’ questo è accaduto a moltissimi della generazione di Francesco Wu; essere stranieri ed essere poveri, ma con la consapevolezza che la fatica e l’impegno quotidiani nel lavoro e nello studio avrebbero quasi certamente ribaltato la situazione di partenza: «…la fetta unica di prosciutto dentro i panini in gita scolastica quando i tuoi compagni avevano 2-3 fette di quello buono».
Tra le difficoltà della vita quotidiana e l’esempio dei loro genitori si è formato il carattere di molti imprenditori delle seconde generazioni sino-italiane. Negli anni è stato un imparare privo di parole, un sapere non trasmesso attraverso i discorsi, ma con l’amore dei gesti, delle abitudini, degli sguardi. I valori dei genitori sono passati ai figli in questo modo, sul senso della vita, sulla dignità del lavoro, sul valore del risparmio, sulla fatica del guadagnare.
«Senza che i genitori ci facessero tanti discorsi, anzi non li hanno mai fatti, noi imparavamo molto dalla vita e desideravamo un giorno poter comprare il prosciutto buono. Oggi sia il macellaio che il panificio hanno chiuso mentre noi abbiamo aperto nel tempo alcune attività».
Una cultura doppia è una spinta in più
Francesco Wu, come vede il rapporto tra università italiane e mondo del lavoro? Sono utili per i giovani o si potrebbe fare di più?
«Io ormai mi sono laureato da diversi anni, quindi non ho in questo momento il quadro completo della situazione. Per quello che posso vedere io, il collegamento tra università italiane e mondo del lavoro è ancora debole. Forse in miglioramento rispetto al passato; soprattutto facendo riferimento ad un’istituzione come il Politecnico di Milano, che sta facendo molto e che viene in questo seguito anche da altre realtà culturali. Ecco, da questo punto di vista c’è ancora da fare, ma siamo in costante miglioramento rispetto al passato».
Un cittadino della Repubblica popolare, che ottiene la cittadinanza italiana, perde automaticamente quella cinese. Quindi come sono visti i giovani di seconda generazione, che vivono in Italia, da parte dei cinesi in Cina?
«Allora, cominciamo col dire che sulla cittadinanza l’Italia ha ancora una legge molto arretrata. Ed è davvero un peccato che l’iter di approvazione della nuova legge si sia fermato al senato, a causa di quelle forze politiche che si contrappongono alla necessaria riforma sulla cittadinanza. Poi c’è un altro aspetto collegato alla riforma, cioè quello del diritto di voto alle amministrative. Ma tornando al punto, io penso che il governo cinese non veda di cattivo occhio chi decide di prendere la cittadinanza italiana. Anche perché è chiaro a tutti che la situazione concreta di vita delle famiglie porta ognuno a decidere il proprio futuro in base a esigenze personali e oggettive. Sicuramente il governo cinese vuole che sia chi ottiene la cittadinanza italiana sia chi non l’ha ancora ottenuta mantenga dei buoni rapporti con la Cina; senza sottostimare la propria cultura di origine, continuando a provare affetto sia per la Cina, ma anche per l’Italia. Questo è quello che desidera il governo cinese e infatti ufficialmente non mette nessun tipo di ostacolo al cambio di cittadinanza da parte dei cittadini cinesi».
Quelli della sua generazione hanno vissuto in modo diretto la vita in Cina e in Italia, di fatto avete direttamente assorbito in modo pieno entrambe le culture e siete l’ultima generazione storicamente con queste caratteristiche. Pensa che questo vi dia una marcia in più nell’essere idealmente un ponte che rafforza i legami tra i nostri due paesi?
«Io penso che chi ha ricevuto la doppia cultura, persone come me e come tanti altri ragazzi, che sono nati in Cina e cresciuti in Italia, in questo momento storico hanno una spinta in più. Perché semplicemente hanno molta più esperienza degli altri. Non è assolutamente una questione di maggiore intelligenza, ma è proprio una questione di esperienza. Magari anche esperienze difficili, sacrifici, che hanno dovuto affrontare fin da piccoli e che li hanno forgiati. Sono quindi d’accordo con lei che forse siamo l’ultima generazione ad aver vissuto questo. I giovanissimi di oggi, che sono cresciuti in Italia, in generale in un ambiente sociale più avanzato, di quello dove siamo cresciuti noi, hanno di fatto avuto meno difficoltà a viverci e da questo punto di vista, per assurdo, hanno avuto meno esperienze potenzialmente conflittuali, in grado di forgiarli; a differenza nostra, che ne abbiamo invece dovute affrontare di più. Per queste considerazioni io credo molto nell’importanza del ruolo che quelli della mia generazione ricoprono. Poi ovviamente quello che sto dicendo vale solo in generale. Ci sono infatti ragazzi giovanissimi, cresciuti in Italia, che sono molto molto in gamba, che nonostante tutte le difficoltà personali riescono a migliorarsi, e non rinunciano a fare dei viaggi in Cina e a fare esperienza diretta della cultura cinese, propria dei loro genitori».
In conclusione, dove vede i suoi figli da adulti: in Italia, in Cina o in America?
«Io sono sposato e ho due figli, che sono ancora piccoli. Il primo ha già iniziato ad andare a scuola, così cercherò di insegnargli l’importanza dello studio e l’importanza di seguire le proprie passioni e le proprie ambizioni. Dove lavoreranno da grandi non è assolutamente un problema per me. Potrebbero lavorare in Italia, in Cina, in Germania, negli Stati Uniti, in ogni caso dove vogliono e dove si sentono realizzati».
Gianni Scravaglieri
Testimonianza di Zhang Li
Rispettare la società è rispettare i genitori
Insegna lingua cinese alla Cattolica di Milano. Lavora come interprete e consulente per vari tribunali. Zhang Li racconta la sua decennale esperienza italiana.
La professoressa Zhang Li viene dalla città di Nanchino, vicino a Shanghai. È in Italia da circa dieci anni. Insegna lingua cinese all’università Cattolica di Milano. E lavora come interprete in generale e in particolare come consulente per i vari tribunali lombardi. «Ovviamente vengo chiamata quando ci sono cinesi coinvolti in problemi legali, a livelli più o meno gravi».
La mentalità confuciana
I cinesi quindi non sono tutti pacifici, onesti e dediti al lavoro. Possiamo dire così?
«Voglio prima dire una cosa. Secondo la cultura cinese non è bello parlare male dei propri compaesani, soprattutto con gli stranieri. Un fatto naturale, istintivo. Penso che anche per gli italiani è la stessa cosa. Comunque alla tua domanda devo rispondere di sì. Certo che non tutti i cinesi sono buoni, ci sono anche i cinesi cattivi. I cinesi non sono speciali, sono uguali a tutti gli altri popoli. Poi devo anche dire che l’educazione e le situazioni economiche condizionano il comportamento. I cinesi pensano che l’educazione rende le persone più buone e più forti per affrontare le difficoltà della vita, anche le difficoltà economiche».
Interessante. In che senso?
«Per la filosofia cinese, che viene principalmente da Confucio, ogni persona non è sola, come un individuo isolato, ma vive insieme alla società e ha i doveri che ci sono quando si vive in una comunità. Quello più importante è il rispetto per i genitori, perché sono loro che ci hanno dato la vita. Allora quando uno non rispetta le regole, le tradizioni, le usanze oppure ha problemi con la giustizia è come se avesse mancato di rispetto ai propri genitori, perché li ha fatti vergognare, ha dato la possibilità alla comunità di dire che loro non sono stati bravi genitori. Invece comportarsi bene significa dimostrare rispetto verso i genitori. Poi un’altra cosa che aiuta molto a non avere tanta delinquenza è il fatto che la società isola chi non rispetta le regole, quindi non è una scelta facile mettersi contro la società. Ovviamente anche in Cina non sempre questa mentalità confuciana funziona e così deve intervenire la polizia e il giudice. Ma in generale i cinesi pensano che quando interviene la polizia e i giudici significa che la società ha fallito, perché non è riuscita a fare una prevenzione morale sulle persone».
Casi di vita quotidiana
Garantendo la privacy e senza dare particolari riferimenti, potresti descriverci qualche caso di cui ti sei occupata?
«Sì, ma i casi che ho visto nel mio lavoro sono uguali ai casi che riguardano italiani o altri stranieri. Ad esempio un uomo cinese in Lombardia è stato condannato dal giudice per spaccio di droga e reati connessi a diversi anni di prigione. La storia in breve è così. Lui ha famiglia in Cina. A un certo punto decide di venire in Italia per cercare opportunità e aprire una attività commerciale. La moglie rimane in Cina e lavora in proprio come designer e arredamento di interni. Hanno dei figli e possiamo dire che sono brave persone. Però a un certo punto la moglie dice che vuole investire di più nel suo lavoro e fa pressione sul marito per guadagnare più soldi. Ma in Italia c’è la crisi e il lavoro è poco. Non è facile fare soldi. Allora a un certo punto lui arriva a pensare che vendere un po’ di droga è una buona idea. Ma le cose vanno male. Un giorno litiga per la droga con altre persone, arriva la polizia e lo arresta e poi il giudice fa il processo e lo condanna. Forse se l’uomo non viveva solo e aveva vicino dei parenti o degli amici potevano proteggerlo da queste idee sbagliate di fare soldi vendendo droga».
Hai un altro caso da raccontarci?
«Sempre in una città della Lombardia una madre cinese aveva un impegno e ha affidato il figlio piccolo di circa sette anni alla zia, mentre stava lavorando nel suo negozio di estetista. Il bambino era seduto sul divano a guardare i cartoni animati sul telefonino. A un certo punto la zia si allontana per discutere con un cliente e non guarda più il nipote. Dopo circa mezz’ora la zia torna e non vede più il nipote. Subito comincia a cercare il bambino e pensa che forse si è nascosto, ma dentro il negozio non c’è. Allora esce in strada e vede in mezzo alla strada nel traffico la macchina dei carabinieri con dentro il nipote. Va dai carabinieri e dice che il bambino è il nipote. I carabinieri cominciano a chiedere i documenti e a fare domande. Ma la zia non parla bene italiano e non capisce perché i carabinieri non le ridanno il nipote. In pratica i carabinieri giravano in macchina e a un certo punto hanno visto il bambino da solo. Allora si sono avvicinati, ma il bambino, che non parla italiano, si è spaventato ed è scappato, perché non era abituato a vedere i poliziotti. In Cina se vivi in campagna non ci sono i poliziotti per strada. Alla fine i carabinieri denunciano la zia al giudice dei minori, che dopo il processo la condanna per abbandono di minore».
Vedo dalla tua espressione che non sei molto d’accordo con la condanna. Ho visto giusto?
«Più o meno. Certamente è giusta la condanna perché il giudice ha visto cosa è successo, ha visto la legge e ha deciso. Ma se vogliamo capire di più la mentalità di quella donna cinese, dobbiamo dire che lei è abituata a vivere in campagna dove i bambini giocano fuori di casa e sono curati da tutti i vicini di casa. Anche in Italia nei paesi piccoli succede così. Abbiamo detto prima che le abitudini culturali sono importanti. Così la zia del bambino pensa di avere seguito una abitudine giusta e pensa che la condanna del giudice è sbagliata. Posso dire che la zia doveva capire che l’Italia non è la Cina e che la città non è la campagna. Quindi un lato positivo c’è se la zia del bambino ha imparato questa differenza».
Sulle tutele dei lavoratori
Ti è mai capitato un caso civile, magari una vertenza di lavoro?
«Mi ricordo un caso di lavoro, anche un po’ divertente. Un ragazzo sud americano lavorava in nero in un ristorante cinese. Un giorno litiga con il capo per lo stipendio basso. Voleva un aumento. Ma il capo dice di no. Allora il ragazzo va dai sindacati perché lavorava in nero e voleva i contributi. Il capo però ha detto di non conoscere il ragazzo e che non lavorava nel suo ristorante. Anche un testimone cinese ha detto che il ragazzo non lavorava nel ristorante. Però il ragazzo sud americano con il cellulare aveva fatto le foto e i video durante il lavoro. Adesso non so come è finita la causa, ma penso che il capo cinese è stato molto ingenuo. Forse perché in Cina ancora non c’è una grande tutela per i lavoratori. Ci sono anche in Cina delle buone leggi, ma poi spesso i capi fanno come vogliono. Però devo dire che anche il ragazzo ha sbagliato, perché non si può lavorare in nero. Lui doveva protestare subito non solo quando gli conviene, intendo moralmente non è giusto».
Per concludere, secondo la tua esperienza, cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare in generale i rapporti con i cinesi residenti in Italia?
«Allora, a parte qualche caso, non penso che le cose vanno male tra cinesi e italiani. Esiste nella lingua italiana una parola magica: comunicazione. Dobbiamo imparare prima a comunicare, perché senza comunicazione non nasce la fiducia e si rischia di andare su vie sbagliate. Così il governo, le regioni, i comuni devono informare i cinesi delle leggi e delle tradizioni italiane. Devono fare scuole di lingua italiana per i cinesi. Non è facile, ma è necessario. Adesso ci sono le seconde generazioni, i giovani cinesi che parlano bene l’italiano, hanno frequentato le scuole italiane e sono il nostro futuro. Però i cittadini italiani devono anche capire la cultura cinese. Questo è importante. Anche studiare la lingua cinese può essere utile. Come dicevamo prima, la persona cinese in generale ha paura di restare isolata dalla comunità. Così è importante che le istituzioni costruiscano una comunicazione con la comunità cinese, magari proprio con i giovani delle seconde generazioni».
Ma le sponde non si uniscono mai
L’ultima domanda. Come vedi la situazione dei bambini cinesi in Italia e come immagini il loro futuro?
«Di solito i bambini rimangono in Cina con i nonni, mentre i genitori sono in Italia per lavorare. Quando la situazione economica dei genitori migliora allora vengono portati in Italia anche i figli. Se i bambini sono ancora piccoli possono andare alle elementari con gli altri bambini italiani, perché imparano velocemente la lingua. Se invece arrivano qua già adolescenti allora è un problema grande perché devono ripartire da zero con la lingua, con le amicizie. Un’altra cosa. La maggior parte dei genitori cinesi in Italia non sono impiegati, ma fanno lavori manuali per molte ore al giorno, come dipendenti, ma anche come piccoli imprenditori. Con la crisi economica non hanno molti soldi e non possono mandare i figli alle attività di svago e culturali, molto utili per trovare amici e imparare la cultura italiana. Così dobbiamo creare delle opportunità culturali per questi bambini. Dobbiamo cominciare subito. Infatti per attraversare un fiume ci serve costruire una barca o un ponte non possiamo aspettare che le due sponde si uniscono da sole».
Gianni Scravaglieri
Curiosità / Gli ideogrammi
Vi rimandiamo al nostro «sfogliabile».
Infodossier:
Bibliografia italiana
Lidia Casti, Mario Portanova, Chi ha paura dei cinesi?, Bur 2008.
Raffaele Oriani, Riccardo Staglianò, I cinesi non muoiono mai, Chiarelettere 2008.
Donatella Ferrario, Fabrizio Pesoli, Milano multietnica, Meravigli edizioni, 2016. Il primo capitolo di questo bel lavoro è dedicato alla comunità cinese (27.363 persone).
Filmografia
Davide Demichelis, Cina: Malia Zheng, in «Radici», serie di documentari della Rai, giugno 2013 (www.radici.rai.it).
Francesca Bono, A Bitter Story, un documentario presentato al 34.mo «Torino Film Festival» (Tff), novembre 2016; storia di un gruppo di adolescenti cinesi che vivono nei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, nelle valli occitane della provincia di Cuneo, dove la comunità cinese lavora quasi per intero nelle locali cave di pietra.
Sitografia
www.associna.com
Il sito dell’omonima associazione, in italiano e in cinese.
www.cinaforum.net
Il sito fondato da Alessandra Cappelletti, sinologa e collaboratrice di MC.
Autori
Questo dossier è stato firmato da:
Giovanni Scravaglieri – È docente di lingua e civiltà cinese nelle scuole della Lombardia. Scrive per la rubrica «Visto da Pechino» sulla testata giornalistica on line «Cinaforum.net». È tra I fondatori dell’Associazione Shuren per la diffusione della lingua e della cultura cinese in Italia.
Roberto Brancolini – Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Foto delle copertine: Chen Chen, ragazza cinese a Modena per seguire un corso universitario; giovane di origine cinese ad Assisi per un meeting organizzato dalla Tavola della Pace. L’ideogramma riportato indica il termine «guanxi», scritto in grafia tradizionale (non semplificata).
Good morning Korea
Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.
Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.
Zigzagando per il centro
Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.
Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».
Nel cuore della gente
Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?
Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?
Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.
I missionari e l’Asia
Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.
Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.
A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.
Ugo Pozzoli ______________
Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.
Congo Brazzaville: voci dalla rivolta
Come in Senegal, Burkina Faso e Congo Rd, anche a Brazzaville i giovani si mobilitano. Trascinati dai loro eroi musicali, i rapper, scendono in piazza. Chiedono democrazia e diritti. Con coraggio, rivendicano un futuro diverso da quello dei loro padri. Il movimento di chi «ne ha abbastanza» cerca di svegliare i congolesi.
Martial Pa’nucci si definisce artista-rapper, attivista, autore, compositore e poeta urbano. Di certo è un giovane congolese che si è messo in gioco per il suo paese. Lo abbiamo sentito per il suo ruolo di portavoce del movimento sociale giovanile «Ral-le-bol», che si è opposto alla ricandidatura e rielezione di Denis Sassou Nguesso a presidente della Repubblica. E per questo ne ha subito le conseguenze.
Il suo nome da artista, Martial, lo ha voluto in italiano, «perché – ci dice – sono un fan della cultura italiana». Si tratta di un acronimo, Pa’nucci, il cui significato è: Purista, a’ccro (ovvero: attaccato al rap puro), negro, ultra-rivoluzionario, cosciente e contro l’ingiustizia.
Ral-le-bol, invece, in francese significa letteralmente esasperazione, «en avoir ral-le-bol», vuol dire avee abbastanza. Martial accetta di rispondere alle domande di MC sulla situazione del paese.
Come si caratterizza il vostro movimento e cosa chiedete?
«Ral-le-bol è un movimento pro democrazia che lotta per il risveglio della coscienza cittadina. Quando ancora c’erano le autorità in Congo – adesso non c’è più uno stato legittimo – chiedevamo il rispetto dell’ordine costituzionale. Ma la Costituzione del nostro paese è stata purtroppo violata e oggi chiediamo ancora uguaglianza per tutti, acqua potabile, cibo, casa. Sono problemi di base, ma continuano a porsi con una certa ampiezza in Congo. Noi rivendichiamo la giustizia sociale, il benessere, il rispetto dei diritti umani e della democrazia.
Il movimento Ral-le-bol è nato nel dicembre 2014, ben prima che la situazione precipitasse, ed è stato un “ral-le-bol” di giovani, studenti, artisti, che ne avevano abbastanza di vedere il paese in continua regressione, i diritti umani non rispettati, la gente che non mangia a sazietà, la qualità dell’educazione che non è buona, la mancanza di acqua ed elettricità, la violenza poliziesca continua. Vediamo tutti i momenti delle ingiustizie, il saccheggio dei beni pubblici e dei fondi. Così siamo nati per cercare di portare una soluzione a tutti questi problemi, utilizzando lo strumento della rivendicazione».
Chi sono i membri di Ral-le-bol?
«È un movimento con molti giovani, direi dai 20 ai 30 anni. All’inizio eravamo in maggioranza artisti e studenti, ma poi si sono uniti lavoratori, funzionari, disoccupati. È un movimento che raggruppa tutti. Io sono musicista rapper e scrittore».
Cosa avete fatto per il referendum e per le elezioni e come ha reagito il potere?
«Per lottare contro la modifica della Costituzione, nel 2015 abbiamo iniziato a portare la Carta verso i cittadini, per spiegare loro perché è importante rispettarla. E anche se ci sono delle modifiche da fare, occorre che si prenda il tempo necessario. Il presidente della Repubblica aveva terminato i suoi mandati e il testo gli proibiva di ricandidarsi. Abbiamo cominciato quindi con campagne di sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale, in particolare a Brazzaville e Point Noire, le due città principali del paese, dove c’è una forte concentrazione di popolazione.
È stato un “porta a porta” per sensibilizzare, e alla fine abbiamo organizzato, insieme ad altri movimenti, una marcia di protesta pacifica il 9 ottobre 2015. Purtroppo questa manifestazione è stata repressa dalla polizia e dalla gendarmeria che ci hanno dispersi, e hanno arrestato 6 dei nostri attivisti. Questi sono stati giudicati, e condannati a 3 mesi di prigione e a una multa di 150.000 franchi (ca. 228 euro). Intanto, quelli che erano scampati all’arresto non erano tranquilli perché temevano che la polizia volesse prendere tutti. Fortunatamente sono stati risparmiati. Gli arrestati sono stati condannati a torto in quanto esigevamo solo il rispetto della Costituzione e il diritto alla manifestazione».
Con voi c’erano altri movimenti sociali?
«Assieme a noi, il 9 ottobre c’era il movimento dei giovani cittadini (Mjc), che purtroppo dopo si è alleato alla maggioranza presidenziale, e ha tradito la causa. Il leader di questo movimento si è poi ritrovato consigliere di uno dei ministri eletti alle elezioni truccate. E c’era l’Amicale nell’organizzazione di questa manifestazione di protesta».
Anche tu sei stato arrestato?
«No, fortunatamente sono riuscito a salvarmi e sono fuggito, quando hanno iniziato a tirare le bombe lacrimogene. Perché sapevo che sarebbe finita con degli arresti. In seguito il mio ruolo è stato capitale nella denuncia della situazione attraverso certi media inteazionali, cosa che ha evitato che i nostri amici fossero accusati di essere ribelli. Infatti i governativi, al loro arresto, per accusarli hanno messo loro in mano delle armi. Trenta minuti dopo abbiamo informato la stampa internazionale, che ha fatto fallire questa messa in scena».
Dopo gli arresti del 2015 avete avuto altri problemi con le autorità?
«Due mesi dopo la marcia è stato arrestato un altro nostro militante, Andy Bemba, che è stato rilasciato solo a fine agosto. Ha passato otto mesi senza processo, poi è stato liberato anche grazie a delle pressioni nazionali e inteazionali. Recentemente, non più tardi di qualche giorno fa, (20 ottobre) abbiamo ancora subito attacchi al nostro movimento, con minacce di arresto per Franck Nzila, un altro militante. Sono andati al suo ristorante, hanno arrestato il suo cuoco perché lui non c’era e poi lo hanno liberato dopo 5 giorni di detenzione. È stato poi liberato con l’aiuto dell’Ocdh (Organizzazione congolese per i diritti umani, ndr)».
Poi ci sono state le elezioni presidenziali anticipate.
«La posizione di Ral-le-bol era quella di rimandare le elezioni, perché secondo noi non c’erano le condizioni affinché si tenessero consultazioni libere, trasparenti e rispettose di tutte le regole democratiche. Abbiamo pubblicato un comunicato su questo, ma il potere, che si manifesta sempre con la forza, ha fatto in modo che si tenessero a tutti i costi il 20 marzo. Avevamo anche messo in piedi un’operazione di prossimità, per dire ai cittadini che eravamo contro queste elezioni, perché il presidente si sarebbe imposto con la forza.
Abbiamo detto alla gente, quando votate, restate sul posto per aspettare i risultati, per mostrare alla comunità nazionale e internazionale come questo signore froderà. Nella notte del 20 marzo tutti sapevano già che Sassou aveva perso le elezioni. E aspettavamo di vedere cosa sarebbe successo. Ma il seguito è stato drammatico.
In effetti tutte le previsioni lo davano perdente. A causa delle condizioni nelle quali ha messo il paese, i congolesi non volevano rieleggerlo. Sassou ha sempre imbrogliato e non ha mai vinto un’elezione in maniera trasparente. La prima votazione libera fu nel 1992, e lui la perse.
Per questo noi di Ral-le-bol, sapevamo che avrebbe perso ma che avrebbe voluto imporsi».
Parlando della società civile in Repubblica del Congo, oggi a che punto siamo?
«È molto indebolita. Sassou sapeva che è stata proprio la società civile a farlo cadere nel 1992. Così appena è tornato al potere, con le armi, ha fatto di tutto per metterla all’angolo. Oggi in Congo possiamo dire che una parte della società civile è comprata dal potere e parla il suo stesso linguaggio. Poi c’è qualche piattaforma di organizzazioni che riesce ad andare avanti, ma è debole e con il clima di terrore che regna nel paese non riescono a fare grandi cose. Quindi è allo stesso tempo indebolita o asservita al potere. E un paese non può svilupparsi con una società civile di questo tipo.
Posso dire che tra noi c’è collaborazione, perché con certe piattaforme riusciamo a comunicare e anche a collaborare. Parlo ad esempio della fondazione Ebina, che fa parte delle Ful-d (Forze unite per la libertà e la democrazia), dell’Ocdh e dell’Associazione per la promozione della cultura, la pace e la nonviolenza».
Siete in una rete internazionale?
«Abbiamo collegamenti con movimenti di cittadinanza attiva come il nostro in altri paesi africani. Con le tecnologie di oggi possiamo comunicare regolarmente e scambiare idee. Talvolta riusciamo a incontrarci in occasione di qualche festival. Penso a Balai Citoyen del Burkina Faso, Filimbi e Lucha della Rdc e Y en a marre del Senegal, con i quali collaboriamo e scambiamo idee. In particolare ci siamo ispirati ai senegalesi, che sono stati i primi a costituirsi».
Come fate a finanziare le vostre attività, i viaggi, gli incontri?
«Nel rispetto dei testi statutari di Ral-le-bol noi funzioniamo grazie alle quote associative dei membri, ma accettiamo anche doni, aiuti e finanziamenti che possono aiutarci a realizzare le attività. Questo non vuol dire che ne abbiamo già ricevuti, finora abbiamo potuto contare solo sui nostri mezzi.
Come membri attivi siamo un centinaio e come membri con partecipazione saltuaria e simpatizzanti siamo a circa 500».
Cosa sta succedendo nel dipartimento del Pool?
«A livello ufficiale c’è una ribellione che sarebbe ricominciata. Quello che si può dire è che da ottobre 2015 a oggi, Sassou ha iniziato un processo nel quale chiunque si opponga al regime o esiga il rispetto della legge, o chieda giustizia, è sistematicamente arrestato, oppure scompare, o viene torturato. Oggi ci sono circa 100 persone in prigione per questi motivi, di cui diversi oppositori, ma il governo sostiene che non ci sono detenuti politici in Congo.
Il 4 aprile 2016 il potere di Brazzaville ha fomentato un colpo di mano. Lo stesso momento in cui hanno iniziato a sparare, verso le 2 del mattino, si proclamavano i risultati ufficiali delle presidenziali. E gli scontri sono proseguiti fino alle 16. Si sparava nei quartieri Sud di Brazzaville. Questo è stato fatto per evitare che la gente scendesse in strada a protestare contro i risultati. Ma non è stato sufficiente, e allora si è cercato un capro espiatorio per dire che c’era un colpevole. Per questo si è accusato Pasteur Ntumi di essere alla testa di un gruppo di ninja, quando tutti sappiamo che questi sono stati disarmati oltre 15 anni fa. Come hanno avuto le armi per attaccare e fare la guerra? I ninja si nasconderebbero nel Pool e così si è cominciato a bombardare la popolazione civile. Sono i civili innocenti che stanno morendo nel Pool, non sono dei guerriglieri.
In quale paese si può accettare che l’esercito bombardi con elicotteri militari la popolazione disarmata? Non è uno scontro con un altro paese. È terribile quello che sta succedendo».
La comunità internazionale, i cosiddetti «amici del Congo», le potenze come Francia e Usa, cosa fanno?
«Oggi i congolesi sono molto delusi dal comportamento della Francia che appoggia ancora il regime di Brazzaville. Perché non dimentichiamo cosa ha detto Hollande quattro giorni prima del referendum anticostituzionale del 2015. Di fatto ha autorizzato il governo a violare la Costituzione, quando qualche tempo prima all’Assemblea generale della Francofonia (organizzazione mondiale che raggruppa i paesi francofoni, ndr), in Senegal, si era opposto alla ricandidatura di Nguesso.
Sono delusi del comportamento della comunità internazionale, perché tutte le nazioni che si dicono protettrici dei diritti dell’uomo, quando si tratta di altri paesi parlano, ma quando si tratta del Congo tacciono. In Congo continuano a morire cittadini che non hanno nulla a che vedere con la politica. Ed è terribile vedere che si continui a uccidere congolesi senza che la Francia dica qualcosa. Siamo molto delusi da tutti questi paesi che non fanno assolutamente nulla per aiutare il Congo a uscire dalla dittatura».
Pensi sia dovuto agli interessi per il petrolio?
«La Francia e gli altri stati guardano le situazioni dei paesi con gli occhi dei loro interessi. Ovvero se hanno affari in un paese, e questi sono garantiti, allora si possono anche uccidere le persone, tutti i giorni. Non è un loro problema. Ma questo è triste perché sono paesi che si dicono culla dei diritti e delle libertà.
Gli Usa hanno condannato la deriva in atto, ma questo non basta. Occorrono sanzioni, bisogna tagliare gli aiuti e la cooperazione, è così che si può aiutare la popolazione. È necessaria un’inchiesta internazionale, ma non è in agenda.
Inoltre si parla poco della Repubblica del Congo a livello di media inteazionali.
Quando, durante le elezioni, siamo rimasti quasi una settimana isolati dal mondo, poco si è scritto. E dopo un tale black out, Sassou si è imposto con la forza e ha utilizzato l’esercito contro la popolazione. Ma nessuno ne parla. Non lo trovo normale. L’opinione pubblica non capisce perché i congolesi si rivoltano, ma noi sappiamo che questo potere è illegittimo, illegale».
Qual è la vostra visione sul futuro del paese?
«Il movimento Ral-le-bol esiste soprattutto per far crescere la coscienza cittadina. Come ci sono problemi oggi, ce ne saranno in futuro. Ma bisogna che tutti i congolesi si alzino in piedi come un solo uomo per dire no all’ingiustizia. E noi continueremo a lavorare su questo terreno. Siamo sicuri che il Congo sarà libero ma occorrerà che tutti i congolesi possano impegnarsi per lottare contro la dittatura e i crimini economici che si stanno perpetrando.
C’è infatti anche una grave crisi economica, la cui causa è il governo. Ma chi detiene il potere crea diversivi, come la presunta guerriglia, in modo da non essere scoperti e continuare a dirigere il paese.
Noi vogliamo che il Congo sia un paese di diritto, giustizia e uguaglianza e che quelli che lo hanno messo in questa situazione siano giudicati e paghino per quanto hanno fatto».
Marco Bello
Europa: cervelli migranti
Sempre di più arrivano migranti con elevato livello culturale. Ma la valorizzazione delle loro competenze è ancora lontana. L’Unione europea inizia a parlare di «corridoi educativi» e alcune città italiane si muovono. Occorre inserire i talenti esteri. Il migrante, percepito come peso, può così diventare risorsa.
Le decine di migliaia di persone migranti che ogni anno concludono il loro drammatico viaggio verso l’Italia nei centri di accoglienza, per certi aspetti, non sono tutte uguali: uno dei fattori importanti che le differenzia le une dalle altre è il loro grado di istruzione. Tuttavia nessuna istituzione a livello governativo sembra ancora curarsene come si potrebbe e dovrebbe fare, nonostante l’inserimento attivo nella società di nuovi arrivati con alte professionalità possa essere un notevole valore aggiunto. Chi ha studiato in patria può diventare infatti un elemento chiave per favorire i percorsi di inclusione di altri stranieri e combattere i processi di radicalizzazione nel contesto sociale in cui andrà a collocarsi. Non solo. Il rischio è che la frustrazione crescente di chi non trova un’occupazione adeguata alle sue possibilità degeneri in fenomeni di marginalità e violenza.
Primi passi
Se lo stato italiano latita, non così fortunatamente fanno le associazioni religiose, le organizzazioni del volontariato, la società civile e molti enti di livello locale, che hanno già mosso i primi passi concreti per la valorizzazione del livello culturale dei migranti e hanno iniziato a valutare gli esiti delle esperienze capofila.
Un convegno, presieduto da Janiki Cingoli e Federico Daneo, direttori rispettivamente del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) e del Centro piemontese di studi africani (Csa), cornordinato da Ilda Curti, rappresentante per l’Italia dell’Associazione delle città interculturali del Consiglio d’Europa, ricchissimo di qualificati interventi, si è svolto recentemente a Torino. Lo scopo era verificare le attività cosiddette di «capacity building» (letteralmente costruzione di competenze) delle cosiddette «associazioni diasporiche med-africane» – ovvero di quelle comunità che si fanno carico di accogliere e includere in società i migranti provenienti dalla costa africana del Mediterraneo – nelle realtà del capoluogo piemontese stesso e nell’area milanese.
Intanto anche l’Unione europea si sta muovendo per far emergere i rifugiati «high skilled», ovvero ad elevate competenze. Sono allo studio sistemi per valorizzare le loro lauree attraverso «corridoi educativi» e una cooperazione territoriale che tocchi atenei, ma anche fondazioni bancarie e Ong. «Finalmente l’Europa ha la sua strategia di diplomazia culturale per rafforzare la dimensione culturale ed educativa delle relazioni inteazionali». È il commento alla «Towards a Eu strategy in inteational cultural relations» (Verso una strategia Ue per le relazioni culturali inteazionali) adottata nel giugno scorso, di Silvia Costa, intervenuta al convegno come presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo. «La strategia – ha proseguito – fu proposta dall’Italia durante il suo semestre di presidenza. Ora l’Europa ha uno strumento potente che la può aiutare ad affrontare la nuova dimensione delle politiche culturali sempre più connesse con le politiche per lo sviluppo e la pace. Il conflitto drammatico nell’area del Mediterraneo, il terrorismo, l’emergenza dei rifugiati ci spingono con urgenza a rivedere modelli di cooperazione e di partenariato alla luce di un approccio interculturale e interreligioso, promosso dalla nuova strategia, anche in chiave competitiva ed economica». L’obiettivo è di arrivare a un piano globale di co-sviluppo (inteso come sviluppo nei paesi di provenienza in cui le associazioni della diaspora hanno un ruolo preciso), sfruttando le reti che regolano le migrazioni, ovvero le persone, le loro rimesse economiche, le loro competenze, le imprese sul territorio e i consolati.
Troppi sprechi
Su questo percorso oggi si incontrano troppi sprechi di risorse e competenze. Basti pensare agli 1,1 miliardi di euro – sui 3,3 miliardi investiti per la totalità delle operazioni di salvataggio e cure sanitarie – che si spendono ogni anno per tenere 130 mila persone nel limbo dei centri di accoglienza e degli ostelli dove sopravvivono abbandonati al loro destino (questi dati sono riferiti al 2015; mentre i rifugiati nel 2016 sono cresciuti a 170 mila con relativo aumento di spesa previsto a 1,6 miliardi). Questo modello di accoglienza costa allo Stato 35 euro al giorno per ciascuno di loro, cifra che sale a 45 se si tratta di minori (20 mila è il numero di quelli non accompagnati). E non sono soldi che finiscono nelle tasche dei migranti, come vorrebbero certe speculazioni politiche. Il vero «pocket money» per loro è di 2,5 euro giornalieri pro capite.
È necessario dunque rovesciare gli stereotipi che considerano l’immigrato un peso per la società. Papa Francesco l’ha ribadito più volte con forza: l’accoglienza deve essere bagaglio di ognuno di noi e i governanti non si possono permettere il lusso di salvare le banche e non trovare i capitali necessari a una accoglienza dignitosa per chi chiede aiuto per soddisfare i bisogni essenziali.
Le città di Torino e Milano hanno saputo offrire un esempio di ciò che si potrebbe ottenere mettendo insieme le loro esperienze grazie anche al retroterra antico di volontariato, welfare e istituzioni sensibili. Magari lo si può fare in nome del cosiddetto «altruismo egoista» che può sfruttare le risorse che il paese di origine ha speso per la formazione dei suoi cittadini. Un esempio viene dalla Germania dove, sotto il cappello propagandistico dello slogan di accoglienza di un milione di rifugiati lanciato la scorsa primavera da Angela Merkel, sono state inserite persone provenienti dalla Siria in maggioranza di ceto borghese, benestante e istruito, che sono così diventati risorsa e non peso per la società tedesca.
Il capitale culturale
Dunque qualcosa si muove. Lo certifica nero su bianco una ricerca dell’istituto romano di studi politici San Pio V, che sottolinea come l’immigrazione contribuisca a non abbassare il capitale culturale dell’Italia e conferisca spessore concreto alla «circolazione dei cervelli».
La presenza di scambi con l’estero di lavoratori con un livello di istruzione superiore offre un reciproco arricchimento. Non per caso però, la ricerca segnala come la circolazione dei migranti qualificati sia più accentuata nelle nazioni ad alto sviluppo, nelle quali si riescono a creare più posti ad alta qualificazione con conseguente inserimento di immigrati culturalmente preparati.
In Italia invece non solo non si è attrattivi, ma neppure si sa frenare l’esodo dei nostri laureati ai quali il paese ha destinato ingenti risorse in formazione, e di cui altri godranno i benefici. Ecco qualche dato statistico che parla da sé: da noi si spendono 134 mila dollari per formare un diplomato, 178mila per un laureato magistrale, 228 mila per un dottore di ricerca.
Nel periodo 2000 – 2011 i diplomati e laureati fuggiti all’estero sono stati 180mila, a fronte di un arrivo di 243mila laureati e 841mila diplomati stranieri. Tra il 2012 e il 2014 sono espatriati 60mila laureati italiani e 15mila sono rimpatriati, mentre gli stranieri hanno contato 100mila laureati in più, tra residenti e cittadini.
Per valutare l’impatto delle alte qualifiche sulla presenza straniera in Italia notiamo che nel censimento 2001 gli italiani residenti sono circa 54 milioni con il 7,5% di laureati, il 25,9% di diplomati, mentre gli stranieri residenti sono 1 milione 200mila con il 12,1% di laureati e il 27,7% di diplomati. Dieci anni dopo, nel 2011, la popolazione italiana passa ad oltre 56 milioni con l’11,2% di laureati e il 30,2% di diplomati, con incidenza di questi ultimi dunque in netto aumento. Quintuplicata rispetto al censimento del 2001 è nel contempo la presenza straniera, salita a 5,42 milioni di unità. Nel 2014, secondo l’Istat, la popolazione straniera residente con 15 anni e più conta il 39,7% di diplomati e il 10,3% di laureati, ovvero circa mezzo milione di persone, per cui si può affermare che questa presenza compensa numericamente il flusso dei laureati italiani verso l’estero, se non fosse che resta, come già sottolineato, troppo scarsamente valorizzata.
Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono nel contempo solo l’1,29% del Pil (contro il 2,03% di media nell’Ue) con le imprese private che battono largamente il settore pubblico, senza contare che un quarto degli investimenti privati in ricerca è fatto in Italia da imprese estere. Il risultato è che solo 1 manager su 4 ha una laurea, contro i 2 su 3 della Francia, fattore che non favorisce certo l’innovazione.
Un saldo positivo
Secondo un’altra stima del Dossier Statistico sull’immigrazione, datato 2015, stilato dal Centro studi e ricerche Idos di Roma e dalla rivista interreligiosa «Confronti», tornando al nodo lavoro, 2,3 milioni sono gli stranieri con un posto di lavoro, il 10,3% del totale degli occupati. In agricoltura, uno dei settori più esposti allo sfruttamento, lavorano ufficialmente 328mila braccianti nati all’estero. Le entrate fiscali e previdenziali totali, nonostante i fenomeni diffusi di caporalato e lavoro in nero, ricollegabili ai lavoratori immigrati sono state nel 2013 (ultimo dato disponibile) di 16,6 miliardi di euro contro uscite nei loro confronti di 13,5 miliardi, dunque con un forte saldo attivo, contribuendo con l’8,8% al valore del Pil nazionale.
Il problema del sistema Italia, conclude la ricerca dell’istituto San Pio V, non consiste dunque tanto nella mancanza di personale con un’istruzione superiore quanto nell’incapacità di usarlo in maniera adeguata, così da contenere la partenza dei talenti italiani e da inserire con maggiore apertura i talenti esteri, soprattutto extracomunitari.
È questa una delle scommesse da vincere per lo sviluppo futuro e la crescita equilibrata di tutto il nostro paese.
Mario Ghirardi
Nicaragua. Rosario&Daniel Ortega spa
Lo scorso novembre Daniel Ortega è stato rieletto presidente del Nicaragua. Sua moglie Rosario Murillo, vicepresidente. In questa intervista María López Vigil, caporedattrice di Envío, prestigiosa rivista dell’Università Centroamericana (Uca) di Managua, traccia un quadro fosco della coppia presidenziale che da 10 anni guida il paese.
Quell’uomo con i baffetti, gli occhiali «a goccia» e un’uniforme verde militare era per molti – anche per chi scrive – un’icona. Lui, Daniel Ortega Saavedra, era il leader del Frente sandinista de liberación nacional (Fsln) che aveva liberato il piccolo Nicaragua dalla dittatura di Anastasio Somoza e resistito per 10 anni (dal 1979 al 1989) alle pressioni militari e politiche degli Stati Uniti, all’epoca guidati da Ronald Reagan.
Dopo gli accordi di Managua (agosto 1989), il paese centroamericano toò alla normale dialettica democratica. Daniel Ortega fu sconfitto nelle presidenziali del 1990 (da Violeta Chamorro), del 1996 (da Aoldo Alemán) e del 2001 (da Enrique Boloños). Nel 2006 Ortega vinse le elezioni, ripetendosi nel 2011.
Lo scorso 6 novembre Daniel Ortega, oggi 71enne, è stato eletto presidente per la terza volta consecutiva, mentre sua moglie Rosario Murillo è stata nominata vicepresidente. Un’abbinata familiare che non rappresenta un delitto, ma certamente non appare come una scelta eticamente opportuna.
Per parlare delle elezioni e del decennio della famiglia Ortega abbiamo rivolto qualche domanda a María López Vigil, giornalista e scrittrice, caporedattrice di Envío, la rivista pubblicata dall’Università Centroamericana (Uca) di Managua. Va ricordato che la Uca, fondata dalla Compagnia di Gesù nel 1960, è senza dubbio uno dei più noti e prestigiosi istituti universitari dell’America Latina.
I dubbi sulle elezioni
Maria, Daniel Ortega e Rosario Murillo hanno vinto di nuovo. Tutto bene?
«Non sapremo mai i numeri ufficiali di queste elezioni. Da otto anni le autorità elettorali mentono e tutti lo sanno in Nicaragua. Eppure Daniel Ortega non ha stravinto. In ogni caso, ha vinto perché ha preparato tutto per non avere né osservatori inteazionali né partiti reali in competizione. Noi abbiamo calcolato un 70% di aventi diritto che non sono stati a votare, arrivando all’80% nelle zone rurali. Quindi, il 72,5% ottenuto da Ortega è stato calcolato su appena un 30% di votanti. Sarebbe corretto definirla una vittoria di Pirro».
Dopo le elezioni, l’emittente TeleSur ha commentato: «Con il suo processo elettorale esemplare, la democrazia nicaraguense è attaccata con aggressività dai governi e dai media occidentali. (…) Nelle elezioni statunitensi del 2012 Barack Obama vinse con l’appoggio del 31,5% (…). Daniel Ortega ha vinto con un appoggio del 49,4%» (TeleSur, 10 novembre). Dove sta la verità?
«In queste elezioni chi ha vinto è stata l’astensione. Qualcosa di molto significativo in Nicaragua, dove alla gente piace votare, perché le persone hanno “fede elettorale”. Le cifre diffuse dal disprezzato Comitato elettorale non sono credibili. Sono state precedute da tre frodi elettorali provate (2008, 2011 e 2012). Il problema elettorale in Nicaragua è molto grave perché il sistema è collassato».
La povertà resiste
Nel 2015 l’economia nicaraguense ha registrato una crescita del 4,5% (dato Fmi). Significa che il modello economico di Ortega funziona?
«Il governo di Ortega non è progressista. La spinta che ha avuto l’economia del Nicaragua si è basata sull’aiuto venezuelano (si tratta di ingenti prestiti petroliferi che tuttavia sono molto diminuiti negli ultimi due anni, ndr), aiuti che il presidente ha privatizzato. Il modello economico ha favorito fondamentalmente il grande capitale e per questo l’Fmi ogni anno si congratula con Daniel Ortega».
In questi anni il livello della povertà generale è diminuito in maniera significativa: era del 44,7% nel 2009, è sceso al 39,0% nel 2015 (dati Fideg).
«Ortega e Murillo sono al governo ormai da dieci anni. Sono diventati milionari con le entrate della cooperazione petrolifera venezuelana. La diseguaglianza sociale è maggiore oggi che dieci anni fa. I problemi principali del paese sono la disoccupazione e i cattivi impieghi (la cosiddetta occupazione informale): 8 su 10 nicaraguensi lavorano in proprio, senza un salario fisso e senza previdenza sociale. L’emigrazione verso Costa Rica e Panamá è massiccia. Le rimesse in dollari che gli emigrati inviano alle loro famiglie sono un sostegno importante per la gente più povera del paese. Il Nicaragua continua a detenere il record di paese più povero del continente dopo Haiti, anche se la differenza tra i due paesi rimane abissale».
Secondo la Cepal, organizzazione delle Nazioni Unite, nella classifica della povertà il Nicaragua viene però dopo di Haiti, Honduras, Guatemala e Messico.
«Premesso che entrare nella “competizione” per chi è più povero è comunque un fatto negativo, le prove per stabilire chi lo è di più sono sempre differenti».
La povertà è un’eredità storica. Cosa manca per diminuirla?
«Il problema principale da risolvere perché il paese superi la sua storica povertà è il sistema educativo di bassissima qualità. Abbiamo le maestre e i maestri peggio pagati dell’America Centrale e la minore percentuale del bilancio nazionale investito nell’educazione (2,5%). L’attuale governo non ha fatto nulla per migliorare l’istruzione».
Gli Ortega sostengono che il loro governo è un governo inclusivo.
«Ortega ha incluso nel suo governo la grande impresa privata e la élite imprenditoriale di sempre. Sono i suoi alleati più sicuri, suoi soci anche in varie attività. Per i più poveri ci sono i cosiddetti “programmi sociali”: borse alimentari mensili, maiali e galline per le donne rurali, lamiere di zinco per i tetti, crediti senza interesse per micro-attività urbane… Non c’è dubbio che alleviano la povertà e che i poveri gradiscano molto queste misure, però non risolvono il problema. La sola cosa che sradicherebbe la povertà sarebbe una occupazione stabile con un salario dignitoso.
Il 6 novembre molti di questi poveri, pur beneficiati con i programmi sociali, non sono andati a votare per Ortega. La gente è stanca del controllo sociale che questo governo impone, che si manifesta in varie maniere, più nelle zone rurali che a Managua e in altre città».
Ciò che resta del sandinismo
Mi pare che il sandinismo di oggi sia completamente differente da quello di ieri. Mi sto sbagliando?
«Tutti abbiamo ammirato il sandinismo e da anni siamo tristi per la situazione che viviamo qui. Però non serve a nulla dissimulare e mentire sul Fsln e su Ortega e la sua gente. Non sono sandinisti. Il sandinismo continua a essere vivo in Nicaragua, tuttavia non nelle istituzioni. In altre parole, non c’è alcun sandinismo nell’attuale Fsln».
Cos’è il sandinismo, María?
«È una delle radici di questa nazione. Il sandinismo è giustizia sociale e sovranità nazionale. Oggi invece ci sono diseguaglianza e ingiustizie».
Sovranità nazionale… Com’è la storia del progetto del Grande canale interoceanico nelle mani di Wang Jing, proprietario del gruppo cinese Hknd?
«Ortega è un “vendepatria” come diceva Sandino dei politici del suo tempo. Ha venduto il paese a una impresa cinese perché faccia un canale interoceanico. E anche se non lo facesse, perché questo progetto è una truffa e una pazzia, c’è una legge che già oggi permette a quella impresa e al gruppo di Ortega di appropriarsi delle terre per l’ipotizzato canale e i progetti ad esso associati».
Tuttavia, il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) continua a vivere ed esistere, o no?
«In realtà il Fsln non esiste, perché è un partito privo di strutture. Quello che c’è è l’”orteguismo”, un progetto politico-familiare che viene comparato con quello di Somoza. In varie occasioni è stato detto: “Ortega e Somoza sono la stessa cosa”. Evidentemente sono passati gli anni, il mondo è diverso, il Nicaragua anche. Assomiglia a Somoza per l’autoritarismo, per il controllo familiare del paese, per la capacità repressiva (specialmente nelle zone rurali), per l’arricchimento personale e del gruppo dei suoi amici, per la corruzione e l’utilizzo privato delle risorse pubbliche».
In Nicaragua operano società multinazionali?
«Certamente. C’è la Cargill, ricevuta con tutti gli onori da Ortega.
C’è l’impresa mineraria canadese B2Gold. C’è la Monsanto. Ci sono zone franche coreane, taiwanesi, statunitensi. Perché il Nicaragua attira tanti investimenti stranieri, di multinazionali e altre imprese importanti? La ragione principale è che il Nicaragua ha i salari più bassi di tutta l’America Centrale. La manodopera è così a buon mercato che è l’unica che può competere con i più bassi salari dei paesi asiatici. Il Salvador ha un salario minimo del 50% superiore al nostro, quello dell’Honduras è due volte maggiore, quello del Guatemala è appena più alto di quello honduregno e quello del Costa Rica è quattro volte maggiore».
Queste multinazionali provocano disastri come negli altri paesi dell’America Latina? Anche in Nicaragua l’ambiente e la natura sono in pericolo?
Le imprese minerarie stanno facendo disastri ambientali ovunque esse lavorino, come nel resto dell’America Latina. In questo momento il governo ha dato in concessione il 10% del territorio nazionale per lo sfruttamento minerario, specialmente dell’oro».
La Chiesa cattolica e le chiese evangeliche
Qual è il ruolo della Chiesa cattolica del Nicaragua? Un tempo, specialmente con il cardinale Obando y Bravo, è stata una grande nemica del sandinismo. Oggi è alleata della famiglia presidenziale. Per favore, María, una spiegazione…
«La gerarchia della Chiesa cattolica è divisa, come in tutte le parti del mondo. Ci sono quattro dei dieci vescovi della Conferenza episcopale del Nicaragua che hanno posizioni critiche verso il governo Ortega. Gli altri mantengono posizioni ambigue: in alcuni momenti sono favorevoli al governo, ma generalmente preferiscono il silenzio. Il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Báez, è l’unico che ha sempre mostrato una posizione critica. Nelle elezioni del 6 novembre non è andato a votare sostenendo pubblicamente che il processo elettorale era viziato alla radice».
E le chiese evangeliche? Come sta accadendo in molti paesi latinoamericani, anche in Nicaragua la loro diffusione tra la popolazione è rapida.
«Sì, come in tutto il Centramerica e in tutta l’America Latina, esse sono cresciute in maniera esponenziale. In generale, leggono la Bibbia in una maniera che porta al fondamentalismo e a passività e rassegnazione davanti alla realtà. Ci sono le chiese protestanti storiche (battisti, anglicani), ma sono in chiara minoranza rispetto alle denominazioni evangeliche, che sono sempre più numerose, soprattutto nei quartieri poveri delle città e nei distretti rurali».
Le minoranze indigene
Qual è la situazione delle etnie indigene del Nicaragua? Sono 520 mila persone pari all’8,9% della popolazione totale.
«L’etnia maggioritaria è la Miskita. Al secondo posto c’è l’etnia Mayangna. L’etnia Rama è molto ridotta. Ci sono poi i Garifunas come in Honduras.
Queste quattro etnie occupano zone del Nord e Sud Caribe. Storicamente queste regioni, immense e ricche di risorse naturali, erano state ignorate o soggiogate dal governo centrale. Oggi, ogni volta di più, quelle terre sono invase da gente di altre parti del paese, con il tacito consenso di questo governo. È sempre successo. Ma in questi anni è aumentato il conflitto, anche armato, tra gli indigeni e gli invasori, con l’esercito che rimane a guardare».
Cosa spera per il presente e per il futuro di questo paese?
«Spero in un paese migliore, più giusto e più felice. Credo che un altro Nicaragua sia possibile. Anche se non nel breve periodo».
Il potere e le persone
Le risposte di María López Vigil sono dure. A noi rimane in testa il solito dilemma: sono gli anni che cambiano le persone o è il potere che le cambia indipendentemente dagli anni?
Paolo Moiola
Siti internet:
www.envio.org.ni È il sito della rivista Envío, fondata nel 1981.
www.uca.edu.ni Il sito dell’Università Centroamericana di Managua.
www.cenidh.org Il sito del centro nicaraguense per i diritti umani.
www.ans21.org È il sito dell’associazione «Alteativa Nord Sud per il XXI secolo» che dal 1993 si occupa di Nicaragua (e di Guatemala) e traduce in italiano anche la rivista Envío.
www.cse.gob.ni Il sito del Comitato elettorale del Nicaragua.
Un gruppo di settanta attivisti ha visitato a fine ottobre alcuni siti industriali nella provincia di Terragona, in Catalogna, per valutae e denunciae l’impatto ambientale, culturale, sociale. Una carovana alla sua terza edizione che ha offerto uno spazio di libertà per indignarsi, intuire nuovi stili di vita, studiare alternative, costruire vincoli di affetto con il territorio.
Conoscere la propria terra e la sua gente, costruire narrative comuni, trovare strategie di resistenza, scoprire e condividere modi nuovi di vivere la vita e il mondo. Essere il filo che tesse insieme territori a volte isolati o dimenticati, o sacrificati. Questo è il senso dei cosiddetti toxic tours, carovane di attivisti che visitano e documentano siti ambientali in condizioni di particolare pericolo, per verificarne la tossicità, il livello di inquinamento a causa, spesso, dell’industria estrattiva ed energetica.
I toxic tours, nati nelle terre zapatiste del Messico, si sono diffusi negli Stati Uniti, in Italia, Ecuador, Colombia e altrove.
Il tour catalano
Lo scorso 29 ottobre uno di questi toxic tours si è svolto nella provincia di Terragona, territorio della comunità autonoma di Catalogna affacciato sul mar Mediterraneo, a Sud Ovest di Barcellona. Obiettivo, quello di visitare e valutare l’impatto ambientale di alcune attività industriali come quelle di Repsol o Dow Chemical nel polo petrolchimico della città di Tarragona, o della piattaforma di deposito di gas Castor nel territorio della cittadina di Alcanar, oltreché di interrogarsi sull’«architettura dell’impunità» con cui le grandi corporations operano.
Sovranità energetica
La terza edizione del Volt ha radunato, per tre giorni, un gruppo di 70 attivisti. Tra loro c’erano lavoratori di cornoperative, insegnanti, studenti, ingegneri, cooperanti, ricercatori, operai e rappresentanti di movimenti sociali indigeni colombiani e guatemaltechi. L’iniziativa, organizzata dalla Xarxa per la Sobirania Energètica (Xse, rete per la sovranità energetica1), ha riunito non solo un ventaglio ampio di competenze e conoscenze, ma anche di cittadini preoccupati per gli impatti ambientali, sociali ed economici dell’attuale modello energetico. Ha creato uno spazio «mobile», dove imparare, indignarsi, studiare alternative e costruire vincoli d’affetto con il territorio.
Grandi progetti (e interessi)
Molti degli attivisti del Volt3 avevano partecipato anche alle precedenti edizioni. Nella prima, con lo slogan «Anche sull’energia vogliamo decidere noi!», il gruppo aveva visitato, nella provincia di Terragona, la piattaforma terrestre del progetto di deposito di gas Castor, le centrali nucleari di Vandellós, le terre minacciate dall’immobiliare Bcn World, quelle che resistevano al fracking, le coste di Palamós a rischio per le prospezioni petrolifere marine. I progetti visitati dal Volt1 erano molto diversi tra loro, ma con alcuni comuni denominatori: l’assenza di consultazione della popolazione locale, gli insufficienti studi d’impatto ambientale e l’opacità dei grandi interessi economici e finanziari.
Il Volt2 aveva lanciato quindi «una sfida ai grandi progetti energetici» e riunito 90 partecipanti per visitare le grandi infrastrutture di interconnessione per il gas e l’elettricità tra la penisola iberica e il resto d’Europa: il gas-dotto Midcat, il deposito di gas di Balsareny, le torri dell’autostrada elettrica Mat di Graus (grandi investimenti per un progetto poi abbandonato a metà2) e Sabiñanigo in Aragona, paese già noto per il più grande caso di inquinamento chimico d’Europa3.
La Mat, il Midcat e molte altre infrastrutture simili vengono sponsorizzate con forza dall’Unione europea che ha messo a disposizione il fondo Connecting Europe Facility (Cef) e il Fondo europeo per gli investimenti strategici, meglio conosciuto come Plan Junker. Sono circa 248 i megaprogetti, spesso individuati senza un dibattito democratico nei paesi membri, in attesa di essere dichiarati Progetti di interesse comune (Pic), con cui Bruxelles spera di costruire «l’Unione dell’energia, integrando i mercati europei del settore e diversificando le fonti e le rotte». I Pic ufficialmente dovrebbero contribuire «a porre fine all’isolamento energetico che caratterizza alcuni stati membri e favoriranno la penetrazione delle rinnovabili nella rete, riducendo le emissioni di biossido di carbonio»4. Più sicurezza energetica, più servizi e più benessere: chi rifiuterebbe un’offerta così?
Tuttavia, da un esame più accurato, risulta che i progetti favoriranno più che altro la «sicurezza energetica» delle imprese che controllano il mercato degli idrocarburi. Le stesse in coda per completare il mercato unico europeo di gas ed elettricità attraverso infrastrutture di interconnessione tra i diversi paesi. Il piano lascia a desiderare per la mancanza di un processo democratico nelle decisioni e non spiega perché la Spagna debba aumentare il potenziale di produzione di energia e di trasporto di risorse quando quelle già esistenti sono sottoutilizzate e la produzione è superiore alla domanda e al bisogno. Rimane poi incredibile la mancanza di responsabilità e riparazione o compensazione delle imprese che spesso sono parte di grandi gruppi oligopolistici.
Dov’è finita la sovranità degli stati sul tema? È la garanzia democratica che ne dovrebbe guidare le scelte? A favore e a scapito di chi viene erosa la sovranità energetica, e come recuperarla?
Un’impunità che corre lungo la catena delle commodities
Quest’anno il Volt3, con lo slogan «Di fronte all’impunità corporativa, sovranità popolare!», si è interrogato su ciò che il prof. Juan Heandez Zubizarreta, docente dell’Università del País Vasco e promotore della campagna Dismantle Corporate Power5, ha chiamato l’«architettura dell’impunità» delle grandi corporazioni. Gli attivisti hanno visitato molti progetti, tra cui il polo industriale e petrolchimico della città di Terragona, enorme e costante produttore di rumore e fumi. Ciascuno indossava una mascherina foita dal collettivo di attivisti locali Cel Net (Cielo Pulito). In quel sito industriale imprese come Repsol o Dow Chemical trasformano il petrolio in derivati per gli usi più vari, da quello agricolo al bellico. Nell’aria, un forte odore di fumo e di bruciato che spesso impedisce alla gente residente nei dintorni di aprire le finestre di casa. Il collettivo locale Cel Net è impegnato nella costruzione di un «Tavolo per la qualità dell’aria», ne monitora la costituzione e denuncia i tentativi delle imprese di difendere la propria immagine a danno di verità e trasparenza.
Che cosa esattamente venga prodotto là dentro e da dove derivino le materie prime non è informazione facile da ottenere. Inoltre, la condotta di quelle stesse imprese in altri paesi non dice nulla di buono sui loro principi di trasparenza, giustizia e responsabilità. Sono casi noti, infatti, quelli di inquinamento massivo e di violenza sulle popolazioni locali nell’Amazzonia peruviana per l’estrazione di petrolio, o quello della exit strategy dall’India della Union Carbide (dal 2001 di proprietà della Dow Chemical) dopo aver provocato la più grande contaminazione della storia del paese nella città di Bhopal.
«Non avrei mai immaginato che queste imprese facessero danni anche nei paesi europei», ha affermato Aparicio, ricercatore dell’Università Indigena Autonoma del Cauca (Colombia), durante la visita, fissando la colonna di fumo: «Noi vediamo gli effetti dell’estrazione del petrolio, ma non immaginavamo cosa avviene durante la sua trasformazione e la produzione di derivati».
Un tribunale di giustizia della società civile organizzata
Il Volt3 ha voluto denunciare soprattutto il progetto Castor, la piattaforma di deposito di gas che ha drammaticamente socializzato le perdite mentre privatizzava i benefici a favore di oligarchie corporative. Di proprietà dell’impresa Escal Ugs, vede la partecipazione per il 66,7% dell’impresa costruttrice Acs, il cui presidente, Florentino Perez, è uno degli imprenditori più controversi del paese anche se il suo nome è più comunemente legato alla presidenza del Real Madrid. Al largo della costa di Alcanar, Acs ha costruito una piattaforma marina destinata a immagazzinare fino a 1,3 miliardi di metri cubi di gas, mentre nella terra ferma il suo terminale terrestre occupa una superfice di 28 ettari. La stessa impresa costruttrice in altri paesi è associata a dighe per la produzione di energia idroelettrica come la Renace in Guatemala, o la Inga in Congo RD, responsabili di violazioni del diritto ambientale e delle comunità locali. Ciò che doveva essere il progetto all’occhiello della Eu Project Bond Initiative per trovare sul mercato finanziario investitori di megaprogetti energetici, non ha fatto però i conti con il territorio e le sue condizioni geomorfologiche, nonché con le norme di legge. Il progetto di Acs ha creato più di mille terremoti che hanno recato danni materiali nei comuni di Vinarós e Alcanar e non ha rispettato le normative riguardanti il previo studio ambientale. Al manifestarsi della sua pericolosità, il governo ha sospeso l’attività nel settembre 2013 e la causa legale è tuttora in corso. Ciò che però è già deciso è chi paga il debito di 4,7 miliardi di euro venutosi a creare con lo stop al progetto: la clausola 14 del contratto prevede il diritto per l’impresa di reclamare indennizzi economici dal governo, cioè dai cittadini ignari di ciò che si celava fra le righe dell’accordo, che restituiranno il loro «debito» tramite una quota nella loro bolletta del gas per i prossimi 15 anni.
«L’impresa Escal Ugs e i suoi partner sono i veri debitori, ma ora è sparita dalla mappa degli attori coinvolti, e sembra che siamo noi i padroni di questo mostro: è diventato un impianto pubblico!», osserva sarcastico Joan Ferrando, portavoce della Plataforma en Defensa del Sénia, di fronte ai giornalisti presenti alla conferenza stampa convocata di fronte alla piattaforma terrestre6. Le entità promotrici del Volt3 seguono da anni ormai le vicissitudini del Castor e annunciano la nascita di un Tribunale Popolare per il giugno 20177. «Questo progetto è una vergogna, il simbolo dell’arroganza e dell’impunità delle imprese e dell’omertà del potere pubblico, nonché della politica europea chiaramente in difesa di interessi affaristici a discapito di un sistema energetico più ecologico e democratico», afferma il comitato promotore. Mònica Guiteras, rappresentante della Xse, afferma che «il giudizio è un’azione simbolica ma anche effettiva, perché non vogliamo che si zittisca questa resistenza».
Ricostruire il territorio
Il Volt si è riconfermato anche quest’anno come un importante momento conviviale per tessere relazioni, formarsi in una scuola itinerante, capire che lo spazio in cui abitiamo non è solo terra e aria e acqua, ma un territorio con la sua complessità ecologica, la sua memoria storica, i suoi abitanti, le persone e gli altri esseri viventi, meritano uguale ascolto. Uno spazio conviviale per ricostruire fiducia e narrative alternative, per difendere quei modi di vita e di gestire la «cosa pubblica» per il bene comune che vengono calpestati o negati; e per confermare legami di solidarietà internazionale, per arrivare laddove altri chiudono gli occhi.
Daniela Del Bene
Note:
1- La Xse (www.xse.cat) si è costituita nel 2012 su iniziativa di alcune Ong e comitati catalani allo scopo di ripensare collettivamente il modello energetico. Il Volt è uno dei suoi appuntamenti più importanti.
2- In Francia il progetto prevedeva linee sotterranee, mentre in Spagna erano previsti corridoi ampli fino a 400m sospesi su alte torri di 60 m. L’enorme impatto paesaggistico e ambientale si sarebbe sommato a quello sociale conseguente all’acquisizione forzosa di terre agricole e abitate. A Graus la popolazione si è organizzata nella Plataforma Unitaria contra la Autopista Electrica: autopistaelectricano.blogspot.com.es.
Ulteriori dettagli nell’Ejatlas: ejatlas.org
3- A Sabiñanigo, nella zona prepirenaica della comunità di Aragón, al confine con la Catalogna, dal 1975 si produceva il lindano, un insetticida usato in agricoltura per anni nonostante fosse altamente contaminante. I residui di produzione sono stati sistematicamente versati nel fiume Gallego dall’impresa responsabile, Inquinosa. Per la sua tossicità, la produzione è stata sospesa nel 1989, ma l’impresa l’ha continuata fino al 1994, dichiarando falsa attività. Successivamente il prodotto è stato bandito dall’Ue, ma l’impresa non ha mai ripulito il fiume e la terra. La fabbrica rimane in piedi, abbandonata, con barili di prodotto contaminante al suo interno. Se ne parla in ejatlas.org
4- Tratto dal comunicato stampa della Commissione europea, 18 novembre 2015.
5- La Global Campaign to Reclaim Peoples Sovereignty, Dismantle Corporate Power and Stop Impunity (Campagna Globale per reclamare la sovranità popolare, smantellare il potere corporativo e fermare l’impunità) nasce nel 2011. Nell’ottobre 2016 raggruppa piú di 200 organizzazioni da tutto il mondo, tra cui il Transnational institute, Friends of the earth inteational, La via campesina. La campagna lavora a piú livelli, dalla base dei movimenti sociali per studiare, analizzare, raccogliere prove, fino alla pressione in seno alle Nazioni unite con la finalità di ottenere un trattato internazionale vincolante contro le violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali. Grazie a tale pressione, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha accettato di lavorare su una proposta di trattato, nonostante le azioni di boicottaggio di molti paesi, tra cui diversi dell’Unione europea. Per maggiori informazioni: www.stopcorporateimpunity.org; e per approfondire alcuni casi: ejatlas.org
6- Il video della conferenza stampa si trova su Youtube: La Calamanda. Presentacio del Judici Popular contra el Projecte Castor.
7- Il Tribunale popolare per il progetto Castor si ispira alle molte iniziative di giurisprudenza popolare nate negli anni ’70 su iniziativa dell’avvocato e senatore italiano Lelio Basso. I Tribunali popolari si avvalgono di esperti di diritto, di diritti umani e del sapere radicato nei territori colpiti da ingiustizie con l’obiettivo che «la coscienza pubblica diventi fonte riconosciuta di diritto»: http://permanentpeoplestribunal.org/
Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump
Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?
L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.
Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.
Le spiegazioni
In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.
Contro Obama
Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.
Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.
L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.
Un razzismo sistemico
Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.
Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.
L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)
L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.
La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).
La politica estera
L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.
La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.
Massimo Faggioli
È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.
www1.villanova.edu
Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.
Approfondimento
Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald
Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.
Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.
Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.
Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.
Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.
Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.
Paolo Moiola
Romena un porto terra
Da un’esperienza personale di crisi, don Luigi Verdi fa nascere, 25 anni fa, la Frateità di Romena. Un luogo in cui pellegrini modei fanno tappa per ritrovare se stessi. Romena è anche un luogo di incontro e di confronto per personalità della Chiesa e della comunità culturale italiana e non. Tutti, semplici credenti, cardinali, scrittori, pensatori, trovano in Romena un luogo di pace e riposo in cui sono forti i pungoli per la vita.
Ci sono fasi della vita, e arrivano per tutti, in cui ci sentiamo girare a vuoto, siamo inquieti, persi per un dolore, per una ferita. In quelle fasi è impensabile individuare subito una meta, una direzione, un senso che possa convogliare le nostre forze. Può bastare un porto, dove far attraccare la nostra barca malconcia. Un porto dove sostare per riprendere fiato e da cui, poi, ripartire.
La frateità di Romena è uno di questi porti: non è segnato sulle mappe navali, ma è indicato dal cuore e dagli occhi di chi ci è passato. Un porto che vive intorno a un’antica bellissima pieve nella campagna toscana. Un porto senza mare. Un porto di terra.
Come un fiore di pietra
«In questo piccolo spazio vorrei che ogni uomo si sentisse a casa sua e, libero da costrizioni, potesse raggiungere la conoscenza di se stesso e incamminarsi nella sua strada forte e fiducioso. Vorrei che fosse una sosta di pace, di riflessione per ogni viandante che vi giunge, un posto dove l’ideale diventa realtà e dove la gioia è il frutto spontaneo». In una lettera scritta nel 1969 un monaco servita, padre Giovanni Vannucci, descriveva così il sogno comunitario che aveva in mente di realizzare alle Stinche, nel cuore del Chianti fiorentino. Quelle parole sono oggi bussola per chi si è lasciato impollinare dal seme dello stesso sogno creando Romena.
Siamo in Casentino, l’alta valle dell’Ao, terra di foreste antiche che respirano di fede. Un itinerario spirituale in questi luoghi punterebbe istintivamente a Camaldoli, all’eremo di San Romualdo, alla Vea, il monte di Francesco, ma nella geografia dei siti che fanno respirare il cuore dell’uomo da qualche tempo c’è anche questa antica chiesa di campagna. Ci si arriva, da Firenze, dopo un ingombro di curve. Ma è solo l’ultima, quasi a gomito, che libera la vista: la pieve appare bellissima, piantata sul verde di quella terra come un fiore di pietra non colto.
Per far riposare Dio e l’uomo
Questa pieve, edificata 900 anni fa, negli anni ’80 viveva da tempo nell’oblio, frequentata solo da qualche turista e da una manciata di parrocchiani, ultimi superstiti di una campagna spopolata. La bellezza non frequentata dall’uomo è una bellezza spenta, addormentata. Per risvegliarla ci voleva il bacio di una vita ferita, di un giovane prete in cammino.
Don Luigi Verdi, di san Giovanni Valdao (Ar), dopo alcuni anni da prete a Pratovecchio, a due passi da Romena, aveva cominciato a fare i conti con la sua vocazione, con le sue ferite, con la sua timidezza, tanto da cercare strade nuove tra il deserto e la Bolivia. Ma aveva trovato un po’ di pace solo fermandosi oltre quella curva a gomito.
Dal suo travaglio personale è nata Romena, capace di tenere insieme la vocazione di quel luogo e la sua di prete.
La scintilla l’aveva offerta un capitello della pieve: c’era scritto che quel luogo era stato edificato «in tempore famis». Dunque quella bellezza era originata da una carestia, da una crisi. Una crisi che conteneva un’opportunità. Come le crisi personali, perché la crisi smaschera, mette a nudo, chiama all’autenticità, a guardare oltre.
C’era poi un altro segno: per i pellegrini del Medio Evo in marcia verso Roma, la pieve rappresentava un punto di riposo dove fermarsi per una notte, rifocillarsi e ripartire. Allo stesso modo la futura frateità avrebbe potuto offrire un luogo di sosta ai viandanti. Una sosta per ritrovarsi e riscoprire la bellezza della loro unicità e per riprendere e proseguire il loro cammino, una sosta «per far riposare Dio e l’uomo».
Semplicità, accoglienza, calore
La porta della canonica di Romena si è aperta nel maggio 1991 per accogliere i primi viandanti. Erano giovani, per lo più del luogo, ma evidentemente la proposta sapeva toccare il cuore delle persone, perché da quel momento è cominciato un passaparola che non si è più fermato e che, negli anni, ha portato a Romena migliaia di persone provenienti da tutto il paese, da ogni storia, di ogni età, convinzione, condizione sociale.
«Siamo partiti – spiega don Luigi – dalla convinzione che oggi non ci sono necessarie né teorie, né ideologie per spiegare la vita, ma che tutti abbiamo bisogno di un po’ di silenzio, di una pausa, di un tempo per riallacciare i rapporti con la nostra autenticità. Ed è questo ciò che proviamo a offrire a Romena».
I tre corsi base
Alla base della proposta di Romena c’è un cammino suddiviso in tre corsi, che ha come riferimento la parabola del figliol prodigo. Quando una persona vive una crisi (per il figliol prodigo è il momento in cui prende consapevolezza di ciò che è diventata la sua vita) il primo gesto concreto da fare è quello di guardarsi dentro per ritrovare la propria autenticità. Questa è, in sintesi, la proposta del primo corso.
Il passaggio successivo è quello di far pace col Padre, con Dio: nel secondo corso, attraverso esperienze di gesti, di semplicità, di ascolto, l’invito è quello di percepire che c’è un Padre pronto ad abbracciarci.
Il terzo passo è semplicemente quello di trasferire nella vita di tutti i giorni, nel tessuto del nostro quotidiano, la nuova consapevolezza di sé e dell’abbraccio con l’infinito. Perché l’esperienza di umiltà e di semplicità devono poter «fare casa» dove viviamo. Questo è il terzo corso.
Ogni persona, secondo le sue esigenze e in piena libertà, può compiere uno o più tratti del cammino. E può, se vuole, anche continuare: la Frateità propone anche corsi a tema per approfondire quegli argomenti che ciascuno sente più vivi dentro di sé.
Uno spazio per sostenere il cammino della vita
I corsi, che si sviluppano ogni fine settimana, dal venerdì alla domenica, sono stati per molto tempo l’architrave della proposta di Romena. Ma negli ultimi dieci anni l’attività si è allargata a ventaglio, stimolata dal vento dei viandanti, dai loro bisogni, dalle loro richieste. Così oggi si può essere accolti a Romena, in semplicità, anche al di fuori dei percorsi di gruppo, per trascorrervi un po’ di giorni in silenzio, nell’ascolto della propria voce e di quella degli altri.
Dal suo porto di terra, inoltre, Romena lascia costantemente partire nuove «navi»: sono convegni cui partecipano diverse centinaia di persone, sono veglie itineranti per l’Italia, sono gruppi legati al cammino della frateità. Tra questi ultimi c’è il gruppo Nain, formato da alcune decine di famiglie unite nel dramma più grande, la perdita di un figlio. Esse hanno trovato nella condivisione il sostegno fondamentale al loro cammino di vita.
Negli anni la Frateità ha allargato i suoi spazi: dalla canonica della pieve alla fattoria che le è accanto. In questi spazi ospita, tra l’altro, la libreria in cui vengono proposte le pubblicazioni edite dalla Frateità, un auditorium per incontri, spettacoli, concerti, varie sale per ospitare gruppi e perché ciascuno trovi il luogo in cui stare insieme agli altri o dove rimanere solo con se stesso.
Le otto parole chiave
Quest’anno Romena compie 25 anni: un anniversario speciale in cui si è deciso non di celebrare quanto fatto, ma di rimettersi in gioco per abbandonare certezze acquisite e esplorare terre sconosciute. «Perché – dicono a Romena – negli ultimi anni la Frateità è cresciuta, sono aumentati gli spazi fisici, si sono moltiplicate le iniziative e le richieste di parteciparvi. Ma l’anima di Romena ha faticato a seguire il ritmo di questi cambiamenti, non ha avuto modo di consolidarli, di armonizzarli: e quindi il cammino che stiamo compiendo deve servire a ritrovare e riarmonizzare l’essenza del nostro percorso».
Ed ecco che la ricorrenza si trasforma in un viaggio nei valori fondanti di Romena. Valori che don Luigi ha sintetizzato in quelle che per lui sono le otto parole chiave di ogni cammino di rinascita: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza e amore. A ciascuna di queste parole che incidono sul modo di vivere di ciascuno di noi, durante questo anno di cammino iniziato nell’aprile scorso e che terminerà nell’estate 2017, vengono dedicati due mesi. Chiunque, passando da Romena, potrà offrire il suo contributo.
Il futuro di Romena nasce da questo anno di cammino. Un futuro che don Luigi, con i suoi occhi profondi e profetici, immagina nel segno di una delle otto parole chiave, la leggerezza. «“Siate leggeri come gli uccelli, non come le piume”, diceva Paul Valéry. Leggero è chi coglie il nocciolo della vita. La leggerezza richiede un lavoro profondo, una disciplina interiore e vorrei che qui aiutassimo a coglierla».
Storie che si abbracciano
Al porto di terra nuove storie attraccano ogni giorno. Ed è meraviglioso star qui, nella bellezza riposante di questa campagna, magari seduti su una panchina spalancata sugli Appennini, e incrociarle. Sono storie comuni, storie di tutti, fatte di fragilità, di bellezza, di umanità. Qui, nella calma tenue di questo porto, tutte le storie che attraccano sembrano abbracciarsi. È questo il senso più profondo di Romena.
«Spero – conclude don Luigi – che chiunque venga qui possa trovare sempre un posto dove imparare a guardare alle sue fragilità, e dove riconoscere che l’amore di Dio è più grande delle sue miserie».
Massimo Orlandi
Intervista a don Luigi Verdi
Dio è un abbraccio
Don Luigi, come sei arrivato a pensare Romena?
«In modo naturale. Non ne potevo più di quei luoghi dove a Dio si chiede sempre un miracolo, o di quelli dove lo si vive come qualcuno che dall’alto sottomette o giudica. Ho sempre immaginato Dio come un abbraccio. Così ho pensato a un posto dove io appoggio la testa sulle spalle di Dio e Dio su di me e semplicemente si trova un po’ di pace».
Cosa vuole essere Romena?
«Uno spazio per la lettura, il silenzio, per mangiare, per camminare, in cui chiunque si possa trovare a casa. Non a caso abbiamo collocato all’ingresso una poesia di Rumi: “Vieni, vieni, chiunque tu sia, sognatore, devoto, vagabondo, poco importa. Vieni, anche se hai infranto i tuoi voti mille volte. Vieni, vieni, nonostante tutto, vieni”».
La frateità è nata dopo un tuo periodo di crisi personale. Cosa ti ha insegnato quel periodo?
«Alla fine di quella fase trovai un Salmo (117, 22): “La pietra scartata è diventata la pietra angolare”. I due motivi veri della crisi, il nocciolo, erano la mia timidezza e queste mani imperfette. Ma perché, mi sono detto, questi punti deboli non possono diventare il meglio di me? E ho cominciato una lotta con me stesso: ho preso a guardare negli occhi le persone senza scappare, ho cominciato a dipingere e a creare con queste mie mani. Il messaggio è tutto qui. A Romena vengono tante persone ferite dalla vita: la cosa più bella è quando hai una ferita e, invece di maledire, benedici, quando riesci a trasformare la maledizione in benedizione».
Tra le iniziative della Frateità c’è un gruppo, chiamato Nain, composto da genitori che hanno perso un figlio. Tu cosa provi a fare per loro?
«Non cerco di dare alcuna risposta. Cerco solo di stare loro accanto. Come Gesù non è venuto a dare una risposta al dolore, l’ha riempito di una presenza. Ha detto “io ci sono”. In genere arrivano con domande crude: “Dov’eri quel giorno?”, “Da dove ricomincio?”. All’inizio vengono e non piangono, sono arrabbiati con la vita. Poi cominciano a piangere e le lacrime le asciugano subito. Poi, quando scendono le lacrime, le lasciano andare. Vuol dire che quel dolore comincia a addolcirsi. Ho un ricordo indimenticabile di una mamma che beveva le lacrime: bere le lacrime perché nemmeno quelle posso buttare via, anzi possono servirmi».
Bisogna per forza toccare il fondo per sentire la carezza di Dio?
Bisogna toccare la vita vera. Quella c’è quando sei innamorato o anche disperato. Quando abiti davvero la vita.
Cosa offre Romena?
Io credo che a ognuno di noi servano solo tre cose: un pezzo di pane, di un po’ d’affetto e di sentirsi a casa. Quello che vogliamo dare è questo.
Ma.Or.
L’essenzialità è possibile
Romena è frequentata abitualmente da figure spirituali importanti e diverse.
Ecco cosa pensano.
Ermes Ronchi (frate, teologo, scrittore)
«Quando vengo a Romena percepisco un piccolo miracolo, quello del lievito. E tutti voi mi trasmettete questo sapore di lievito e di sale di cui oggi c’è tanto bisogno. Oggi, in una società e in una Chiesa che cambiano, Romena è uno dei posti dove si forza l’aurora della Chiesa, del futuro, del mondo».
Franco Loi (poeta)
«La poesia è periferia della letteratura, è luogo nascosto, pochi scaffali nelle librerie più foite. Così anche Romena era e resta periferia, confine, soglia, possibilità per chi ha un’angoscia, un dolore, un sogno, e cerca un terreno dove lasciarlo posare. Romena è un posto dove trovare una pagina bianca su cui scrivere di sè. E magari leggere a voce alta, senza sentirsi sbagliati».
Sharzad Houshmand (teologa musulmana)
«Sento Romena come un luogo dei primi discepoli di Gesù. Un luogo semplice, pulito, un luogo di ricerca per la propria spiritualità».
Antonietta Potente (domenicana, teologa)
«A me piace molto il romanico, non solo come stile architettonico, ma per quello che evoca. Evoca l’essenzialità e l’autenticità, ciò che stiamo cercando tutti e tutte in tutte le parti del mondo. Penso che chi ha familiarità con Romena, cerchi questo luogo per sentire che l’essenzialità è possibile».
Lidia Maggi (pastora battista e teologa)
«Romena è uno spazio di incontro, dove puoi prendere una pausa, ritrovare ossigeno, nutrirti di bellezza e, finalmente, iniziare ad ascoltare te stesso. Mi colpisce come le persone che vengono qui abbiano la pazienza e la voglia di mettersi in gioco, di mettere sul piatto della narrazione la loro storia e accettare di fare dei percorsi. Mi colpisce la passione di Romena per dare voce a voci differenti».
Roberto Mancini (filosofo)
«Romena è un’esperienza che trasmette un senso di leggerezza, di una leggerezza non intesa come superficialità, ma come l’esperienza di chi si toglie il peso di una maschera, di un’abitudine, di tutte quelle forme di compensazione con cui si prova a vivere. Qui a Romena non servono difese, si può essere così come si è».
Luigi Ciotti (Gruppo Abele e Libera)
«La “nostra” Frateità di Romena è e dovrà essere il filtro grazie al quale continuare a individuare ciò che davvero è importante per il cammino verso una società fratea e a tenere fuori ciò che non serve, che non alimenta la nostra autenticità e la nostra gratuità di fronte alla vita».
Il nostro viaggio nel mondo islamico (con molte domande in cerca di risposte)
A sei anni dalla cosiddetta «primavera araba», trasformatasi in un inverno di caos, guerre e instabilità dal Nordafrica al Medioriente, con gruppi e milizie di al-Qa‘ida e del Daesh (l’Isis)1 che occupano regioni intere, con attacchi terroristici in Europa e in vari paesi islamici e il coinvolgimento delle potenze mondiali nello scenario siriano, una parte del pianeta sembra sull’orlo di un conflitto globale dagli esiti imprevedibili.
Dalla un tempo prospera Libia devastata dalla rivolta – pilotata da agenzie di intelligence inteazionali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Qatar), insieme a combattenti islamisti giunti da Europa e mondo islamico -, e dalla guerra Nato, e ora ridotta a un cumulo di macerie e violenza, le bande armate scorrazzano per l’Africa subsahariana, alimentando tensioni e caos e giustificando la presenza in quelle zone di truppe dell’Africom2. Nell’area di Sirte, il Daesh ha creato la propria roccaforte e invita tutti i musulmani a fare la hijra, emigrazione, nello «Stato islamico» di Libia. Anche la Tunisia post primavera araba è entrata nella nebulosa di attentati terroristici e del reclutamento di combattenti islamici; in Algeria, al-Qa‘ida (Aqi) e il Daesh si contendono territori e militanti; l’Egitto, paese chiave tra Africa e Asia islamiche, è preda di gravi problemi economici e instabilità politica (mentre chiudiamo questo numero un attentato dell’Isis ha fatto almeno 25 morti in una chiesa cristiano-copta de Il Cairo, 11 dicembre 2016, ndr).
In questo scenario drammatico, i già complicati rapporti tra «occidente» e «mondo arabo e islamico», sembrano ingarbugliarsi ulteriormente, con accuse reciproche di ingerenze, violenze e destabilizzazioni. I fedeli musulmani, come quelli cristiani, ripetono che la loro religione è pace e tolleranza, e che l’islam affonda le proprie radici nel concetto di sottomissione a Dio. Ma è vero? Oppure esistono dottrine, all’interno del mondo islamico, che predicano la guerra permanente contro tutti coloro che non le seguono (musulmani compresi)? E da dove derivano la propria «autorità» e dottrina formazioni terroristiche come al-Qa‘ida e il Daesh? Queste dottrine hanno trovato spazio tra le comunità musulmane europee e in che modo? Questi network del terrore sono utili alle agende occidentali e mediorientali?
In questo e nei prossimi articoli discuteremo di tutti i temi accennati sopra con studiosi, ricercatori e rappresentanti del mondo musulmano, per tentare di trovare spiegazioni ed eventuali strade di pacifica convivenza in un mondo dilaniato dai conflitti.
Angela Lano
Note dell’Introduzione:
(1) Daesh (D?’ish): acronimo di «al-Dawla al-Isl?miyya f? al-‘Ir?qi wa sh-Sh?m» (in cui «al» è l’articolo), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ovvero Isis nell’acronimo inglese), chiamato anche Stato islamico, Is.
(2) Africom: US Africa Command. Il contingente di soldati e contractor statunitensi in Africa (www.africom.mil).
L’articolo
Comprendere (tra paure e diffidenze)
Con il salafismo si è affermata un’interpretazione letterale, dogmatica, atemporale e astorica dei principi religiosi islamici. Con il Daesh – lo Stato islamico – si è giunti al limite estremo, arrivando a costruire un «islam fai da te» con cui i «jihadisti» giustificano il proprio comportamento. Compresi ovviamente gli atti di terrorismo che, con il sangue e i morti, hanno fatto dilagare paure e diffidenze. Il salafismo si è diffuso in gran parte del mondo islamico sulla spinta dei capitali dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Solo il Marocco è riuscito – per il momento – a fermare l’infezione.
Cominciamo il nostro viaggio nell’islam contemporaneo dal Marocco. Negli ultimi anni, il paese nordafricano ha conosciuto attentati – Casablanca nel 2003, e Marrakech nel 2011 -, e il reclutamento di terroristi. Recentemente circa 400 suoi cittadini si sono uniti al Daesh per combattere in Siria.
Molti di questi appartengono a classi medie, benestanti ma scarsamente istruite. Avevano iniziato a frequentare moschee e centri islamici di orientamento salafita, che hanno modificato la loro visione della vita, della religione e i loro comportamenti sia in famiglia sia in società.
In Marocco, come in altre regioni del Nordafrica e dell’Africa subsahariana, il salafismo wahhabita1, sponsorizzato da Ong saudite e kuwaitiane, si sta diffondendo, grazie a ingenti capitali, strutture e predicatori indottrinati in Arabia Saudita.
Il regno del Marocco, che segue il sufismo2 della confrateita tijaniyya3, contrasta questo fenomeno con centri islamici e istituzioni controllate dal governo e indirizzate verso l’islam ortodosso lontano dagli estremismi salafiti. Polizia e intelligence fanno il resto, non perdendo di vista gli esaltati.
La resistenza del Marocco
Medina di Fez, agosto del 2016. Incontriamo Mohammad Boukili, docente e studioso marocchino, laureato in filosofia islamica.
Prof. Boukili, lei ha conosciuto personalmente alcune delle persone che si sono unite al Daesh?
«Sì, alcune erano conoscenti di lunga data. Quattrocento jihadisti è un numero importante, ma non è così grande come in altri paesi.
Si tratta di individui con scarsa istruzione, hanno seguito le predicazioni dei seguaci del Daesh, che a loro volta vengono indottrinati da persone più competenti e sostenute economicamente.
In molti casi non si tratta di poveri: quelli che conoscevo avevano ereditato beni, case; erano sposati. Erano poveri a livello culturale, questo sì. Ricordo uno in particolare (chiamiamolo Ahmad), perché la sua visione ideologica emergeva anche nelle discussioni in famiglia. Odiava il sufismo e, qui in Marocco, la maggior parte della popolazione segue questa dottrina, anche se da qualche anno in parlamento siede come partito di maggioranza “Giustizia e Sviluppo”4, ideologicamente vicino alla Fratellanza musulmana, quindi a un islam più politico.
Il mio conoscente che si è unito al Daesh aveva iniziato a imporre alla sua famiglia, a sua madre, atteggiamenti e scelte che non facevano parte della tradizione familiare e locale. Alla vecchia mamma ha strappato via il rosario islamico con cui ella pregava e l’ha costretta a non frequentare più la zawiya5, in quanto luogo di kufr, miscredenza. Per i salafiti, il sufismo è, appunto, una forma di miscredenza e va perseguitato.
Prima della “conversione” radicale, Ahmad era molto occidentalizzato, beveva vino… Dopo essersi sposato, aveva deciso di farsi crescere la barba, aveva cambiato modo di discutere. Aveva iniziato a citare Ibn Taymiyya6. Quando parlava con me recitava frasi per le quali sarebbe stato necessario riflettere accuratamente. Ognuna aveva un certo peso, invece lui le lasciava uscire così, con leggerezza. La situazione è andata peggiorando, finché è partito per la Siria.
È rimasto coinvolto in questo giro di fanatismo anche un nipote di Ahmad, figlio del fratello: riceveva foto dello zio, dalla Siria, sul suo cellulare, e i servizi di intelligence, che evidentemente controllavano tutta la famiglia e i parenti, lo hanno arrestato in quanto simpatizzante; probabilmente l’hanno preso prima che si unisse al gruppo. Durante il processo ha detto al giudice che non voleva andare in Siria ma che “loro hanno ragione”. Sua moglie indossava il neqab, il velo nero integrale che copre anche il volto, anche quando andava a trovarlo in carcere. Dal punto di vista ideologico era uno di loro. È stato condannato a due anni di carcere, come è previsto dalla legge».
In Marocco i salafiti sono tenuti d’occhio, dunque.
«Sì. Dopo gli attentati del 2003 sono molto controllati. La polizia fa retate periodiche. Qui a Fez i salafiti hanno aperto una scuola coranica dove offrono scolarizzazione, ma anche propaganda. Per fortuna, con i giovani marocchini il loro proselitismo non ha successo: i ragazzi vanno su internet, sono informati, amano certe cose e non è facile manipolarli con idee che li farebbero tornare indietro di mille anni.
Gli stessi figli di questi salafiti o dei jihadisti non condividono le visioni dei padri, come è avvenuto per i ragazzi di Ahmad: non lo seguivano nei suoi discorsi. Dicevano che il padre aveva la testa troppo chiusa. Un altro elemento importante è che il nostro Re ha sempre lottato contro questa dottrina».
Interpretazioni atemporali e astoriche: l’islam-fai-da-te
Lei considera il salafismo wahhabita una dottrina deviata?
«Il salafismo ha introdotto molte novità, bid‘a, proibite nell’islam. Un tempo esisteva la dialettica, animata dalla filosofia. Poi, a un certo punto della storia del mondo islamico, questa è stata ritenuta pericolosa. La ragione, la logica, sono morte, e ha prevalso il letteralismo dogmatico e pieno di regole, legato a un’interpretazione fissa, atemporale e astorica dei principi religiosi.
Pensiamo solo a quando governavano i turchi, cioè l’Impero Ottomano, cosa facevano gli ‘ulema, gli scienziati musulmani? Facevano dimenticare alla gente la sofferenza, la riempivano di regole… Tutta questa esteriorità ha lo scopo di far allontanare i credenti dalla vera spiritualità».
Il Daesh, in quanto emanazione della dottrina salafita wahhabita, è dunque un’ideologia deviata del sunnismo?
«Certo, l’islam non è questo. Nel Daesh danno un’interpretazione restrittiva e letteralista, basata su certi hadith. Di hadith ce ne sono così tanti che ognuno potrebbe scegliere ciò che più giustifica il proprio comportamento. Così fanno loro: scelgono un hadith e si autorizzano da soli. È l’islam-fai-da-te».
In Europa ci sono giovani che seguono il Daesh, che si fanno indottrinare da predicatori e poi si uniscono allo “Stato islamico”. Come lo spiega?
«Ho vissuto dieci anni in Italia, dove insegnavo nelle università. Mio padre viveva tra Francia e Italia, e faceva l’imam. In Francia lo chiamavano per fare scuola coranica ai giovani nei centri islamici. I suoi allievi erano figli di arabi, ragazzini emarginati e spesso violenti delle periferie. Seguivano – perché vi erano costretti dalle famiglie – le sue lezioni, dove venivano insegnati i principi etico-morali dell’islam, ma usciti di lì continuavano a comportarsi male.
È da quelle sacche di emarginazione sociale giovanile, con integrazione mancata, che arriva il terrorismo islamico in Europa. Questi giovani, a un certo punto incontrano predicatori salafiti che li indottrinano, dando all’Occidente tutte le colpe della loro situazione. Dunque, su una base di odio sociale si inserisce la dottrina del takfir7, e il resto è fatto».
I (finti) misteri del Daesh
Fez, medina al-Jadid (città nuova), sede del «Consiglio superiore degli ulamâ», gli scienziati musulmani, un’organizzazione nazionale che fa capo al Re e al ministero dell’Educazione del Marocco.
È un’ampia costruzione con giardino interno da cui si diramano varie sale. Il centro forma imam e murshidun e murshidat (guide religiose), uomini e donne. Qui incontriamo uno dei responsabili, che preferisce non rivelarci il proprio nome.
Il Daesh sta creando problemi in Africa e Medio Oriente, e in Occidente. Come lo considerate?
«Il Daesh non fa parte dell’islam. Hanno capito l’islam molto male. Il terrorismo non fa parte di questa religione. Né l’Occidente né il mondo islamico hanno capito cos’è veramente l’islam. Bisogna tornare al Corano, alla sunnah. L’islam è tolleranza, non estremismo».
Allora il Daesh su cosa basa la propria legittimità?
«Sulla propria cattiva comprensione dell’islam. Prendiamo il termine jihad8 nella sua accezione di sforzo militare: ci sono norme che lo regolano. Non è possibile che un gruppo decida per conto proprio. Daesh ha trasformato l’obbligo collettivo (fard al-kifaya) in individuale (fard el-‘ayn) soggetto, cioè, alla decisione del singolo e non più dell’intera comunità, e questo non è corretto».
Allora, qui ci si chiede, il Daesh chi è? Chi l’ha creato?
«Chiunque riceva soldi e armi può creare un’organizzazione come questa.
Sono dei delinquenti che interpretano i testi a modo loro. L’islam non accetta l’assassinio.
Chi ha creato il Daesh sono gli stati o le persone che beneficiano dei proventi del petrolio e chi soffre a causa di questa organizzazione sono soprattutto i musulmani stessi. Infatti, la maggior parte delle persone uccise dal Daesh sono musulmane. Tutti noi siamo responsabili e dobbiamo difendere i nostri valori.
Chi dà le armi al Daesh? L’Europa e gli Usa; l’Arabia Saudita è un’intermediaria. L’Iraq, per esempio, dove il Daesh ha una parte dei suoi domini, è un laboratorio per sperimentare tali armi.
Poi arriviamo al paradosso di un al-Baghdadi che si dichiara “Am?r al-Mu’min?n”, principe dei credenti. Ma non è possibile! Non ha alcuna autorità e potere per dichiararsi tale».
Gli imam vanno formati
Il Marocco cosa fa per contrastare il proselitismo del Daesh?
«Il punto di forza del Marocco è che forma imam. Lo stato ha deciso di formare imam e guide religiose – murshidun – sia uomini sia donne: devono essere laureati e sottoporsi a un anno di formazione specialistica. Il loro ruolo è quello di dare lezioni nelle moschee e anche di controllarle. Controllare, cioè, che non vengano diffusi insegnamenti errati che incoraggiano lo sviluppo del radicalismo. Inoltre, danno consigli scientifici e religiosi. In ogni prefettura c’è un centro come il nostro, che si occupa della formazione di queste guide. Sono 80 in tutto, i centri formativi in Marocco.
In ciascuna sede ci sono sale di conferenza che ospitano 600 persone. Siamo una realtà statale e dipendiamo direttamente dal Re in quanto Am?r al-Mu’min?n. Lui è il presidente del Consiglio scientifico religioso e ha rapporti diretti con il ministero dell’Educazione per indicare le vie corrette nelle scuole e nei libri didattici».
Angela Lano
NOTE
(1) Il salafismo è una scuola di pensiero (un metodo) dell’Islam sunnita che si rifà ai «salaf al-?ali??n» («i pii antenati», «precedessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo), che vengono considerate modelli da seguire. Dal salafismo ha avuto origine il neosalafismo: un’ideologia rivolta sia alle masse arabe diseredate sia alle classi medie (e alte, in certi casi), trasformandosi in movimento «anti-intellettuale» e reazionario, divenendo espressione di forme di fondamentalismo, fino alle estreme conseguenze del salafismo jihadista attuale. Wahhabismo: movimento fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanbalita. Attualmente è la dottrina di stato in Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwayt e in altri paesi.
(3) Tijannyya. Si tratta di un ordine sufi sunnita, originario del Nordafrica, diffusosi poi nell’Africa occidentale. È presente in Marocco – la Casa reale e la maggior parte della popolazione -, in Senegal, in Mauritania, Niger, Chad, nord Nigeria, parte del Sudan, e altri stati.
(4) «Hizb ‘adâla wa tanmia». È stato riconfermato partito di governo nelle elezioni marocchine del 2016.
(5) Zâwiya (oppure ribat in arabo e tekke in turco): è il luogo dove vivono o si riuniscono i musulmani che appartengono alle confrateite sufi. Sono anche locali che assolvono compiti di istruzione, accoglienza o sanitari.
(6) Ibn Taymmyya. Teologo e giurista musulmano, vissuto a Damasco tra il XIII e il XIV secolo e appartenente alla scuola hanbalita, la più severa delle madhhab sunnite. È il teologo-icona del radicalismo islamico, dai movimenti salafiti più moderati fino al Daesh.
(7) Takf?r: dichiarare un musulmano miscredente. Il takfirismo è un «movimento» fondamentalista di musulmani che fanno dell’accusa di miscredenza rivolta ad altri correligionari una delle basi portanti della loro ideologia. È emerso soprattutto con la guerra civile in Siria e la diffusione di organizzazioni come il Daesh e al-Nusra, che hanno diviso drammaticamente il mondo islamico, costringendolo a un conflitto e spaccando precedenti alleanze e cornoperazioni.
(8) Jihâd: sforzo. Nella maggior parte dei casi in Occidente è tradotto come «guerra santa», ma è una generalizzazione. La radice «jhd» ha il significato di sforzo, compromesso, lotta interiore, applicazione con zelo. La forma verbale «jâhada» significa «lottare contro qualcuno», ma «al-jihâd fî sabîl Allâh» è «lo sforzo/lotta sul cammino di Dio», uno «sforzo sacro». L’Islam distingue due tipi di jihâd: il «grande jihâd», che è contro le proprie passioni, contro l’anima che si perde (nafs ammâra bi-s-sû’: l’ego che indirizza verso il male o ordina il male), è lo sforzo nel cammino del bene, sociale o personale; è la perseveranza nella fede e nelle avversità della vita; il jihâd minore, o «piccolo jihâd» (jih?d al-as?aru): sforzo militare difensivo, che deve essere fatto con le armi per la difesa della comunità, la ummah e il Dâr al-Islâm, il territorio dell’Islam, quando è minacciato dai nemici. Ciò non ha nulla a che vedere con la guerra indiscriminata, con i genocidi di popolazioni, le torture, i cadaveri fatti a pezzi, gli organi interni mangiati, gli stupri. Il jihad come sforzo militare è un concetto che si presta a interpretazioni e utilizzi differenti, a seconda delle scuole giuridiche e delle correnti.
L’approfondimento
Le «murshidat», predicatrici islamiche (che non sono imam)
Da oltre dieci anni, il governo del Marocco forma le murshidat, predicatrici, donne laureate, per insegnare e tenere conferenze nelle moschee e nei centri islamici del Regno e all’estero. Tra queste ci sono teologhe islamiche con dottorati in università prestigiose. «Il nostro compito è insegnare i principi islamici – ci spiegano – come la compassione, la tolleranza, la pace, e tenere lontani dal fondamentalismo».
Periodicamente, alcune di loro sono inviate nei paesi europei dove vivono molte donne musulmane immigrate, per aiutarle nei vari ambiti della religione e della vita quotidiana.
Le murshidad lavorano anche per diffondere l’istruzione, l’educazione e aiutare le donne ad allevare i propri figli. Esse rappresentano un aspetto della svolta al «femminile», iniziata nel 2004 con la riforma del codice di famiglia marocchino, la moudawana, che ha portato all’introduzione di più diritti e tutele nei confronti delle donne.
Tali figure rappresentano un insieme di «religiose» e «assistenti sociali», e dipendono dal ministero marocchino degli Affari islamici. Hanno un livello culturale e accademico elevato. Si occupano di islam, ma anche di problemi sociali e psicologici.
Prima di iniziare a svolgere il loro compito, si preparano per un anno in centri ad hoc (si veda l’articolo) e, una volta diplomate, sono inviate nelle varie regioni del Marocco a predicare un islam moderato e rispettoso dei diritti civili e femminili.
Il curriculum delle predicatrici annovera un’ampia cultura generale – storia, religione, geografia, sociologia, psicologia, management, legge, codice di famiglia, lingua araba – e la conoscenza di almeno metà del Corano, studiato a memoria.
Le murshidat sostengono le varie attività nelle moschee e affiancano gli imam. Ma l’obiettivo privilegiato, sottolineano, è il sostegno alle donne, alle giovani generazioni, alle famiglie. Sono tutte concordi sul fatto che il Corano e il profeta Muhammad abbiano garantito rispetto e diritti alle donne, ma che i musulmani, nel corso dei secoli, se ne siano dimenticati e che il testo sacro islamico sia stato spesso «frainteso».
Una delle loro missioni fondamentali è quella di educare a una fede non politica o ideologica, lontano dagli eccessi radicali. Infatti, dopo gli attentati terroristici a Casablanca, nel 2003, il governo marocchino pensò che fosse importante e necessario promuovere una visione della religione tollerante e non aggressiva per combattere le tendenze estremiste.
È bene chiarire, tuttavia, che le murshidat non sono delle «imam al femminile», in quanto a loro non è permesso guidare la preghiera in moschea.