FA COME DIO, DIVENTA UOMO!


Carissimi Missionari, Missionarie,
Laici Missionari/e, familiari, benefattori, amici,

[…] “Fa’ in modo che Dio sia grande in te” recita uno degli aforismi più noti del grande mistico tedesco Meister Eckhart.

Credo che la nostra vocazione, consista nel divenire sempre più umani, facendo crescere, lasciando spazio al divino in noi e attorno a noi. Proprio come Maria, che nella sua disponibilità permise a Dio di essere grande in Lei, tanto da renderlo presente nel mondo.

Cos’è per noi il Natale se non questa rinnovata consapevolezza di divenire sempre più un tutt’uno con la divinità che ci abita e quindi abilitati a rendere presente Dio nel mondo, a incarnare Dio? Può il Natale ridursi a un semplice ricordo di un evento accaduto venti secoli fa?

“Fa’ come Dio, diventa uomo!” (don Giovanni Giorgis). Celebrare il Natale significa ri-nascere, rivitalizzarsi, venire sempre più alla luce di noi stessi: “Mia madre mi ha messo al mondo una volta, certo. Ma io mi sono partorita di nuovo un milione di volte” (Sarah Levine). Significa diventare sempre più esseri umani completi, portare a compimento la nostra unica missione esistenziale: “in verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi i miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).

E tutto ciò facendo in modo che Dio s’allarghi sempre maggiormente nel nostro essere più profondo.

Nel Magnificat, Maria esclama queste parole: «L’anima mia, letteralmente sarebbe “la mia vita”, si “espande/dilata”in Dio mio Salvatore», poiché il verbo usato significa magnificare, ma anche espandere, dilatare. È questo d’altra parte, il senso profondo di ‘salvezza’ nel contesto biblico: dilatare, compiere, aprire in avanti, concedere futuro.

“Fa’ in modo che Dio sia grande in te!”. Il Natale è consapevolezza sempre maggiore che Dio è all’opera in noi, che ci “possiede” nella misura in cui glielo permettiamo, sino ad arrivare a dire con Gesù: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, e “Chi ha visto me ha visto il Padre”. (Gv 10, 30; cfr. Gv 17, 11.21.22), (Gv 14, 9).

Celebriamo il Natale nella misura in cui la nostra vita e la nostra missione diventano sacramento del Dio che s’è dilatato in noi, e dal momento in cui mettiamo in campo la vita scaturita da quest’unione. Celebriamo il Natale quando saremo capaci di trasmettere energie positive in grado di imbevere la storia, quando saremo luce capace di trasfigurare il presente con fiducia e con speranza, quando daremo consistenza alla nostra capacità di volere e di fare il bene.

Vivremo il Natale nella misura in cui, da persone trasfigurate dal Dio in noi, diveniamo missionari di giustizia e pace, quando contrasteremo il male col bene, quando rialzeremo chi è prostrato nella polvere, quando accoglieremo i reietti dai popoli, quando faremo dei limiti, delle fragilità e delle colpe degli altri non un pretesto di violenza e di separazione, bensì una possibilità di abbraccio, di perdono e un’occasione di rinascita.

Solo allora potremmo cantare nella santa notte “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà!”; pace in terra ai missionari che fanno come Dio, diventano uomini!!!

“Ci impegniamo anche noi a discendere…
Non per riordinare il mondo,
Non per rifarlo su misura, ma per amarlo;
Per amare
Anche quello che non possiamo accettare,
Anche quello che non è amabile,
Anche quello che pare rifiutarsi all’amore,
Poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore
C’è insieme a una grande sete d’amore,
Il volto e il cuore dell’amore.

Ci impegniamo
Perché noi crediamo all’amore,
La sola certezza che non teme confronti,
La sola che basta per impegnarci perpetuamente”.
(don Primo Mazzolari)

Auguri a tutti e a ognuno di un Santo Natale! Coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo, IMC
Superiore Generale dei Missionari della Consolata
16 dicembre 2017




Vincitori del XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017


Il volontariato si tinge di rosa: tre donne e due Continenti, Europa e Africa, per il XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017.

Il volontariato per la XXIV edizione del Premio Volontariato Internazionale FOCSIV 2017 si tinge di colore rosa, assegnando il Premio Volontario Internazionale, quello per il Giovane Volontario Europeo e il Volontario del Sud a tre donne, legate tutte quante a due Continenti, l’Europa e l’Africa.

Pochi giorni prima del 5 dicembre, Giornata Mondiale del Volontariato, FOCSIV – Volontari nel mondo ha consegnato, nell’Aula Magna della John Cabot University a Roma,

  • a Anna Dedola, project manager COPE Iringa – Tanzania, il Premio Volontario Internazionale,

Tanzania, 10-11-2017. Villaggio di Nyololo. Anna Dedola, cooperatrice del COPE, vincitrice del Premio del Volontario Internazionale FOCSIV. Il centro per bambini Sisi Ni Kesho, gestito da Anna.

  • a Khadija Tirha, volontaria in Servizio Civile per LVIA Italia in Piemonte, il Premio Giovane Volontario Europeo

  • a Alganesc Fessaha, Presidente di Gandhi Charity candidata dal Centro Missionario di Trento, il Premio Volontario del Sud.

Tre donne, con radici culturali diverse alle spalle, che pongono al centro del proprio impegno quotidiano la persona, come portatore di necessità, cultura, speranza, diritti e la costruzione di ponti per il dialogo tra i popoli  e per un futuro di pace. Tre interventi in Tanzania, in Italia ed in alcuni paesi africani per la dignità, per i diritti umani, per lo sviluppo umano come sistema di crescita per le comunità ed i Paesi.

La cura e il diritto, fin dall’infanzia, a ricevere affetto ed un futuro sostenibile è il fulcro dell’impegno di Anna Dedola ad Iringa, in una delle regioni più povere e colpite dalla piaga dell’HIV di tutta la Tanzania, per i bambini orfani del Centro Sisi Ni Kesho dove sono accolti, nei primi anni della loro vita, e per i quali si garantisce una vita  il più possibile sana e la possibilità di ricongiungersi con le famiglie di origine o di andare in adozione. L’integrazione e l’inclusione come mezzi per costruire ponti tra le persone, questa la certezza che sostiene Khadija Tirha, cittadina attiva impegnata in Italia a realizzare una società coesa capace del rispetto reciproco e di una pacifica convivenza sociale tra culture e confessioni diverse. La dignità degli uomini, il loro diritto a una vita degna, la liberazione di uomini e donne, colpevoli solo di aver voluto cercare un futuro in altri luoghi lontani da quelli di origine, è la scelta di vita compiuta da Alganesc Fessaha da anni impegnata nel sostenere i profughi ed i rifugiati salvandoli da un destino che li condurrebbe alla morte e nel far conoscere il dramma vissuto da queste migliaia di persone in fuga.

A questi riconoscimenti si affiancano, come nelle scorse edizioni, le Menzioni speciali consegnate nelle mani del Sindaco di Catania, Enzo Bianco, come riconoscimento per il grande valore della solidarietà dimostrata dalla cittadinanza catanese verso i tanti migranti arrivati nel loro porto dal mare. A John Mpaliza, camminatore di pace, impegnato nel ricordare il dramma vissuto dalla povera popolazione della sua ricca terra di origine: la Repubblica Democratica del Congo ed al Venerabile Alessandro Nottegar, fondatore della Comunità Regina  Pacis a Verona, ritirata dalla figlia Chiara.

Al XXIV Premio Volontariato Internazionale FOCSIV 2017 è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica, è sotto l’alto Patrocinio del Parlamento Europeo ed ha ricevuto il Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, del Ministero del Lavoro e della Politiche Sociali, dell’Agenzia Nazionale per i Giovani e della Responsabilità Sociale RAI.

 “La vittoria di tre donne al Premio del Volontariato Internazionale sottolinea, ai miei occhi e a tanti di noi che da anni sono impegnati nel volontariato in Italia ed all’estero, come questo, nella maggioranza dei casi, sia un impegno, quando vissuto soprattutto in prima persona, al femminile. Tre età della vita, terre di origine lontane tra loro, culture diverse, ma un unico comun denominatore come scelta personale di un’intera esistenza: il garantire e tutelare il diritto alla dignità di esseri umani per tutti. – ha dichiarato Gianfranco Cattai, presidenteFOCSIV – È questo il valore profondo del volontariato che si adopera per l’altro, che si impegna nella crescita dei paesi di origine, che crede nei diritti umani, applicandoli ogni giorno in ciò che realizza. Sono i volontari le risorse preziose per la crescita culturale e sociale dei propri paesi, ma, soprattutto, sono portatori di un patrimonio di esperienze, valori e competenze capaci di generare un processo propositivo di inclusione ed integrazione nelle proprie comunità per il bene comune.”

Partner del Premio del Volontariato Internazionale 2017 sono: Fondazione Missio, Forum Nazionale Terzo Settore, CEI 8×1000 e Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo e John Cabot University. Media partner: Avvenire, Famiglia Cristiana, TV2000, Radio Vaticana, Redattore Sociale e Rete Sicomoro.

L’edizione di quest’anno, può sempre contare sulla presenza degli “Amici del Premio” che danno spazio ed eco all’iniziativa: Mondo e Missione, Missioni Consolata, Unimondo, Repubblica Mondo Solidale, Volontari per lo Sviluppo, Festival Ottobre Africano, Associazione Joint e On The Road TV.

Sponsor tecnico Raptim Humanitarian travel e con il contributo di UBI Banca. www.premiodelvolontariato.it #ViPremio2017

Ufficio Stampa FOCSIV – Volontari nel mondo

Giulia Pigliucci 335 6157253 ufficio.stampa@focsiv.it Valentina Citati comunicazione social 3495301102 Tel. 06 6877867 comunicazione@focsiv.it




Natale, il pane nella cesta


Ricordo il mio primo presepio «da grande».
Ero in prima media. Mamma mi aveva lasciato usare tutta la tavola bella della «sala». Alla cartoleria del paese con le mance da chierichetto (battesimi e matrimoni) ero riuscito a comperare due palme. Solo due, ma mi sembravano un’intera oasi. Fatto il deserto con la crusca, avevo messo le due palme, uno specchio e un po’ di muschio: l’oasi perfetta con i re Magi parcheggiati in attesa di partire per andare alla capanna dall’altro lato del tavolo. Emozioni da infinito, nostalgia di sogni e di piccole cose come la stella cometa di cartone dipinta con l’«argento» dei tubi della stufa o la culla per il Bambino fatta di paglia vera. Ricordi. Come quello del mio primo presepe africano, Natale dell’89, a Maralal, Kenya. Con i giovani avevamo raccolto scatole di cartone e riprodotto il paese con le sue strade e botteghe. E le mucche d’argilla cruda modellate dai bambini e la stalla con una lampadina rossa, l’unica «Luce» che illuminava il tutto, a ricordarci che Gesù nasceva proprio là, per noi.
Ora, è proprio ripensando alla vita dei pastori nomadi del Nord del Kenya che mi pare di capire più da vicino il racconto del Natale. Il freddo e il gelo, l’esclusione, l’albergo, la solitudine di Maria, la mancanza di pannolini … forse non è andata proprio così. Provo a calarmi in quella realtà, in Betlemme, la «città/casa del pane», un piccolo villaggio di contadini e pastori sulle colline attorno a Gerusalemme. Non è inverno, perché pecore e pastori sono sui pascoli, anche di notte. Forse è già primavera, prima dei raccolti estivi, tempo giusto per far muovere la gente per il censimento. Nell’area riservata alle carovane, vicino al pozzo, è una confusione unica: animali, bambini, fuochi accesi, andirivieni, schiamazzi, litigi, canti, danze, chiacchiere a non finire… Non è certo quello il posto più adatto per far nascere un bambino. Le donne della famiglia di Giuseppe si mobilitano e trovano una casa per quella loro parente, mamma ancora bambina, al suo primo figlio. Ma l’unica stanza comune, lì dove tutta la vita si concentra, dove di notte tutti stendono la loro stuoia per dormire, non è certo la «sala parto» ideale. Meglio la stalla, la grotta sotto casa, dove la mucca e l’asino sono al sicuro e gli agnelli e i vitelli appena nati trovano un riparo. Lì nasce il bimbo, sano e bello. Maria non è sola, le donne sono con lei perché nessuna donna, in quel mondo, lascerebbe sola una mamma che deve partorire! Mani esperte e premurose si curano della giovane madre e del bimbo. Lo lavano, lo avvolgono in fasce, lo passano a Maria per la prima poppata e poi cercano un posto sicuro per metterlo a dormire. In un angolo c’è il basto di un asino, proprio quello di Maria. Da una parte ha una cesta con le poche cose di famiglia, dall’altra c’è quella del cibo per il viaggio, pane soprattutto. Il pane è finito e la cesta è vuota. Una culla perfetta per il bimbo. Così, colui che un giorno dirà «Io sono il pane della vita» è messo in quella culla e lì lo trovano i pastori venuti a cercare il «bambino avvolto in panni e adagiato nella cesta del pane». La cesta dalla quale tutti i viaggiatori possono servirsi.
Che bello, un Bambino, il pane della vita per saziare la fame d’amore dell’umanità.
Andiamo anche noi a mangiare di quel «pane». Andiamo, l’angelo ci invita …

Andare. Ma dove? Come trovare oggi la «città del pane»?
E poi, perché andare alla ricerca di semplice pane? Nel frigo c’è di tutto e di più e se manca qualcosa o quel che ho non mi piace, basta un salto al supermercato sotto casa dove ho solo l’imbarazzo della scelta. E non solo, posso anche permettermi di sprecare e buttare quel che non mi piace più e gli avanzi.
Ma la pigrizia e la pancia piena non sono l’unica difficoltà che oggi abbiamo. Vai per cercare la «città del pane» e ti ritrovi nel «villaggio di Babbo Natale», così simpatico con quel suo vocione e barba bianca, capace di accontentare tutti i tuoi desideri. Appena fuori, le «luci d’artista» ti prendono per mano e ti accompagnano in quelle luminosissime cattedrali del consumo dove sei invitato a concederti tutto ciò che puoi senza sensi di colpa. Non importa se poi in mano ti ritrovi più cose di quelle di cui avevi bisogno. È Natale, ci si può concedere qualcosa. Ti scappa l’occhio, là in quel punto d’incontro gli anni scorsi c’era un presepio. Non lo fanno più per rispetto a gente di altre religioni. Giusto, naturalmente. E ti affretti al cenone, quello di Natale appunto. Come mancare? Tacchino all’americana, panettone e spumante all’italiana. Mezzanotte! «A che ora è la messa di mezzanotte?». Meglio non andarci. Quel prete, con le sue prediche sul «pane da condividere con i poveri, sull’amore gratuito, su quelli che vengono da lontano e seguono la stella mentre noi non sappiamo più vederla, su un “Dio talmente pazzo e pazzesco che non riesce a vivere senza noi” tanto da farsi dono da spezzare e condividere», è capace di rovinarti la festa.
Il «pane della vita» è sempre là nella cesta, pronto a saziare la nostra fame, quella vera.




Gli indigeni (e l’industria del carbone) della Guajira colombiana


Testi e foto di Eloisa d’Orsi


In questo dossier vi raccontiamo una storia di incubi (il carbone e le sue conseguenze) e di magie (l’inventiva che alimenta l’arte di sopravvivere delle persone).

Incubi e?magie

CARBONE di?COLOMBIA

  • Le risorse minerarie colombiane sono di circa 17 miliardi di tonnellate. Suddivise tra il dipartimento del Cesar, la Guajira, Boyacá e Antioquia.
  • La Colombia è il principale paese produttore di carbone in America Latina. A livello globale è il decimo per la produzione, il quinto per l’esportazione.
  • Per l’economia colombiana, il carbone si è consolidato come secondo prodotto di esportazione dopo il petrolio grezzo.Il terzo è il caffè.
  • La produzione nazionale è cresciuta in modo significativo nel corso degli ultimi venti anni, alimentata soprattutto dalla realizzazione di grandi progetti destinati all’esportazione da parte di investitori stranieri come Drummond, Exxon, Bhp Billiton, Glencore International, Amcoal e Rio Tinto.
  • Le principali destinazioni del carbone colombiano sono l’Europa e gli Stati Uniti.

L’incubo:
L’impossibile convivenza tra miniere e popolazioni indigene

La scelta tra il carbone e la vita

Come in tutta l’America Latina le attività estrattive producono effetti devastanti sulle popolazioni indigene e sull’ambiente. E oltretutto sono fonte di profitti soltanto per una ristretta oligarchia nazionale e internazionale. Il caso del carbone nella Guajira colombiana.

La Guajira, uno dei trentadue dipartimenti colombiani, è un deserto di sabbia, vento e cactus, all’estremo Nord Est del paese. Con le sue 3mila ore di sole all’anno e i suoi venti costanti del Nord, gli Alisei, è più nota per le sue spiagge selvagge e per le tartarughe marine che per il suo potenziale minerario ed energetico. Eppure il valore delle sue esportazioni di combustibili fossili indica un ambito economico degno di grande interesse. Ben più grande di quello dei turisti nei confronti delle borse colorate tessute a mano dalle belle donne indigene della regione. Donne native come è nativo il 98% degli abitanti della zona, di cui 270mila appartengono all’etnia wayuu, uno dei gruppi della famiglia indo-americana, il maggiore di tutto il paese.

 

Vivere da Wayuu 

I Wayuu, presenti nella Guajira da più di 10mila anni e plasmati dai suoi elementi naturali, il vento, la luna, il tempo, la calma, tanto da farli confluire nei loro racconti cosmogonici, sono da sempre un popolo resistente che, nonostante gli svariati tentativi violenti di colonizzazione, ha mantenuto le proprie tradizioni e la propria lingua, il Wayuunaiki. Sparsi in piccoli villaggi dislocati su un territorio di 15mila km2 di superficie sabbiosa con una vegetazione rada, hanno fin qui vissuto di pastorizia e pesca che garantivano loro una precaria sussistenza.

Grazie a tecniche tramandate dalla loro cultura ancestrale, come lo scavo di «jagüeyes» (pozzi per accumulare le piogge), la canalizzazione dell’acqua dei fiumi per irrigare i terreni, la costruzione di case «antisismiche» con tetti di corteccia di cactus e pareti di fango e bambù, i Wayuu conquistarono palmo a palmo questa zona semidesertica, dimostrando la possibilità di sopravvivere a contatto con una natura difficile, con risorse scarse, tramite la gestione responsabile delle stesse.

El Cerrejón: la miniera, la città, il treno

L’industria mineraria colombiana cominciò a crescere a partire dagli anni ’70, quando iniziò lo sfruttamento delle riserve di gas e di carbone del sottosuolo, tra le più grandi dell’America Latina.

Nel 1976 il governo, sotto la presidenza di Alfonso Lopez Michelsen, firmò un accordo storico con la società transnazionale Intercor (oggi ExxonMobil) per sviluppare una delle più importanti operazioni minerarie di tutto il paese, quella della montagna El Cerrejón, nel Sud del dipartimento de La Guajira.

Nel 2002, il governo cedette le proprie quote alle multinazionali Bhp Billiton, Anglo American e Xstrata Glencore che – una volta costituitesi nel consorzio «Carbones del Cerrejón Limited» (www.cerrejon.com) – estesero la loro concessione di altri 25 anni. Un territorio di 69mila ettari i cui abitanti furono lasciati, di fatto, nelle mani di un colosso energetico transnazionale. Fino al 2034.

Dopo 40 anni di attività, la miniera del Cerrejón, controllata 24 ore al giorno da più di 800 guardie armate, è diventata una zona off limits. Un piccolo principato con i suoi 12mila dipendenti – tra lavoratori interni ed esterni (contractors) – che faticano senza tregua giorno e notte nei 42 hangar di mantenimento della miniera, caricatori dislocati in un’area di circa 8.400 metri quadrati. Un quartier generale di polvere nera e macchine pesanti di dimensioni abnormi con pneumatici di 4 metri di altezza e 100mila dollari di valore di mercato, che sembrano uscite da un film di fantascienza. Trattori, raschiatori, bulldozer, Caterpillar cingolati, autobotti per i liquidi, gru semoventi, scavatori, traforatrici, camion e autocarri a cassoni ribaltabili con capacità di 320 tonnellate. Ingombranti dinosauri di metallo che, con folli pulegge, pompe, rulli, pale, in questi anni di attività, hanno scavato montagne, inghiottito fiumi e sommerso interi villaggi di polvere. Tutto ciò per raggiungere la cifra di 33.700 tonnellate di carbone termico estratto ogni anno. Combustibile fossile che viene lavato quotidianamente con 17mila litri di acqua dolce e poi trasportato su una ferrovia per 150 chilometri fino a Puerto Bolivar. Qui viene stivato in navi con capacità fino a 180mila tonnellate che salpano verso Europa, America e Asia.

La costruzione della ferrovia, tagliando il territorio, ha sconvolto i rapporti tra i diversi clan della zona, mettendo in difficoltà la loro forma di organizzazione sociale e l’uso delle risorse agricole e animali locali.

È vero che grandi cartelli segnalano a caratteri cubitali il passaggio dei convogli ferroviari, ma, come dicono scherzando gli indigeni più anziani, «le capre non sanno leggere», e finiscono travolte dai vagoni, mentre le particelle nere di carbone si disperdono nell’aria, oscurando il paesaggio.

Polveri micidiali

«È solo polvere, annerisce, ma è innocua», ripetono come un mantra i responsabili del programma di miniera del Cerrejón durante una delle tante visite organizzate ad hoc per i giornalisti. Polvere nera e leggera come quella seminata dai camion che trasportano il carbone agli hangar, e che i venti Alisei del Nord disperdono nell’ambiente in una pioggia costante di particelle sospese. Particulate Matter, si chiamano, o Pm10, e sono responsabili di malattie respiratorie, problemi cardiovascolari e tumori polmonari: la silice cristallina, infatti, è un agente cancerogeno.

I responsabili di «Carbones del Cerrejón», interrogati a riguardo, minimizzano affermando di essere entro i limiti consentiti dalla legge colombiana e di avere un efficiente sistema di monitoraggio della qualità dell’aria, nonostante si oppongano a far realizzare test da società indipendenti e non al loro servizio. L’azienda cerca di mitigare la situazione usando grandi quantità di acqua, ma la misura risulta essere insufficiente. Per i lavoratori della miniera che fanno turni di 12 ore, come per le comunità circostanti, quella «polvere nera e innocua» è diventata la causa di gravi malattie. Una di esse è quella diagnosticata al piccolo Moisés Daniel Guette, figlio di Luz Angela Uriana Epiayu.

La casa di Luz Angela e dei suoi cinque figli

Luz Angela è una donna di 28 anni che, insieme ai suoi cinque figli e al suo compagno, due cani smilzi e poche capre, vive nella piccola comunità wayuu di Provincial, in una bella casa di mattoni di fango, a soli 1.500 metri dal «Tajo la Puente»: un buco nero di polvere largo due chilometri e profondo più di 100 metri, una delle zone di estrazione de El Cerrejon. Moisés, il suo piccolo di sei anni, ha gli occhi color mandorla e una storia di problemi respiratori. «Si stanca subito quando corre e ha bisogno di fermarsi perché non riesce a respirare», dice la madre che, con il solo sostegno del Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo, sta conducendo una battaglia importante che nel 2015 ha portato il giudice di Barrancas a dare seguito a una denuncia contro il consorzio energetico. David, il figlio più grande, appena 11 anni, mostra le crepe profonde nelle pareti della sua capanna di argilla provocate dalle continue esplosioni che gli fanno fischiare le orecchie tre volte al giorno. «È il nostro terremoto 13,45, l’ora della prima esplosione della giornata», racconta con il suo lessico da adulto e gli occhi grandi da bambino: «Trema tutto, corriamo fuori per paura che ci cada il soffitto sulla testa e, una volta finito, torniamo a vedere quanti mattoni sono venuti giù». Gli anni passano e la casa non sopporterà ancora a lungo.

Si chiama «water grabbing», furto d’acqua

Luz Ángela non è l’unica a combattere il progetto del «Tajo la Puente»: ha dalla sua gran parte della comunità locale, insorta dopo aver scoperto che i lavori di apertura della nuova zona di estrazione avrebbero implicato la deviazione del corso d’acqua Arroyo Bruno. Secondo la compagnia, la deviazione dovrebbe proteggere l’alveo del torrente. Secondo i nativi, invece, mira solo a incrementare la produzione con lo sfruttamento dei 40 milioni di tonnellate di carbone che riposano appena sotto il letto del fiume. Il Bruno è uno dei 45 bellissimi torrenti che affluiscono nel fiume Ranchería. La compagnia aveva già cercato di deviarlo qualche anno fa provocando vive proteste.

Questo ennesimo progetto di deviazione di un corso d’acqua, come denuncia Jackeline Romero Epiayu, del collettivo Fuerza Wayuu, avrebbe gravi conseguenze perché, danneggiandone l’alveo e diminuendone il flusso, farebbe aumentare la siccità. Ad agosto la Corte costituzionale ha deciso di rinviare l’inizio del progetto in attesa che le cause in corso si risolvano. Ma il rinvio è una delle tante misure provvisorie che non mettono fine ai conflitti in un territorio semiarido in cui il consorzio minerario ha già prosciugato 17 fonti d’acqua e continua impunito a godere del 70% delle riserve idriche, aggravando le conseguenze del cambio climatico.

«Cerrejón Llc» utilizza 25 litri di acqua al secondo prelevandola dal fiume Ranchería, mentre gli abitanti della regione hanno diritto solo a 0,7 litri al giorno a persona.

Se i governi continueranno a investire in energie fossili, dirigeranno il mondo verso un futuro in cui la rivalità per risorse fondamentali come l’acqua diventerà sempre più disperata. Oscure profezie – come quelle lanciate da Greenpeace nel suo rapporto The Great Water Grab – che nella Guajira sono già divenute realtà, fornendo un esempio delle conseguenze negative della privatizzazione dei beni comuni. L’acqua, l’aria, la terra, sono proprio i beni per i quali i leader locali lottano, anche se minacciati dalle multinazionali. Secondo Global Witness, almeno 200 ambientalisti lo scorso anno sono stati uccisi in 24 paesi: il 60% in America Latina, nell’inerzia dei governi, spesso complici.

Sono la violenza, la corruzione e la politica a corto raggio i mali contro i quali i Wayuu quest’anno si sono ribellati occupando pacificamente i binari della ferrovia. La loro richiesta è che venga rispettata la loro autonomia politica e territoriale e che il governo intervenga per risolvere la crisi della malnutrizione della Guajira, problematica urgente che potrebbe annientare il loro popolo.

Tra malnutrizione e abbandoni

Fame, sete, siccità: parole che sembrano inappropriate nel 2017 in una regione che produce il 44,4 per cento delle esportazioni di carbone del paese. Eppure la malnutrizione peggiora, specie nell’Alta Guajira, dove la crisi offre scene surreali ai pochi visitatori della zona che – mentre percorrono in 4×4 le strade sterrate del territorio wayuu – vengono fermati a check point improvvisati con un filo di spago da bambini malnutriti e disidratati che chiedono da mangiare ottenendo qualche caramella.

Nel frattempo nella Media e Bassa Guajira, a causa della contaminazione delle acque, i nativi sono costretti ad abbandonare i villaggi, accettando – in cambio di misere compensazioni – di reinsediarsi in luoghi senza anima né fonti d’acqua, nei quali la cultura ancestrale viene annullata costringendo gli indios a trascorrere le giornate sotto il solleone aspettando invano la pioggia.

Aspettando la pioggia che non arriva

In wayuunaiki, pioggia si dice «juya», parola che può significare anche «anno», inteso come il tempo che intercorre tra una pioggia e l’altra. Ma come vengono calcolati gli anni se non piove più? Il significato originario della parola «wayuu» è «figli della pioggia», ma negli ultimi cinque anni le precipitazioni – anche a causa del fenomeno de El Niño – sono diminuite drasticamente. E quando piove, non sono precipitazioni normali, ma veri e propri cicloni che sferzano violentemente quelle lande desolate colpite da una siccità prolungata. Non riuscendo a penetrare in profondità, l’acqua inonda le coltivazioni dissestando il territorio.

I costi della svendita del territorio

Nei villaggi della Alta, dove il vento caldo soffia senza sosta tra i rami secchi e il sole incendia l’aria, donne avvolte in tessuti dai colori vivaci raccontano, con la calma di chi calcola il tempo in altro modo, le loro storie di desolante quotidianità. Storie d’impianti di potabilizzazione rotti, di mulini a vento in avaria, di cisterne che non arrivano mai, di sete, fame, disoccupazione, povertà, di mancanza di pozzi, corruzione, inquinamento delle acque, malattie respiratorie e della pelle. Nenie che nascono dalle conseguenze di un’operazione di gigantesca privatizzazione avallata da un governo miope che, in nome dello «sviluppo», ha avuto l’idea poco originale di sacrificare il territorio e i suoi abitanti, comportando enormi profitti per le corporation e scarsissimi benefici per il paese.

Infatti solo il 10% dei profitti viene utilizzato in Colombia, e l’1% in Guajira. Il «Cerrejón Llc», in 40 anni di saccheggio – o «concessione», a seconda del punto di vista -, oltre al genocidio culturale dei popoli in questione, ha causato effetti ambientali devastanti.

La strada da imboccare

Anticamente l’uomo era in grado di sopravvivere con quel poco che aveva. Le poche popolazioni indigene che sono ancora radicate sulle proprie terre sono lì, pronte a mostrarci come l’unico modo di adattarsi ai cambiamenti ambientali passi da una profonda comprensione del territorio. Motivo per cui l’Università delle Nazioni Unite nel 2016 ha deciso di convocare alcune popolazioni indigene per discutere di un loro possibile contributo alla indipendenza energetica, soprattutto attraverso le energie rinnovabili, provando finalmente a invertire il paradigma occidentale di successo, progresso e sviluppo.

Eloisa d’Orsi


La magia 1:

Le indigene wayuu e l’energia solare

Storie di donne che portano la luce

Colombia, India e un tocco d’Italia. A Nazareth – villaggio indigeno dell’Alta Guajira – un gruppo di donne di etnia wayuu è partita alla volta del «Barefoot College», in India, per imparare a produrre energia verde. Un progetto meritorio e di successo sostenuto da un’importante azienda italiana. Questa è la storia di una di loro.

La storia di Magalys Polanco, la nonna wayuu che a Nazareth dal buio creò la luce, come ogni storia che si rispetti in Colombia, ha qualcosa di quel «realismo magico» che rende la sua terra così fascinosa e imprevedibile. Tutto ebbe inizio nel 2013, quando Magalys Polanco, 65 anni e 3 figli, venne a sapere di quel tipo allampanato che si aggirava come un rabdomante per la provincia di Uríbia, in cerca di donne analfabete di una certa età che avessero il coraggio di lasciare per un certo tempo la Guajira per andare fino in India. «Ma perché mai gente di città si aggirerebbe per una regione sperduta come l’Alta Guajira in cerca di attempate madri di famiglia semianalfabete?», si chiedevano scettiche le comari indigene in coda per ricaricare il proprio cellulare all’ospedale di Nazareth, l’unico punto con energia elettrica del villaggio.

Magalys, al di là della sua terza media, è una donna curiosa e intelligente, e volle andare di persona a parlare con quell’uomo venuto da un altro mondo con promesse realmente luminose.

L’affidabilità è donna

«Perché cercate delle donne per andare fin laggiù?», gli chiese quando lo trovò. E l’uomo, di nome Rodrigo Paris, «messaggero» del Barefoot College, le raccontò che la fondazione di cui era emissario aveva scelto di coinvolgere nei suoi progetti di sviluppo sostenibile delle donne perché più ancorate al territorio di quanto non lo fossero gli uomini. Questi, infatti, di solito, una volta ottenuto il brevetto di ingegneri solari, abbandonavano il villaggio per andare in città a cercare di sfruttare economicamente la loro nuova professione. E concluse: «Si educas a un niño tendrás un hombre, si educas a una niña tendrás una aldea» (Se educhi un bambino avrai un uomo, se educhi una bambina avrai una comunità). Magalys lo ascoltò con attenzione e, pur non avvezza a concetti come quello dell’empowerment femminile, comprese che la posta in gioco non era solo imparare un mestiere, ma regalare a tutta la sua comunità energia elettrica. Si sentì chiamata in causa, ne discusse con la sua famiglia e decise di partire per recarsi al corso intensivo per ingegneri solari organizzato dal Barefoot College in Rajasthan, India.

Bunker Roy e il «collegio dei piedi scalzi»

Il Barefoot College, «collegio dei piedi scalzi», (www.barefootcollege.org) è una fondazione non profit con base a Tilonia, un villaggio del Rajastan. È un centro di lavoro sociale e di ricerca di cui esistono pochi esempi al mondo. Fu creato nel 1972 da Bunker Roy, un attivista della intellighenzia indiana. Dopo aver studiato nelle migliori università, seguendo i principi del Mahatma Gandhi secondo il quale lo spirito dell’India vive nei villaggi, invece di sfruttare i suoi studi per godersi una vita da benestante, decise di andare a vivere per un certo tempo in campagna, dove si scontrò con la violenta realtà dell’India rurale. Dopo aver toccato con mano le devastanti conseguenze della carestia del Bihar del 1960, Roy decise di regalare il suo sapere ai poveri e agli emarginati, i cosiddetti «intoccabili», che per lui erano persone degne di rispetto che andavano aiutate a mettere a frutto le proprie conoscenze. Convinto delle potenzialità della formazione come strumento di riscatto, diede il là a uno degli esperimenti sociali più interessanti dell’India contemporanea e, lavorando sulla formazione di poveri e analfabeti, riuscì a nobilitare mestieri antichi come quello delle levatrici o degli scavatori manuali di pozzi, e a responsabilizzare migliaia di persone che nessuno avrebbe mai impiegato, rivisitando dalle basi il concetto stesso di «professionalità» che – secondo Roy – è una combinazione di competenza, passione, e sicurezza per il proprio lavoro. Convinzione quella di Roy che negli anni gli fece ottenere svariati riconoscimenti come quello per l’«Imprenditorialità sociale Schwab» nel 2002, il «Premio Ashden» per l’energia sostenibile nel 2003, e nel 2005 il «Premio Skoll per l’Imprenditoria sociale», trasformandolo in una delle figure di spicco nella comunità indiana del mondo della cooperazione. La rivista Time lo ha nominato nel 2010 tra le 100 personalità più influenti del mondo.

Il Barefoot College ha formato più di 50mila bambini attraverso le scuole serali in villaggi remoti di sedici stati indiani per creare «professionisti a piedi nudi», insegnando loro a sfruttare le proprie risorse in maniera autonoma. Grazie al coinvolgimento di partner internazionali, è poi riuscito ad ampliare i suoi programmi verso regioni sperdute dell’America Latina, dell’Africa e del Medio Oriente. Il suo nuovo obiettivo ora è quello di formare più donne possibile per portare energia elettrica nei loro villaggi, rendendoli sostenibili e rafforzandone il tessuto sociale per incentivare i suoi abitanti a non fuggire verso le città.

A raccontarci tutto questo, con gli occhi pieni di rispetto e ammirazione, è proprio Rodrigo Paris, ambasciatore per l’America Latina del Barefoot College che, dopo aver trovato Magalys, è riuscito a convincere a partire alla volta di Tilonia altre donne coraggiose: Anastasia, Maria Luisa e Maria Milagros. Tutte loro, anche grazie alla partner-ship con l’italiana Enel Green Power (www.enelgreenpower.com), hanno portato elettricità a migliaia di persone di varie comunità sperdute.

Raccontare alla luce di casa Magalys

Ho scelto di andare a visitare la comunità di Magalys, all’estremo settentrionale della penisola, nella provincia di Nazareth, la più difficile da raggiungere. Per arrivarci servono diversi giorni di viaggio in cui non è mai chiaro quando si arriverà. Per la strada s’incontrano solo cactus, alberi morti e vecchi mulini arrugginiti che evocano una lontana presenza umana. Quando sono giunta con Rodrigo Paris, dopo vari incidenti di percorso come insabbiature e conseguenti salvataggi da parte di indios locali, la strada tortuosa che si arrampicava per la serra della Makuira era avvolta nell’oscurità più assoluta. Una volta giunti in cima, è apparsa fioca una luce che, oscillando, si è avvicinata sempre più fino a svelarci Magalys nel suo bel vestito bianco e nero. Dopo averci accolti sorridente nel suo rancho, la donna si è messa subito a preparare arepas con queso nella sua cucina illuminata da varie lampade a led alimentate dai pannelli solari.

«Vedi, anche solo questo momento che stiamo vivendo ora sarebbe stato impensabile qualche anno fa: passare la serata insieme chiacchierando, cucinando o tessendo. Ora i ragazzi possono studiare la sera, noi donne possiamo tessere e si può passare del tempo insieme senza doverci mettere a letto alle sette di sera per poi svegliarci alle tre del mattino. Ora sì che abbiamo capito perché in città la gente fa le ore piccole», scherzava con la sorella.

Magalys, come le altre indigene wayuu partite con lei per la grande avventura, parlava solo wayuunaiki e un poco di spagnolo. «Chi avrebbe mai potuto credere a una cosa simile? Proprio io in India. Africa», racconta, felicemente ignara delle sue lacune geografiche, commossa nella sua amaca tessuta a mano e oscillante al vento del Nord, tipico della regione. «Il viaggio è stato difficile all’inizio. Nessuna di noi capiva nulla di cosa dicessero. Pensavamo fosse hindi, poi abbiamo scoperto che era inglese». «Ripetevamo – continua la donna – cento volte le stesse parole: il nome dei componenti, delle valvole, trasmettitori, bottoni, lampade… era estenuante; pensavamo di non farcela. Le mie compagne volevano tornare a casa. Non eravamo neanche in grado di chiedere di non darci quel cibo così piccante, pensavamo davvero di aver fatto un lungo viaggio inutile. Ma a un certo punto ho capito quello strano abbinamento tra numeri e colori – ha sussultato Magalys emozionata dal ricordo -. Mi sono alzata dal mio banco e ho detto: “Teacher! Posso venire alla lavagna?”. E da allora ho cominciato ad aiutare le altre che avevano più difficoltà. E la lingua, anche con le signore che arrivavano da Zanzibar e dal Myanmar, ha smesso di essere un problema. Comunicando a gesti, siamo riuscite a fare amicizia scoprendo di avere molte cose in comune, e alla fine ci siamo anche divertite».

E così grazie a un’intuizione sagace, a vari incontri casuali, un pizzico di fortuna, molto coraggio e un metodo di apprendimento basico fatto di empatia, ascolto, gesti, ripetizioni e associazione di numeri e colori, dopo sei mesi di corso in India, le novelle ingegnere solari sono tornate in Colombia.

Le ingegnere (e i pannelli) al servizio delle comunità

Maria Luisa ha partecipato all’installazione di 35 pannelli solari a Bocas de Aracataca, nel dipartimento di Magdalena. E Magalys, già da un paio d’anni, monta valvole, gestisce e ripara i pannelli quando subiscono dei danni e ha anche imparato a ricaricare i telefoni, di modo che i membri della sua comunità non sono più costretti a fare chilometri a piedi sotto il sole per andare fino a Nazareth per la ricarica. E grazie alle conoscenze acquisite, e ai pannelli donati da Enel per il programma «Enabling Electricity», presentato al Forum del Settore privato nell’ambito dell’iniziativa «Global Compact» delle Nazioni Unite (www.unglobalcompact.org), non solo lei, ma buona parte della comunità, sta portando avanti un progetto più ampio di elettrificazione rurale in quindici comunità tramite il fotovoltaico, che mira a facilitare l’accesso all’elettricità in aree isolate come Nazareth, Wimpeshi o Uribia, rendendole comunità autosufficienti e sostenibili.

Grazie all’appoggio della Corinam International Corporation (corinam.org), le ingegnere solari infatti hanno dato vita all’«Associazione solare pedagogica» per implementare la formazione della comunità attraverso riunioni e workshop di contabilità di base, gestione del progetto, responsabilità, gestione dei conflitti. Le famiglie utilizzatrici del programma assicurano la sostenibilità del servizio e la remunerazione delle «mamme solari», tramite un contributo mensile il cui importo è stabilito collettivamente, e comunque inferiore a quello che le famiglie avrebbero speso per l’illuminazione tradizionale.

Si chiama cooperazione

Il Barefoot College gestisce il progetto, il governo indiano copre i costi del viaggio e la logistica, il settore privato mette i pannelli solari, le donne chiamate in causa mettono il loro impegno, il loro coraggio di essere catapultate in un altro mondo, e i loro mariti e gli uomini dei villaggi mettono lo sforzo che comporta accettare un ruolo nuovo della donna all’interno della loro comunità. Una circostanza, questa, che in certe società come quella wayuu (fondata sul matriarcato) ha già delle basi culturali, ma in moltissimi altri casi, specialmente in paesi del Sud, è molto facile che possa creare conflitti interni. Quello innescato dal Barefoot College è un meccanismo virtuoso di cooperazione internazionale sulle questioni relative all’energia solare che dal 2008, quando il governo dell’India ha deciso di includerlo nei suoi programmi di cooperazione internazionale, è riuscito ad addestrare 1.100 donne provenienti da 64 paesi. In Colombia, grazie a 350 impianti solari installati nella regione, è arrivato a coinvolgere 15 comunità, 1.050 famiglie e circa 3.500 beneficiari. Grazie anche all’iniziativa di Enel Green Power, dal 2012 a oggi, ha garantito l’accesso all’elettricità in 41 comunità di nove paesi dell’America Latina portando benefici a 19mila persone scommettendo non solo a favore della sostenibilità ma anche della parità di genere, favorendo l’empowerment femminile.

La sfida raccolta da queste donne indigene colombiane, grazie a questo esperimento di sapere collettivo, sta tessendo legami nella comunità e distribuendo a raggiera le conoscenze acquisite, migliorando la vita quotidiana dei beneficiari, e continuando a creare opportunità permettendo a queste donne, madri, nonne indigene di reinventare il proprio futuro e di rendendolo davvero «luminoso».

Eloisa D’Orsi


La?magia?2:

i Wayuu e la trasformazione dell’acqua

Salata, dolce, scarsa (ma sempre preziosa)

Secondo dati ufficiali sono 5mila i bambini indigeni morti negli ultimi sei anni per denutrizione e mancanza d’acqua potabile nella Guajira. Vi raccontiamo la storia di Juan Carlos Borrero Plaza, ingegnere che, per aiutare le popolazioni della regione, ha inventato un sistema per desalinizzare l’acqua.

La penisola della Guajira è una terra semiarida e, per gli indigeni che la abitano, l’acqua è sempre stata un elemento chiave. Amata, rispettata, invocata, difesa, temuta, scarseggiante e maledetta, ma pur sempre wuin (acqua). I Wayuu vivono da secoli questa contraddizione: attorniati da ogni lato dall’acqua salata dell’Oceano, hanno sempre visto scarseggiare quella dolce. Ma se prima – da nomadi e abili rabdomanti quali sono sempre stati – spostandosi alla sua ricerca, padroneggiavano quelle lande desolate, ora che si ritrovano confinati in un territorio sempre più frammentato e compromesso dall’industria mineraria, stanno letteralmente morendo di sete. Per letteralmente intendo che, secondo i dati dell’Unicef, i bambini morti negli ultimi sei anni a causa della malnutrizione sono stati 5mila, anche se secondo le autorità tradizionali la cifra potrebbe arrivare a 14mila.

Quando arrivò Juan Carlos

Vedere un bambino morire di disidratazione davanti ai propri occhi è uno spettacolo difficile da accettare, specialmente in questo secolo, e a maggior ragione per una persona come Juan Carlos Borrero Plaza, un ingegnere specializzato in approvvigionamento idrico e in energie rinnovabili. Un giorno, di ritorno da una visita al Parco Eolico di Jepirachi della Empresas Públicas de Medellín (Epm), nel bel mezzo del deserto si trovò di fronte a una donna che supplicava aiuto per suo figlio. Parlava in wayuunaiki e Juan Carlos non capiva. La guida che accompagnava lui e consorte gli spiegò che, nella Guajira, i bambini muoiono di sete. Portarono la donna e il figlio in ospedale, ma il bimbo morì: Juan Carlos rimase scioccato. Non si capacitava che esistesse un problema simile proprio nel suo paese. Promise allora a sua moglie Helga che avrebbe smesso di dedicarsi a qualsiasi altra invenzione fino a che non avesse trovato una soluzione per tutti coloro che non possono soddisfare un bisogno primario come quello dell’acqua.

L’invenzione dell’«aero-desalinizzatore»

Con 20 anni di esperienza nell’installazione di impianti di trattamento delle acque alle spalle, l’ing. Borrero sostiene che i sogni nascano nel cuore, crescano nella mente ma si realizzino con le mani. Così mantenne la sua promessa tornando nella provincia di Manaure per eradicare il problema della siccità e ridare l’acqua ai «figli della pioggia», il popolo wayuu.

Quando i capi tradizionali dei villaggi sentirono parlare quel signore con un accento caleño che sosteneva di poter estrarre acqua dolce dal sottosuolo grazie alla forza motrice del vento, pensarono che si trattasse di un incantesimo. O forse della solita fregatura di abili venditori di promesse come ne avevano già incontrati.

Succede spesso che, in una regione con grandi risorse ma minime possibilità di riscatto, le poche persone preparate, approfittino delle ricchezze a disposizione facendo aumentare esponenzialmente l’ingiustizia sociale. Ma Juan Carlos è un omone con la faccia sincera e gli indigeni di quel villaggio di 30 abitanti erano così disperati che decisero di dargli il loro assenso. Fu così che, durante i nove anni successivi, egli poté utilizzare segretamente il villaggio di Ulekumaná, in provincia di Manaure, come laboratorio a cielo aperto per mettere a punto la sua invenzione e finalmente brevettare il suo «aero-desalinizzatore». Un apparato basato sulla forza dell’energia eolica (che fornisce la pressione necessaria per aspirare acqua da pozzi) e sulla osmosi inversa che purifica l’acqua facendola passare attraverso filtri e membrane legate che ne sopprimono gli agenti patogeni. Una tecnica questa che Barrero ha messo a punto anche grazie a due viaggi di studio in Egitto e in Messico per approfondire le conoscenze della tecnologia idrica degli antichi egizi e delle civiltà precolombiane, i quali già in quei tempi remoti utilizzavano gli ioni per purificare l’acqua.

Purificare con la forza dei venti

Nella Guajira acqua ce n’è in quantità, ma quella dolce è solo circa l’1%. Purificare la linfa vitale significa dover affrontare costi ingenti e pertanto non sostenibili.

Per rendere il progetto sostenibile, gli studiosi coinvolti da Barrero si sono concentrati sul tema dell’energia che avrebbero dovuto usare per realizzare il processo di purificazione. In una regione come la Guajira, sferzata dagli Alisei del Nord, una forza della natura perenne e pulita, l’idea di utilizzare il vento è sembrata ovvia. Per sfruttarlo senza costi aggiuntivi sono stati utilizzati quei 3mila vecchi mulini a vento installati, negli anni ’50, dal governo di Rojas Pinilla. Da anni in disuso, essi languivano spettrali nel deserto. Ora invece, grazie al progetto di Juan Caros «Guajira sin sed» (Guajira senza sete), hanno finalmente ricominciato a battere le ali, riuscendo incredibilmente a vincere la sfida di rendere dolce l’acqua salata, senza l’ausilio della chimica e costi insostenibili.

Il progetto di Barrero, presentato con l’appoggio dell’Università Santiago de Cali nel 2013, oggi conta 40 aerodesalinizzatori nella zona. Essi forniscono acqua potabile a molte rancheríe (fattorie) isolate disperse per tutta la Guajira. Ogni aerodesalinizzatore – che può durare tra i 20 e i 30 anni – consente di produrre 4mila litri di acqua potabile al giorno, e aiuta a dissetare 20mila persone. Un successo che è stato certificato a livello mondiale da Unicef e dalla impresa svizzera «Sgs», leader mondiale nella verifica e certificazione. Ora che il progetto è avviato, Barrero vorrebbe riuscire a superare tutti gli impedimenti e arrivare a installare almeno 400 di questi sistemi nella Guajira.

Le potenzialità dell’idrogeno

Uomo di scienza, ma anche inventore, alchimista e soprattutto sognatore, Juan Carlos vede cose che altri non hanno la lungimiranza di vedere. Già ai tempi dell’università inventava modi per purificare l’acqua facendola bollire con raggi ultravioletti, o si faceva ispirare dal sistema digestivo delle galline per decomporre sostanze senza prodotti chimici. Non c’è da stupirsi che abbia inventato una nuova tecnica per l’idrogenasi tropicale (metodologia che spezza la molecola dell’idrogeno, ndr), che gli è fin valsa un invito alla Casa Bianca. Il gas idrogeno, che può essere ottenuto dall’acqua, ha enormi potenzialità per generare e conservare energia da usare per produrre elettricità ad un prezzo ragionevole. I nuovi catalizzatori a idrogeno potrebbero diventare un passaggio chiave nel processo di sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili.

Juan Carlos Barrero Plaza d’altra parte è convinto del fatto che le tecnologie si debbano adattare alle persone e non certo il contrario. Lui fa parte di quella ristretta cerchia di persone che in Colombia sta lottando per capitalizzare il proprio patrimonio naturale, solare ed eolico per utilizzarlo in favore delle popolazioni svantaggiate che vivono in un territorio da secoli penalizzato dalla carenza d’acqua dolce e dall’abbondanza di acqua salmastra, e che nel prossimo futuro potrebbe vedere aumentare le difficoltà in concomitanza con l’aggravarsi del cambio climatico.

Bambini da istruire

Quando non sta ideando marchingegni, Juan Carlos inventa storie per bambini, storie che gli hanno già fatto guadagnare un premio dalla «Società dei poeti» della Colombia e che lui sta cercando di pubblicare con uno sponsor per poterli regalare ai poveri, perché possano leggere e imparare come tutti gli altri.

È convinto sia fondamentale e necessario insegnare ai bambini che le nostre risorse non sono infinite e che – se non accresceranno le loro conoscenze – continueranno a subire le prepotenze di chi sa approfittare meglio delle circostanze.

«I sogni sono nati nel cuore, crescono nella mente e sono fatti con le mani. Così continuerò a lavorare, se Dio lo permette», ama ripetere Juan Carlos Borrero Plaza. Uomo di scienza, inventore, alchimista e soprattutto sognatore.

Eloisa d’Orsi


Questo dossier:

 Eloisa d’Orsi

Eloisa d’Orsi è una fotogiornalista freelance, laureata in antropologia visiva presso l’Università di Torino. Ha collaborato con varie testate quali Internazionale, L’Europeo, GEO, New York Magazine, The Guardian, El Pais, Die Zeit. Ha lavorato molto sull’America Latina, con un’attenzione particolare alla Colombia. Negli ultimi anni ha coperto il conflitto in Crimea e nella Striscia di Gaza (nel 2014), la situazione igienico-sanitaria in India e nella Repubblica democratica del Congo (nel 2016) grazie a un grant dell’European Journalism Centre. Più recentemente, grazie a una fellowship dell’Iwmf (International Women’s Media Foundation), ha realizzato questo lavoro.

Ringraziamenti

Un ringraziamento a Luz Angela Uriana e alla sua famiglia, al leader di Chancleta Wilman Palmezano Arregocés, Jackeline e Jasmine Romero Epiayù di Fuerza Mujeres Wayuu, Censat Agua Viva, Emma Banks, Avi Chomsky, Annabel Micus del Colectivo de abogados, Louise Winstanley di ABColombia, Cinep, Richard Solly, Peter Drury e Stephan Suhner di Ask (Arbeitsgruppe Schweiz-Kolumbien) e Oliver Balch e Juanita Isla di Iwmf.

I principali siti web citati:

 www.cerrejon.com; www.barefootcollege.org; www.enelgreenpower.com; www.corinam.org; www.unglobalcompact.org.

Altri link e YouTube:

Per il testo 1: stress idrico, censat.org/; diritti umani, www.colectivodeabogados.org/;
Fuerza Mujeres Wayuu; jieyuuwayuu.blogspot.it/;
speciale carbone Colombia // El Espectador; static.elespectador.com/especiales/1402-caribe/index.html.com.
Per il testo 2: Barefoot College, Bring the sun home, Anastasia Garcia, Magalys Polanco cercare su YouTube.
Per il testo 3: revistas.usc.edu.co/index.php/Ingenium/article/viewFile/312/277 e su YouTube (aerodesalinizzatore).

Foto delle copertine

In prima: Magalays Polanco illumina la sua casa.
In ultima: un gruppo di Wayuu occupano per protesta i binari della ferrovia che collega la miniera de El Cerrejón a Puerto Bolivar.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




Mozambico:

Bwana Cilimba, l’uomo dal cuore forte


I missionari della Consolata arrivano in Mozambico nel 1925 nella provincia del Niassa. Uno dei primi è padre Pietro Calandri, detto «Bwana Cilimba», un cuneese forte, determinato, innamorato della gente e con il cuore pieno di Cristo. Fonda una grande missione, ma soprattutto costruisce una solida comunità cristiana che vive con fedeltà la propria fede in un ambiente musulmano e attraverso le prove di una lunga guerra.

I cattolici e i musulmani del Niassa hanno celebrato a Massangulo con grande affetto e solennità il 50° anniversario della morte di padre Pietro Calandri, il primo missionario della Consolata in Mozambico e il pioniere dell’evangelizzazione della zona. È morto il 12 agosto 1967 a 74 anni dopo una lunga vita missionaria dedicata quasi interamente al servizio dell’evangelizzazione del popolo Ayao e all’educazione dei giovani.

Il suo funerale, partecipato da una moltitudine riconoscente, e la sepoltura in Massangulo, la missione da lui fondata nel 1928, sono stati l’espressione eloquente di quanto fosse considerato e amato da tutti.

Tra i musulmani Ayao del Niassa, si era guadagnato un nome: «Bwana Cilimba», che significa «uomo dal cuore forte e che può gestire tutto». È questo senza dubbio il titolo più adeguato per questo grande missionario della Consolata.

1925: verso la zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.

Missionario della Consolata

Intenso ritratto del giovane padre Calandri.

Nato il 5 luglio 1893 a Moretta, Cuneo, fin da piccolo mostra curiosità e un temperamento disciplinato e determinato. Intelligente, sviluppa presto quel notevole senso di osservazione che plasmerà l’artista che più tardi si rivelerà in lui. Il sogno di una vita di dedizione e di avventura portano il giovane Calandri verso la vocazione missionaria, che abbraccia nel 1911, quando entra nell’Istituto Missioni Consolata. Conclusa la sua formazione, è ordinato il 3 febbraio 1917. A causa della guerra non può realizzare il suo desiderio di partire subito verso terre lontane. Il sogno diventa realtà solo tre anni più tardi, quando, nel 1920, viene inviato in Africa. Il Kenya è la sua prima missione e vi rimane cinque anni maturando esperienza, rafforzando la sua formazione e forgiando quel senso pratico che gli sarà molto utile in futuro.

Pioniere in Mozambico

Nel 1925 il giovane missionario riceve una nuova destinazione. Un altro paese africano sta emergendo all’orizzonte: il Mozambico. Sbarca nel porto di Beira il 30 ottobre 1925, ma quasi subito deve tornare in Kenya per accompagnare un padre che si è ammalato e ha bisogno di cure. Rientra nel giugno 1926 accompagnato da padre Giuseppe Amiotti. Hanno il compito difficile di sondare la possibilità di stabilirsi nella vasta regione del Niassa, dove non è ancora entrato alcun missionario cattolico.

Calandri e Amiotti iniziano, così, una grande avventura attraverso terre sconosciute, in un’epoca in cui le comunicazioni sono quasi inesistenti e la mancanza di strade e mezzi di trasporto rende tutto più isolato, lontano e difficile. I due giovani missionari sono i primi cattolici a entrare nel Niassa e si stabiliscono a Mandimba il 5 luglio 1926. Per circa due anni la prima preoccupazione è l’inserimento nel contesto sociale della regione.

Per raggiungere al meglio questo obiettivo si dedicano all’apprendimento della lingua Ciyao, cercando di conoscere gli usi e i costumi del popolo Ayao, compito in cui mettono sempre maggior impegno nella misura in cui cresce in loro l’amore per la gente e la sua terra. Mentre sono a Mandimba dedicano il loro tempo allo studio e all’individuazione e preparazione delle strategie future.

1925 La carovana sulle rive del lagp Niassa

Uno stratega della missione

Dopo essersi dedicato all’osservazione e allo studio, padre Calandri sceglie, ai piedi del Monte Massangulo, il terreno adatto alla sede della missione. E lì, in pieno Niassa, nel mese di maggio del 1928, fonda «Nostra Signora della Consolata di Massangulo».

Uomo metodico, padre Calandri non rallenta il ritmo. Intraprendente, inizia a disegnare una mappa precisa della regione di Massangulo dove svilupperà la sua attività. Rapidamente si impegna nella programmazione dei compiti da intraprendere al fine di creare le strutture di base della missione: la bonifica del terreno; la piantagione dei primi alberi; l’apertura di strade; la costruzione delle strutture necessarie. Visionario, progetta e fabbrica gli edifici per l’abitazione e i servizi essenziali a uno sviluppo strutturato e integrato: internati, scuole, laboratori, mulino, dispensario e maternità.

Usa le risorse locali per gli edifici impiegando l’argilla per la produzione di mattoni e tegole. Attraverso un ingegnoso sistema di canali capta l’acqua da una sorgente nel monte Massangulo per la missione, ottenendo così una risorsa essenziale per tutte le iniziative. Investe nell’agricoltura e nell’allevamento di bovini, nei laboratori di falegnameria, carpenteria e di calzature, per l’auto-mantenimento e il commercio, e anche nella stampa e rilegatura di libri.

Coinvolge la gente in tutte le attività. Integra gli alunni della missione nel lavoro e li forma in modo da poter essere autonomi e capaci di sognare e osare una vita diversa e migliore.

Lavora sempre in collaborazione con altri missionari: i padri Angelo Lunati e Luigi Wegher e i fratelli Giuseppe Benedetto, Lorenzo Baroffio e Ugo Versino, e con il sostegno delle suore missionarie della Consolata e dei catechisti locali.

2-X-1927 padre Calandri insegna nelal scuola di Mandimba

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alal chiesa

Il dialogo e la cooperazione con i musulmani

Nei primi tempi non tutto è facile. Dopo la fondazione di Massangulo, padre Calandri e i suoi compagni sperimentano l’ostilità di due capi Ayao musulmani, che non vogliono un’altra religione nella loro terra.

Sopporta pazientemente in quei primi anni l’atteggiamento ostile della popolazione verso la missione e i missionari. Le relazioni di buon vicinato e il lavoro paziente poco a poco danno frutti e l’ostilità lascia il posto a un buon rapporto di collaborazione e rispetto.

Padre Calandri ha un grande merito nello stabilire questo clima di reciproca comprensione e rispetto che dura ancora oggi. Sono numerosi i gesti di aiuto reciproco vissuti negli anni: la difesa della popolazione contro l’espropriazione delle terre per la coltivazione forzata del cotone; l’accoglienza nella missione di gente ricercata (perseguitata) dai militari portoghesi durante la guerra per la liberazione del Mozambico dal dominio coloniale; le visite alle moschee; la partecipazione alle feste comuni. Padre Calandri rispetta la religione della gente senza imporre a nessuno la conversione al cattolicesimo.

Padre Calandri nel 1964

Una vita missionaria feconda

Le opportunità per evangelizzare la popolazione Ayao sono rare, ma padre Calandri non si lascia scoraggiare e con pazienza pone le basi per un servizio pastorale duraturo. Alcuni giovani musulmani Ayao accettano, dopo l’approvazione delle loro famiglie, di ricevere il battesimo, e non c’è dubbio che a questo ha contribuito anche la sua indiscussa autorità morale, oltre all’eccellente educazione data nelle scuole della missione.

Con pazienza la comunità cristiana cresce. Si formano le prime famiglie cristiane a cominciare dagli alunni educati negli internati (i «collegi» nei quali gli studenti vivevano durante il periodo della scuola, ndr).

Uomo d’azione, pur con pochi mezzi, dota la missione di Massangulo di un insieme di edifici imponenti non solo per rispondere ai bisogni immediati ma anche per preparare il futuro sviluppo. Uomo di scienze e di lettere, dopo alcuni anni di permanenza nel Niassa, senza tralasciare il lavoro che gli era stato affidato, compila un dizionario e una grammatica della lingua Ciyao.

Lo studio, il dialogo e la predicazione in lingua locale avvicinano alla popolazione e rafforzano l’empatia. Questo radicamento nella cultura della gente porta come frutto positivo l’adozione del missionario tra gli Ayao.

Uomo di elevata sensibilità e senso estetico, progetta e dirige i lavori dell’imponente e bellissima chiesa dedicata alla Madonna Consolata, oggi Santuario diocesano di Massangulo. Ci volgliono 10 anni per costruirla. Il cantiere diventa anche centro di formazione di carpentieri, falegami e muratori esperti perché impiega maestranze e operai locali e utilizza i laboratori di arti e mestieri della missione. Questa straordinaria chiesa ancora oggi è motivo di meraviglia per chi la visita. È stata benedetta il 3 gennaio 1964 dal primo vescovo della diocesi, Dom Eurico Dias Nogueira, nel suo primo atto pubblico.

In una delle cappelle laterali dell’imponente santuario è sepolto padre Calandri in attesa della gloria della risurrezione.

Diamantino Guapo Antunes




La missione ricomincia da tre


Tra il 12 e il 15 ottobre a Brescia si è svolto il primo Festival della Missione. Organizzato dagli Istituti missionari (Cimi), dalla Fondazione Missio (Cei) e dalla diocesi di Brescia. Lo slogan «Mission is possible» vuole andare oltre ai tanti dubbi legati al futuro della missione ad gentes. E i circa 15mila visitatori sembrano confermare una vitalità che c’è, anche se spesso nascosta. Ecco alcune pillole dal Festival.

Durante tre giorni il centro di Brescia è diventato un brulicare di idee, racconti, testimonianze. Persone venute da lontano, giovani e meno giovani. Suore, sacerdoti, vescovi e qualche cardinale, ma soprattutto molti laici. Quasi un incontro intergenerazionale. La parola d’ordine una sola: «Missione». Molte le questioni sul tavolo: la crisi della missione, missione dove, come e per chi?

I nuovi paradigmi dell’ad gentes ci dicono che non c’è più un occidente cristiano che va verso paesi a maggioranza non cristiana, bensì oggi parte da ogni luogo e va verso ogni luogo. La missione dovrebbe essere «il termometro del nostro essere chiesa», ha detto il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana.

Conferenze, musica, teatro, interviste a testimoni e stand nel centro di Brescia. Il Festival è stato un’occasione per far uscire la missione «allo scoperto», nelle strade e nelle piazze. Il rischio, dice qualcuno, è che ci parliamo addosso, che siamo sempre dei nostri. E pure che ci ripieghiamo sui problemi: calo di vocazioni, invecchiamento, strutture grosse e costose da gestire, senza puntare sugli aspetti positivi che ancora la caratterizzano e guardare al futuro.

Gli istituti missionari devono abbandonare l’autoreferenzialità, dice qualche moderatore. Regolarmente disatteso da alcuni conferenzieri che paiono autocentrati sulla propria congregazione.

Quello che è certo è che siamo in tanti, di tutti i colori e i continenti, c’è entusiasmo e si respira un’energia molto positiva.

Mancano sei miliardi

C’è chi, come il cardinal Fernando Filoni (Prefetto di Propaganda fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli), ci ricorda che «la missionarietà ha degli obiettivi, perché ci sono nel mondo 6 miliardi di persone che il Vangelo non lo conoscono, rispetto a quel miliardo e 270 milioni che lo hanno in qualche modo conosciuto. Siamo chiamati a un impegno fondamentale. […] Non si parla più di continenti da evangelizzare, ma di tutto il mondo che, in forme diverse, ha bisogno di evangelizzazione. Ci sono aspetti che diventano sempre più importanti, come la migrazione, l’inclusione sociale dei nuovi cittadini».

Quindi, riassume Filoni parafrasando il motto del Festival: «Missione è possibile, sì, anzi è doverosa e necessaria. Come cambia? Oggi le chiese locali sono cresciute, i missionari sono i nonni dell’evangelizzazione. Gli autoctoni devono assumere in prima persona questo ruolo missionario. Hanno cultura, lingua, concezione più vicina alle popolazioni».

Le nuove frontiere sono, secondo lui, l’Asia, dal Giappone al Sud Est asiatico, inclusi i paesi musulmani, alla Cina. Poi cita l’Amazzonia, «uno dei luoghi più difficili per la missione ad gentes. Ma gli indios sono nel cuore della chiesa», assicura.

Cambiamento epocale

C’è chi propone un approccio molto pragmatico, come padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei missionari della Consolata: «Siamo di fronte a un cambio d’epoca. Una crisi che ci obbliga a rinnovarci, fare percorsi nuovi. Ma questa è una benedizione. Come missionari e come chiesa stiamo vivendo troppo sull’eredità del passato. Ben venga uno scossone. Occorre un atteggiamento di umiltà. Dobbiamo vivere il Vangelo e non predicarlo soltanto agli altri!», dice in tono provocatorio.

E continua: «Io lancio un invito a collaborare con il mondo. Dove stanno i giovani ai quali vogliamo insegnare il Vangelo? Forse non abbiamo più la terminologia, il modo giusto di parlare ai giovani di oggi. Corriamo dietro ai problemi delle nostre strutture. Siamo troppo “pesanti”, non solo fisicamente. Questa è una provocazione grande al cambiamento. Il punto non è la sopravvivenza degli istituti: perché tenerli in piedi ad ogni costo? La questione è riuscire a essere evangelizzatori come i fondatori hanno voluto, portando non le nostre storie, ma il Vangelo».

Padre Camerlengo non parla un linguaggio accademico, le sue parole sono concrete e chiare: «Abbiamo predicato che siamo tutti missionari, adesso che la chiesa locale si fa avanti, noi siamo un po’ più pesanti, un po’ più vecchi e facciamo fatica a trovare i nostri spazi. La crisi ci spinge a rinnovarci. Andare dove nessuno va. Non solo scrivere i documenti, ma andare. Per me questa rimane la missione ad gentes degli istituti missionari. Giovanni Battista ci insegna a essere cristiani e missionari, è colui che indica il maestro, che indica il cammino. Questo è il nostro ruolo. Anche se rimaniamo in pochi non importa, importante è che non perdiamo la direzione».

Mai tornare indietro

«La missione è in crisi? Non sappiamo più che pesci pigliare? Questo non ci dà il diritto di fermarci o tornare indietro, perché la missione è molto più grande di noi. La nostra identità è essere missionari ad gentes, cioè annunciare il Vangelo a quelli che ancora non lo conoscono. Parlando dell’interculturalità dei nostri istituti: abbiamo fatto molto andando in missione, adesso quelli che abbiamo evangelizzato diventano i nostri responsabili. Ma questa è una grazia di Dio, dove sta il problema? Non sappiamo gestirlo, perché siamo troppo eurocentrici, e non siamo come Giovanni Battista».

Unire le forze

Padre Camerlengo lancia una proposta importante per gli istituti missionari: «Non possiamo andare avanti ogni istituto per conto suo. Per forza, non solo per sopravvivenza, abbiamo bisogno di lavorare insieme. Stiamo cominciando soprattutto in America Latina le esperienze intercongregazionali. Sono piccoli semi che stanno iniziando. Sarà faticoso, ma questa è la strada. Da soli non possiamo andare da nessuna parte».

E di esperienze di questo tipo ce ne sono, come la comunità di Modica, in Sicilia, dove operano padre Gianni Treglia della Consolata, padre Vittorio Bonfanti missionario d’Africa, suor Raquel Soria della Consolata e suor Giovanna Minardi missionaria dell’Immacolata. La comunità mista porta avanti un progetto della Cimi sull’accoglienza ai migranti.

«Oggi evangelizzatori ed evangelizzati si confondono e i primi sono gli africani stessi», dice suor Luigia Cocca, superiora generale delle missionarie Comboniane. «Dobbiamo fare l’esperienza dell’uscita dai nostri riferimenti (occidentali)». Per questo ripete: «È necessaria un’attualizzazione dei carismi dei nostri istituti, dobbiamo ricomprenderci dal di dentro»

Marco Bello


I laici e la missione

Questione di stile

Chi fa informazione sui diritti umani, chi forma i giovani alla partenza,?chi vive in comunità e fa servizio sul territorio. Tutti modi di essere?«corresponsabili», perché la missione è per ogni cristiano.

«Parlare di missione oggi vuol dire recuperare uno stile di gioia. L’esperienza laicale, il più delle volte ha a che fare con la fragilità e la povertà del nostro essere umani». Così Antonella Marinoni, del Pime, introduce la missione declinata al laicale. Parla sul palco dell’Auditorium San Barnaba gremito di gente. Molti i giovani presenti.
«È essenzialmente una questione che ha a che fare con Dio, perché egli esprime una predilezione per i poveri e i fragili. È anche una questione culturale, oltre che teologale: dobbiamo aiutare affinché la società accolga questa condizione di fragilità».
E poi sull’essenzialità della missione: «Sentirsi essenzialmente discepoli e discepole missionarie. Senza altre etichette, senza differenziazioni e separazioni. Oggi abbiamo ancora bisogno di differenziare, in base alla diversità di carismi, di compiti, di scelte di vita. Ma due cose li contraddistinguono tutti: un grande amore per il Vangelo e una disponibilità ad amare fratelli e sorelle».

Marco Ratti, giornalista e fondatore della testata online «Osservatorio diritti» (www.osservatoriodiritti.it), è stato missionario laico in Brasile con la moglie Valentina. Lì, nel profondo Maranhão, stato povero del Nordeste, ha attinto quell’energia necessaria per impostare il suo lavoro una volta tornato in Italia. «Solo ascoltando la voce, il grido, la denuncia degli impoveriti, degli ultimi, di chi è emarginato, posso capire qualcosa di vero, essenziale, autentico per la mia vita. Non è chi vive nella comodità, io credo, che mi può far capire le domande alle quali dobbiamo dare risposte per andare verso una società più giusta e fraterna. Domande scomode spesso sgrammaticate ma sempre autentiche. Chi vive in situazioni di ingiustizia, pretende una risposta, e non ci permette di girarci dall’altra parte». Marco, 40 anni, ma ne dimostra di meno. Il suo parlare è fermo e chiaro: «Osservatorio diritti è nato anche in risposta all’urgenza che mi sono portato dietro dal Brasile, con un solo, semplice, obiettivo: dare voce

agli impoveriti, creando un sito che si occupasse di denunciare le violazioni dei diritti umani. La filosofia è quella di far parlare chi subisce violazioni dei diritti umani nella propria vita». Specifica, Marco, che la scelta della testata è cercare la sostenibilità economica senza contare sulle pubblicità, per mantenere l’indipendenza.

Si parla di laici missionari a chilometro zero. Sono famiglie che si stabiliscono a vivere nelle canoniche o case parrocchiali ormai dismesse e le rivitalizzano, offrendo il loro tempo al servizio della comunità. Al Festival portano la loro testimonianza padre Piero Demaria, giovane missionario della Consolata e Chiara Viganò. Sono due membri di una comunità molto particolare, Casa Milaico (www.milaico.it), sperimentata ormai da oltre un decennio: due famiglie e due religiosi che vivono insieme. Le famiglie vivono in due alloggi separati, ma tutto il resto si fa insieme, ricorda padre Piero: «Si mangia, si prega, si sogna e si decide insieme per le attività da fare».
Chiara e il marito Riccardo hanno tre figli di cui due adolescenti. Sono stati missionari laici in Ecuador, sempre con l’Istituto della Consolata. Milaico si trova a Nervesa della Battaglia (Tv). I membri della comunità propongono una presenza pastorale sul territorio che li vede impegnati in tante attività: formazione, ospitalità, coro, e molto altro.
«Vivere con i religiosi è un’esperienza che facciamo noi, ma che fa pure chi entra a casa nostra, che vuole essere una casa con la porta sempre aperta», racconta Chiara. «Abbiamo scoperto e fatto scoprire agli altri un volto più umano di chiesa, perché vivere insieme ai sacerdoti ci fa scoprire i pregi, ma anche i difetti. Noi laici siamo abituati a vedere i preti come qualcosa di perfetto, e quindi troppo lontani da noi. Vivere insieme ti fa scoprire che sono persone identiche a noi». E continua: «C’è poi un volto di comunione: mettiamo insieme i soldi; un argomento questo, sempre scomodo. Noi non abbiamo un conto corrente nostro, condividiamo gli stipendi. Così scopri che vivere insieme rende possibili cose come vivere in 10 con due stipendi: abbiamo un sostentamento del clero e due mezzi stipendi da insegnanti. Certo grazie all’aiuto di molte persone. Mettendo insieme piccole forze di ognuno si possono fare grandi cose».
«Terza cosa è la corresponsabilità. A Milaico esiste un superiore, che è padre Piero, ma tutto si fa insieme, si pensa e si organizza, poi ognuno porta avanti delle attività a seconda del proprio carisma. Il fatto importante è che sia possibile lavorare insieme. Questo dà forza a noi per andare avanti, e fa capire che non è un sogno irrealizzabile. Importante è vivere delle cose. Importante è seminare. Siamo una comunità in uscita». Una comunità aperta al mondo.

«Il nostro volto di Chiesa – per padre Piero – è un volto acqua e sapone, senza trucco, con semplicità. Magari con i capelli un po’ arruffati, perché a Milaico siamo anche un po’ disordinati. Ma sempre con un sorriso nei confronti di chi arriva».
«Io sono arrivato in comunità due anni fa, e come prima cosa mi sono sentito accolto. L’accoglienza radicale non è scontata. Penso che derivi dalla famiglia, ambiente in cui si impara ad accogliersi, marito e moglie, anche quando è difficile, poi i figli. La scopri solo vivendo insieme. È una delle caratteristiche che Gesù ci insegna di più. Secondo me se gli stavi vicino, ti faceva sentire come lui, come amici da sempre. Sapeva come prendere l’altro e farlo sentire bene».
È entusiasta padre Piero: «Una delle sfide di stare insieme laici e religiosi è un po’ mettere insieme le due parti dell’universo: ognuna ha fatto delle scelte e lasciato delle cose. Mettendo insieme l’accoglienza e la voglia di avere una casa aperta si riesce a essere al servizio di molte più persone. C’è chi preferisce parlare con un religioso e chi con un laico. Insieme si riesce a stare meglio e a servire meglio. Ci sono tante esperienze di famiglie a chilometri zero, ma c’è ancora paura, soprattutto da parte di noi preti, di perdere il controllo sulle cose, sulle persone. Perdere il potere. Sono paure prive di fondamento: si pensa e si sogna insieme».

Marco Bello


Dai ribelli della Sierra Leone ai buddhisti delle baraccopoli thailandesi

Un’Angela a Bangkok

«Non sono una scrittrice», esordisce suor Angela. Ma di cose da ?raccontare ne ha davvero tante. «È vedere l’opera di Dio in queste donne emarginate uno dei doni più grandi che Lui mi ha fatto».
Suor Maria Angela Bertelli è missionaria saveriana. Dopo un periodo ad Harlem (New York), viene inviata in Sierra Leone. Qui, nel 1995, è rapita dai ribelli del Ruf (Rivolutionary United Front). Tornata in libertà, le sue superiore la destinano a una missione che non si sarebbe aspettata.
«Da 16 anni sono in Thailandia. Quando dovemmo lasciare a forza la Sierra Leone mi mandarono nel paese asiatico. Avevo 40 anni. Non è il mio posto, pensai, si sono sbagliate. Ma poi piano piano…».
A un certo punto, suor Angela chiede un permesso speciale: vuole lavorare in una baraccopoli di Bangkok, capitale del paese. «Per una serie di vicissitudini avevo bisogno di uno stacco. Ci sono arrivata molto prostrata, da tante cose. Non è mai stata in crisi la vocazione ma forse il modo di fare missione.
Nella baraccopoli non ero né più pulita né più sporca di loro, né migliore né peggiore. Ma da questo fango di periferia sono rinata, non so neanche io perché».

Dio non esiste

Suor Angela racconta la complessità nel portare il Vangelo in una realtà come quella Thai, dove c’è il buddhismo Theravada che non riconosce Dio. «Come fai a parlare di uno che non esiste? Come glielo fai incontrare? Come si fa con un linguaggio che non veicoli il nostro mondo, il modo in cui noi comprendiamo Dio?», sono le domande che si pone la missionaria.
«Non potendo usare questo linguaggio perché è ambiguo, non resta che l’azione, il gesto. Non rimane che te stessa nuda e cruda davanti a questa realtà. Una realtà che è a volte una vergogna». Nella baraccopoli suor Angela, che è pure infermiera, fa riferimento a una comunità del Pime e si mette al servizio.
«Ho cominciato a lavorare nella parrocchia. Aiutavo i bambini a fare la fisioterapia, soprattutto i malati di Aids in fase terminale, che è forse peggiore della lebbra. Non mi era mai capitato. Erano davvero rifiutati quando li portavano in ospedale…».
La gente inizia a identificarla come «colei che cura i malati» e a cercarla per gli interventi più strani.
È il 2005, la Caritas di Brescia vuole far partire un progetto per bambini disabili: «La casa degli angeli», ispirato dalla capitale, Bangkok, che significa «la città degli angeli». Chiedono a suor Angela se vuole occuparsene. «Io ho un permesso di un anno, dissi loro, e mi mancano solo alcuni mesi».
«Ho visto di nuovo l’opera di Dio. La casa si è riempita di bambini disabili. Come li scegli i bimbi? Non li scelgo, vengono loro. Se posso fare qualcosa li accolgo, altrimenti li indirizzo da un’altra parte».

Il Vangelo ?incarnato

Nella cultura in cui si trova Angela, quando un bimbo è disabile si tratta della maledizione per il male che aveva già fatto in una precedente vita, oppure la mamma ha commesso dei peccati e ora li sta pagando. Lui si è già reincarnato tante volte e deve avere la possibilità di annullare il karma negativo. Per questi motivi molto spesso le mamme abbandonano i figli disabili fin da subito, e questo è tollerato a livello sociale. Le mamme che li tengono, spesso sono emarginate e subiscono violenza dai mariti.
«Come si può fare? In fondo Gesù era come un extraterrestre anche in mezzo ai suoi. Chi lo capiva? Il primo miracolo che ha fatto e la prima predica ha diviso la gente in due gruppi: chi era contro e lo voleva far fuori e chi lo osannava. La contraddizione salta sempre fuori quando si vive il Vangelo».
Ma giorno dopo giorno suor Angela arriva a vedere il Vangelo incarnato. «I bimbi non sono mai stati il problema, anzi sono stati Gesù presente in mezzo a noi. Erano la benzina per il mio motore, mi davano energia. Bimbi che prima non sorridevano arrivavano a sorridere. Quando sono venuta via, su 15 di loro, sei non avevano neppure papà e mamma, erano stati abbandonati o erano orfani. Ma le mamme degli altri, pian piano, con Vangelo alla mano, hanno accettato di prendersi cura anche di loro. Questo non sarebbe potuto succedere se non ci fosse stato il Vangelo come lievito. Tutte le mattine appena alzati ci trovavamo insieme un momento per commentare il Vangelo del giorno. Ero uno specchio della vita delle mamme. Ci sono voluti quattro o cinque anni affinché le mamme tirassero fuori i problemi più brutti. Questo incontro faceva loro bene, perché si rasserenavano e faceva prendere loro la vita in un altro modo. Ma ha fatto un bene incredibile anche a me. Il mio “essere madre”, si rispecchiava nel loro essere madri. Come facevano queste donne, in un contesto buddhista, a non aver abbandonato il bimbo in orfanotrofio?».
Dopo averla visitata, le superiore permettono ad Angela di continuare quest’opera, ma non possono darle un aiuto. «A me andava bene così. Sono rimasta alla Casa degli angeli 5 anni».

Allora Dio c’è

«Cosa c’è nel cuore di queste donne, perché non accettano la propria cultura e non abbandonano questi bimbi? Ma allora lo spirito di Dio è già lì. Il Vangelo è già vissuto anche dalle mamme buddhiste, senza che lo sappiano. E quando dico loro che amano Dio, loro ti guardano e ti dicono: cosa facciamo? Quando lavate il culetto del bambino, state lodando Dio.
Dio vi guarda con stima, siete uscite dalle sue mani. Chi vi fa sentire una nullità, incapaci, viene dal demonio, allora non dategli corda.
Vedere l’opera di Dio in queste donne povere, emarginate, è uno dei doni più grandi che Dio mi ha fatto».
Continua suor Angela con una riflessione su essere donna in missione.
«Missione per la donna passa attraverso la convivenza, ovvero vivere il nostro ruolo facendoci piccole, senza autorità: questo ci avvicina molto alle persone che non se lo aspettano.
Dov’è la parte maschile? Le nostre frustrazioni sono di non essere comprese in questo lavoro, usate come bassa manovalanza nella chiesa. Vogliamo servire ma non vogliamo asservirci.
Vale nella famiglia come nella chiesa: Dio li creò maschio e femmina affinché insieme fossero a sua immagine. Se una gamba è zoppa e l’altra è troppo forte, viene male alla schiena, alla testa, ci si sbilancia e si casca. Aiutiamoci, ci deve essere la buona volontà da entrambe le parti».

Ma.Bel.




Algeria: Il metano non dà una mano


Lo sfruttamento spregiudicato del gas

L’Algeria, paese grande produttore di gas, è strategica per l’Europa a causa della sua posizione. Ma lo sfruttamento avviene sempre più con tecniche ad alto impatto ambientale e sociale. È un capitalismo basato sull’estrazione che crea povertà e dipendenza. E la popolazione tenta di ribellarsi. Mentre l’Unione europea resta a guardare.

Hassi R’Mel è la riserva più grande di gas naturale in Algeria, nel centro Nord del paese1. Scoperta nel 1956, insieme al grande campo petrolifero di Hassi Messaoud, è sotto il controllo dell’impresa nazionale Sonatrach. La sua attività di estrazione inizia nel 1961 e già dal 1964 fa dell’Algeria il primo paese esportatore di gas naturale liquefatto (o liquefied natural gas – Lng) verso Marocco, Tunisia, Spagna, Portogallo, Italia. Nel 2011 e 2012 questa energy town è scenario di mobilitazioni sindacali molto forti, sia per le condizioni del lavoro sia in protesta contro il clientelismo e la corruzione.

Una polveriera minacciosa

Negli ultimi anni, i movimenti popolari a cui abbiamo assistito nel Sahara sono in buona parte una insurrezione contro gli effetti del capitalismo fossile, dell’estrattivismo e della sua logica di creazione di povertà e dipendenza. Se si dà un’occhiata alle città del Nord e poi a quelle del Sud dell’Algeria, non si può rimanere indifferenti di fronte al contrasto in termini di disparità di investimenti e servizi, con il Sud abbandonato a se stesso nonostante i giacimenti più fruttuosi si trovino nel suo territorio.

Tuttavia, a differenza di altri paesi come la Tunisia o l’Egitto, l’Algeria non ha visto il crescere di movimenti forti e articolati di opposizione politica.

Probabilmente la memoria della guerra civile che ha seguito il golpe militare degli anni ’90 è ancora molto forte. Una guerra che ha lasciato la popolazione traumatizzata e meno incline a criticare un regime che ha messo fine all’islamismo radicale, seppur a costo di migliaia di vite. In ogni caso il paese sembra avere tutti gli ingredienti di una minacciosa polveriera: autoritarismo, sviluppo diseguale, violazione di diritti umani, una gioventù con educazione (sovvenzionata dalla rendita del petrolio e del gas) ma senza prospettive nel paese, una élite dirigente clientelare e corrotta.

La guerra civile è stata inoltre accompagnata da una campagna di liberalizzazione economica promossa da Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm). Per ottenere maggior credito internazionale, il governo algerino ha aperto zone economiche speciali intorno ai campi di estrazione di gas e petrolio. E grazie a queste manovre, imprese come la britannica British Petroleum (Bp), la francese Total, la statunitense Arco, hanno firmato contratti trentennali per lo sfruttamento degli idrocarburi. In nome della sicurezza energetica dei paesi importatori e di quella finanziaria degli investitori, la stabilità del paese non ha prezzo. E se per tal fine è necessaria la militarizzazione e un repressivo apparato di polizia e di intelligence, l’Unione europea non dice nulla.

La benedizione della ricchezza di idrocarburi si è rivelata una maledizione per il paese, ciò che viene chiamata Resource curse (maledizione delle risorse o anche paradosso dell’abbondanza). L’Algeria ha da allora vissuto problemi strutturali gravi, quali altissimi livelli di corruzione, la delicata dipendenza dalle esportazioni, la deindustrializzazione e il disinteresse nel settore agricolo.

Ambiente addio

Ad Hassi R’Mel, scioperi della fame, blocchi stradali e boicottaggi hanno cercato di mettere in luce e denunciare le condizioni di sicurezza del lavoro, salari da fame, favoritismi clientelari e la precarietà dei contratti che portavano spesso a lunghi periodi di disoccupazione. Ai lavoratori di Hassi R’Mel hanno immediatamente fatto eco quelli di Ouargla, forse la più grande energy town oggi in Algeria. Qui, nel 2012, pochi mesi dopo le prime manifestazioni della Primavera araba, la popolazione è scesa nelle strade per denunciare l’emarginazione economica e la mancanza di infrastrutture adeguate per uno sviluppo regionale, nonostante le attività di estrazione di petrolio e gas. Nel 2013, è stato annunciato a Ouargla il primo progetto di sfruttamento di gas secondo la tecnica della fratturazione idraulica2 (fracking), da parte della Total (il fracking è proibito in Francia per l’alto impatto ambientale e sociale, ma viene promosso altrove dalle imprese francesi e molto utilizzato negli Usa), e la popolazione ha cominciato a denunciare gli effetti negativi sui campi e l’inquinamento delle acque. Nel centro della cittadina, al lato del mercato, è stata eretta una tenda da campeggio con un cartello che recita: «La gente ha decretato una moratoria al fracking». Si è creato il Comitato nazionale per al Difesa dei diritti dei disoccupati (Cnddc, nel suo acronimo francese) che mobilita decine di migliaia di persone in Ouargla ma anche in altre località che affrontano vulnerabilità e disoccupazione. Gli attivisti algerini ricordano come nel 1960-61 (prima dell’indipendenza del 1962) la Francia avesse usato Reggane, località nel Sahara algerino, per quattro esperimenti nucleari, i cui effetti sulla salute si percepiscono ancora oggi. Sul fracking, dunque, lo slogan recita «L’Algérie n’est pas une terre d’essais et d’expérimentation pour le gaz de schist» (L’Algeria non è un banco di prova e sperimentazione per il gas di scisto3). Tuttavia, non hanno ricevuto alcuna risposta concreta.

Realpolitik energetica

E ciò non stupisce se si dà un’occhiata alla politica energetica dell’Algeria e al suo commercio estero. Il settore degli idrocarburi rappresenta circa il 60% delle entrate del bilancio totale del paese, quasi il 30% del Pil, e più del 97% provengono dall’export. Per le autorità algerine è di grande importanza mantenere una buona reputazione: essere un fornitore stabile di un prodotto di buona qualità, che garantisce una fornitura continua e senza interruzioni. L’Algeria è in un’ottima posizione geografica e politica per rispondere alla crescente domanda dell’Unione europea (Ue), con la quale è ben collegata con linee di trasporto marittimo in navi cisterna e gasdotti.

Le riserve algerine ammontano a 4,5 miliardi di metri cubi, cosa che mette il paese all’undicesima posizione a livello mondiale e alla seconda in Africa, dopo la Nigeria. Si stima che l’Algeria abbia le riserve di gas di scisto più grandi del mondo.

Più del 90% del gas algerino trasportato in gasdotti va a stati europei, soprattutto Spagna (34%) e Italia (27%), il resto a Marocco e Tunisia come tassazione per il trasporto sul loro territorio. Delle esportazioni come gas liquefatto (Lng), la maggior parte va a Francia (34%), Turchia (23%), Spagna (23%), Italia (9%), Grecia (6%).

Per farsi un’idea dell’importanza della dipendenza dal gas algerino, ricordiamo ancora che rappresenta una buona fetta della domanda domestica di Italia (30%), Spagna (40%) e quasi la metà di quella della Tunisia.

Sicurezza energetica e democrazie

A causa della diminuzione delle riserve nel Mare del Nord e della crisi in Ucraina, l’Unione europea ha stabilito come priorità strategica la diversificazione energetica, all’interno dell’ampio progetto dell’Unione energetica europea (cfr. MC gennaio-febbraio 2017). Tuttavia, la pianificazione gasistica si basa su delle stime al rialzo per quanto riguarda i consumi (che sono in realtà in diminuzione dal 2010 a causa della crisi finanziaria e produttiva ma anche dell’uso di altre fonti). In questo modo vengono costruite infrastrutture con garanzie e fondi pubblici, che poi rimangono sottoutilizzate. D’altro canto, la diversificazione avviene in termini di paesi di origine del gas, ma non discute strade possibili per la promozione di altre fonti o altri tipi di gestione (più comunitaria, democratica, a piccola scala ad esempio).

Nel luglio del 2013 è stato firmato un importante accordo per la cooperazione tra Ue e Algeria, rappresentati dall’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e dal primo ministro algerino, Abdelmalek Sellal. Si è sancita così una promettente cooperazione sulle riforme democratiche e sulle politiche di sviluppo. A livello interno in Algeria si è promosso, nella totale opacità, la legge sugli idrocarburi, volta ad attrarre e proteggere investimenti stranieri.

Allo stesso tempo, da parte dell’Unione europea, si continua a mantenere il silenzio in materia di restrizioni delle libertà personali, delle minacce contro attivisti politici, violazioni di diritti umani, contaminazione ambientale, o riguardo la corruzione altissima all’interno della classe dirigente. La sicurezza energetica dell’Unione europea, con il beneplacido delle sue lobby dell’industria delle armi e delle grandi imprese energetiche, resta assicurata.

Ma per gli algerini, la dipendenza dall’esportazione del gas si presenta come un’altra preoccupante forma di accaparramento delle risorse, in cui i benefici derivanti dalla rendita sono concessi alla popolazione attraverso politiche assistenzialistiche, parziali e clientelari.

Manifestazioni anti fracking

Nel 2014 le autorità algerine annunciano la perforazione di pozzi di gas di scisto anche a In Salah, un paesino-oasi nel centro del deserto algerino e sede della potente joint venture tra Bp, Statornil e Sonatrach. Decine di migliaia di algerini manifestano a partire dall’inizio del 2015 in tutto il paese (Salah, Tamanrasset, Ouargla, Ghardaia, Illizi, Adrar, Timimoun, Bordj Baji Mokhtar, Argel, Ain Beida, Oum El Bouaghi, Bejaia e Oran). Il livello delle proteste coglie di sorpresa il governo che comincia a temere per i piani di Total e Shell per il fracking.

Si tollerano diverse marce e proteste pacifiche, fino a quando sabato 17 gennaio 2015 decine di persone sono arrestate ad Algeri per una manifestazione di solidarietà. Le violenze di tale operazione scatenano un’ondata di protesta, che dura più di cinque mesi. Il popolo richiede la sospensione di qualsiasi attività di fracking e l’apertura di un dialogo a livello nazionale, che era mancato nel processo di approvazione della Legge sugli idrocarburi del 2013.

Rapporti pericolosi

L’Algeria non è l’unico regime violento con il quale l’Unione europea coltiva rapporti d’amicizia in nome della sua sicurezza energetica. La politica estera comunitaria infatti vede anche controversi rapporti con paesi dove l’Indice di sviluppo umano (Isv) è particolarmente basso, dovuto a ragioni simili all’Algeria, tra cui Tanzania, Nigeria e Mozambico. Con paesi i cui governi sono considerati autoritari (Algeria, Angola, Russia, Qatar, Egitto, Azerbaijan, Libia, Iran, Turkmenistan), con paesi che presentano grande conflittualità interna (Libia, Russia, Iraq e Egitto), con corruzione endemica (Angola, Iraq, Libia, Turkmenistan, Nigeria) e forti disuguaglianze in termini di distribuzione della ricchezza (Nigeria, Usa, Mozambico e Angola).

La diversificazione promossa dalla politica energetica comune cerca inoltre solo un ampio ventaglio di origini degli idrocarburi, ma non pone in discussione il loro utilizzo e non propone politiche chiare per una transizione a energie rinnovabili e su basi democratiche.

La responsabilità dell’Unione europea verso la popolazione algerina e del progetto dell’Unione energetica verso il resto dei paesi di esportazione è enorme. Promuovere il gas come «combustibile della transizione», ma non fare niente per discutere verso cosa si vuole transitare è una contraddizione in termini. Pianificare l’infrastruttura gasistica sulla base di ottimistici calcoli al rialzo rispetto alle riserve e poi accettare qualsiasi condizione per mettere mano a esse è una strategia connivente con i regimi dei paesi produttori.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

1- Questo articolo si basa principalmente sul rapporto Colonialismo Energético: el acaparamiento del gas de la Ue en Argelia preparato da Hamza Hamouchene del Algeria Solidarity Collective e Alfons Perez del Observatori del Deute en la Globalització, 2016, Barcelona. Il rapporto è scaricabile al seguente link: http://www.odg.cat/es/publication/colonialismo-energetico-acaparamiento-gas-UE-argeli.

2- Fratturazione idraulica o fracking è una tecnica che consiste nell’utilizzo della pressione di un fluido per creare una frattura in uno strato roccioso del sottosuolo. Il fracking è utilizzato anche per estrarre petrolio e gas con costi ambientali molto elevati.

3- Gas di scisto è il termine improprio utilizzato per il «gas da argille», ovvero gas metano estratto da giacimenti non convenzionali, gas intrappolato nella microporosità della roccia. Per l’estrazione sono necessari trattamenti ad alto impatto ambientale, come il fracking che può anche dare origine a terremoti. È una tecnica molto utilizzata negli Usa.




I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello

 

 




Insegnaci a pregare 10.

Pregare e l’angoscia del nulla


Due mistiche di oggi

Marie-Melanie Rouget

Marie-Melanie Rouget (1883-1967), mistica francese, tra le più grandi del secolo XX, giunse alla fede dopo una tormentata vita anonima, attanagliata dalla sofferenza e dal dubbio. La morte precoce del fratello minore nel giorno di Natale la segnò tanto da farle assumere lo pseudonimo di Marie Noël. In «Diario segreto» rivive il rapporto orante con Dio che arriva fino al disgusto che si materializza nella nausea.

«- Eccovi, mio Dio. Voi mi cercate? Che cosa mi chiedete? Non ho niente da darvi. Dal nostro ultimo incontro non ho messo da parte nulla per Voi. Niente… non una buona azione. Ero troppo stanca. Niente… non una

buona parola. Ero troppo triste. Nient’altro che il disgusto di vivere, la noia, la sterilità.
– Dammeli!
– La fretta, ogni giorno, di vedere la giornata finita senza che sia servita a nulla. Il desiderio di riposo lontano dal dovere delle opere. Il disinteresse del bene che dovrebbe essere compiuto, il disgusto di Voi, o mio Dio!
– Dammeli!
– Il torpore dell’anima, i rimorsi della mia mollezza e la mollezza più forte dei rimorsi…
– Dammeli! ?-
Il bisogno di essere felice, la tenerezza che sfinisce, il dolore di essere io, senza scampo…
– Dammeli!
– Turbamenti, spaventi, dubbi…?-
Dammeli!
– Signore! Come un cenciaiolo andate raccogliendo immondizie e rifiuti. Che cosa ne volete fare, Signore?
– Il Regno dei Cieli».
(Marie Noël, Diario Segreto, Società Editrice Internazionale, Torino 1961, 44).


?Per un approfondimento: oltre al Diario segreto, appena citato, cf Benoît Lobet, Mio Dio, io non ti amo. Fede e spiritualità in Marie-Noël, SEI, Torino 1996; Ferdinando Castelli, s.j., «Marie Noël, Sorella delle “anime turbate”», in La Civiltà Cattolica, quaderno 3866, vol 3 (2011), 107. L’autore presenta alla cultura italiana la grande figura di Marie Noël, quasi sconosciuta prima, se si eccettua la pubblicazione del Diario segreto (1961) e della biografia di Lobet (1996) da parte dell’Editrice SEI di Torino sopra citati. L’articolo ben fatto descrive la personalità profonda di Marie che ha fatto della propria inquietudine il «dove» dell’intimità con Dio.


In Marie Noël troviamo la stessa esperienza di Teresa di Lisieux, da cui essa fu affascinata, che non chiede nulla, ma si limita ad amare. In lei troviamo anche Teresa d’Avila che, da mistica visse nel dubbio perenne dell’esistenza di Dio, che nemmeno l’abbandono totale fino alla consunzione delle sue viscere poterono alleviare. In lei ancora incontriamo Juan de la Cruz, amico, confidente e confessore di Teresa d’Avila, esperto di «notti oscure», che, prigioniero torturato dell’Inquisizione spagnola, offriva a Dio pure la sua impotenza di reagire. In Marie echeggia san Paolo che, annichilito dalle liti e dalle competizioni tra Corinzi, continua a gridare dal profondo della sua esperienza interiore:

«Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28).

Madeleine Delbrêl

Un’altra mistica, anch’essa francese, professione assistente sociale, è Madeleine Delbrêl (1904-1964) nata nell’ateismo militante e annegata nell’«abbagliamento» di Dio, con cui lottò come e più di Giacobbe:

«Non prega solo cinque minuti, ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare, senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese. Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più tardi userà volentieri il termine: “Abbagliamento”, e dirà: “Poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando ‘ho creduto’ che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona”.
Quasi echeggiando sant’Agostino, dialogherà con l’Altissimo, colma di stupore: “Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t’ho ringraziato d’avermi fatto vivere, t’ho ringraziato per la vita del mondo intero» (Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano 2000, 127-145).

Sulle orme dei mistici biblici

Tutto ciò nasce da una preghiera radicale ed essenziale, una preghiera divenuta compagna di vita e necessità esistenziale perché ha Dio come punto di partenza e punto di arrivo, senza divagazioni o frammentazioni. Paolo di Tarso, Marie, le due Terese, Juan de la Cruz e Madelaine hanno vissuto la preghiera come «esperienza assoluta» di Dio perché si sono lasciati sedurre, agguantare e portare sulle ali di aquila (cf Es 19,4) senza paura del vuoto che per altro già sperimentavano nel proprio cuore. Il vuoto del senso della vita, il nulla dell’insoddisfazione delle cose, l’esigenza della totalità per essere uno e tutto, pretendendo da Dio una risposta, dopo avere popolato la propria esistenza di molti e infiniti «perché», buttati letteralmente «sul cuore del Signore» (Sal 55/54,23) e lasciati lì a macerare e a perdersi per trasformarsi. No, la loro vita non era fatta di orari e formule, di programmi e ripetizioni «per senso di dovere» o per obbligo di legge: essi erano già quello che fu Francesco di Assisi: preghiera essi stessi. In questi mistici di tempi diversi, il percorso avvenne attraverso cinque passaggi.

1. Come Mosè:

«Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!» (Es 3,5). Prima di conoscere il Nome di Dio, Mosè deve scalzarsi, deve cioè liberarsi di tutto ciò che è morto.
I sandali erano fatti con pelli di animali morti e rendevano impuro qualunque luogo consacrato; ancora oggi i musulmani si tolgono i sandali per entrare in moschea. Togliersi i sandali significava lasciare la morte fuori insieme alle conseguenze della morte come la paura, il sospetto, la violenza come autodifesa. Togliersi i sandali vuol dire presentarsi a Dio senza difese e a piedi nudi, simbolo della povertà dell’essere. È l’atteggiamento del pubblicano nel tempio che, consapevole di essere «lontano» da Dio, non può fare a meno di cercarne la vicinanza, alla cui ombra si riposa, abbandonandosi al suo amore. «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”» (Lc 18,13).

2. Come Ezechiele:

«“Mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,1-3). Prima di esercitare la funzione profetica, il profeta deve diventare lui stesso la «Parola».
Mangiare è un atto che appartiene a tutte le culture e a tutte le religioni. Presso gli Ebrei era tradizione che gli amanuensi mettessero nell’inchiostro una goccia di miele per simboleggiare la dolcezza della Parola di Dio. I Padri della Chiesa parlavano di «ruminare» la Parola che vuol dire non solo mangiare, ma digerirla e assimilarla come linfa vitale. La preghiera è l’assimilazione di Dio in sangue e carne della propria esistenza (cf gli straordinari commenti di Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, vol. I, 10,1-5.7).

3. Come la fidanzata del Cantico:

«Mi baci con i baci della sua bocca! Trascinami con te, corriamo! Dimmi, o amore dell’anima mia. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!… Ho cercato l’amore dell’anima mia» (Ct 1,2.4.7; 2,10.13; 3.1, ecc.). L’amante del Cantico smania, invoca, sogna, desidera, si strugge finché non incontra il suo amato.
Per la tradizione rabbinica «i baci» sono i comandamenti che Dio pronunciò con la sua bocca e scrisse con lettere di fuoco sulle tavole che diede a Mosè: Israele è la sposa che Dio ha baciato e continua a baciare con la sua Parola. In ogni sinagoga, di ieri e di oggi, vi è un armadio, chiamato «Aron haqodèsh», letteralmente «l’Arca Santa», dove si conservano i rotoli [meghillòt] della Toràh. Ogni rotolo è rivestito da una veste di stoffa, sormontata da una corona: il rotolo (= meghillàh) è paragonato alla fidanzata vestita e incoronata come una regina nel giorno delle nozze. La Bibbia è la fidanzata di Dio «adorna per il suo sposo» (Ap 21,2; cf Is 61,10).
A Teresa D’Avila fu proibita la lettura diretta della Bibbia, tranne i testi della liturgia del suo tempo, ma lei desiderava mangiare e baciare la Parola, che l’Inquisizione spagnola e la gerarchia tenevano chiusa a chiave. Non stupisce che nella Chiesa vi furono tragedie come l’Inquisizione, perché quando perde il contatto con la Parola di Dio, non solo si smarrisce, ma arriva all’abisso dell’abbiezione, impedendo anche l’opera dello Spirito. Non stupisce che Teresa abbia vissuto nella sensazione dell’inesistenza di Dio.

4. Come la spada:

«La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La lettera agli Ebrei riecheggia la Sapienza: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra» (Sap 18,14-16).
Presso gli antichi, non di rado, davanti a un ammalato, il medico/ curatore interveniva con piccoli tagli fatti da coltelli per asportare parti morte o dannose. Occorre eliminare ciò che è morto o pericoloso. La Parola non può fallire il «taglio», per questo è affilata da ambo le parti (doppia lama): per incidere in estrema sicurezza. La preghiera non può essere da meno e chiunque vuole sperimentare l’afflato orante di Dio deve disporsi a lasciarsi ferire perché pregare non è azione innocua, non è una pratica d’ufficio da espletare secondo contratto. L’immagine della Parola-Spada è anche nell’Apocalisse: «Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni» (Ap 19,21). La Parola che penetra la vita non è mai innocua, svela la trama e la verità di essa, non uccide, ma ferisce perché taglia, purifica, rinnova.

5. Infine come Geremia,

il profeta poeta delicato e costretto ad annunciare sventure e dolori; egli che si reputa incapace di essere profeta, deve cedere alla violenza di Dio e si lascia afferrare anche lui come Paolo di Tarso per un’avventura di cui non conosce l’esito: «Mi hai sedotto, Signore e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Ecco la sintesi: pregare non è solo lasciarsi sedurre da Dio, ma diventare anche seduzione di Dio, se egli è disposto a mettersi in gioco per me.

Nel segno della ekklesìa

La preghiera è un crogiolo che brucia le reste e lascia integro il frumento, perché è un principio di trasformazione radicale. Se uno prega e non macina parole, finendo per parlare solamente con se stesso, entra in intimità d’amore con il Signore e quando finisce di pregare, inizia la vita orante perché non è più lo stesso, passando dalla preghiera d’intimità alla vita di preghiera: il mistico/a, infatti, prega vivendo, come prima viveva pregando. La vita diventa preghiera e la preghiera diventa vita, un unico afflato, un solo respiro.
Si dirà che è facile dire che la vita è preghiera, quasi si trattasse solo di una formula a effetto, invece è proprio qui il segreto più profondo della preghiera come sperimentò Madelaine Dêlbrel: «Se credi davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un posto per pregare». Si potrebbe pensare che codesto modo di essere preghiera, si esaurisca nella solitudine della propria privatezza.
Non è così perché non esiste la preghiera «individuale» o privata. In forza del battesimo «il cristiano è “in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”», secondo le magistrali parole di Madelaine Dêlbrel alla notizia della convocazione del concilio ecumenico Vaticano II da parte di Giovanni XXIII, l’uomo che camminava in mezzo al fango senza mai sporcarsi. Anche nella più profonda solitudine, il cristiano è sempre parte, segno e sacramento della Chiesa universale, assumendo nella propria vita la totalità dell’ekklesìa di cui è e vuole essere espressione vivente e visibile nel tempo e nello spazio. È il mistero della testimonianza della vita donata perché non esiste libertà più grande di donarla e quando la si è donata, non la si riprende più indietro: la bellezza dell’essenza del dono è il suo perdersi nella vita di chi lo riceve.
La preghiera non è mai un fatto individuale, perché apre a prospettive nuove: invita ad andare sempre «oltre», ad altri villaggi, ad altri bisogni, ad altre incarnazioni, ad altri rischi di novità. Allarga l’orizzonte della vita ristretta per adeguarlo all’immensità della visione di Dio. Ecco perché bisogna imparare a pregare non solo per se stessi, ma per gli altri, per l’ekklesìa dentro la quale stanno anche i nostri bisogni e le nostre necessità, se è vero che Dio si prende cura degli uccelli e dei gigli del campo (cf Mt 6,26-30). Se gli altri pregano per me, la loro preghiera è più grande e più forte perché sono in tanti a pregare per me e perché è preghiera disinteressata, preghiera gratuita. Imparare a pregare significa imparare a essere semplicemente se stessi nella consapevolezza di essere figli amati e stimati di Dio.
Lo viviamo ogni domenica, alla fine dell’Eucaristia, ma è un fatto talmente abituale che non vi facciamo più caso. Al termine della celebrazione eucaristica che è la preghiera per eccellenza, perché totalmente cristologica, dovremmo avere consapevolezza che sia finita non la Messa, ma solo l’aspetto rituale di essa: nello stesso istante, infatti, in cui si dice «La Messa è finita», realmente, dovremmo intendere che «inizia l’Eucaristia del ministero della testimonianza», cioè si entra nella dinamica della vita ordinaria che è l’altare sul quale celebriamo la lode, il pane e il vino delle nostre scelte, azioni e parole. Finisce la Messa del rito e inizia l’Eucaristia della vita nella liturgia della testimonianza che è il martirio quotidiano non subìto passivamente, ma donato come dono d’amore al Dio che ci ama tanto da avere donato a noi il suo Figlio Gesù (cf Sal 54/53,8; 116/115,17; Ger 17,26; Eb 13,15; Gv 3,16).

Paolo Farinella, prete ?[10 – fine 1a parte; continua 2a parte].


Avviso ai lettori

A tutti i Lettori e le Lettrici di MC, a ciascuno e a ciascuna in particolare, in modo personale e affettuoso non invio auguri natalizi che ormai sono una prassi pagana e una formalità spesso forzata, davanti a un presepe che non è più lo scandalo di un Dio che rimpicciolisce per fare spazio a noi (San Francesco), ma una favola innocua da ninna nanna e zampogne. A tutti invece auguro di perdere così tanto la propria vita da lasciarsi trovare da un Dio talmente pazzo e pazzesco che non riesce a vivere senza lui/lei. Vi auguro di perdervi per amore.
In un primo tempo, per mille motivi personali, avevo pensato di chiudere la mia collaborazione con MC con questa puntata. Ora però, giunto a questo punto, mi sembrerebbe di tradire i lettori, dal momento che resterebbe in sospeso la riflessione sulla preghiera: manca la seconda parte.
Ricevo spesso sia privatamente che attraverso la rivista, echi di plauso o di osservazioni che aumentano in me la responsabilità di questa collaborazione che considero e vivo come un ministero. Ho pensato, pertanto, di dedicare il prossimo anno 2018 non a riflessioni sulla preghiera, ma a esercizi di preghiera con la Parola di Dio, attingendo alla Grande Tradizione, sia giudaica che patristica, perché siamo sempre discepoli, scolari, alunni dell’unico Maestro e Signore Gesù. Imparare a pregare è l’obiettivo della vita del credente che vive del desiderio dei Greci: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Questa parte sarà pubblicata in un volume.
A tutti e a tutte con affetto.

Paolo Farinella, prete




Ecuador: Meglio i turisti che il petrolio


Sani Isla è il nome di una comunità indigena quichua di un migliaio di persone che vive sulle rive del fiume Napo, davanti al parco nazionale Yasuní. In questi anni la comunità ha dovuto affrontare le mire espansionistiche delle società petrolifere, prima della statunitense Occidental Petroleum (Oxy), poi della ecuadoriana Petroamazonas. La prima se n’è andata, la seconda ha iniziato a operare anche all’interno del vicino Yasuní, scrigno mondiale della biodiversità e casa di alcune etnie isolate. Nel frattempo, dopo varie esitazioni, la comunità di Sani Isla ha scelto la strada del turismo ecosostenibile, dell’artigianato e della silvicoltura. Allontanando le sirene delle imprese petrolifere. Almeno per il momento.

Francisco de Orellana. Il Rio Napo è uno dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni. È un fiume importante perché attraversa la foresta amazzonica ecuadoriana, costeggiando tra l’altro il Parco Nazionale Yasuní, uno scrigno inestimabile di biodiversità (nonché casa di alcune etnie indigene isolate)1. La nostra lancia a motore, partita dal piccolo molo di Francisco de Orellana (anche conosciuta come Coca), schizza veloce sul pelo dell’acqua. Ogni tanto decelera o vira con agilità per evitare tronchi di alberi che affiorano dall’acqua.

Il fiume, largo e abbastanza profondo, è percorso soprattutto da canoe e da piccole imbarcazioni a motore. Ma ogni tanto s’incrociano anche chiatte che trasportano camion legati all’industria petrolifera. È proprio il petrolio che sta mettendo a repentaglio i fragili equilibri dell’Amazzonia ecuadoriana. Lo si capisce anche da una banale osservazione dell’ambiente circostante. Non molto dopo la partenza dal porticciolo di Coca, sulla riva sinistra del Napo notiamo alcune torri petrolifere sormontate dalla tipica fiamma che brucia il gas in eccesso2. Senza dire degli sbancamenti di cui sono fatti oggetto alcuni tratti della sponda sinistra del fiume.

Avvistamenti di questo tipo per fortuna non si ripetono nelle due ore successive di navigazione: sulle due rive del Napo è pura vegetazione. A un certo punto, mentre sulla riva opposta è già territorio del Parco Yasuní, la lancia inizia a rallentare e si avvicina alla sponda sinistra dove c’è un ormeggio e una passerella. «Bienvenidos a Sani Isla», recita il cartello.

Le donne di Sani Isla

Ci accolgono quattro giovani donne, indigene dell’etnia quichua3 che abita questo spicchio d’Amazzonia ecuadoriana. Indossano semplici ma eleganti camicette colorate e gonne a falde. Una tabella di legno conficcata nel terreno spiega che a Sani Isla, con il supporto di due organizzazioni, la statunitense Rainforest Partnership e la ecuadoriana Conservación y Desarrollo, si porta avanti un progetto lavorativo per le donne della comunità.

Una signora con i capelli neri raccolti in una treccia ci spiega che qui lavorano 34 donne divise in 5 gruppi che si alternano settimanalmente. Dal 2010 le donne producono oggetti d’artigianato – collane, braccialetti, orecchini, borse di stoffa -, fatti con semi e fibre vegetali, raccolte nella foresta o appositamente coltivate. I prodotti vengono poi venduti ai turisti che arrivano dai vicini lodge (Sacha, Sani, Napo Wildlife Center) della foresta e che visitano Sani Isla.

Quello dei lodge è un turismo con un impatto ambientale contenuto sia per i numeri esigui di turisti che muove (è costoso) sia per le sue modalità ecosostenibili. In ogni caso, nessuna attività umana produce un impatto comparabile con la devastazione insita in qualsiasi attività petrolifera (esplorazione, perforazione, estrazione, trasporto, ecc.). La comunità di Sani Isla lo sa benissimo perché in passato, sul rapporto con le imprese petrolifere, si è divisa al proprio interno.

Nel 1998 i leader della comunità firmarono un accordo con l’impresa statunitense Occidental Petroleum (Oxy), per consentire l’esplorazione petrolifera sul loro territorio che si estende per 20.567 ettari legali (e altri 42.000 reclamati)4. Come compensazione ottennero la costruzione di una struttura ecoturistica, il Sani Lodge. Questo opera dall’anno 2000 ed è interamente gestito dalla comunità, che ne ricava un reddito importante. Per fortuna, la Occidental non trovò il petrolio e se ne andò. Venne però sostituita dalla ecuadoriana Petroamazonas (del gruppo Petroecuador), che già operava in zona e con la quale venne sottoscritto un nuovo accordo. Ma tra molti abitanti di Sani Isla, divenuti nel frattempo più consapevoli dei pericoli dell’attività petrolifera, iniziò a crescere il malcontento. Fu così che, nel dicembre del 2012, l’assemblea comunitaria rigettò quell’accordo, aprendo un contenzioso legale e politico tuttora in corso.

Una donna del gruppo, Mariska, ci accompagna per illustrarci il luogo e le piante che crescono qui attorno. È molto giovane e un po’ timida, ma risponde con gentilezza alle domande, anche a quelle che preferirebbe evitare. «Un tempo – spiega – la comunità lavorava con le compagnie petrolifere, adesso soltanto con il turismo, che è meglio perché non inquina».

A Sani Isla non ci sono abitazioni dato che le singole famiglie vivono lungo il Rio Napo. Qui ci sono soltanto le strutture comunitarie, alcune costruite in maniera tradizionale (con legno e tetti di frasche), altre in muratura. In mezzo un campetto da calcio, una serra, un’antenna radio. Ai lati alcuni piccoli appezzamenti coltivati con prodotti della foresta, soprattutto cacao.

Le strutture più grandi sono due semplici costruzioni in muratura dalla forma rettangolare, un solo piano, grandi finestre e tetto piatto. In una ci sono una lavagna e banchi scolastici su cui poggiano alcuni libri. L’altra, distante pochi metri, ospita un’ampia sala con sedie di plastica dove si tengono le assemblee. Sul bancone, un libro: Pachacamacpac Quillcashca Shimi, recita la copertina. Lo apriamo per capire di che tratti. È una Bibbia bilingue (spagnolo e quechua), segno che la sala è utilizzata anche per le funzioni religiose.

Nessuna compensazione vale l’inquinamento

Sulla porta di una casetta notiamo una giovane donna con un neonato in braccio. Ci avviciniamo e vediamo che la porta è quella dell’ambulatorio medico.

All’interno ci sono due persone giovani – una donna e un uomo – seduti attorno a un tavolo sul quale ci sono un misuratore di pressione, alcune boccette di disinfettante, un barattolo con batuffoli di cotone, alcuni quaderni. I due si presentano come Elizabeth Orbe e Charles Belzu, medici.

«Io sono medico comunitario – spiega Elizabeth -. Lavoro per Petroamazonas. Prestiamo servizio a tutte le comunità che stanno nella sua zona d’influenza. È un lavoro svolto in accordo con il ministero della Salute».

«Io lavoro per il ministero di Salute pubblica e sono specialista in medicina familiare – racconta Charles, boliviano e laureato a Cuba -. Veniamo di norma la domenica perché in questo giorno ci sono le riunioni della comunità. Facciamo anche delle visite alle case quando ci sono anziani o donne in gravidanza che non possono muoversi o che non hanno la possibilità economica per muoversi».

«Le patologie più comuni – spiega Elisabeth – sono problemi della pelle, respiratori e gastrointestinali. Di solito la loro causa sono le scarse condizioni igieniche».

Senza voler mettere in imbarazzo i due giovani medici chiediamo delle patologie conseguenti a inquinamento. «Per quanto ci riguarda – risponde Charles – non abbiamo riscontrato problemi dovuti a inquinamento. Il governo permette l’estrazione petrolifera, ma pretende attenzione per l’ambiente».

All’esterno, su un muro dal vivace colore arancione, una piccola targa recita: «Quest’opera fu costruita da Occidental Petroleum (Oxy) in accordo con la comunità nell’anno 2002».

«Quella adesso non c’è più. Ora c’è Petroecuador», ci dice un giovane dagli occhi arrossati seduto su una panca posta davanti all’entrata.

Parla lentamente, quasi scandendo le parole, forse perché lo spagnolo non è la sua lingua madre. «Mi chiamo Cirilo e sono un agente di salute della comunità di Sani Isla», spiega.

L’agente di salute è una sorta d’infermiere generico. «Le persone che vengono da me – racconta – hanno spesso problemi di pelle a causa di mosquitos e zancudos. E poi c’è la questione dell’acqua: qui non c’è acqua potabile. Dobbiamo purificarla o comprarla a Coca. Quanto ai medici vengono soltanto la domenica».

Chiediamo a Cirilo di questo rapporto ambiguo con le compagnie petrolifere. Lui non ha dubbi ribadendo più volte e senza tentennare: «Vengono qui e inquinano. Noi dobbiamo essere molto duri nei loro riguardi».

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Le acque del Rio Napo

In una capanna senza pareti alcune donne stanno preparando il cibo su una grande griglia scaldata da un fuoco di legna. Sopra cuociono platano (banana da cottura, ndr), tuberi di yucca e alcune varietà di semi.

In un angolo, accanto alle amache in cui sono adagiati due neonati, un’altra donna indigena, accovacciata a terra, sta pulendo pesce del Rio Napo. Il fiume però non è più pescoso come un tempo. Difficile dire se a causa del super sfruttamento o per l’inquinamento delle sue acque causato da sversamenti di petrolio (derrame de crudo). L’ultima emergenza resa pubblica risale al giugno del 2013 quando le acque inquinate del Napo arrivarono fino alla provincia di Maynas, foresta amazzonica del Perù.

Paolo Moiola

 Note

(1) Il Rio Napo nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Confluisce nel Rio delle Amazzoni dopo circa 1.130 chilometri, gli ultimi 667 in territorio peruviano.
(2) La pratica è nota come «gas flaring».
(3) La scrittura: Quichua o Kichwa per l’etnia, Quechua per la lingua.
(4) Fonte: Rainforest Partnership, The Sani Warmi Project, 2013.


Amazzonia

Tra sfruttamento e preservazione

Più l’ambiente è delicato, più la presenza umana produce un impatto rilevante. Come fare per impedire lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia? Come fare se l’interesse particolare di un paese (Ecuador, Brasile, Perù e altri paesi amazzonici) è in conflitto con quello generale della comunità internazionale? E che dire dei diritti dei popoli indigeni che l’Amazzonia la abitano?

Nel 2007 Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, lanciò una proposta rivoluzionaria nota come «Iniciativa Yasuní-Itt». Le ingenti riserve petrolifere del Parco Yasuní sarebbero rimaste nel sottosuolo se la comunità internazionale avesse contribuito a dare all’Ecuador almeno la metà delle entrate che il paese avrebbe ricavato sfruttando quei giacimenti. In questo modo si sarebbe salvaguardata una delle maggiori riserve mondiali di biodiversità, evitando nel contempo di immettere nell’atmosfera altre quantità di anidride carbonica.

I fondi raccolti furono però molto esigui rispetto a quanto previsto dal governo ecuadoriano. Pertanto, nell’agosto del 2013, Correa, ancora presidente, annunciò la fine del progetto e l’inizio dello sfruttamento del petrolio dello Yasuní, pur limitato – spiegò – all’1 per cento della superficie del parco nazionale.

L’idea – sicuramente rivoluzionaria – non ebbe successo un po’ per demerito del governo ecuadoriano, molto per lo scarsissimo contributo della comunità internazionale. Oggi lo sfruttamento del petrolio del Yasuní è iniziato e le prospettive non sono rosee, perché i danni – pur occultati – già iniziano a vedersi.

Il disastro brasiliano – In Brasile, paese che possiede la maggior parte dell’Amazzonia (circa il 64% dell’estensione totale), la situazione è ancora più drammatica, come certificano gli studi dell’istituto Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) e i dati satellitari dell’Inpe (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais). Il disboscamento (desmatamento) annuale è diminuito dal 2004 (quando raggiunse la cifra record di 27.800 Kmq, con un aumento del 100% rispetto al 1997) al 2012 (4.700 Kmq), ma successivamente ha ripreso ad aumentare in maniera preoccupante. Stando ai dati ufficiali, nel 2016 il disboscamento è stato di circa 8.000 chilometri quadrati (un’area vasta come la regione Friuli Venezia Giulia). Le ricerche attestano che la causa principale del disboscamento è l’allevamento bovino, seguito dalle piantagioni di soia.

Particolare versus generale – I paesi amazzonici dichiarano che la loro sovranità è un diritto intangibile anche quando si parla di Amazzonia. In base a questa considerazione affermano di avere il diritto di decidere cosa fare dell’ambiente amazzonico e delle sue ricchezze. Dimenticando però che quello stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto ai popoli indigeni, abitanti originari di quei territori.

Conoscere per difendere – La preservazione dell’Amazzonia è un obbligo indiscutibile, a maggior ragione in tempi di drammatico cambiamento climatico. Trovare e mettere in essere una difesa efficace senza privare i paesi amazzonici di opportunità di crescita è un problema aperto e di non facile soluzione. Il mercato internazionale delle emissioni (per esempio, quello del programma Redd, Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è ancora embrionale e presenta aspetti ambigui. L’ecoturismo, pur non esente da impatti ambientali, può essere un’attività economica accettabile se adeguatamente regolamentata. Anzi, può diventare uno strumento utile per far conoscere la bellezza del mondo amazzonico. E quindi per aiutare a difenderlo dalle innumerevoli minacce esterne, in primis dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze.

Paolo Moiola

 

Archivio MC

Tra gli articoli più recenti sull’Ecuador segnaliamo:

  • I dieci anni di Rafael Correa, maggio 2016;
  • L’alunno e il professore, giugno 2016;
  • La maledizione del petrolio, luglio 2016;
  • Una storia troppo sporca, agosto-settembre 2016.

Tutti gli articoli sono firmati da Paolo Moiola.

Siti web

  • yasunidos.org -è la Ong ecuadoriana che difende il Parco Yasuní.
  • rainforestpartnership.org – è la Ong statunitense che si occupa di salvaguardia delle foreste pluviali e che sostiene anche il progetto Sani Isla.

Videoreportage

Un videoreportage sul Río Napo e su Sani Isla è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo