Tunisia: la scomparsa dei gelsomini


Lo scorso luglio abbiamo visitato Tunisi, dove eravamo stati in diversi momenti storici del passato, compreso il 2012, per seguire l’evolversi delle dinamiche della «rivoluzione dei gelsomini». Il paese ha attraversato cambiamenti che hanno suscitato grandi speranze, soprattutto tra la popolazione giovanile. Speranze che però sono state presto deluse a causa di instabilità politica, attentati terroristici, crisi economica, corruzione e disoccupazione. In questo contesto dalla Tunisia sono partiti migliaia di giovani (foreign fighters) per unirsi al Daesh.

Luglio 2017. Arriviamo a Tunisi con un volo pieno di cittadini tunisini che tornano a casa per le vacanze. Dopo il primo scambio di battute in arabo e in francese, il tassista che ci conduce verso il centro della città inizia a parlarci in buon italiano. È vissuto in Italia per anni, a studiare e lavorare con il padre commerciante. Si tratta di un’esperienza comune a tanti suoi connazionali. 

Mentre attraversiamo una parte della città, ci accorgiamo del cambiamento di questo stato arabo maghrebino che, alla fine del 2010, diede il via alle cosiddette «primavere arabe»1. È tutto in costruzione: strade, palazzi, interi quartieri. Tunisi è una metropoli, con aree satellite, intorno e verso il mare, bianchissime, pulite e moderne. L’impianto urbanistico francese, con i suoi ampi viali alberati, le sue piazze e chiese, l’appariscente e lunghissima avenue Bourguiba, che conduce fino alle porte della Medina, la rende più simile a una qualsiasi città europea che a una araba.

Sono tanti i giovani per strada, indaffarati, o in pausa in qualche bar o ristorante. La maggior parte di loro è vestita in abiti occidentali e ci stupiamo nel vedere tante ragazze ostentare con disinvoltura minigonne, calzoncini e scollature, e tenere per mano i loro fidanzati. Gruppi di amiche, o di coppie, se ne stanno per ore sedute nei dehor dei caffé, a chiacchierare, studiare e a sorseggiare tè o altre bevande. In altri paesi arabi, dove il luogo privilegiato delle donne è ancora la casa, queste sarebbero scene surreali.

La francofilia delle classi benestanti

Gli anni di protettorato francese hanno lasciato tracce, oltre che nelle strade, anche nella cultura e nelle abitudini, per non parlare delle tante «patisserie» di cui i tunisini vanno fieri. Molti si dicono contenti di essere stati «colonizzati» dai francesi (e non dagli Italiani, come successe ai libici), e ne ostentano la lingua con ottimo accento, il ritmo settimanale di lavoro (festività domenicale) e l’organizzazione scolastica. La classe medio-alta è francofona e rigetta l’identità arabo-tunisina, come ci spiegano attivisti locali. La si nota in aeroporto, in certi locali, negozi o luoghi di riferimento «europei». Ciò riconduce alla «colonizzazione del pensiero», per parafrasare Frantz Fanon di «Pelle nera e maschere bianche», e anche a un’identità di classe economica in cui le famiglie tunisine benestanti si riconoscono. Questo vale anche per libici, egiziani, e forse per tutte le classi alto-borghesi africane e mediorientali.

In realtà, negli anni del lungo mandato francese, iniziato nel 1881 (Trattato del Bardo), ci fu sempre una fortissima resistenza organizzata da studenti e intellettuali e guidata, a partire dagli anni ‘20, dal Partito della Libera Costituzione (?izb al-?urr al-Dust?r?) e poi dal Neo-Destour. Quindi l’accettazione del modello europeo, per i benestanti, è un fatto economico, più che politico, e non differenzia i ricchi tunisini da quelli palestinesi che vivono nelle ville di Ramallah, i sudafricani neri post apartheid o gli europei dei quartieri chic. L’identità di classe è transnazionale e interetnica. O meglio, multietnica.

La storia: indipendenza, dittatura, rivoluzione

Habib Bourguiba, giurista tunisino, educato in Francia, fu la figura principale nella lotta per l’indipendenza, che iniziò nel 1938 e si concluse con successo nel 1956, con la proclamazione della Repubblica l’anno successivo.

Negli anni della sua presidenza, durata dal 25 luglio 1957 al 7 novembre 1987, quando venne destituito da Zine El-Abidine Ben Ali, la Tunisia attraversò profonde e lunghe fasi di cambiamento, di «modernizzazione» e «laicizzazione». Alle donne vennero concessi diritti che neanche in Francia ancora esistevano. Fu diffuso l’insegnamento – pubblico e gratuito -, promulgato il Codice dello Statuto personale, vietata la poligamia, ridotto il potere dei capi religiosi e abolito il doppio regime, coranico e civile, sia in ambito giudiziario sia scolastico.

Lo sviluppo politico, istituzionale, economico e culturale si arrestò, tuttavia, all’inizio degli anni ‘70, dando spazio, come in altri paesi arabi, alla corruzione, al nepotismo e al clientelismo, soprattutto negli apparati pubblici e statali. Nel frattempo, Bourguiba era diventato «presidente a vita», sul modello egiziano, e aveva trasformato la repubbica in una dittatura. Il 26 gennaio 1978, passato alla storia della Tunisia come il «Giovedì nero», il sindacato (Ugtt) organizzò uno sciopero che la polizia caricò con violenza: i morti furono diverse centinaia.

Gli anni ‘80 furono caratterizzati da una profonda crisi politica ed economica e, come successe anche in Egitto e in altri stati arabi maghrebini, il radicalismo islamico crebbe e si diffuse tra quegli strati della popolazione con minori strumenti economici e culturali, ma anche come forma di reazione politica a un regime autoritario e visto come filo occidentale e troppo laico.

Di questa situazione approfittarono il generale Zine El-Abidine Ben Ali e la sua cerchia di familiari e amici, che, nel 1987, deposero il vecchio e malato Bourguiba, con un «golpe medico». La Tunisia era dunque avviata a un lungo periodo di dispotismo e dittatura, con persecuzioni di oppositori e islamisti, che riempirono le prigioni. Il generale diede vita, infatti, a un regime poliziesco e corrotto, assegnando incarichi istituzionali a familiari e collaboratori, con periodiche elezioni-truffa che gli permisero di rimanere al potere fino a quando non fu costretto alla fuga dalla rivoluzione popolare del 2011.

Mohamed Bouazizi e l’inizio della rivolta

Nella «Rivoluzione dei Gelsomini», lo scrittore Tahar Ben Jalloun racconta il sacrificio del giovane venditore e l’inizio della rivolta tunisina che, il 14 gennaio del 2011, dopo 23 anni di dittatura, porterà la fuga in Arabia Saudita del corrotto Ben Ali e a Dubai del resto della sua famiglia. Mohamed Bouazizi diventa «eroe suo malgrado», non immaginando certo l’effetto domino che il suo gesto disperato avrebbe avuto per il suo paese e per diversi altri nel mondo arabo. (Bouazizi si diede fuoco il 17 dicembre 2010 per protestare contro la revoca della sua licenza da ambulante, da parte della autorità, dando inizio alla rivolta, ndr).

La Rivoluzione si scatena, dunque, con proteste e sommosse in numerose città: disoccupazione, carovita, mancanza di prospettive, corruzione endemica, repressione, mancanza di libertà, ecc., ne sono la causa principale.

È una rivolta dei giovani, delle classi popolari, medie e degli intellettuali, e, come nelle altre «primavere» che esploderanno da lì a poco in altri paesi arabi, è organizzata soprattutto via social network. I manifestanti si danno appuntamento attraverso le reti sociali e scendono in strada, incuranti delle cariche delle forze di polizia (l’esercito, invece, si rifiuta di intervenire contro la popolazione, evitando, così, un bagno di sangue e assumendo un ruolo importante nella caduta del regime). Immagini e video delle folle e della repressione vengono diffuse in tempo reale, scatenando altre manifestazioni e la simpatia e il sostegno internazionali. Diversi blogger e internauti vengono arrestati. Un caso noto è quello di Slim Amamou, che diverrà segretario di Stato per lo sport nel governo di transizione post rivoluzione.

Potremmo dire che la «primavera» tunisina è stata autentica, spontanea e popolare, probabilmente come quella egiziana. Su quelle libica e siriana ci sono, invece, dubbi, soprattutto sulla natura interna, autoctona, delle rivolte. Ne parlammo su MC, in un dossier del gennaio 20131, e ne scriveremo di nuovo nei prossimi numeri.

Con la fuga del clan Ben Ali, nel gennaio 2011, inizia dunque una nuova fase, significativa, nella società tunisina, che vede la massiccia partecipazione di studenti, giornalisti, blogger, attivisti vari alla vita politica, sociale e culturale. A ottobre 2011 si svolgono le elezioni, le prime libere, democratiche e multipartitiche, per l’Assemblea del popolo (il Parlamento tunisino): il partito islamista Ennahda si attesta al primo posto, e farà parte di una troika (coalizione parlamentare) insieme a Etakkatol (al-Takattul) e al Partito democratico progressista.

Nel gennaio del 2014 la nuova Costituzione entra in vigore e sancisce libertà ed uguaglianza, e «nuovi diritti» per tutti i cittadini.

Il 2013, tuttavia, è contrassegnato da omicidi politici perpetrati da salafiti e manifestazioni che chiederanno le dimissioni del governo. Il 6 febbraio viene assassinato l’avvocato del Fronte popolare tunisino, Shokri Bel’id: l’omicidio provoca proteste in tutta la Tunisia, e la richiesta delle dimissioni della Troika. Le sedi di Ennahda vengono attaccate in varie città. Il fratello di Bel’id accusa il partito islamista della responsabilità morale dell’omicidio, in quanto l’avvocato denunciava da mesi una forma di «violenza politica» del governo.

Il 25 luglio è assassinato il politico Mohammad Brahmi, leader del Movimento del popolo. Al funerale decine di migliaia di persone chiedono le dimissioni del governo. Entrambi gli uomini erano membri della coalizione di sinistra, all’opposizione presso l’Assemblea Nazionale, che chiede le dimissioni dell’esecutivo e nuove elezioni. Ma bisognerà aspettare fino alla fine del 2014.

Le elezioni presidenziali del 23 novembre e 21 dicembre 2014, segnano la vittoria di Beji Caid Essebsi, del partito Nida’a Tounes, che ottiene il 37,56% dei voti, mentre Ennahda retrocede al 27,79%.

Il 2015 e il 2016 sono contrassegnati da attacchi terroristici2 che lasciano il paese sconvolto e deprivato di un’importante fonte economica: il turismo.

La resistenza della casta

I giovani che abbiamo incontrato a Tunisi, a luglio del 2017, ci hanno parlato del desiderio di cambiamento profondo, di partecipazione attiva alle sorti del paese, ma anche di un sistema di corruzione politica radicata, nonostante la fine del regime: la vecchia casta e le sue tante ramificazioni non è stata spazzata via, ma ha continuato ad occupare i posti che contano e, soprattutto, a bloccare una vera riforma dello stato. Quindi, dal punto di vista politico, anche in Tunisia, la «primavera» è sfiorita subito, ed è tornata inverno, a causa di instabilità, crisi, vecchia classe dirigente ancora al potere, attentati, disoccupazione e frustrazione dei giovani, delusione e mancanza di prospettive, che porta molti, ancora, a emigrare verso l’Europa.

Abbiamo incontrato due attivisti che sono stati tra i testimoni diretti della «Rivoluzione dei Gelsomini»: Kais Zriba, giornalista tunisino, che lavora per Inkyfada3, un noto sito giornalistico di approfondimento, e la sua compagna, Debora Del Pistornia, operatrice di Amnesty International in Tunisia, e laureata in relazioni internazionali.

«La Primavera tunisina – ci hanno spiegato – si è articolata attraverso due processi paralleli: quello rivoluzionario e quello contro rivoluzionario. È in atto un dibattito sociale molto intenso e una negoziazione tra forze contrarie».

«Qual è l’identità tunisina? – hanno raccontato Kais e Debora -Africana? Mediterranea? Francese? La questione identitaria religiosa è stata strumentalizzata a livello politico – c’è una forte islamofobia, soprattutto tra le classi alto-borghesi – che fa perdere di vista le questioni principali».

Angela Lano
(quinta puntata – continua)

Note

(1) Angela Lano, E dopo la primavera arrivò l’inverno, dossier MC, gennaio-febbraio 2013.
(2) I principali attacchi terroristici risalgono al 26 giugno 2015, 4 novembre 2015 e 11 maggio 2016. La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e da estremisti libici con collegamenti al Daesh. La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile, dovuta a una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici. Le forze di sicurezza tunisine sono ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.
(3) Sito: http://inkyfada.com.


Arabi e Berberi

La Tunisia è uno degli stati del Maghreb, insieme a Marocco, Algeria e Libia, e ha un’estesa superficie (40%) occupata dal Sahara. La maggioranza dell’odierna popolazione tunisina – circa 12 milioni di persone – parla una variante dialettale dell’arabo, con influenze berbere e francesi. Esistono anche etnie berbere arabizzate, soprattutto nel Sud. Altre lingue parlate sono il francese, dialetti berberi e l’italiano.

I tunisini residenti all’estero sono circa 1 milione, la maggior parte dei quali in Europa, principalmente in Francia e in Italia. Oltre il 90% della popolazione è di religione musulmana, con una minoranza di cristiani ed ebrei.

I primi, storici, abitanti furono qabilas (tribù) berbere. Nell’814 a.C. i Fenici fondarono Cartagine. Nel VII secolo d.C., quando iniziò la penetrazione araba e dell’Islam, l’area era territorio bizantino, e la popolazione locale berbera oppose parecchia resistenza ai nuovi invasori, ponendo molti ostacoli alla conversione: furono necessarie ben sei spedizioni (647, 661, 670, 688, 695 e 698-702). Con il passaggio dei Berberi all’islam, questa provincia divenne l’Ifriqiya. È interessante notare il fatto che i Berberi adottarono l’ideologia religiosa islamica kharijta, quella, cioè, dei primi ribelli anti sistema dell’islam. Le popolazioni berbere e la loro fede kharijita costituirono una costante spina nel fianco di tutti gli invasori, dagli Arabi fino agli Ottomani, organizzando rivolte periodiche contro governi imposti dall’esterno.

Nel 1881 la Tunisia divenne un protettorato francese, ma sotto l’autorità formale di un Bey (signore delle tribù). L’Italia aveva una folta colonia di contadini, soprattutto siciliani, e la Francia, accapparrandosi il dominio su quella regione del Nordafrica, impedì eventuali pretese italiane. Nel 1956 ottenne l’indipendenza.

A.La.

 




È nato un bambino. Aiutiamolo a crescere


Quest’anno a Natale vi proponiamo di iniziare a seguire insieme a noi un bambino durante i suoi primi anni di vita. E di aiutarci a farlo nascere e crescere garantendogli sanità e istruzione.

Mi chiamo Emmanuel, sono nato il 25 dicembre del 2009. Abito in una casa sotto un grande albero di mango. Ma se volete venire a trovarmi questo non vi sarà di grande aiuto per farvi arrivare a casa mia: ci sono almeno dieci case, nel mio villaggio, che stanno sotto un grande albero di mango. Dovete chiedere di Emmanuel il figlio di Marie, quella che fa la cuoca nell’asilo dei missionari.

Dice mamma che quando sono nato l’asilo era chiuso per le vacanze e lei era ad aiutare papà nel campo di manioca. Ha sentito che stavo arrivando, allora papà l’ha fatta sedere sul portapacchi della bici e ha pedalato fino al posto dove nascono i bambini. È una casetta di mattoni, più grande della nostra e si chiama dispensario. Dentro ci sono due persone vestite di bianco: una è un infermiere, poi c’è una signora che aiuta le mamme a far nascere i bambini.

Queste cose non le so perché me le ricordo, ero troppo piccolo. Le so perché adesso mamma aspetta la mia sorellina e ogni tanto io e mio fratello piccolo la accompagniamo al dispensario. Dice mamma che deve andarci per fare la visita: vuol dire che quelle persone vestite di bianco le guardano la pancia, ascoltano il suo cuore e il suo respiro. Una volta lei aveva la febbre: le hanno punto un dito con un ago e le hanno preso una goccia di sangue. Le hanno detto che aveva la malaria, poi le hanno dato delle medicine e una zanzariera nuova: la nostra aveva troppi buchi e la mamma si era ammalata per quello.

Per mia sorella che sta per nascere siamo stati al dispensario già tre volte, ma dice mamma che quando aspettava mia sorella maggiore non ci andava mai: il dispensario non c’era ancora e mamma ha fatto tutto da sola. Beh, non proprio da sola: c’era una signora del villaggio che aiutava le mamme. C’è ancora, abita nella casa vicino alla strada grande, adesso è un po’ vecchia ma aiuta ancora i bambini a nascere. Però non tutti, dice mamma, più o meno uno sì e uno no@.

Poi i missionari, quelli dell’asilo dove lavora mamma, hanno aperto il dispensario. Ora molte mamme vanno a fare la visita, ma non sempre. Ad esempio, fra le nostre vicine di casa quattro aspettano un bambino. Una viene sempre con noi alla visita, due sono andate una volta sola. La quarta, invece, non ci va mai@.

Mamma ha provato a convincerla, ma lei niente: dice che suo marito non vuole, che ha bisogno nei campi, e poi lui non si fida di quelle persone vestite di bianco. Secondo me fa male a non fidarsi di loro: sono gentili, spesso ascoltano anche il mio cuore e il mio respiro. Poi mettono mio fratello dentro una specie di scatola di legno e gli avvolgono un braccialetto intorno a un braccio, scrivono dei numeri su un quaderno e a volte danno a mamma un sacchetto con dentro delle cose per lui.

Un giorno ho visto un bambino piccolissimo, con i capelli strani, un po’ gialli. Era con sua sorella più grande, non so dove fosse la sua mamma. Hanno messo pure lui nella scatola di legno, gli hanno avvolto il braccialetto intorno al braccio e lo hanno anche infilato con le gambe penzoloni in una specie di sacco bucato: era per pesarlo, ha detto l’infermiere. A sua sorella hanno dato un sacchetto molto più grande di quello che hanno dato a noi e l’infermiere ha parlato con lei per tanto tempo. Dice mamma che adesso quel bambino devono curarlo bene e che deve mangiare delle cose per non essere più così piccolo e per non avere più i capelli gialli.

Di bambini così all’asilo dove lavora mamma non ce ne sono: secondo me è perché lei è la cuoca più brava di tutte. Le cose che prepara fanno diventare grandi i bambini e non fanno venire i capelli gialli. Lo so, perché all’asilo sono andato anche io e ora ci va mio fratello. Adesso ha lui la mia tazza rossa, quella che usavo per bere, e ha anche il mio piatto verde, dove le maestre mi mettevano la pappetta e le altre cose da mangiare. È giusto così, la pappetta è per i bimbi piccoli, io ormai sono grande e non posso più andare all’asilo. Anche se mi piacevano le cose che facevo lì, specialmente disegnare e cantare insieme agli altri.

All’asilo ho anche imparato a contare, ma non so ancora contare tutto: una volta ho provato a contare quanti passi ci sono per andare alla mia scuola, ma sono molti più di venti! Mia sorella grande andava nella mia stessa scuola che sta in un villaggio più grosso. Lei dice che doveva camminare mezz’ora, ma io non so quanti passi sono mezz’ora.

Alla mattina io cammino fino alla scuola con due bambine e altri due bambini del mio villaggio. È bello perché mentre camminiamo ci facciamo degli scherzi e un po’ ci fermiamo a giocare. Per un po’ di tempo Irene, una delle due bambine, non è più venuta a scuola con noi. Dicono gli altri che la sua mamma è stata male di nuovo e che lei ha dovuto stare a casa per aiutarla a guardare i fratelli più piccoli. Il loro papà non c’è mai, guida un camion ed è sempre in viaggio@  e la mamma deve fare tutto da sola. Anche l’anno scorso sua mamma si era ammalata e ci è mancato poco che la mia amica perdesse l’anno.

Ora è tornata e io sono contento, perché è quella che mi sta più simpatica e anche perché è la più brava della classe. Dice mamma che tutti i bambini devono andare a scuola ma che per le bambine è tutto molto più difficile. Però da quest’anno lei ha un amico nuovo, un bambino che abita in un paese lontano, il paese – dice papà – da cui arriva quel missionario che viene spesso a trovarci in classe e si ferma a parlare con le maestre. Questo bambino e i suoi genitori ora regaleranno a Irene, e a tutti i bambini come lei, i quaderni, i libri, le matite, il grembiule e tante altre cose che servono per la scuola. Così la sua mamma potrà riposarsi un po’ di più e non si ammalerà tutti gli anni e Irene non dovrà più smettere di venire a scuola per aiutarla.

Una volta Irene mi ha detto che lei da grande vuole essere come la signora del dispensario che fa nascere i bambini e che io potrei diventare come l’infermiere. Mi sembra una buona idea, così potremo continuare a farci gli scherzi e fermarci a giocare, la mattina, mentre camminiamo insieme per andare al dispensario.

Emmanuel

Emmanuel è un bambino come tanti, anzi, è tanti bambini in uno. La sua storia è ispirata alle migliaia di storie che abbiamo ascoltato nei dispensari, nelle maternità, nei centri nutrizionali, negli asili e nelle scuole primarie che i nostri missionari gestiscono nel mondo. Abbiamo collocato il nostro piccolo narratore in un villaggio rurale africano, ma molte delle situazioni che vive sono condivise dai suoi coetanei nelle immense periferie delle grandi città o nelle terre di popoli indigeni o nelle zone aride dell’America Latina, e simili anche a quelle di altri popoli che vivono di pastorizia, come in Mongolia.

Quello che Emmanuel non ci ha raccontato – perché nessun bambino dovrebbe poter raccontare una cosa del genere – è che nei paesi meno sviluppati su mille bambini nati vivi quattro donne muoiono ancora per cause legate alla gravidanza (nell’area euro ne muoiono sei ogni centomila)@, mentre sessantotto bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Settantotto, considerando la sola Africa subsahariana. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, tredici su cento di queste morti sono causate dalla polmonite, nove dalla diarrea, sei da ferite varie e cinque dalla malaria.

Secondo i dati Unicef@ «tra il 1990 e il 2015, la malnutrizione cronica è calata da 255 milioni a 156 milioni di bambini, è però aumentata in Africa Occidentale e Centrale, passando da 19,9 milioni a 28,3 milioni.

Nel 2015, oltre 50 milioni di bambini sotto i 5 anni sono risultati affetti da malnutrizione acuta, di cui 17 milioni da malnutrizione acuta grave: la metà dei bambini vivevano in Asia meridionale ed un quarto in Africa subsahariana». Nello stesso anno «circa 92 milioni di bambini sotto i 5 anni risultavano sottopeso».

Nei paesi meno sviluppati solo un bambino su cinque va all’asilo. Eppure, sempre più studi confermano che i bambini che hanno ricevuto un’istruzione preprimaria ottengono migliori risultati negli studi successivi e sono più al riparo dal rischio di essere malnutriti grazie al sostegno nutrizionale che ricevono alla scuola materna. Dei bambini in età da scuola primaria, uno su cinque non è in classe@: si tratta di oltre sessanta milioni di bambini, di cui più della metà in Africa.

Chiara Giovetti




Verso il Natale. Rinascere da una nascita

Ho visto il volto della tua morte, Maria, sul tuo volto di donna in travaglio. Non una morte passiva, disperata. Una morte di scavo, d’innalzamento, di ampliamento. Gli spazi della tua vita sono deflagrati. Ti ho vista svuotarti, Maria. Per farlo abitare in te, più di prima, una volta messo fuori di te. Ho visto la tua vita combaciare con la tua identità mentre lo raccoglievi tra le tue mani senza l’affanno di capire.
Ho osservato come facevi spazio rimandando tutto l’incomprensibile alla comprensione del cuore. Il tuo volto era quello di una donna rinata.
Ho visto il volto della tua impotenza, Giuseppe, sul tuo volto di uomo in attesa. Non un’impotenza disperata. Un’impotenza fiduciosa, piena del vigore dell’abbandono che tendeva i tuoi muscoli, addolciva la tua voce, produceva quella presenza di te che non tradiva un troppo, nè un troppo poco. Ti ho visto lì, Giuseppe, con le tue mani protese per accoglierlo, semplicemente tu, affidato alle sue mani.
Ho osservato come buttavi fuori gli ingombri del tuo cuore per dare ascolto alla meraviglia. Il tuo volto era quello di un uomo rinato.
Ho visto il volto dell’indifferenza sui vostri volti di figli prediletti di Dio. Non insensibili, ma indifferenti. Ripieni di Lui, non cercate la gioia più della sofferenza, la ricchezza più della povertà, la gloria più dell’insignificanza. Indifferenti a tutto e a voi stessi perché tutto, da quel momento, è raccolto, assunto, ricapitolato in Lui.
I vostri volti erano quelli di creature amate dal Padre.

Con l’augurio di rinascere, anche noi, dalla sua nascita,
buon Avvento e buon Natale da amico.

Luca Lorusso




I Perdenti 30:

Ezechiele Ramin, martire della carità

Conosciuto familiarmente come «Lele» in Italia ed «Ezequiel» in Brasile, fu definito «martire della carità» da papa Giovanni Paolo II, dopo essere stato assassinato in Brasile a causa del suo impegno in favore dei piccoli agricoltori e degli indios Surui, comunità indigene situate nello stato di Rondônia (territorio parte della vasta area amazzonica brasiliana), e della loro lotta contro i latifondisti locali.

Ezechiele nasce a Padova nel 1953, in una famiglia di modeste condizioni economiche. È il quarto di sei figli. Dopo le scuole dell’obbligo, frequenta il liceo classico presso il Collegio Vescovile Barbarigo. In quel periodo incomincia a prendere coscienza degli squilibri e delle disuguaglianze presenti nel mondo. Ciò lo spinge fin dai primi anni della giovinezza ad aderire e collaborare con Mani Tese, associazione per la quale organizza diversi campi di lavoro per raccogliere fondi in sostegno di progetti di sviluppo e promozione umana.
Nel 1972 entra nell’Istituto dei missionari Comboniani, studia teologia prima allo studio teologico fiorentino di Firenze, poi a Venegono Inferiore (Va) al seminario arcivescovile di Milano e, infine, a Chicago negli Stati Uniti, dove si laurea alla Catholic Theological Union. Dopo aver fatto esperienze missionarie dapprima con un gruppo emarginato di nativi americani nel Sud Dakota e poi, per un anno, nella Bassa California in Messico, viene ordinato sacerdote il 28 settembre 1980 nella sua città natale.
Dopo l’ordinazione sacerdotale, è assegnato ad una parrocchia gestita dai comboniani a Napoli. Negli anni trascorsi in Campania partecipa in prima persona ai tragici avvenimenti del terremoto dell’Irpinia del 1980. In quei giorni si prodiga in maniera encomiabile a San Mango sul Calore in provincia di Avellino per assistere le vittime del sisma.
Nel 1981 ritorna a Napoli, dove organizza una delle prime manifestazioni non violente contro la Camorra. L’anno successivo è trasferito a Troia in provincia di Foggia dove ricopre il ruolo di animatore vocazionale per le Puglie. Nel gennaio 1984 i superiori lo inviano in Brasile, dove raggiunge la comunità dei padri Comboniani che operano in Rondônia. Dopo alcuni mesi di studio della lingua portoghese viene inviato a Cacoal, sperduta cittadina dell’Amazzonia. Preoccupato della situazione che incontrerà accetta il nuovo incarico con le parole: «Se Cristo ha bisogno di me, come posso rifiutare?».

Per la nostra chiacchierata partiamo proprio da qui: la pastorale della Chiesa brasiliana aveva bisogno di una stabile presenza missionaria nel vivo della foresta amazzonica e tu – pur essendo l’ultimo arrivato – non ti tirasti indietro…

A dire il vero un po’ di paura l’avevo, ma già che ero in ballo… e fidandomi completamente del Signore, accettai di essere inviato a Cacoal dove tra l’altro operavano da tempo altri missionari comboniani.

Che situazione incontrasti in quella realtà?

Incontrai una situazione complessa e difficile. I molti piccoli agricoltori presenti sul territorio erano oppressi, con mezzi sia legali che illegali, dai latifondisti locali. Inoltre la tribù indigena dei Surui era stata da poco costretta a diventare sedentaria dal governo brasiliano che aveva forzatamente assegnato loro della terra da coltivare, e questo nuovo modo di vivere, al quale gli indios non erano stati preparati, stava iniziando a creare dei problemi.

Tra le tue letture giovanili – se non sbaglio – un autore ti aveva particolarmente attratto: Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante che aveva militato nella resistenza antihitleriana. La sua testimonianza divenne un punto fermo della tua vita spirituale e di conseguenza nelle tue scelte pastorali…

Infatti le sue lettere dalla prigione, raccolte nel libro autobiografico «Resistenza e resa», erano state a lungo sul mio tavolino quando ero studente di teologia a Firenze. La categoria bonhoefferiana dell’«esistere-per-gli-altri» aveva orientato fin da allora tutte le mie scelte e quindi la prospettiva di una morte violenta era ben presente tra le possibilità del mio percorso esistenziale.

Ispirato quindi dagli insegnamenti del tuo amato maestro ti esponesti in prima persona nella lotta per la giustizia di quelle genti, tentando di persuaderli a intraprendere la strada della protesta pacifica piuttosto che quella della lotta armata, o sbaglio?

Dirò di più, ero fiero di servire una Chiesa che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, che promuoveva le comunità di base e si riconosceva nella Teologia della Liberazione. Il mondo latinoamericano che mi affascinava da sempre, mi aveva completamente conquistato. Mi sentivo in sintonia con le sue angustie e le sue grandi speranze.

Dì la verità. Più ti inserivi in quella realtà, più capivi che dovevi schierarti apertamente a fianco di quelle comunità che caratterizzavano la Chiesa brasiliana di quegli anni…

Il cammino me lo avevano indicato le Comunità Ecclesiali di Base, che promuovevano la crescita integrale della persona, i senza terra che lottavano per il riconoscimento dei propri diritti e gli indios che resistevano all’invasione del loro habitat indispensabile per sopravvivere secondo la loro cultura.

Si può dire che avevi fatto tue le parole di Bonhoeffer: «Solo chi grida per salvare la vita agli ebrei può cantare il gregoriano». Solo chi alza la sua voce contro l’ingiustizia, può annunciare il Vangelo.

Denunciando le ingiustizie che si consumavano a ripetizione sulle popolazioni indigene ero consapevole di mettere a rischio la mia vita: sapevo bene che non si può difendere i poveri in Amazzonia senza avere problemi, ma capivo anche che non potevo non difenderli, avrei tradito la mia vocazione sacerdotale e missionaria.

Il 24 luglio 1985 padre Ramin, insieme a un sindacalista locale, partecipò a un incontro nella Fazenda Catuva ad Aripuanã nel vicino Mato Grosso con l’intenzione di persuadere i piccoli agricoltori lì impiegati a non prendere le armi contro i latifondisti. Al ritorno, fu vittima di un’imboscata da parte di sette sicari armati di pistola, che lo colpirono con oltre 50 proiettili. Prima di morire, riuscì a sussurrare le parole «Vi perdono». Poiché la salma di padre Ramin non poté essere recuperata dai suoi confratelli prima di 24 ore dopo l’omicidio, un gruppo di indios Surui vegliarono su di essa fino al loro arrivo. Alcuni giorni dopo il suo omicidio, papa Giovanni Paolo II definì padre Ezechiele Ramin un «martire della carità».
I missionari comboniani stanno promuovendo il riconoscimento ufficiale di Padre Ezechiele come martire (e quindi come Beato e, possibilmente, come Santo) da parte della Chiesa cattolica, anche se la comunità comboniana in Brasile sembra riluttante in quanto «per loro e per la gente che lo conosceva, padre Lele Ramin è già un santo».
Nel 1988 due degli uomini che uccisero padre Ramin, Deuzelio Goncalves Fraga e Altamiro Flauzino, furono condannati rispettivamente a 24 e 25 anni di reclusione dal tribunale di Cuiabá. Gli altri sicari non sono stati ancora identificati.
Nell’aprile 2016 è stata aperta la rogatoria presso la diocesi di Padova per la sua beatificazione e canonizzazione.

Don Mario Bandera




Galeano: l’ironia e l’impegno civile

 


Giornalista e scrittore, Galeano è riconosciuto come uno tra i maggiori pensatori latinoamericani dell’ultimo secolo. Alfiere dell’America Latina dei popoli ha spesso denunciato l’imperialismo nordamericano. Ha lasciato molti scritti e alcuni testi fondamentali e sempre attuali per capire il continente.

Quando, come succede in questo caso, mi tocca raccontare di un vecchio amico scomparso che mi ha regalato il piacere della sua parola, come Eduardo Galeano, mi viene difficile trovare la misura e il tono giusti per descriverlo in tutte le sue sfaccettature. Tutto suona banale.
Eduardo è stato per anni il saggista più acuto e onesto nell’illustrare il fascino del continente dove era nato e cresciuto, quello a Sud del Texas, ma anche il narratore più sarcastico sulle esagerazioni che l’attuale mondo isterico ci sbatte ogni mattino in faccia, sia in America Latina sia nel resto del mondo.
Così ora mi commuove pensare all’attualità dei suoi ironici discorsi, specie pensando a quante parole stonate sono state spese dopo l’incontro fra Obama e Raul Castro (17 dicembre 2014) che avrebbe dovuto finalmente chiudere un’assurda «guerra fredda», mai dichiarata e mai terminata, fra l’America Latina e gli Stati Uniti d’America. Una guerra fredda che aveva costretto Obama, il presidente succeduto a Bush jr, a mettere da parte per un po’ la politica di ingerenza nordamericana nella terra scoperta da Cristoforo Colombo.
Galeano, qualche anno fa, polemizzando con Mario Vargas Llosa per la sua accusa alla maggior parte degli scrittori latinoamericani di essere troppo condiscendenti verso la rivoluzione cubana, è stato franco: «Vargas Llosa vede sorprendentemente l’America Latina come se fosse un viaggiatore nato in una contea inglese e non nel Perù del sottosviluppo e degli orrori. Amo molto Mario, uno dei più grandi scrittori viventi, per questo mi dispiace stia facendo una specie di gara con Octavio Paz (Nobel per la Letteratura nel 1990) per vedere chi corre più a destra». E poi, entrando nella contesa: «Io sono stato spesso critico con Cuba, ma lo faccio con amore e rispetto, non con odio e rancore, come sembra succedere a molti che, in altri tempi, si atteggiavano a rivoluzionari, e oggi vogliono cancellare ogni traccia del proprio passato a costo di ignorare che, se in questo continente la metà della gente vive sotto la soglia di povertà, è il libero mercato, quello che ora chiamiamo il neoliberismo, a fallire miseramente ancora prima del socialismo».
Certo Eduardo non le mandava a dire e per questo sono orgoglioso di aver lavorato 10 anni con lui per fare uscire 7 delle sue opere in Italia, dove era stata pubblicata, fino a quel momento, solo la trilogia di «Memorie del fuoco».

Eduardo Galeano  AFP PHOTO/PABLO PORCIUNCULA / AFP PHOTO / AFP FILES / PABLO PORCIUNCULA

Nel 1971 quando apparve il suo libro «Le vene aperte dell’America Latina», fu per molti una vera e propria folgorazione, tanto che Heinrich Boll, scrittore tedesco Premio Nobel per la Letteratura 1972, affermò: «Negli ultimi anni ho letto poche cose che mi abbiano commosso così tanto».
Galeano, in un libro-vangelo di un continente allora di moda, aveva inventato, a trentuno anni, un metodo per raccontare la storia partendo apparentemente dalla piccola quotidianità.
Un reportage, un saggio, una pittura murale, un’opera di artigianato mirabile, terminato di scrivere in esilio, lontano dal suo Uruguay, dopo che aveva dovuto lasciare il suo paese e poi l’Argentina per sfuggire alla ferocia di quelle dittature.
Le vene aperte, proposto per primo da Feltrinelli e poi tradotto in 18 lingue, ha avuto oltre 100 edizioni solo in spagnolo. È un’opera tuttora di straordinaria attualità che denuncia, analizza e spiega attraverso episodi apparentemente senza importanza e riferimenti storici spesso trascurati, il processo di spoliazione del continente latinoamericano, prima da parte dei conquistadores, poi delle potenze coloniali e infine degli Stati Uniti.
Forse è per questa incisività che nel 2009, al summit delle Americhe, a Trinidad e Tobago, l’ex presidente venezuelano Hugo Chávez non poté fare a meno di regalarlo a Barack Obama dicendogli, con la solita ironia: «Presidente, se vuoi capire qualcosa di America Latina, leggiti questo libro».
Abbiamo il dubbio che il presidente Barack Obama non abbia avuto il tempo di consultarlo. I rapporti con Cuba, il Venezuela e l’America Latina in generale non sono migliorati. E ora, con l’avvento di Trump, le speranze di cambiamento sono definitivamente tramontate.

Hugo Chavez offre a Obama il libro di Edoardo galeano «Le vene aperte dell’America Latina». Trinidad,  18/04/2009. AFP PHOTO/Jim WATSON / AFP PHOTO / JIM WATSON

I ricordi di un’amicizia sono tanti. Una volta ci ritrovammo a Buenos Aires per un omaggio alla memoria di Osvaldo Soriano. C’era anche la vedova Catherine Brucher. Tutti eravamo emozionati e per la prima volta anche il severo Eduardo, che aveva un senso dell’amicizia fortissimo, si asciugò gli occhi.
Come tutti i latinoamericani, Galeano adorava il calcio tanto che non obiettò nulla quando io gli dissi che la casa editrice avrebbe fatto uscire Le vene aperte in concomitanza con El fútbol a sol y sombra (tradotto in Italia con il titolo Splendori e miserie del gioco del calcio). «Sarà un successo», aveva detto, e ha avuto ragione.
Una volta si accorse che c’era una finale di Coppa Italia all’Olimpico: Roma – Inter. Mi chiese di andare con lui allo stadio. Ci avevano consigliato di uscire 5 minuti prima per evitare l’ingorgo. La Roma vinse 2 a 1, ma dovetti penare molto per trascinarlo via una manciata di secondi prima della fine.
Aveva anche il culto dell’impegno civile. Tanto che lui, così schivo nella vita, aveva accettato una volta perfino di partecipare con altri intellettuali al controllo delle elezioni in Venezuela, stravinte da Chávez. Si era adirato molto quando aveva letto le invenzioni che illustravano ogni giorno gli articoli dei cronisti del mondo occidentale, pur smentiti nel loro patetico tentativo di svalutare la credibilità delle elezioni stesse. D’altronde non c’è da stupirsi. Quei cronisti, infatti, sono gli stessi che ancora, quattro anni dopo la morte di Chávez, tentano di imporre le strategie informative da golpe mediatico nell’epoca di Nicolás Maduro. Tutto questo malgrado il risultato indiscutibile delle recenti elezioni sulla nuova Costituente, perse in modo clamoroso dall’opposizione, nonostante il sostegno delle varie agenzie dei servizi di intelligence nordamericani.
Eduardo amava la nuova America Latina progressista e nelle sue note non lo nascondeva, come non nascondeva la simpatia per il Subcomandante Marcos e l’Ezln (Esercito zapatista di liberazione nazionale) da cui andò un paio di volte.

Ha scritto di lui Isabel Allende nel prologo all’ennesima edizione di Le vene aperte dell’America Latina (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer): «Galeano ha percorso l’America Latina ascoltando anche la voce dei reietti oltre che quella di leader e intellettuali. Ha vissuto con indios, contadini, guerriglieri, soldati, artisti e fuorilegge; ha parlato a presidenti, tiranni, martiri, preti, eroi, banditi, madri disperate, pazienti e prostitute. Ha patito le febbri tropicali, ha conosciuto la giungla e ha respinto anche un infarto. È stato perseguitato sia da regimi repressivi, sia da terroristi fanatici. Ha combattuto le dittature militari e tutte le forme di brutalità e sfruttamento correndo rischi impensabili in difesa dei diritti umani. Non ho mai incontrato nessuno che abbia avuto una conoscenza di prima mano dell’America Latina pari alla sua, che si adopera per raccontare al mondo i sogni e le disillusioni, le speranze e gli insuccessi della sua gente».
Ci manca molto.

Gianni Minà