La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




Guatemala: La pace è una chimera


In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.

Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).

Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.

In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.

Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.

Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.

Dopo la guerra, nessuna pace

Claudia, due parole per auto presentarti.

«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».

Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?

«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».

La nascita di Udefegua

Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente? 

«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».

In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?

«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».

Sul corpo delle donne

Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.

«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».

Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico

Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?

«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».

In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?

«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».

Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?

«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».

La condizione indigena

Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.

«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».

Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?

«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».

L’avanzata evangelica

Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?

«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».

Il Guatemala cambierà

Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?

«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».

Paolo Moiola




AMICO: La dramma perduta


Sei sola in casa. Contemplavi le tue dieci dramme mentre era giorno e quando è scesa la sera non te ne sei accorta. Non sai nemmeno tu come hai fatto. Forse eri presa dal cruccio di dover trovare un posto sicuro in cui conservare il tuo tesoro. È buio adesso: fuori e dentro. Distingui appena i contorni delle cose che tieni con te, ma ti sei abituata a stare nella penombra.

A un certo punto senti che qualcosa, chissà come, è venuto a mancare. Prendi coscienza poco per volta, per quanto l’oscurità te lo consente, che una dramma è perduta. L’hai persa in casa, è lì con te, ma non la trovi più.

È solo grazie alla scoperta di quella mancanza che decidi di accendere un lume per osservare meglio la tua casa interiore. Sposti gli oggetti, soprattutto quelli pesanti, quelli che paiono irremovibili a un primo sguardo, una dispensa, un armadio, un divano. Prendi la scopa e spazzi. Trovi cose dimenticate. Molte le butti, altre ti possono tornare di nuovo utili.

Durante la tua ricerca inizi a percepire che non sei sola. Quella dramma perduta sta a cuore anche a Lui.

A Lui stai a cuore tu.

Forse è Lui stesso quella dramma che cerchi.

Di certo Lui cerca con te quello che hai perso dentro di te.

La tua casa è sottosopra quando ritrovi la dramma perduta. Tu sei impolverata e spettinata, ma non resisti nemmeno un momento: esci e chiami le amiche. Non puoi tenere per te la dramma ritrovata. La spendi tutta per festeggiarla donandola.

Buona ricerca, buon ritrovamento e
buon cammino di quaresima da Amico.

Luca Lorusso


Amico, marzo 2017 – leggimi qui




I Perdenti 22. Madeleine Delbrêl


Madeleine Delbrêl, nasce il 24 ottobre 1904 a Mussidan, un piccolo comune dell’Aquitania francese, da una famiglia cattolica ma dalla pratica molto tiepida. A 15 anni, da acerba adolescente, si dichiara «strettamente atea», mentre a 17 anni sintetizza il suo pensiero sull’ateismo proclamando che «Dio è morto!». Verso i vent’anni l’incontro con alcuni giovani cattolici dalla fede cristallina la costringe a rivedere le sue sicurezze ideologiche, inizia così il suo cammino di conversione. La sua radicale inversione di marcia si può dire che è il frutto dell’inserimento e frequentazione amichevole in questo gruppo di coetanei credenti con i quali comincia a confrontarsi e, in particolare, con un certo Jean Maydieu, verso cui Madeleine prova una grande simpatia. Un bel giorno però Jean, seguendo il richiamo di una vocazione particolare, decide di entrare nell’Ordine dei Domenicani e di avviarsi verso il sacerdozio. La ribelle, anticonformista ed emancipata ragazza si trova così spiazzata. Si getta allora in un’appassionata e instancabile ricerca di quel Dio che è entrato così prepotentemente nella sua vita.

Da quel giorno si dà anima e corpo alla preghiera, coltiva sempre più il desiderio di scoprire e approfondire il messaggio evangelico, nel frattempo diventa un’efficiente capo scout e, insieme all’amore per la natura, ritrova la passione per la vita semplice e la solidarietà verso gli indifesi. Si diploma assistente sociale e nel 1933 si trasferisce con alcune compagne a Ivry-sur-Seine, quartiere dell’estrema periferia di Parigi, crogiuolo di tensioni e di lotte operaie, di scontri sociali e ideologici, lì vi resterà fino alla morte dando un’esemplare testimonianza di vita evangelica, non smettendo mai di ricercare il volto di Dio negli ambienti e fra le persone considerate dai benpensanti parigini «lontani dalla Chiesa» o peggio ancora «irrecuperabili alla fede».

Cara Madeleine, basta un semplice sguardo alla tua biografia e subito ci si rende conto che hai vissuto un’esperienza straordinaria, per quanto riguarda il cammino spirituale della tua vita.

Se ti rispondo dicendo che durante la mia adolescenza mi dichiaravo atea e pessimista, affermando che «Il mondo è un assurdo e di conseguenza la vita è un non senso», capirai che razza di «guazzabuglio» avevo per la testa.

Ma questo modo di pensare subì un drastico cambiamento durante la tua giovinezza.

Verso i venti anni incontrai alcuni giovani cattolici «ai quali Dio pareva essere indispensabile come l’aria che respiravano». Questo mi obbligò a pensare e a mettermi in discussione. Se fino a poco tempo prima guardavo il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio, accettai l’ipotesi della sua possibile esistenza e decisi di iniziare un cammino del tutto nuovo per me. Per questo feci la scelta di dedicare tempo alla preghiera, perché ero convinta che quello fosse l’unico atteggiamento possibile e onesto per verificare l’esistenza di Dio. Con mia grande sorpresa attraverso la mia incerta e debole preghiera rimasi «abbagliata» da Dio.

Un ruolo molto importante in questa faccenda lo giocò un tuo amico, o sbaglio?

Proprio così, Jean Maydieu, un amico che mi era molto caro e che esercitava un forte fascino su di me e che un bel giorno decise di entrare nell’Ordine dei Domenicani per diventare sacerdote.

E tu come prendesti la sua decisione?

Da ragazza ribelle e anticonformista quale ero, con la stessa foga con cui anni prima avevo fatto aperta professione di ateismo, mi tuffai in un’appassionata e instancabile riscoperta di quel Dio che aveva folgorato i miei 20 anni, sconvolgendo in maniera così impetuosa la mia vita, facendomi intravedere un cammino nuovo da intraprendere, così come aveva indicato al «mio» Jean, la strada che doveva percorrere.

In questa situazione del tutto nuova quale orientamento pensavi di prendere?

Inizialmente pensai di entrare nel Carmelo, diventando suora di clausura. Però in seguito di problemi famigliari e grazie all’aiuto del mio padre spirituale, decisi che la mia strada doveva essere un’altra. Sentivo crescere in me una vocazione speciale: il mondo sarebbe stato il mio monastero.

In un’epoca in cui l’unica strada per la consacrazione di una ragazza era all’interno di un’istituzione religiosa, la tua scelta apparve di non facile comprensione anche per la comunità cristiana.

Come spesso succede in questi frangenti, all’inizio del nostro cammino non fummo, le mie compagne e io, subito capite sulla testimonianza che volevamo offrire alla Chiesa francese. Così, confidando nel Signore, nel 1933 partii per Ivry, sobborgo parigino operaio e marxista, assieme a un gruppo di ragazze che nel frattempo erano rimaste conquistate dall’ideale di condividere la vita dei poveri, vivendo in comunità e mettendo tutto in comune, per dare testimonianza del Vangelo in un contesto sociale di povertà e sfruttamento.

Una scelta coraggiosa specialmente per delle ragazze, non c’è che dire!

In quegli anni Ivry era la capitale del partito comunista francese, una città tappezzata da manifesti di propaganda sovietica, in cui ci si salutava con il pugno alzato e dove i bambini del quartiere prendevano a sassate i preti che incrociavano. Era una città divisa in due: da una parte un pugno di cattolici, soprattutto anziani e benestanti, e dall’altra una moltitudine di militanti comunisti, poveri e lontani dalla Chiesa. Tra queste due parti l’ostilità era fortissima, in ambito cattolico si discuteva molto su quale dovesse essere il rapporto fra cristiani e marxisti.

Come fu il vostro inserimento?

Decidemmo di risolvere la questione della convivenza in base a un principio molto semplice, considerando che Dio non aveva mai detto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso eccetto i comunisti». Con le mie compagne, spinte dal Vangelo, andammo in mezzo alla gente, aprendoci e parlando con tutti, rispettando ogni persona che incontravamo sul nostro cammino, soprattutto i più poveri ed emarginati.

La vostra testimonianza incentrata sulla presenza in mezzo a coloro che occupavano il gradino più basso della società francese non tardò a conquistare anche i «bolscevici» più incalliti, o no?

La nostra casa in breve tempo divenne un porto di mare, la nostra porta era sempre aperta per ogni tipo di incontro, per ogni forma di dialogo, dando aiuto e sostegno a chiunque. La nostra scelta di vivere «gomito a gomito» con la gente del quartiere, era contrassegnata allo stesso tempo da quella di tuffarsi in Dio con la stessa forza con cui ci si immerge nel mondo.

Un ideale che continua ancora oggi…

Grazie al Cielo, il nostro lavoro fra la gente non si è esaurito con la nostra attività, è presente in diverse nazioni e non mostra segni di cedimento.


Madeleine Delbrêl muore a 60 anni, il 13 ottobre 1964 a Ivry-sur-Seine, lasciando una gran quantità di scritti, poesie e testi sul suo tavolo di lavoro. Tali scritti stampati in migliaia di copie, hanno accompagnato la ricerca spirituale di intere generazioni. Il cardinal Carlo Maria Martini l’ha definita «una delle più grandi mistiche del XX secolo».

Il carisma di Madeleine Delbrêl è ancora presente a Parigi e Amiens attraverso l’opera silenziosa di un gruppo di donne consacrate che ne hanno preso il testimone. Un comitato di «Amici di Madeleine Delbrêl» oggi raccoglie un gruppo di oltre 500 persone nella sola Francia, in altri paesi continua a crescere e diffondersi la sua originale spiritualità così strettamente legata al mondo del lavoro. Il 12 maggio 1993, è stato concesso dalla Santa Sede il nulla osta per la causa di beatificazione; i vescovi di Francia, nel 2004, celebrando il centenario della nascita, affiancando la sua figura a quella di Santa Teresa di Lisieux, hanno definito la Serva di Dio Madeleine Delbrêl «Faro di luce per avventurarci nel terzo millennio».

Don Mario Bandera


Tu vivevi, io non ne sapevo niente

Tu vivevi, io non ne sapevo niente.
Avevi fatto il mio cuore a tua misura,
la mia vita per durare quanto Te,
ma poiché Tu non eri presente,
il mondo intero mi pareva piccolo e stupido
e il destino degli uomini insulso e cattivo.

Quando ho saputo che Tu vivevi,
Ti ho ringraziato di avermi fatto vivere,
Ti ho ringraziato per la vita del mondo intero.

(A ricordo dell’«abbagliante incontro con Dio» avvenuto il 29 marzo 1924, quando aveva vent’anni).

L’estasi delle tue volontà

Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa,
noi li ringraziamo di avercelo chiesto. | Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa | in tutta la nostra vita, | noi ne rimarremmo meravigliati | e l’aver compiuto questa sola volta la tua volontà | sarebbe «l’avvenimento» del nostro destino.

Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto | tu metti nelle nostre mani tanto onore,| noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi, | da esserne annoiati.
Tuttavia, se comprendessimo | quanto inscrutabile è il tuo mistero, | noi rimarremmo stupefatti |di poter captare queste scintille del tuo volere |che sono i nostri microscopici doveri.
Noi saremmo abbagliati nel conoscere, |in questa tenebra immensa che ci avvolge, | le innumerevoli | precise | personali | luci della tua volontà.
Il giorno che noi comprendessimo questo, andremmo nella vita | come profeti, | come veggenti delle tue piccole provvidenze, | come mediatori dei tuoi interventi.

Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te. | Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te. | Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te. | Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti predestinati all’estasi, | tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi | per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani.
Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero, | ma dei felici eletti, | chiamati a sapere ciò che vuoi fare, | chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi.
Persone che ti sono un poco necessarie | persone i cui gesti ti mancherebbero, | se rifiutassero di farli.

Il gomitolo di cotone da rammendare, la lettera da scrivere, | il bambino da alzare, il marito da rasserenare, | la porta da aprire, il microfono da staccare, | l’emicrania da sopportare: | altrettanti trampolini per l’estasi, | altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà, | dalla nostra cattiva volontà | alla riva serena del tuo beneplacito.

Madeleine Delbrêl




Volti della nostra storia

Addis Abeba, Etiopia, anni ’30

La ricorrenza dei 100 anni dei missionari e missionarie della Consolata in Etiopia (1916-2016) è stata per noi l’occasione per riguardare vecchie foto «di famiglia». Ne abbiamo trovate di straordinarie. Purtroppo non catalogate e quindi senza data e altre informazioni. Di sicuro precedenti al 1941, anno in cui i missionari sono stati espulsi dal paese per ritornarvi poi nel 1970.

Le due foto di questa pagina ritraggono alcuni ragazzi della scuola italiana di Addis Abeba, probabilmente a fine anni ’30. Se fossero ancora viventi, oggi dovrebbero essere ultra novantenni. Sarebbe eccezionale scoprire che alcuni di loro sono ancora vivi. In ogni caso, ricordarli è non solo bello, ma utile per ravvivare la memoria di un pezzo della nostra storia (quella coloniale e fascista) che abbiamo forse messo nel dimenticatornio. Una memoria vera può aiutare a evitare gli errori compiuti in passato.

Un vostro nonno o nonna, zio o zia ha vissuto la sua infanzia in Etiopia? Lo riconoscete tra questi volti? Se sì e ne conoscete la storia, condividetela con noi. Diamo un nome a questi volti. Raccontateci di loro. Scriveteci.

 

 




Don Aldo Benevelli ci ha lasciati il 19 febbraio 2017


È una lunga vita quella di don Aldo Benevelli, 93 anni, una vita nella quale ha fatto moltissimo tenendo come punto di partenza la sua Cuneo, dove doveva essere uno degli ultimi fucilati dai nazisti se non fosse riuscito a fuggire quando già condannato dalla Gestapo.

Prete, partigiano, combattente e pacifista. È lui che nel 1966 diede vita alla LVIA – Associazione Internazionale Volontari Laici: una novità per l’epoca, quando gli unici a svolgere azioni umanitarie in Africa erano i missionari. LVIA è un’associazione ispirata ai valori del Vangelo e della Cristianità, per operare nel mondo in modo laico.

In questi 50 anni di esistenza di LVIA, sono quasi 700 i volontari, donne e uomini che hanno operato con LVIA nei Paesi più poveri. Le attività realizzate non sono semplicemente “progetti” ma relazioni, condivisione di idee e risorse, impegno al nord e al sud per la costruzione di un mondo più giusto e di una cultura di pace e solidarietà.

Il Presidente LVIA, Ezio Elia

 «LVIA tutta intera si unisce ai parenti e a tutti gli amici nella preghiera e nel dolore per la scomparsa di Don Aldo Benevelli, il nostro fondatore.

Come logiche conseguenze del suo coraggioso impegno civico nella Resistenza e della sua profondissima fede cristiana nacquero da don Aldo moltissimi frutti tra cui l’associazione LVIA. Essa nacque dal volontariato di alcuni giovani che cinquant’anni fa don Aldo seppe convogliare nella costruzione di una delle prime ong di area cattolica finalizzata alla solidarietà e cooperazione internazionale attraverso la realizzazione di concreti progetti di sviluppo. Una piccola ma solida risposta concreta come servizio di pace alla grande chiamata che proprio cinquant’anni fa fece Paolo VI con la Populorum Progressio.

Per LVIA don Aldo non fu solo un ottimo aggregatore di persone e maieuta di tante vocazioni all’impegno e alla solidarietà, al dialogo tra culture e religioni, ma fu anche il Presidente/direttore dell’Associazione dalla nascita fino al 1996, gestendo dunque in prima persona la quotidianità di LVIA nelle piccole e grandi scelte.

Seppe gestire il non facile passaggio di testimone ai successivi presidenti espressi dalla base associativa restando, con discrezione, a fianco di LVIA senza mai venir meno ad un prezioso ruolo di critica costruttiva, fino a poter consegnare, un anno fa, alla “sua” LVIA, il premio dell’Università della Pace.

Il motto da lui scelto per l’anello dei volontari “Ut non perdam”, tratto dal cap. 6 del vangelo di Giovanni sta a significare “Affinché nulla e nessuno vada perduto” in senso di profonda vicinanza con gli ultimi. Queste parole sono ormai incise sulle tessere dei nostri soci, scolpito nei nostri cuori e ci unisce ora nella comunione della preghiera e del ringraziamento.

Con questo arrivederci ti assicuriamo, don Aldo, che il servizio di pace LVIA continuerà ad impegnarsi per produrre frutti di giustizia».




Mozambico: Il Ciclone Tropicale Dineo colpisce le Provincie di Inhambane e Gaza


Guiua, Mozambico – (16 febbraio 2016) – Il ciclone tropicale Dineo, di categoria 4, ha colpito il Mozambico nella notte di mercoledì (15/02) con forti piogge (più di 150 millimetri in 24 ore), temporali e venti oltre 120 chilometri all’ora. «Da qui fino a Massinga», scrive da Guiúa padre Sandro Faedi, missionario della Consolata, «migliaia di persone sono rimaste senza tetto. Le case di canne e paglia sono letteralmente volate via; quelle di mattoni con tetto di lamiera o di eternit sono state scoperchiate». I forti venti hanno anche sradicato diversi alberi e distrutto il tetto delle casette usate dalle famiglie di chi partecipa ai corsi residenziali del Centro di formazione di Guiúa. Delle 14 cappelle nel territorio della missione solo 3 sono rimaste indenni, tutte le altre sono gravemente danneggiate.

Il vento ha inoltre pesantemente danneggiato i tetti della scuola primaria, alcune case dei catechisti, il tetto dell’edificio che ospita la biblioteca e la sala computer, scoperchiato il dormitorio e l’asilo infantile, volate via le lastre di zinco della copertura del magazzino e strappati i cavi di distribuzione dell’elettricità. Il Centro Catechistico è da ieri al buio. Oltre alle famiglie dei catechisti in formazione, il Centro stava ospitando 60 catechisti delle parrocchie della diocesi di Inhambane impegnati in un corso di formazione che ha dovuto essere interrotto. Rientrati ai loro villaggi, i catechisti hanno segnalato preoccupazione per lo stato in cui hanno trovato le loro abitazioni.

 

Fonte: sito dei missionari della Consolata in Mozambico 

 




Trump, Scalabriniane: Davanti a un muro si dimenticano pietà e misericordia


“Gli Stati Uniti d’America sono sempre stati un esempio di integrazione. Sono cresciuti e si sono sviluppati proprio grazie ai migranti. Quelli stessi migranti che oggi vengono respinti e contro i quali viene posto un muro. Non è cristiano, non è umano, immaginare che esseri di questo pianeta si respingano. Tornando ai concetti del Vangelo, quel muro fisico sarà abbattuto, come è sempre stato nella storia. Cristo che ci ha fatti passare dall’ostilità all’amicizia tra i popoli e abbattendo il muro di separazione ci ha regalato pace e riconciliazione”. Lo ha detto in una nota suor Neusa de Fatima Mariano, Superiora generale delle Scalabriniane, Congregazione di suore missionarie che sin dalla loro fondazione si occupa di migrazione. “La politica internazionale ora dovrebbe concentrare la propria attenzione su scelte miti, concilianti, di dialogo – ha aggiunto – Uno scontro, soprattutto in questo momento, può essere visto come una vera e propria dichiarazione di ostilità. E le vittime, anche in questo caso, sono i più bisognosi. Sono quelle tante, tantissime persone che con gli occhi pieni di speranza lasciano le proprie famiglie e fuggono da crisi economiche, politiche, sociali, ambientali. Non si può restare ciechi a tutto questo. Ci sono bambini che nell’età in cui loro coetanei in Europa e negli Stati Uniti sono in casa a guardare i cartoni animati diventano adulti all’improvviso. Si trovano a dover superare oceani e deserti guardando dal basso verso l’alto i loro traghettatori, che spesso senza scrupoli li lasciano morire”. Poi, ha proseguito suor Neusa: “I muri realizzati per dividere non sono mai una buona scelta e lo sono meno quando si tratta di respingere una categorie di persone che hanno edificato un paese come gli Stati Uniti d’America. Non è possibile associare i migranti ai criminali: non lo sono. Tutti abbiamo la stessa dignità nonostante non si abbia le stesse opportunità. Il dovere di tutti è di lavorare verso una umanità unita e non divisa. Davanti a un muro non c’è quella pietà cristiana che è il fondamento di una mano testa verso gli altri. Davanti a un muro si dimentica la misericordia del nostro Credo e del nostro ultimo Giubileo. Davanti a un muro si dimentica che davanti a un creato infinitamente grande, noi restiamo comunque infinitamente piccoli. Su tutto questo Donald Trump dovrebbe riflettere. Così come ha fatto scelte per la vita, scelga per quelle anime disperate che migrano nel mondo e che cercano difendere la propria vita e la propria famiglia”.

Suore missionarie di San Carlo Borromeo/Scalabriniane
Congregazione generale
Via Monte del Gallo, 68 – Roma
Ufficio stampa
Tel. 06.2118508



Frammenti di Luce


Frammenti di Luce | Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno (Ovidio, Fasti, III) |

Riflessioni di padre Giuseppe Ronco, pubblicate su Da Casa Madre 1/2017 pp. 3-7, rivista ad uso interno dei Missionari della Consolata.

La Cattedrale dei Santi Pietro e Maria, a Colonia, è un capolavoro dell’architettura gotica mondiale e patrimonio dell’Umanità. Per i suoi 157 metri di altezza è la terza Cattedrale più alta del mondo. A Colonia però, l’architettura religiosa che predomina è quella romanica, con le sue 12 chiese costruite tra l’inizio del Millennio e la metà del XII secolo. Tra queste c’è la chiesa di San Cuniberto, costruita nel 1247 in onore del novo vescovo di Colonia e per ospitae la tomba. La pala dell’altare, risalente al IX secolo, raffigura il dio Chronos venerato come Annus, l’Anno. Le decorazioni che arricchiscono la sua bellezza sono i simboli del tempo: la rappresentazione del giorno e della notte, il susseguirsi delle stagioni, e i dodici segni zodiacali. Per cristianizzare Chronos, però, sono stati aggiunti i simboli dell’alfa e dell’omega, dell’inizio e della fine, richiamati dall’Apocalisse (cfr Ap 22,13).

L’idea teologica chi vi soggiace è di mostrare come Gesù Cristo abbia potere sul tempo e sulla storia, trasformando l’evolversi cronologico del mondo in tempo salvifico. È un Dio che si incarna nello spazio e nel tempo per farlo lievitare dal di dentro e portare così la storia al suo compimento. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! (Ebr 13, 8).

Nel paragrafo conclusivo su “La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo”, dal titolo Cristo alfa e omega, il Concilio recita: “Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: “Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10). Dice il Signore stesso: “Ecco, io vengo presto, e porto con me il premio, per retribuire ciascuno secondo le opere sue. Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine (Ap 22, 12-13)” (GS 45).

È con questa certezza che diamo in benvenuto all’anno nuovo. Apparentemente sarà un anno come tutti gli altri, con le sue afflizioni e delusioni, ma in realtà sarà un anno di Dio, foriero di speranza e di salvezza, di futuro che vuole diventare eternità. Per i Greci Chronos divorava crudelmente i propri figli, e al suo passare tutto diventava morte. Per noi cristiani il tempo è utero di futuro, di vita eterna, spazio da riempire di contenuti e di opere buone, luogo di responsabilità dove si gioca il bene dell’intera umanità.

Lo accogliamo con il canto del Maranatha, facendo spazio a quel Dio che, solo, ci libererà dalla dittatura mortale di Chronos.

Siamo noi stessi il tempo

Perché il tempo appartenga a Dio, occorre la nostra collaborazione. “Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contemporanei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni un’epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mutevole natura del loro essere.

Per esprimerci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini? Che sarebbero un mondo e una chiesa senza l’inquietudine sollecitante, le domande progressiste con cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la decisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sarebbero senza la maturità dell’esperienza, senza la tranquilla pazienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità a guardarci e accettarci a vicenda?” (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, 1974).

L’atteggiamento vincente per vivere al meglio l’anno nuovo è l’ottimismo, l’agire saggio e cosciente di chi sa confrontarsi con il dolore, la paura, le difficoltà della vita e decide di farvi fronte. E anche dalle esperienze negative potranno scaturire degli insegnamenti positivi, che aumenteranno la fiducia e la speranza.

“In ogni inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vivere”, fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo romanzo II giuoco delle perle di vetro. In ogni cuore, anche nel più spento e disilluso, una fiamma nuova riprende vita, quando qualcosa di nuovo incomincia.

“Indovinami, indovino tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà? Trovo stampato nei miei libroni che avrà di certo quattro stagioni, dodici mesi, ciascuno al suo posto, un carnevale e un ferragosto, e il giorno dopo del lunedì avrà sempre un martedì. Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno” (Gianni Rodari, Anno nuovo).

L’anno nuovo incomincia quando vuoi tu

C’è una buona notizia per chi vuole incominciare bene l’anno nuovo: il tuo nuovo anno incomincia nel giorno in cui vuoi incominciare un cammino di cambiamento. Non esiste nessun riferimento scientifico sicuro, nessuna considerazione astrale, che permetta di stabilire in modo preciso quando l’anno inizi e quando finisca.

La scelta di una data precisa è arbitraria ed è mutata più volte con il passare del tempo. Al tempo dei Romani l’inizio del nuovo anno veniva festeggiato il 15 marzo durante le Idi, in occasione dell’equinozio di primavera. In un boschetto sulla Via Flaminia, lungo il fiume Tevere, si celebrava la festa in onore di una delle divinità più antiche e misteriose del pantheon romano: Anna Perenna. L’anno nuovo incominciava, tra gozzoviglie, giochi e orge di sesso, abbandonando ogni rigidità morale. Doveva esserci solo godimento e l’augurio che ci si faceva era Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno.

Anche nel Tibet sciamanico e pre-buddhistico, al tempo dei Bo Murgel, l’ anno iniziava con una festa chiamata Losar. Era una grande celebrazione in cui si offrivano doni agli spiriti e alle divinità tutelari a scopo propiziatorio, bruciando incensi e profumi e offrendo una bevanda alcornolica ricavata dalla fermentazione dell’orzo. La tradizione vuole che nel 127 a.C., anno in cui ascese al trono il mitico re Nyatri Tsenpo, primo sovrano della dinastia Yarlung, si incominciasse a contare gli anni seguendo le fasi della luna. Il calendario diventò così lunare.

Nella storia dei popoli mancò a lungo una data accettata da tutti. “Soltanto nel 1564 l’allora tredicenne Carlo IX, re di Francia, rese obbligatoria la data del primo gennaio come primo giorno dell’anno. Questa scelta venne via via accettata anche dagli altri Paesi cattolici mentre in quelli protestanti la resistenza fu più lunga perché non si voleva acconsentire a una decisione presa da un sovrano straniero. In Gran Bretagna si continuò quindi a festeggiare l’inizio dell’anno il 25 marzo fino al 1751, anno in cui venne accettato il calendario gregoriano, ordinato da Gregorio XIII nel 1582 per ristabilire la concordanza dell’anno con le stagioni” (Rivista Focus, 28 giugno 2002).

Prendere Gesù come compagno nel cammino della missione

L’anno nuovo inizia, ma il nostro cammino nella missione continua. Un anno che inizia può essere l’occasione per rivedere le nostre posizioni e aprirci a spazi non prima frequentati.

“La missione nella sequela di Gesù è cambiamento, apertura alla novità, ricerca inquieta e di speranza, di impegno a qualsiasi costo. Richiede rotture e rinunce, ma suscita e genera anche molta gioia ed entusiasmo e manifesta tutto il suo fascino. Avviene a noi come a quel tale che trovato un tesoro nel campo, lo nascose e per la gioia vendette tutto quello che aveva per comperarlo. Così è la missione e questa la sua attrattiva: aperta alla novità dello Spirito che è sempre libero, creativo e persino sconcertante, che crea e ricrea, trasforma e fa nuove tutte le cose, appassiona per Cristo e il suo Regno” (Da Casa Madre, 11, 2015).

Se gli elementi fondamentali che compongono la missione rimangono sempre uguali, le modalità e le scelte concrete variano sempre con il mutare dei tempi e delle situazioni. Rimane basilare il principio che la nostra missione sarà solida nella misura in cui avremo Gesù come compagno nella nostra barca. La missione è opera sua e solo in sua compagnia la nostra opera sarà efficace.

Camminando con Gesù, ogni cristiano è portato ad aprire gli occhi sull’altro: sul viaggiatore ferito dai banditi e lasciato ai margini della strada, come su quelli che sono malati, nudi, carcerati, affamati con i quali Gesù identifica sé stesso. Sui bambini che il Maestro vuole vicino a sé e sul cieco mentre le folle tentano di allontanarlo da lui; il pagano, la cui fede è inaspettatamente più grande di quella dei figli d’Israele, come su quella donna che viene ad attingere acqua e che ha dentro di sé una sete che nessuno riesce ad intuire. Il servizio che Dio chiede al suo popolo implica precisi impegni nei confronti di quanti sono esclusi al suo interno: orfani, vedove, poveri, forestieri. Ma, nella sua storia, ben presto prende coscienza che la compassione di Dio abbraccia anche tutti i popoli.

Sali sulla mia barca, Signore!
Tante volte ho avuto l’impressione che la mia vita
sia come una notte trascorsa in una pesca fallita.
Allora mi assale la delusione, mi prende il senso dell’inutilità.

Sali sulla mia barca Signore, per dirmi da che parte devo gettare le reti,
per dare fiducia ai miei gesti,
per capire che non devo lavorare da solo,
per convincermi che il mio lavoro vale niente senza di te, senza la Tua presenza.

Sali sulla mia barca Signore, per donare calma e serenità.
Prendi tu il timone: accetto di essere tuo pescatore.
Insieme pescheremo, Signore, e giungeremo sicuri al porto della vita.

La missione è passione per Gesù Cristo e nello stesso tempo è passione per la gente. Colpisce il carattere inglobante della missione di Gesù. Riguarda i ricchi e i poveri, gli oppressi e gli oppressori, i peccatori e le persone pie. La sua missione mira a sbloccare le separazioni e a far crollare i muri di inimicizia tra le persone e i gruppi. Come Dio gratuitamente ci perdona, anche noi dobbiamo perdonare chi ci ha fatto dei torti, senza limiti. Conviene riprendere in mano la Evangelii Gaudium.

Per portare Gesù e il suo Vangelo al mondo dobbiamo uscire, metterci in cammino. Per incontrare la gente bisogna lasciare le proprie certezze, gli ambienti conosciuti, le dottrine che a volte sono più ideologie che verità e farci prossimi di chi è alla ricerca o nel bisogno.

Annunciare diventa un bisogno. La sollecitudine di Paolo verso i pagani si manifesta nella coscienza acuta dell’obbligo, che sa di avere, di proclamare loro il Vangelo. È una anangke, una necessità ineludibile. “Guai a me se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16). “Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno” (EG 23).

“Annunciare” però non significa soltanto “enunciare o proclamare”, ma testimoniare con la vita. “Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EG 10).

Per costruire un mondo nuovo bisogna saper abitare là dove si annuncia e si testimonia. È la dimensione essenziale che l’Incaazione suggerisce: «il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi». L’ambiente nel quali ci si inserisce, casa comune in cui viviamo con gli altri, va coltivato con relazioni umane e cristiane dignitose, va plasmato e formato, sia nel dialogo con la cultura, sia con la purificazione dalle scorie che offuscano la vita vera.

Compito fondamentale è saper far nascere in chi incontriamo la passione per ciò che è vero e bello. È il compito tipico dell’educare, aiutando le persone a vedere il bene presente in ognuno e a coltivarlo per il bene di tutti.

Si diventerà capaci, con il passare del tempo, di saper trasfigurare tutta la realtà che ci circonda, vedendo e interpretando le cose con gli occhi di Dio e andando oltre i limiti umani che appaiono. La via della trasfigurazione è via di bellezza, che rivela l’unità profonda di tutto e ci apre al dono della grazia.

“Per loro io consacro me stesso” (Gv 17,19).

Giunta l’ora di compiere l’ultimo atto della sua vita, Gesù prega. La sua è una preghiera sacerdotale e missionaria nello stesso tempo, atto di consacrazione di sé stesso al Padre e ai suoi discepoli. “Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (vv. 17-19).

Buon Anno e buon viaggio!

Giuseppe Ronco, IMC

(Da Casa Madre 1/2017, pp. 3-7)
Immagini simboliche di Gigi Anataloni, Ennio Massignan e Adriano Coletto




La non violenza: stile di una politica per la pace


Il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace 2017 è talmente intenso e profondo da meritare una lettura nella sua integralità senza essere annacquato da commenti. Buona lettura. Originale da vatican.va

 


1 All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Goveo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»[1] e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.

Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «È finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie inteazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».[2] Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.

In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli inteazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.

Un mondo frantumato

2 Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i modei mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa.

In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?

La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.

La Buona Notizia

3 Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».[3]

Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio».[4] Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».[5] Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».[6]

Più potente della violenza

4 La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo».[7] Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».[8] Nello scorso mese di settembre ho avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi».[9] In risposta, la sua missione – e in questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone – è andare incontro alle vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita spezzata.

La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.

Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».[10] Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie intee ed alla guerra in quelle inteazionali».[11]

La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.

Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».[12] Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».[13] La violenza è una profanazione del nome di Dio.[14] Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».[15]

La radice domestica di una politica nonviolenta

5 Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentirnero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.[16] Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di frateità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica.[18] Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.

Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».[19]

Il mio invito

6 La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni inteazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni inteazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[20] Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.[21] Certo, può accadere che le differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[22]

Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».[23] Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace.

In conclusione

7 Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di buona volontà (cfr Lc 2,14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida.

«Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».[24] Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».[25]

Dal Vaticano, 8 dicembre 2016

Francesco