Germania e la questione migratoria


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Dal nazionalismo all’accoglienza.
Germania: ieri, oggi, domani

«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»).
Le sfide dell’immigrazione.

Il lungo percorso del dialogo.
Immigrazione e fedi religiose in Germania.

Schede.
Dati demografici

Le Chiese.
Alcune date storiche.

 


Dal nazionalismo all’accoglienza

Germania: ieri, oggi, domani

Dopo gli orrori nazisti, la Germania è cambiata in maniera profonda e sorprendente. Potenza economica e politica, è la seconda destinazione a livello mondiale per le migrazioni, subito dopo gli Stati Uniti. Nonostante alcune tensioni e la presenza di movimenti xenofobi («Alternativa per la Germania» e «Pegida»), la Germania di oggi è un paese aperto, plurale e inclusivo. Anche se ora occorre attendere le (inevitabili) conseguenze del voto del 24 settembre 2017.

La Germania è il paese europeo dove l’ideologia nazionalista, portata alle sue più estreme conseguenze, ha messo in atto i crimini più feroci contro l’umanità. Il mito della razza ariana propugnato dai nazisti, quello di una presunta purezza etnica da conseguire e preservare a ogni costo, l’eugenetica e lo sterminio sistematico degli ebrei e di altre minoranze, rappresentano un’onta di infamia che, volenti o nolenti, sarà legato ancora a lungo al nome di questo paese.

Questo anche in ragione del fatto che, a dispetto di casi straordinari ma episodici come quelli di un Dietrich Bonhoeffer e degli studenti della Rosa Bianca, l’opposizione interna al Reich hitleriano e alla messa in opera della soluzione finale ha riguardato solo un numero assai esiguo di individui, incapaci di impensierire in alcun modo la colossale macchina della morte messa in piedi dal regime nazista e dalla sua propaganda. A fronte di ciò, come scriveva nella sua «Storia della Shoah» lo storico Georges Bensoussan, furono un milione i tedeschi coinvolti direttamente o indirettamente nello sterminio degli ebrei, fra campi di concentramento ed esecuzioni di massa delle Einsatzgruppen (le famigerate «unità operative» guidate da Reinhard Heydrich), soprattutto nei territori dell’Europa orientale, dove trovarono in molti casi terreno fertile anche fra le popolazioni locali. Assai più numerosi, inevitabilmente, i tedeschi che sapevano, oppure fingevano di non sapere, pur avendo avuto di fronte a sé segni inequivocabili e avvisaglie chiarissime rispetto a quanto avveniva.

Ciononostante, chi conosce bene questo paese dall’interno, non può che guardare con sincera ammirazione al cambiamento sociale e culturale avvenuto nella Repubblica Federale dal dopoguerra ad oggi. Un mutamento che ha investito il mondo della politica e della cultura, nonché le coscienze di milioni di tedeschi che prima hanno riconosciuto gli errori e orrori compiuti nel passato e poi hanno tentato di cambiare se stessi e il paese senza reticenze e compromessi. Il risultato che abbiamo di fronte a noi è per molti versi sorprendente. La Germania odierna è un paese aperto, plurale e inclusivo, a dispetto delle sfide della convivenza e dell’accoglienza, e delle inevitabili tensioni che ne sono sorte negli ultimi anni.

Non solo: forse più di ogni altro paese, la Germania di oggi ambisce a rappresentare un baluardo della tolleranza nel mondo, in anni – quelli che stiamo vivendo – dove le campagne elettorali europee (e non solo: basti pensare a Trump negli?Stati Uniti) paiono segnate in modo sempre più netto da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che si fanno avanti in modo rapido e spaventoso anche nei nostri media e nelle coscienze di molti di noi. Ed ecco allora che quella che è stata senza dubbio una tragedia e un’onta, quella dei crimini compiuti dai nazisti, si è trasformata per molti versi, inaspettatamente, anche in una risorsa e in un antidoto sicuro contro l’odio sempre più imperante nei confronti dei rifugiati e degli stranieri.

La Germania dopo il 24 settembre 2017

Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anche in Germania si è fatta avanti una destra populista e xenofoba, quella del partito «Alternativa per la Germania» (Alternative für Deutschland, Afd). Nelle elezioni del 24 settembre l’Afd ha raccolto il 12,6 per cento dei voti e ben 94 seggi nel Bundestag. Un partito, questo, che come il movimento anti-islamico di Pegida (Patriotische Europaeer Gegen die Islamisierung des Abendlandes, Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente), ad esso per molti versi associabile, raccoglie però consensi in modo assai più marcato nell’ex Germania orientale, dove gli spettri del totalitarismo comunista continuano a pesare. Ma non si tratta, purtroppo, in molti casi, solo di slogan e vuote parole. Crescono di frequenza anche le aggressioni, gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti del diverso, poco importa se si tratti di un rifugiato, di un musulmano o di un ebreo, tutti ugualmente colpiti negli ultimi anni. Eppure, considerando le sfide che il paese si è trovato ad affrontare soprattutto dal 2015 in poi, non si può che trarre un bilancio positivo, con una punta di invidia nei confronti di una macchina statale che è stata capace di reggere all’urto dei tempi, senza cercare facili capri espiatori o piegarsi, per mero interesse politico, agli slogan razzisti anche da noi fin troppo noti.

La crisi dei rifugiati (2015) e gli attentati (2016)

Dicevamo poc’anzi dello spartiacque epocale rappresentato per la Germania dal 2015. Ebbene, proprio da qui si deve partire per comprendere la situazione attuale: nel 2015 si era nel pieno della crisi dei rifugiati, quando erano in tanti – o, meglio, la quasi totalità – i giornalisti nostrani che, dal caldo delle loro poltrone a Roma e a Milano, davano politicamente per spacciata la Merkel, «colpevole», secondo molti di loro, di aver spinto troppo avanti la sua politica dell’accoglienza, nota come Willkommenskultur in tedesco. Le cifre degli arrivi, a ben guardare, sono davvero impressionanti, anche se oggi sappiamo essere un po’ inferiori a quelle gonfiate e diffuse dai media in quei mesi.

Sono stati 865.374 gli individui entrati illegalmente in Germania nel 2015, secondo i dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca lo scorso anno. Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225). Tutti, com’è facile notare, fuggiti da luoghi segnati da terrorismo, guerre o dittature feroci. Notevoli anche i dati di comparazione rispetto all’anno precedente. Dal 2014 al 2015 l’immigrazione dall’Afghanistan alla Germania è aumentata del 877%, dall’Iran del 1.005% e dall’Iraq (dove era in piena espansione lo Stato islamico) addirittura del 2.155%. Dati che rendono bene l’entità di un fenomeno che ha cambiato il volto del paese, ponendolo di fronte anche a una sfida politica e culturale di vaste proporzioni.

In Germania il 2015 non sarà ricordato solo per la crisi dei rifugiati. Anche il terrorismo, da molti anni assente, ha fatto il suo macabro ritorno nel paese provocando un mutamento dello scenario politico e della sicurezza altrettanto importante. Ricordiamo, su tutti, gli attacchi dell’estate di quell’anno, da Ansbach a Würzburg, entrambi rivendicati dall’Isis. L’anno successivo, invece, è stato funestato da episodi di ancor più vasta portata: la strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, dove hanno perso la vita 10 persone, e l’attacco terroristico al mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre, costato 12 vittime. Non si è trattato in tutti i casi di attentati a sfondo religioso. Tutti, invece, i protagonisti di questi macabri eventi erano, almeno per origine, stranieri. Ebbene, il clima che si respirava nelle strade, il dibattito sui media e su internet di quei giorni, non è minimamente paragonabile all’odio e alla tensione che hanno segnato la brutta estate italiana che ci siamo appena lasciati alle spalle.

L’odio non fa breccia

Quali sono le ragioni di questa differenza, che sempre più si configura a livello europeo come un’eccezione? Perché l’odio non fa breccia che in modo marginale nella Germania odierna? La prima risposta, come detto, va ricercata forse nella storia. La Germania risorta dalle macerie del Terzo Reich, sopravvissuta al terrorismo della Raf e agli anni di piombo, ha in sé più di altre nazioni gli anticorpi per resistere alla spirale cieca della violenza islamista e del razzismo. A Berlino, a Dresda, a Amburgo, a Stoccarda – città che solo pochi decenni fa erano un cumulo di macerie – sono ancora in pochi ad essere disposti a invertire l’orologio della storia, a subire il fascino del sangue e ad auspicare un ritorno ai proclami di guerra e alle crociate.

Ma non basta. Un altro punto fondamentale da ricordare, a mio avviso, anche in termini comparativi rispetto all’Italia e ad altri paesi dell’Europa orientale, dove le sirene dell’intolleranza trovano oggi orecchie più recettive, è che qui l’integrazione di milioni di cittadini di origine straniera è ormai un fatto compiuto da decenni, almeno nelle grandi città del Sud e dell’Ovest. Là dove la presenza è più recente, come nell’ex Ddr, servirà inevitabilmente più tempo, come d’altronde da noi in Italia. Non dimentichiamo infine che ad Est, punto da non trascurare, i dati sulla povertà e sull’emarginazione sociale sono ancora assai più alti che in altre parti del paese, con il solito, triste profilarsi di una guerra fra poveri.

Le paure dei tedeschi: una classifica

Dati alla mano vediamo com’è articolata la società tedesca di oggi, dove la componente legata all’immigrazione, come detto, è in continua crescita. Sono 18,6 milioni i residenti di origine straniera in Germania, pari a oltre un quinto della popolazione totale, che ammonta a 81 milioni di individui. Si è avuto, a tal proposito, un aumento record nell’ultimo anno, il 2016: +8.5% secondo i dati dell’Ufficio statistico federale, ovvero il più alto in oltre un decennio. Un fenomeno ancor più marcato nei grossi centri urbani dove le opportunità di impiego sono assai maggiori. Prendiamo ad esempio Stoccarda, dove l’anno prima, nel 2015 – e sono gli ultimi dati disponibili – il 42,2% dei residenti era di origine straniera, con punte del 58,2% per i minorenni. Numeri importanti, tali da mutare profondamente il volto di una città, dalle scuole fino al lavoro e al tempo libero. Eppure, anche a livello di percezione diffusa, le città sono sicure, assai più che in Italia, e l’immigrazione non risulta oggi al primo posto fra le preoccupazioni dei tedeschi. Il cambiamento climatico (71%) e il timore di nuove guerre (65%) la fanno da padrona, secondo una recente ricerca riportata sul quotidiano Westdeutsche Allgemeine Zeitung, staccando la paura del terrorismo (63%) e, di molto appunto, quella degli immigrati (45%).

Un mosaico multiculturale (con tanti cittadini comunitari)

Ma vediamo ora quali sono, fra i cittadini stranieri residenti in Germania, i gruppi nazionali più rappresentati all’interno del mosaico multiculturale tedesco. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio statistico federale, primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece noi italiani, 611mila (con una crescita di 15 mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni. Interessante notare come dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea sia più che triplicato. In un solo anno, il 2016 appunto, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in terra tedesca. Non sono quindi solo i cittadini cosiddetti extracomunitari a immigrare. Una Germania che rappresenta la seconda destinazione a livello mondiale per l’immigrazione, seconda solo agli Stati Uniti, stando a una ricerca dell’Oecd pubblicata nel 2014.

Numeri a parte, se visto dall’interno, il melting pot in salsa tedesca sembra funzionare piuttosto bene. Se forte è l’impegno delle scuole e delle istituzioni religiose nel fronteggiare la diffidenza nei confronti dell’altro e il razzismo, è anche il mondo del lavoro a fare la differenza. Sono sempre di più le aziende che scelgono come lingua di lavoro l’inglese nei loro uffici, ed è grande la richiesta di manodopera in alcuni Land, come quelli del Sud, dove si è raggiunta quasi la piena occupazione. All’ingresso del quartier generale della Mercedes, che ha sede qui a Stoccarda, e dove si usa sempre di più la lingua di Shakespeare per lavorare, si legge in un banner: «Qui non c’è posto per il razzismo». Certo, ancora una volta, non è tutto oro quello che luccica, e non vi è dubbio che siano in molti a sfruttare i nuovi arrivati, cui vengono proposti a volte contratti da precari e con retribuzioni sempre più basse, con il risultato che le diseguaglianze avanzano rapidamente, creando sacche di povertà sinora sconosciute soprattutto in provincia, nelle periferie e nelle città del Nord e dell’Est del paese.

Non si può tuttavia trascurare, ed è il dato di gran lunga più incoraggiante, come la risposta più efficace alla crisi dei rifugiati e all’insorgere del razzismo sia giunta proprio dalla società civile tedesca, che ha dato il suo meglio mobilitandosi dopo il 2015. In Germania, le persone in vario modo impegnate nel volontariato sono 31 milioni (pari al 38% della popolazione), in Italia invece – per fare un raffronto – solo 6 milioni (pari al 10%). Una differenza che si spiega anche con la grande generosità dimostrata dalle associazioni, dalle chiese e da tanti semplici cittadini che hanno sentito il bisogno di impegnarsi in prima persona per fronteggiare quella che forse è la più grande sfida del nostro tempo: la sfida dell’accoglienza.

Simone Zoppellaro


«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»)

le sfide dell’immigrazione

Si dice che l’immigrazione rappresenti per la Germania solo un’occasione per avere manodopera a basso costo. Questo probabilmente valeva ai tempi dei Gastarbeiter («lavoratori ospiti»). Oggi la situazione è diversa. Anche se i problemi non mancano. Come l’esistenza di profonde diseguaglianze e la scarsa mobilità sociale. Senza dimenticare la questione della vasta minoranza turca, divisa su Erdogan, il dittatore di Ankara su cui la stessa Europa rimane incerta.

Siamo alla fine di dicembre del 2015, in Germania, nel pieno della crisi dei rifugiati. Nel suo discorso di capodanno, il verde Winfried Kretschmann, governatore del terzo Land più popoloso della Federazione tedesca, quello del Baden-Württemberg, nell’affrontare il tema spinoso e dibattuto dell’immigrazione rievoca la sua esperienza familiare. I suoi genitori, racconta nel messaggio ai suoi concittadini, furono costretti a lasciare la Prussia orientale, ovvero l’odierna Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale, e giunsero in Germania come profughi fra grandi stenti e perdendo anche un figlio, un fratello maggiore del governatore, allora appena nato. Kretschmann, politico navigato e fra i maggiori esponenti del suo partito a livello nazionale, ben lungi dal cadere nella mera aneddotica, sapeva di toccare con le sue parole una corda profonda per molti tedeschi. Come a dire: i drammi di ieri e di oggi, in fondo, non sono così diversi.

Si stima che furono fra i 12 e i 14 milioni i tedeschi espulsi o fuggiti nell’immediato dopoguerra dai paesi dell’Europa orientale occupati dal Terzo Reich. La larga parte di loro si rifugiò in Germania, ma furono in molti a cercare fortuna negli Stati Uniti, in Australia, e in altri paesi. Un dramma di proporzioni bibliche, inevitabilmente oscurato ieri come oggi dal collasso militare tedesco e dai crimini compiuti dal nazismo, ma non per questo meno doloroso. In?Germania sono tantissime le persone che hanno ancora nei ricordi familiari dei loro genitori o nonni episodi come questi. Un dramma che si è riproposto con l’arrivo a Ovest di circa 4 milioni di profughi provenienti dalla Ddr, l’ex Germania comunista, nel corso della sua storia quarantennale.

Questi due eventi insieme, che investirono nell’arco di pochi decenni – come si desume dalle cifre appena riportate – una fetta enorme della popolazione tedesca, contribuiscono a dare oggi una connotazione diversa, meno astratta, più personale e simpatetica, al fenomeno migratorio, e in particolare nei confronti di quanti – e sono tantissimi – fuggono da guerre e persecuzioni, rischiando spesso la vita. E non sarà un caso, allora, come ci ha raccontato in un’intervista la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, che lo stato del Baden-Württemberg sia uno dei pochi luoghi al mondo ad aver fornito rifugio e assistenza a circa duemila fra donne e bambini appartenenti alla minoranza degli yazidi, in fuga dalla persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico. Una decisione, come ci ha spiegato la stessa Murad, dovuta a un interesse personale del già ricordato Kretschmann, cattolico praticante e figlio di profughi di guerra, che ha preso a cuore questa causa dimenticata da tutti. Non è difficile immaginare che per lui, come per tanti tedeschi, storie come questa risultino fin troppo famigliari, difficili da accantonare con una scrollata di spalle o con uno sbadiglio.

Neuer Markt, Hansestadt Rostock

Il precedente storico dei «Gastarbeiter»

Il peso della storia, di una storia tragica e ingombrante, ancora una volta, fa la differenza. Il movimento per la pace, quello per il disarmo e contro la vendita di armi (specie se alle dittature), le manifestazioni di piazza e le attività organizzate dal basso, dalla società civile, per l’accoglienza e per contrastare il razzismo, sono oggi realtà assai più diffuse in Germania che in molti paesi europei. Uno fiorire straordinario che parte dalle parrocchie, dalle feste di quartiere, dalle scuole e da quella galassia sconfinata che è rappresentata dall’associazionismo tedesco. Sbaglia, affidandosi spesso a un ottuso cinismo, chi afferma che l’immigrazione per la Germania rappresenti solo un’occasione per avere manodopera a basso costo per le imprese. Semmai si dovrebbe sottolineare, cosa spesso ignorata da molti, come l’afflusso di profughi e immigrati negli ultimi anni abbia creato – parallelo all’impegno del volontariato – anche moltissimi nuovi posti di lavoro per i tedeschi, dall’insegnamento della lingua, al campo sociale, fino alla mediazione culturale.

Ammirevole anche la qualità dei servizi offerti da centri informativi e uffici per l’immigrazione, dove il personale risulta disponibile, ben attrezzato a interagire con persone di diversa cultura, e parla diverse lingue. Un altro mondo, rispetto alle esperienze spesso frustranti e umilianti che devono subire molti stranieri in Italia o nelle nostre rappresentanze all’estero, dove il servizio risulta in tanti, troppi casi davvero scadente, quando non lesivo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Certo, a nostra parziale discolpa bisogna sempre ricordare che il fenomeno migratorio in Germania ha radici più profonde rispetto a quelle del nostro paese, dove l’esperienza è ancora acerba e limitata. Radici che risalgono agli anni Cinquanta e al boom economico di una Germania federale risorta delle ceneri morali e materiali della caduta del nazismo.

Li chiamavano Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», con un eufemismo neanche troppo velato che stava a significare che sarebbe stato meglio se, una volta compiuto il lavoro, se ne fossero tornati al loro paese. Ma ciò, come ben noto, nella larga parte dei casi non è avvenuto, e furono anzi in molti a portare con loro in Germania partenti e amici. Fra i primi ad arrivare come manodopera per l’industria tedesca ci siamo proprio noi italiani, insieme a greci, turchi, marocchini e portoghesi. Si trattava in molti casi di accordi bilaterali stretti fra l’allora capitale Bonn e i governi di questi paesi. Dopo l’erezione del muro di Berlino, nel 1961, che ebbe l’effetto di far diminuire i profughi provenienti dalla Germania orientale, aumentò ulteriormente la richiesta di manodopera e, di conseguenza, l’arrivo di immigrati necessari soprattutto alla crescita dell’industria.

L’altra faccia della medaglia: grandi diseguaglianze, scarsa mobilità sociale

Storie di sacrifici e di fatica, di umiliazioni, riscatti o fallimenti, come lo sono sempre quelle legate all’immigrazione, in qualsivoglia tempo e paese. Storie difficili, che solo in rari casi portano a un’ascesa sociale nelle file della borghesia per la generazione successiva. Un divario sociale, culturale ed economico che, inevitabilmente, continua a pesare anche negli immigrati di seconda e terza generazione, ovvero nei figli e nei nipoti degli operai arrivati in Germania nel dopoguerra e negli anni del boom. Come dichiarato in una recente intervista dalla cancelliera Merkel: «C’è ancora un divario significativo tra i giovani che hanno una storia d’immigrazione e i giovani che non ce l’hanno». Certo, esistono eccezioni importanti in tal senso, e sono sempre più frequenti. Ne ricordiamo due, brevemente: il leader del partito verde Cem Özdemir, di origine turca e circassa (regione storica del Caucaso, ndr), che è fra i protagonisti indiscussi della scena politica odierna; o, ancora, il nostro Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit, uno dei più prestigiosi del paese, cresciuto in Italia fino all’età di undici anni.

Eppure, come sottolineato anche dalla cancelliera, tanto resta ancora da fare. La Germania, dati alla mano, è uno dei paesi in Europa dove le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono più alte e la mobilità sociale risulta ridotta ai minimi termini. Date queste premesse, la prospettiva di una completa parificazione sociale ed economica per le comunità di immigrati pare essere un obiettivo ancora lontano, innestando nei segmenti più fragili della popolazione, anche se in piccola parte, il germe dell’intolleranza, mentre parallelo, come vedremo, fra alcuni giovani immigrati cresce quello del radicalismo religioso. Ecco allora spiegata l’ascesa del partito «Alternativa per la Germania», che è riuscito per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco a riportare alla ribalta una politica, almeno in parte, riferibile alla galassia dell’estrema destra, infrangendo un tabù sociale e politico molto forte. Ma si tratta pur sempre, a ben vedere, di un unico partito, a fronte di uno schieramento politico – destra inclusa – che si mantiene compatto nel voler combattere la propaganda xenofoba e populista. Emblematico anche il panorama dei media, dove lo spazio dato a populisti e predicatori d’odio è incomparabilmente più basso che da noi.

Turchi che manifestano per Erdogan a Colonia. OLIVER BERG/dpa

Il caso della minoranza turca (e kurda)

Passiamo ora ad analizzare quello che è il fenomeno più rilevante, ma anche il più complesso e difficile, nella sfida dell’integrazione. Ci riferiamo al caso dei turchi tedeschi, la minoranza più rappresentata in Germania, come detto. Una comunità che, dopo la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Erdogan nel loro paese, sta pagando oggi in prima persona, vuoi le tensioni interne alla comunità, sempre più marcate, vuoi i rapporti sempre più tesi fra Berlino e Ankara. Punto di svolta, da questo punto di vista, è stato il tentativo di colpo di stato in Turchia del luglio 2016, cui è seguita un’ondata di repressione senza precedenti contro giornalisti, politici, intellettuali e forze dell’ordine, che ha trasformato un paese relativamente liberale in una dittatura spietata.

Dopo il fallito golpe in Turchia, migliaia di turchi si sono riversati nelle strade di molte città tedesche – da Berlino a Monaco, da Hannover a Stoccarda – per festeggiare lo scampato pericolo. Ma, dopo l’euforia, è arrivata l’ora della vendetta, e tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine. Puntuale e immediata, la resa dei conti contro i sostenitori di Fethullah Gülen – predicatore turco in autoesilio negli Stati Uniti, accusato di essere l’uomo ombra dietro al colpo di stato – si è allargata anche alla Germania. Una tensione che si è manifestata ovunque, dalle associazioni alle piazze, fino anche alle moschee e alle scuole. Il tutto mentre lo scontro contro la minoranza kurda, dopo un periodo di parziale riavvicinamento, è tornato a precipitare, quando si moltiplicavano ancora una volta gli arresti e le vessazioni. Un dato non irrilevante per il nostro discorso, data la fortissima presenza kurda in Germania, che ha anche, al suo interno, una componente assai politicizzata, che è scesa in piazza più volte in diverse città tedesche, arrivando in alcuni casi allo scontro verbale e fisico con i sostenitori di Recep Tayyip Erdogan, altrettanto numerosi.

Il risultato è una comunità a tratti lacerata, costretta – volente o nolente – a scegliere fra una fedeltà sempre più esigente alla madrepatria turca e al suo dittatore, e quella a una Germania che guarda con sempre più sospetto ad Ankara, anche a causa dell’arresto di diversi cittadini tedeschi. Fra questi, ricordiamo il noto giornalista con doppia nazionalità Deniz Yücel, imprigionato il febbraio scorso con l’accusa di essere una spia. Emblematico anche il caso del già ricordato Cem Özdemir, che ha ricevuto continue minacce di morte, e proprio da membri della comunità turca tedesca, a causa delle sue posizioni politiche di supporto all’opposizione turca colpita e repressa, e che oggi è sotto scorta. Il politico verde, fra l’altro, è stato anche fra i promotori della risoluzione del parlamento tedesco sul genocidio armeno, approvata il 2 giugno 2016. Un riconoscimento che ha creato ulteriori tensioni e fratture nella comunità, dato il persistente negazionismo di Ankara nei confronti del genocidio perpetrato nell’allora Impero Ottomano. Senza dubbio, un momento di crisi dura come l’attuale la comunità dei turchi tedeschi non l’aveva mai vissuto nella storia recente.

Sicurezza e benessere per tutti

Ma la sfida per l’accoglienza e l’integrazione in Germania risulta più ampia, e per molti versi meno drammatica. Superata al meglio la crisi del 2015, ci sono ottime ragioni per poter sperare in uno sviluppo armonico della società, eludendo i rischi e le tensioni sempre insiti, volenti o nolenti, in una società aperta e multiculturale. Su tutto, continuano a risuonare nelle orecchie dei tedeschi, come in un ritornello, le celebri parole con cui Angela Merkel ha più volte commentato la crisi dei rifugiati: «Wir schaffen das», «Ce la facciamo».

La Germania, vuoi per la sua storia tragica e insieme di riscatto, vuoi per il ruolo politico ed economico sempre più rilevante che riveste a livello internazionale, ha in sé tutte le carte in regola per riuscire a offrire una prospettiva di sicurezza e relativo benessere a tutte le componenti di una società sempre più plurale, senza rischiare di ricadere in un passato che nessuno, almeno da queste parti, sembra oggi più rimpiangere.

Simone Zoppellaro


Il lungo percorso del dialogo

Immigrazione e fedi religiose in Germania

Nel variegato panorama religioso tedesco, le due principali Chiese, la cattolica e la protestante, sono in prima fila nella battaglia per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza dei profughi. Con l’immigrazione è arrivata una crescita a due cifre dell’islam. In esso, accanto a una minoranza estremista vicina alla Stato islamico, si trova una maggioranza che ha accettato le regole della democrazia occidentale.

Il 19 ottobre 1945, a pochi mesi dalla capitolazione del regime hitleriano, i rappresentanti della Chiesa evangelica tedesca si riunirono a Stoccarda per riflettere sul ruolo e sulle complicità dei cristiani, e in particolare di una delle due anime principali del cristianesimo tedesco, quella protestante, rispetto agli orrendi crimini compiuti dal nazismo. Ne risultò un documento importante, noto come «Dichiarazione di colpa di Stoccarda» (Stuttgarter Schuldbekenntnis), in cui per la prima volta la Chiesa evangelica assunse la sua parte di responsabilità storica, per quanto non soffermandosi ancora in termini specifici sull’olocausto. Leggiamo nel documento: «Attraverso di noi infinita sofferenza è stata portata a molti popoli e paesi». Da parte sua, anche la Chiesa cattolica tedesca ebbe responsabilità importanti, fra cui quella di aver agevolato la fuga dalla Germania (soprattutto verso il Sud America, ndr), dopo la fine della guerra, a centinaia di criminali nazisti, grazie al rilascio di documenti di viaggio sotto falso nome.

Dietrich Bonhoeffer

Certo, non soltanto ai protestanti e ai cattolici tedeschi va attribuita la responsabilità di quanto avvenuto all’epoca del Terzo Reich, responsabilità che deve essere senz’altro condivisa ed estesa a ogni segmento sociale. Né è possibile tralasciare, d’altra parte, come già accennato, l’eroico sacrificio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o dei giovani cattolici del movimento studentesco della Rosa Bianca, che pagarono con la vita l’opposizione al nazismo. Eppure, come dimenticare che le vie dell’odio e del sangue passarono anche da qui, attraverso una distorta interpretazione e stravolgimento del messaggio cristiano?

Tutto ciò premesso, ancora una volta, è giusto riconoscere come il cambiamento avvenuto in seguito non sia stato affatto una semplice formalità, una svolta determinata esclusivamente dalla contingenza di una sconfitta militare. Ad ammissioni di colpa come quella di Stoccarda corrispose dunque in seguito un mutamento sociale e culturale profondo ed effettivo, tale da risultare per molti aspetti, se visto in prospettiva storica almeno, sorprendente. E stupisce così vedere come le Chiese tedesche, la cattolica come la protestante, siano oggi in prima fila a battersi per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza ai profughi. Sintomo che un percorso si è ormai concluso, e che la storia – quando affrontata con serietà e coraggio – può essere davvero maestra di vita. Un’apertura che ha portato, come avvenuto negli ultimi mesi, a esempi radicali in cui si è vista la chiesa, in questo caso quella evangelica, offrire alloggio e protezione a richiedenti asilo afghani e iraniani respinti e minacciati di espulsione dallo stato.

Le Chiese tedesche e gli ebrei

Le chiese in Germania hanno poi avuto, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo importante per un tema delicato e difficile: quello del ripristino di un rapporto di fiducia e collaborazione con gli ebrei dopo gli orrori della Shoah. Esistono oggi in Germania, a livello locale, oltre 80 associazioni per la cooperazione ebraico-cristiana (Gesellschaft für christlich-jüdische Zusammenarbeit), in cui sono impegnati sia protestanti che cattolici. Le prime erano state create proprio nel 1948 a Monaco, Stoccarda e Wiesbaden con il fine di promuovere un nuovo dialogo fra le chiese cristiane e gli ebrei. La dichiarazione Nostra aetate, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni, aveva dato poi ulteriore impulso da parte cattolica anche in Germania, per un ritorno al dialogo con la cultura ebraica dopo tanti, troppi secoli di misfatti e incomprensioni.

Anche grazie al contributo delle diverse chiese, si è potuto così assistere nel dopoguerra alla lenta rinascita dell’ebraismo in terra tedesca. Una comunità che è rimasta numericamente molto esigua ancora fino agli anni Ottanta, quanto nell’allora Germania Ovest gli ebrei erano fra i 25 e i 30mila. Assai più ridotto il numero, invece, nella Ddr comunista, dove gli ebrei erano poco più di un migliaio ed ebbero, in quanto comunità, possibilità assai limitate – anche a causa del pregiudizio ideologico del regime contro le religioni – tali da inibire ogni tentativo di dare vita a una rinascita culturale dopo il genocidio. Un notevole incremento si è avuto invece, nella Germania ormai riunificata, dopo la caduta del muro di Berlino, e questo soprattutto grazie all’arrivo di decine di migliaia di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Sono così saliti a più di 100.000 gli ebrei in Germania, in larga parte residenti nei grandi centri, e sono tante le nuove iniziative volte a far risorgere una presenza culturale ebraica, almeno nelle maggiori città.

Immigrazione e islam

Tra le comunità religiose tedesche legate all’immigrazione, la maggior crescita degli ultimi anni spetta senza alcun dubbio all’islam. Un islam non meno vario e diversificato del cristianesimo tedesco, dove convivono sunniti e sciiti, seguaci del predicatore turco in esilio Gülen e mistici sufi, insieme a infinite altre denominazioni, che in molti casi hanno anche finito per attrarre nuovi fedeli fra i nativi tedeschi. Ed ecco allora che i musulmani rappresentano oggi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il 4,9% della popolazione tedesca, pari a poco più di 4 milioni di persone, con una crescita annua che si attesta in un solo anno, fra 2015 e 2016, al 12,5%. Una crescita che corrisponde, sul versante cristiano, a un leggero calo su base annua, cosa che fa temere ad alcuni un sorpasso nei prossimi decenni come prima religione del paese: rispettivamente -0,8% per i cattolici, e -1,5% per i protestanti, che sono rispettivamente 23 e 21 milioni. Una differenza che si spiega, ancora una volta, con l’immigrazione: assai più numerosa è infatti quella proveniente dai paesi di confessione cattolica che protestante. Non vanno infine dimenticati i 2 milioni di cristiani ortodossi e gli oltre 800mila appartenenti ad altre denominazioni cristiane. Quanto al calo progressivo del cristianesimo in genere, questo si spiega anche in base a una caratteristica peculiare della legislazione tedesca, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa destinata alle chiese (e alle diverse fedi non cristiane) per chi rinunci formalmente alla sua appartenenza a esse, dichiarandosi non religioso. Una scelta, questa, sempre più gettonata, vuoi per il risparmio economico che ne deriva, vuoi perché si assiste oggi a una progressiva e sempre più rapida secolarizzazione della società tedesca.

Le molte facce dell’islam tedesco

Tornando all’islam tedesco, dicevamo – ed è un punto fondamentale da ricordare – che questo non è riducibile a un’unica matrice, ma è al contrario assai composito e multiforme. Se questo è vero per la religione musulmana in generale, che è nella realtà ben lungi dalle semplificazioni a cui ricorrono troppo spesso i nostri media, nel contesto tedesco questa pluralità risulta per molti versi ancora più accentuata. Da un lato, troviamo così luoghi e istituzioni all’avanguardia del mondo musulmano per modernità e apertura; dall’altro, un islam più tradizionale e ancorato nelle sue consuetudini nelle comunità immigrate più o meno recenti, da quella turca a quella siriana; infine, non manca una porzione, assai piccola da un punto di vista numerico, ma significativa perché senza dubbio pericolosa, di musulmani radicalizzati e spesso connessi, in modo più o meno diretto, alla galassia del terrorismo internazionale.

Ma, anche qui, ancora una volta, è importante combattere i pregiudizi e le facili semplificazioni. Estremismo religioso di matrice salafita e crisi dei profughi sono questioni distinte, che non vanno poste in diretta relazione. A spiegarcelo è Yan St-Pierre, esperto di antiterrorismo fra i più importanti in Germania e direttore del Modern Security Consulting Group di Berlino, che abbiamo interpellato: «La scena salafita in Germania è molto variegata. Mentre gli elementi stranieri svolgono un loro ruolo – sia tramite i migranti residenti a lungo termine, sia tramite la comunicazione internazionale – la maggior parte degli individui appartenenti a questi movimenti sono nati e cresciuti in Germania».

Il caso di Seyran Ates

Sempre per voler contrastare comode semplificazioni e luoghi comuni, ricordiamo come il luogo di culto musulmano più aperto in Germania, in tutti i sensi, sia iniziativa di un immigrata di prima generazione. Ci riferiamo a Seyran Ates, avvocata femminista di fede musulmana, nata in Turchia, che ha fondato a Berlino una moschea dove sono le donne a guidare la preghiera e la congregazione è mista e non separata. Un luogo di preghiera aperto a tutti, anche ai gay, ma curiosamente non alle donne che portino un velo integrale, dato che questo è ritenuto un modello di religiosità non auspicabile da questa congregazione, in quanto simbolo del patriarcato e non rimandabile in alcun modo direttamente al dettato coranico. Cosa peraltro verissima, quest’ultima, come sa bene chiunque abbia studiato il testo sacro dei musulmani.

Eppure, come testimoniano anche le continue minacce e intimidazioni subite dalla coraggiosa Seyran Ates, l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno radici anche in Germania. E ciò in ragione di una piccola minoranza il cui operato viene naturalmente amplificato dagli strumenti dell’odio e della violenza, assai più visibili e percepibili, purtroppo, del quietismo che contraddistingue la vita religiosa di larga parte dei musulmani tedeschi.

Islam e terrorismo

La violenza fa notizia, l’opera paziente dell’integrazione e della pace molto meno, come sappiamo. Abbiamo già parlato degli attentati di matrice religiosa compiuti in Germania in tempi recenti. A dispetto delle stime assai variabili e in parte contraddittorie, sono diverse centinaia i combattenti che negli ultimi anni hanno lasciato la Germania per unirsi ai miliziani del sedicente Stato islamico. Molti di loro, ricordiamolo, sono giovanissimi o persino adolescenti, che – in diversi casi attestati – non hanno nulla a che fare con un retroterra di immigrazione. Una storia, quella radicalismo islamico in terra tedesca, che in Germania ha radici profonde. Già sul finire anni ’90 era infatti attiva la cosiddetta «cellula di Amburgo», il cui leader, Mohammed Atta, è noto in tutto il mondo per aver guidato l’attacco dell’11 settembre.

Una sfida importante, quella contro l’estremismo. affrontata dalla società e dalle istituzioni tedesche. Importante perché investe non solo la sfera della sicurezza, ma inevitabilmente anche l’educazione e la prevenzione del radicalismo. Temi e questioni, questi, che spesso si intersecano gli uni alle altre, e che non possono restare separati. Come ci ha raccontato ancora l’esperto di antiterrorismo Yan St-Pierre: «La Germania è notevolmente migliorata nel suo modo di rapportarsi a tale questione. Ha adattato la sua strategia, passando da un puro sistema di forze di sicurezza a uno che risulti più inclusivo e flessibile, e preveda l’utilizzo di organizzazioni private, Ong e l’integrazione di approcci e idee provenienti sia dalla sfera civile che da quella delle organizzazioni di sicurezza». Una sfida su cui si gioca il futuro del paese, ma anche dell’Europa intera, dato il pericolo concreto di nuovi attentati e la centralità della questione nelle agende politiche del vecchio continente.

Ma non sono solo le tre religioni abramitiche, ovvero ebraismo, cristianesimo e islam, a contraddistinguere il panorama religioso della Germania di oggi. A parte gli oltre 29 milioni di tedeschi che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa, e rappresentano il 36,2% della popolazione, ovvero una fetta assai consistente e in continua crescita, troviamo altre minoranze religiose legate spesso alle migrazioni. Fra questi, ricordiamo almeno buddhisti, induisti e sikh. Da menzionare è anche il caso degli yazidi, minoranza religiosa perseguitata e sterminata dal sedicente Stato islamico, che secondo l’ultimo censimento risultano essere 60.000. In Germania si trova oggi, come dimostrato da una recente indagine demografica, più della metà della diaspora di questo popolo sofferente. Un’oasi di pace per una cultura che rischia di scomparire, ma anche un segno che la solidarietà in Germania ha dato buoni frutti.

La speranza di «House of One»

Per concludere con un altro segno di speranza, cosa quanto mai utile in un’epoca in cui alle religioni si associano sempre più di frequente intolleranza e violenza, parliamo di un progetto importante di convivenza e condivisione fra differenti culture e fedi: un unico edificio che raccolga sotto uno stesso tetto una chiesa, una sinagoga e una moschea, permettendo ai fedeli di diverse religioni di pregare fianco a fianco. Un sogno che diventerà presto realtà a Berlino, dove le tre grandi religioni di Abramo avranno per la prima volta uno spazio comune. Il progetto – realizzato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi che ha vinto il concorso indetto nel 2012 – sorge sul sito dove si trovano i resti della più antica chiesa di Berlino, la chiesa di San Pietro (Petrikirche), risalente al tredicesimo secolo e distrutta negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Questo è il messaggio della House of One, «la Casa dell’Uno», così chiamata in onore del Dio unico che contraddistingue e accomuna i tre monoteismi: un simbolo di pace, in un mondo dove fanatismo e odio avanzano in modo sempre più deciso. Ma, insieme, anche un segno concreto di rinascita e riscatto per una nuova Germania risorta dalle ceneri del nazismo.

Simone Zoppellaro


Schede

Dati demografici

Popolazione – 82 milioni di persone.

Stranieri – I residenti di origine straniera che vivono oggi in Germania sono 18,6 milioni, pari a oltre un quinto della popolazione totale, con un aumento record dell’8,5% nel 2016 rispetto all’anno precedente.

Nazionalità – I cittadini stranieri residenti in Germania in ordine per nazionalità: primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece gli italiani, 611mila (con una crescita di 15mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni.

Comunitari – L’immigrazione in Germania non riguarda solo i cittadini cosiddetti extracomunitari. Dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dai paesi dell’Unione europea è più che triplicato. Nel solo 2016, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in Germania.

Illegali – Numero di ingressi illegali nel paese nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati: 865.374 (dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca). Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225).

Le Chiese

Chiese e fedeli – Le prime due chiese per numero di fedeli sono la Chiesa cattolica con 23,6 milioni e la Chiesa evangelica 21,9 milioni.?Seguono la Chiesa ortodossa 2 milioni e altre Chiese cristiane 851mila. I musulmani sono 4,5 milioni, gli ebrei 99mila, i senza confessione o non religiosi 29,8 milioni.

1945, 19 ottobre: la Chiesa evangelica di Germania pronuncia la «Dichiarazione di colpa di Stoccarda».

Alcune date storiche

  • 1945, 30 aprile: Adolph Hitler si toglie la vita nel suo bunker a Berlino.
  • 1945, 7 maggio: il generale Alfred Jodl firma a Reims, in Francia, i documenti della resa tedesca.
  • 1945, 26 giugno: nascita dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), il partito più importante della scena politica tedesca, di cui farà parte anche l’attuale cancelliera Angela Merkel.
  • 1945, 20 novembre: si inaugura il processo di Norimberga contro alcuni dei maggiori criminali del regime nazista.
  • 1949: la Germania viene divisa. Nascita della Repubblica federale tedesca ad Ovest, il 23 maggio, sotto l’influenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, mentre il 7 ottobre nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad Est, che gravita nell’orbita sovietica.
  • 1950: ha inizio il boom economico della Germania federale.
  • 1953, 17 giugno: un’ondata di scioperi nella Germania orientale viene soppressa nel sangue.
  • 1955, 9 maggio: la Germania federale entra a fare parte della Nato.
  • 1961, 13 agosto: costruzione del muro di Berlino.
  • 1989, 9 novembre: caduta del muro di Berlino.
  • 1990, 3 ottobre: la Germania viene ufficialmente riunificata.
  • 2005, 22 novembre: Angela Merkel viene eletta cancelliere in un governo di coalizione fra i partiti della Cdu-Csu e della Spd (partito socialdemocratico).
  • 2015: la crisi dei rifugiati tocca il suo punto più alto. La Germania della Merkel sceglie una politica delle porte aperte.
  • 2016, 19 dicembre: attacco terroristico rivendicato dall’Isis al mercato di Natale a Berlino.
  • 2017, 24 settembre: elezioni federali in Germania e rielezione di Angela Merkel (Cdu-Csu). Il partito Alternative für Deutschland (Afd) diventa però la terza forza nel Bundestag.

Simone Zoppellaro

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Brasile: La lotta per la terra


Pur essendoci una enorme disponibilità di terreni coltivabili, in Brasile la terra è un privilegio riservato a pochi. Mentre quattro milioni di famiglie senza terra («sem terra») debbono lottare per la sopravvivenza quotidiana, i latifondisti – grandi sostenitori del governo golpista di Temer – sono oggi più spregiudicati che mai. Secondo l’annuale rapporto della «Commissione pastorale della terra» (Cpt), nel 2016 i conflitti rurali sono stati 1.079. Ecco perché in Brasile, il paese più violento al mondo, per la terra si uccide e si muore.

Colniza, cittadina del Mato Grosso, 19 aprile 2017. Quattro pistoleri, assoldati da un impresario del legno (madeireiro), uccidono 9 contadini tra i 23 e i 57 anni che si erano insediati su un’area in disputa. Vari corpi vengono trovati legati e due con la gola tagliata: la perizia stabilirà che le vittime sono anche state torturate.

«Questo massacro – scrive il 21 aprile la locale prelatura di São Félix do Araguaia (guidata da dom Adriano Ciocca Vasino e dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito) – accade in un momento storico di usurpazione del potere politico attraverso un golpe istituzionale (la destituzione della presidenta Dilma e la sua sostituzione con Temer, ndr). […] Viviamo in una situazione di “terra senza legge”, una vera guerra civile nel nostro paese».

Pau d’Arco, cittadina del Pará, maggio 2017. Fazenda Santa Lúcia, 5.694 ettari di terra di proprietà della famiglia Babinski. Dal 2013, su un’area non utilizzata della fazenda, si susseguono varie occupazioni di piccoli gruppi di contadini senza terra (sem terra) e azioni di recupero del possesso da parte del (supposto)1 proprietario (ações de reintegração de posse). Il 24 del mese la situazione precipita. Le forze di polizia – civile e militare, 29 persone in totale -, in combutta con l’impresa di sicurezza della fazenda (la Elmo Segurança Especializada), uccidono 10 contadini sem terra, compresa una donna.

Nel silenzio delle istituzioni, la presa di posizione congiunta di cinque importanti organismi della Chiesa cattolica brasiliana2 è immediata e durissima: «La versione ufficiale degli organi pubblici dello stato – si legge nella nota pubblicata il 31 maggio – è stata che le morti sono avvenute in un confronto armato, in quanto gli agenti di polizia erano stati accolti a fucilate. Questa versione pretende di far credere che il popolo brasiliano sia imbecille e non abbia capacità di discernimento. Com’è possibile che, in un confronto armato, nessuno dei 29 poliziotti coinvolti nell’azione sia stato ferito? Perché la scena del crimine è stata smantellata, con gli stessi poliziotti che hanno trasportato i corpi in città?».

«È evidente – continua la nota – che questa esacerbazione dei conflitti agrari per numero e violenza è collegata alla crisi politica e al prevalere delle forze dell’agroindustria sui poteri dello stato brasiliano».

A parte i due episodi qui raccontati (i più eclatanti a causa del numero delle vittime), nei primi sette mesi del 2017 sono stati assassinati 48 contadini. Secondo Conflitos no campo Brasil 2016, il rapporto della «Commissione pastorale della terra», lo scorso anno nel paese ci sono stati 1.079 conflitti agrari e 61 persone assassinate, 5 al mese.

I conflitti legati alla terra sono una costante del Brasile, paese che, tra l’altro, detiene – con 60.000 omicidi all’anno – il (poco lusinghiero) primato mondiale nella classifica della violenza3.

Brasnorte, MT, Brasil: Área de plantação de soja próxima ao município de Brasnorte, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La concentrazione fondiaria e le terre improduttive

La causa prima della questione agraria in Brasile nasce dal latifondo e dalla concentrazione della terra in pochissime mani.

Basandosi sui dati (prudenziali)4 raccolti da Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária) con riferimento al 2010, il 55,8 per cento delle terre disponibili è in mano al 2,5 per cento dei proprietari (i latifondisti). Il restante delle terre si divide tra: il 19,9 per cento in mano a medi proprietari (7% dei proprietari), il 15,5 per cento a piccoli proprietari (26%, pari a circa 1,3 milioni di famiglie) e 8,2% a proprietari di minifondi (64%, circa 3,3 milioni di famiglie). Anche se la definizione di grande, media, piccola e mini non è stabilita dal numero di ettari, ma dai cosiddetti moduli (unità di misura variabili che tengono conto di vari parametri)5, è evidente che la maggior parte dei proprietari di piccoli fondi o di minifondi hanno vita dura, spesso ai limiti della sopravvivenza. Al fondo di questa scala della diseguaglianza, ci sono circa 4 milioni di famiglie contadine, corrispondenti a 20 milioni di persone, che non hanno accesso alla terra: sono i cosiddetti sem terra. In questo quadro fondiario s’inserisce un altro dato essenziale, quello delle terre improduttive: il 72 per cento dei latifondi – pari a 2,3 milioni di chilometri quadrati – è considerato tale.

Delle terre improduttive si è occupata la Costituzione del 1988 – negli articoli 184 e 185 -, prevedendo la loro espropriazione per interesse sociale e per i fini della riforma agraria.

 

La riforma agraria e l’Incra

L’Incra, nata nel 1970, è l’organismo federale che ha il compito di attuare la riforma agraria. Come?

Stando alla prima delle sue cinque direttive strategiche, essa dovrebbe promuovere la democratizzazione dell’accesso alla terra attraverso la creazione di insediamenti rurali sostenibili e la regolarizzazione delle terre pubbliche; la sua azione dovrebbe inoltre contribuire allo sviluppo sostenibile, alla riduzione della concentrazione della struttura fondiaria e alla riduzione della violenza e della povertà nelle campagne.

Se facciamo riferimento ai numeri da esso divulgati, l’istituto avrebbe beneficiato con un lotto di terra quasi un milione di famiglie brasiliane, per l’esattezza 977.039. Non è dato tuttavia sapere quante di esse siano ancora sulla terra assegnata e quante l’abbiano abbandonata o venduta.

«So – racconta fratel Carlo Zacquini da Boa Vista – di molti terreni abbandonati perché gli agricoltori non potevano viverci; non avevano la possibilità di vendere i loro prodotti, o non avevano accesso ad assistenza medica. Insomma, dovevano scegliere tra la terra e la vita».

Si calcola che un 12% dei lotti assegnati tornino all’Incra. Gli esperti spiegano che il problema dell’abbandono dipende dalla mancanza di una politica agricola (ad esempio, incentivi per produrre) e di infrastrutture negli insediamenti rurali.

In ogni caso, in Brasile la questione agraria rimane più viva che mai. Anzi, in questi ultimi venti anni si è aggravata per l’entrata in scena di una nuova, potente variabile: l’agronegócio.

I costi sociali e ambientali dell’agrobusiness

Dagli anni 2000 il panorama agricolo brasiliano è radicalmente mutato: alle tradizionali monocolture di canna da zucchero, caffè e cotone si sono aggiunte le grandi monocolture industriali – piantagioni di soia, coltivazioni per biocombustibili (sia biodiesel che etanolo), miglio, foreste coltivate a eucalipto e pino – e l’allevamento estensivo, bovino e avicolo. L’agronegócio (agrobusiness, in inglese) vale oggi il 23% del Prodotto interno lordo del Brasile. È l’unico settore produttivo che, in questi anni di grave crisi economica per il paese, ha continuato a crescere.?Anche nel 2017, nonostante lo scandalo della carne adulterata6.

Detto del suo peso e della sua importanza in ambito economico, occorre enumerare le conseguenze negative che l’agrobusiness comporta: accaparramento delle terre e conseguente incremento della loro concentrazione; inquinamento ambientale da utilizzo intensivo di agrotossici; devastazione ambientale causata dalla deforestazione e dalla perdita di biodiversità; riduzione della forza lavoro agricola e sfruttamento di quella impiegata; emarginazione e morte dell’agricoltura familiare. A ben guardare, dunque, i benefici economici dell’agrobusiness sono di gran lunga superati dai costi sociali e ambientali che lo stesso comporta.

Come ha ricordato la Conferenza dei vescovi brasiliani in un documento del 2014 sulla questione agraria, il predominio politico e ideologico dell’agrobusiness ha trasformato la terra in una merce qualunque, in palese contrasto con la funzione sociale e ambientale stabilita dalle norme costituzionali del 1988.

Il Movimento dei sem terra, la Chiesa, le occupazioni

Qualche anno prima dell’88, nel gennaio del 1984, a Cascavel, nello stato del Paraná, era nato il Movimento dei sem terra (Mst), un’organizzazione contadina che in poco tempo sarebbe diventata una protagonista della storia brasiliana. Già nel suo primo congresso, celebrato nel gennaio del 1985, il Movimento adotta il principio dell’«occupazione della terra come forma di lotta» (a ocupação de terra como forma de luta).

«I latifondisti – scrivono le autrici del libro La lunga marcia dei senza terra – definiscono le occupazioni di terre “invasioni”, un attentato al sacro diritto di proprietà garantito dalla Costituzione, e lo dicono senza pudore, come se le loro sterminate proprietà non fossero il frutto dell’invasione di terre indigene, del furto di terre pubbliche e del grilagem ai danni di piccoli proprietari e posseiros. […] L’occupazione, evidenziano [i senza terra], è in perfetto accordo con la Costituzione, la quale stabilisce che tutte le proprietà improduttive devono essere espropriate»7.

Il Movimento dei sem terra ha trovato un modus vivendi anche con la Chiesa cattolica brasiliana, come racconta bene La lunga marcia dei senza terra: «Se, negli anni Sessanta, la Chiesa cattolica aveva sostanzialmente appoggiato la dittatura militare, l’orientamento, grazie allo sviluppo della teologia della liberazione, era in seguito cambiato, traducendosi nella nascita della Cpt e nella formazione di una schiera di vescovi progressisti. Così, [sottolinea João Pedro Stédile, leader dei sem terra] “se in precedenza la linea della Chiesa era stata: “Non preoccuparti, avrai la tua terra in paradiso”, il nuovo indirizzo diventa: “Considerando che hai già la terra in paradiso, lottiamo perché tu l’abbia anche qui”»8.

Assai meno comprensivi della Chiesa cattolica sono i media, in particolare Rede Globo, la prima rete televisiva del paese, e Veja, il principale settimanale brasiliano. Questi non perdono occasione per attaccare frontalmente l’Mst, accusato di ogni cosa, finanche di terrorismo.

Il Movimento però non arretra. Anzi, nell’attuale clima di grave crisi politica, economica e morale, da luglio 2017 esso ha accentuato le occupazioni. Al grido di «Corrotti, ridateci le nostre terre», gruppi di senza terra hanno occupato fazendas di persone importanti. O di politici. Come una fazenda di Rondonópolis, nel Mato Grosso, appartenente al gruppo Amaggi, impresa della famiglia del ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, fazendeiro, uno dei più grandi produttori mondiali di soia (e uomo simbolo in tema di conflitto d’interessi).

Se il danno patrimoniale conta di più

Sotto il governo di Temer (persona indagata per corruzione, ma disposta a qualsiasi concessione alle lobbies parlamentari pur di rimanere in sella)9 la situazione sociale nel paese si è aggravata.

«La criminalizzazione e la destrutturazione di Incra e Funai (l’organismo che si occupa delle terre indigene, ndr) – si legge in un recente rapporto del Comitato brasiliano dei difensori dei diritti umani – sono utili per il proposito della bancada ruralista del Congresso nazionale di farla finita con le politiche agrarie che riguardano le lavoratrici e i lavoratori rurali sem terra, gli indigeni, i quilombolas10 e i restanti popoli della campagna, della foresta e delle acque»11.

Che il clima sia pesante per i diritti delle frange più deboli della popolazione lo si capisce anche dalla cronaca quotidiana. Lo scorso 9 agosto, a Belém, capoluogo del Pará, un giudice ha stabilito l’immediata liberazione degli 11 poliziotti militari e dei 2 poliziotti civili che erano stati incarcerati per il massacro del 24 maggio a Pau d’Arco, nel Sud dello stato, in cui erano rimasti uccisi 10 contadini (e di cui abbiamo parlato all’inizio).

Una decisione probabilmente avventata e incomprensibile, ma legittima, presa da un organo autonomo dello stato. Tuttavia, si fa notare, che i 22 contadini accusati di aver assaltato il 28 ottobre 2016 la Fazenda Serra Norte, a Eldorado dos Carajás (sempre nel Pará)12, sono ancora in carcere.

Davanti a questi fatti, si arriva alla conclusione che, nel Brasile del 2017, un danno patrimoniale è più grave di un omicidio. O almeno è così se la morte riguarda dei sem terra.

Paolo Moiola

Colniza, MT, Brasil: Área degradada no município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

Note

  • (1) Sulla fazenda in questione circolano voci di grilagem. Con tale termine si definisce l’occupazione di terre a partire da una frode e da una falsificazione di titoli di proprietà.
  • (2) Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conselho Pastoral dos Pescadores (Cpp), Serviço Pastoral do Migrante (Spm), Cáritas Brasileira, Conselho Indigenista Missionário (Cimi).
  • (3) Fonte: Ipea-Fbsp, Atlas da violência 2017, Rio de Janeiro, giugno 2017.
  • (4) La classificazione di Incra è stata fatta con i dati dichiarati dai proprietari.
  • (5) Un modulo è un’unità di misura, espressa in ettari, che tiene conto non soltanto dell’estensione, ma anche delle condizioni geografiche e ambientali che caratterizzano quella proprietà rurale. Un modulo può quindi variare da regione a regione e da municipio a municipio. Per esempio, un modulo dell’Amazzonia ha una dimensione diversa da quella delle regioni del Nordest o del Sud. Per approfondire la (complessa) tematica si consulti il sito di Incra.
  • (6) Si tratta dello scandalo carne fraca («carne debole»). Riguarda l’esportazione di carne – sia di bovino che di pollo – adulterata con prodotti chimici. Ha coinvolto anche i giganti brasiliani del settore: JBS e BRF.
  • (7) In Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, pag. 47.
  • (8) Ibidem, pag. 25.
  • (9) Pur coinvolto in uno scandalo di corruzione, il presidente golpista Michel Temer è stato salvato dal voto della maggioranza del Congresso nazionale (2 agosto). Un salvataggio che lo pone ancora più in balia dei gruppi parlamentari che lo sostengono. Ultimo dazio pagato è il decreto presidenziale che estingue la riserva amazzonica Renca, aprendo quel territorio incontaminato alle mire delle compagnie estrattive (23 agosto).
  • (10) Sono comunità etniche – quasi sempre costituite da popolazione nera – con tradizioni e pratiche culturali proprie. Si stima che nel paese siano oltre 3.000.
  • (11) In Vidas en luta, rapporto del «Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos», 2017, pag. 20.
  • (12) Eldorado dos Carajás è la località tristemente famosa per il massacro di 19 sem terra, avvenuto il 17 aprile del 1996, a opera della polizia militare dello stato del Pará.

 

Bibliografia

  • Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, Emi, Bologna 2014;
  • Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), A Igreja e a questão agrária brasileira no início do séc XXI, 2014;
  • Comissão Pastoral da Terra, Conflitos no campo 2016, maggio 2017;
  • Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos, Vidas em luta: criminalização e violência contra defensoras e defensores de direitos humanos no Brasil, 2017;
  • R.S.Caldart – I.B.Pereira – P.Alentejano – G.Frigotto (curatori), Dicionário da Educação do Campo, Rio de Janeiro – São Paulo 2012.

Siti web


Popoli indigeni e sem terra

Evitare una guerra tra poveri e defraudati

Colniza, MT, Brasil: Toras de madeira em pátio de serraria próximas ao município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La questione della terra riguarda sia i contadini che i popoli indigeni. Con differenze sostanziali.

Quali relazioni esistono tra la terra dei popoli indigeni e la terra reclamata dai sem terra? Sono soggetti in contrasto per uno stesso obiettivo? Un articolo pubblicato sul sito del Mst (25 aprile 2017) si concludeva così: «La alleanza tra sem terra e popoli indigeni è cruciale per affrontare il capitalismo e per combattere l’agrobusiness».

Al di là di una teorica alleanza (comunque non così scontata), ci sono situazioni che non possono non produrre contrasti, anche gravi: come comportarsi quando dei sem terra invadono e occupano un territorio indigeno? E se arrivano dei piccoli allevatori di bestiame? O dei contadini senza terra che si sono trasformati in garimpeiros (cercatori d’oro) o madeireiros (tagliaboschi)?

Detto questo, le differenze tra popoli indigeni e sem terra rispetto alla terra sono sostanziali.

Per l’aspetto socioeconomico e antropologico – I sem terra sono dei contadini che vedono la terra come elemento economico per il sostentamento loro e delle proprie famiglie. Essi praticano un’agricoltura di tipo stanziale. Per i popoli indigeni la terra ha in primis una valenza culturale e religiosa, mentre l’aspetto economico è secondario e anzi l’aggettivo «economico» risulta forzato. All’agricoltura stanziale gli indigeni preferiscono la caccia, la pesca e la raccolta dei frutti della foresta. È vero tuttavia che, dopo alcuni secoli di contatto (quasi sempre disastroso) con i non indigeni, alcuni popoli o singoli individui hanno acquisito abitudini occidentali e abbandonato usanze proprie.

Per l’aspetto giuridico – La politica agricola, quella fondiaria e la riforma agraria sono trattate dagli articoli 184-191 della Costituzione federale del 1988. Tuttavia, per i diritti dei sem terra occorre fare riferimento alla legge ordinaria. Per esempio, alla legge n. 4.504 del 30 novembre del 1964 che organizza la riforma agraria e la politica agraria. Per i popoli indigeni invece la fonte primaria dei loro diritti sulla terra è data dalla stessa Costituzione

del 1988, la prima tra le fonti del diritto. Gli articoli costituzionali 231 e 232 stabiliscono il diritto dei popoli indigeni al possesso permanente delle terre tradizionalmente occupate e all’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi che su quella terra si trovano. I popoli indigeni non ne sono però i proprietari e dunque, per esempio, non possono vendere la terra. La proprietà della stessa è del governo brasiliano, il quale si riserva anche il diritto di sfruttarne il sottosuolo. A livello giuridico internazionale, per i popoli indigeni è importante ricordare anche la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), che il Brasile ha sottoscritto.

Per l’aspetto istituzionale – I sem terra debbono fare riferimento all’«Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária» (Incra). L’organo federale di riferimento per i popoli indigeni è invece la «Fundação Nacional do Índio» (Funai). Sia Incra che Funai sono oggi sotto attacco da parte del governo e del Congresso nazionale. Un ruolo molto importante riveste, infine, il «Ministério Público Federal» (Mpf), il guardiano della Costituzione del 1988.

Paolo Moiola




I Perdenti 29: Don Giuseppe Rossi, martire della carità e della libertà


Foto da archivio Marco Sonzogni

Martire della carità e della libertà, così è definito don Giuseppe Rossi, parroco della frazione di Castiglione Ossola, facente parte del Comune di Calasca – Castiglione nella provincia di Verbania. La sua figura di sacerdote e martire, s’inquadra nel fosco scenario del declino del regime fascista in Italia, in cui prese a brillare la luce della Resistenza. In quel periodo sia i partigiani, sia i nazifascisti in ritirata, negli scontri armati che ebbero, subirono rilevanti perdite. In mezzo finirono comunità innocenti decimate dalle rappresaglie, alcune di grande efferatezza come a Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ecc. dove le vittime si contarono a centinaia.

In questo martirologio di donne, bambini, vecchi, bisogna includere tanti sacerdoti e parroci delle zone coinvolte, che perirono insieme ai loro fedeli che non vollero abbandonare. Cercarono anzi di difenderli invitandoli a trovar «asilo» nelle chiese, cosa che però non fermò la ferocia dei nazifascisti.

Fra tanti eroici sacerdoti e parroci, ci è caro ricordare don Giuseppe Rossi.

Egli nacque il 3 novembre 1912 a Varallo Pombia (Novara), studiò nel Seminario diocesano e fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1937 a 25 anni. Era un prete alto e magro con occhiali rotondi, all’ordinazione scelse una frase di San Paolo come motto del suo ministero sacerdotale, che si rivelerà profetica: «Darò quanto ho, anzi darò tutto me stesso per le anime vostre».

Dopo qualche incarico come vice parroco, nel 1939 il vescovo lo nominò parroco di Castiglione Ossola. Un anno dopo, il 10 giugno 1940, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania di Hitler. Negli anni che seguirono don Giuseppe Rossi, come pastore e guida di quella comunità, fece quello che poteva per gli angosciati fedeli della sua parrocchia, fino all’offerta totale della sua vita.

Caro don Giuseppe, noi generazione che vive in tempi lontani dalla seconda guerra mondiale, guardando la tua fotografia vediamo un «pretino» magro e asciutto, con tanto di talare, che incarna il modello dei sacerdoti della tua epoca…

Quelli erano tempi difficili, portare la talare era normale, ma in certe circostanze significava assumere degli atteggiamenti che mettevano bene in luce da che parte si stava.

Nominato parroco di un paese di montagna in età abbastanza giovane, che iniziative prendesti quando arrivasti a Castiglione Ossola?

Cominciai a girare in bicicletta tutto il paese, visitando famiglia per famiglia, in questo modo mi accorsi subito che a causa della mancanza di generi alimentari, legata alla guerra in atto, molta gente viveva in povertà. Decisi di comprare il riso alla borsa nera per sfamare la mia gente. Mia sorella Maria cucinava diverse minestre che poi alla sera, approfittando del buio, io stesso distribuivo nelle case dei più bisognosi.

La cappelletta dove avvenne il martirio. Foto da archivio Marco Sonzogni

E a livello di azione pastorale quali furono le attività che mettesti in atto?

Organizzai l’Azione Cattolica per i ragazzi, la Conferenza di San Vincenzo per i più poveri. Con le poche risorse che riuscivo a racimolare cercavo di dare una mano alle missioni e nonostante il triste periodo della guerra mi impegnavo nell’attività catechetica. Attraverso la celebrazione della santa messa quotidiana, per quanto mi era possibile, cercavo di alimentare la speranza fra la mia gente.

Già, la guerra. Chi non l’ha vissuta non riesce a immaginare come essa ti sconvolga la vita, anche se non sei al fronte a combattere…

Infatti i giovani partiti per il servizio militare mi scrivevano lunghe lettere dai diversi fronti e io, parroco della loro comunità, rispondevo a ciascuno, cercando di far sentire la mia presenza accanto a loro assicurando la mia umile preghiera.

Dopo l’8 settembre del 1943, seguì un periodo di generale sbandamento e di grandi eventi politici e purtroppo anche tragici, molti dei giovani della Val d’Ossola, salirono sui monti dell’alta valle e si arruolarono nelle formazioni partigiane.

Il mosaico nella cappelletta. Foto da archivio Marco Sonzogni

Nell’agosto-settembre 1944 nel territorio dell’Ossola fu istituita una Repubblica partigiana. Pur avendo chiaro da che parte stare, pubblicamente non presi posizione per nessuno, anzi cercai di mantenere una condotta il più prudente possibile per non far correre inutili pericoli alla mia popolazione.

L’episcopato piemontese del resto si era espresso molto chiaramente invitando il clero a non schierarsi per nessuna delle parti in causa, ma rimanere al di sopra di esse, proprio per offrire a tutti indistintamente un servizio come «Buoni pastori».

Per questo volli essere un riferimento per tutti quegli uomini di ambo le parti che cercavano testimoni che incarnassero valori morali e religiosi per i quali valesse la pena di vivere e non morire, ma nel contempo soffrivo nel profondo del mio cuore nel vedere i sacrifici che i miei giovani facevano per conquistare la libertà e abbattere la dittatura.

In questo senso è rimasta famosa fra la tua gente una tua frase: «Chiunque bussa alla mia porta perché ha bisogno, io lo aiuto».

Ne avevo coniato un’altra che esprimeva lo stesso concetto: «Io aiuto chiunque si rivolge a me, perché per me tutti sono figli di Dio».

E il 26 febbraio 1945 fu il giorno del dolore. I partigiani furono informati che una colonna di fascisti della brigata «Muti» stava salendo la Valle Anzasca da Pieve Vergone per stabilire un presidio proprio a Calasca-Castiglione. Si appostarono sulle rocce vicino al paese. Erano in pochi, ma una strozzatura della valle dava loro un enorme vantaggio naturale.

Nell’attacco morirono due fascisti e altri 15 rimasero feriti. I partigiani si dileguarono, ma i fascisti organizzano una feroce rappresaglia, bruciando le case delle frazioni più vicine al luogo degli spari e rastrellando quanti trovano in strada per gli interrogatori. Tutti gli abitanti maschi fuggirono dal paese, mentre le donne si chiusero in casa. Alcuni parrocchiani mi invitarono a seguirli nella loro fuga, ma io non mi mossi, preferendo restare al mio posto.

I militi della «Muti», non contenti di aver bruciato case e rastrellato una cinquantina di persone fra vecchi, donne e bambini, presero anche te – il parroco – accusandoti di aver fatto suonare le campane per segnalare ai partigiani il passaggio della colonna militare.

I fermati, o meglio gli ostaggi, furono trattenuti fino a sera dopo un intero giorno di interrogatori. Stando con loro, a tutti raccomandavo di avere fiducia e calma, perché si faceva largo nella mia coscienza il pensiero che se la sarebbero presa solo con il pastore del gregge, ovvero io, loro parroco. Infatti dissi loro: «Prima di voi ci sono io. Sarò solo io a essere ammazzato».

E andò proprio così?

Verso sera fummo tutti liberati e tornammo alle nostre case e io in canonica, dove mia sorella mi scongiurava di scappare in montagna; ma non ci fu il tempo, infatti dopo pochi minuti si presentarono quattro Camicie Nere che mi arrestarono senza darmi nemmeno il tempo di infilare le scarpe e mi portarono via.

 

Don Giuseppe da quella sera sparì, lo trovarono alcune settimane dopo in un vallone sotto il paese, sepolto in una fossa che era stato costretto a scavare con le proprie mani. Il cranio gli era stato spaccato dal calcio di un fucile, aveva ricevuto una pugnalata alla schiena ed era stato finito con un colpo sparato in viso. Non si seppe mai chi lo uccise. Il comandante del presidio fascista di allora fu condannato nel 1946 per crimini di guerra, poi dopo aver chiesto perdono alla mamma di don Giuseppe e al parroco don Severino Cantonetti suo successore, scontò solo qualche anno di carcere.

A cento anni dalla sua nascita, il gesuita novarese Francesco Occhetta, in un articolo su «Civiltà Cattolica» dell’agosto 2014, che illustrava i motivi dell’apertura della sua causa di beatificazione, scrisse chiedendosi se il suo sia stato un vero martirio: la risposta è più che ovvia, in quanto la sua «testimonianza di vita evangelica» – in greco, martyrion – va ben oltre la sua drammatica esecuzione e rimanda a un modo di appartenere a Cristo nascosto nell’anonimato nonostante le crisi. La fedeltà di una promessa è portata al sacrificio di sé per la salvezza degli altri. È quanto la Scrittura riassume in un versetto: «Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita» (Ap 2,10).

La vita di don Giuseppe Rossi, tramanda alle generazioni future la grandezza della missione sacerdotale nel cruento sacrificio del martire.

Don Mario Bandera

L’urna contenente il corpo del martire nella chiesa di Castiglione.

Don Giuseppe Rossi, un sacerdote «per tutto e per tutti»

Mons. Franco Giulio Brambilla (Vescovo di Novara, diocesi che territorialmente comprende anche tutte le Valli dell’Ossola) nella messa di chiusura dell’anno centenario della nascita di don Giuseppe Rossi, celebrata il 22/09/2013 nella sua parrocchia di montagna, con il successore don Severino Cantonetti, sacerdote quasi centenario, decano del clero novarese e intrepido custode della memoria del predecessore, si era chiesto in che cosa e perché il modello di prete incarnato da don Giuseppe Rossi fosse ancora di attualità. Aveva dato tre risposte.

Anzitutto perché «il sacerdote, che don Rossi incarnava, era “per tutto e per tutti”, egli era un prete che ha vissuto, oltre alla vicinanza, la dimensione della prossimità. La parrocchia potrà cambiare le forme, ma non dovrà mai perdere questo elemento decisivo, che caratterizzò il tempo di don Rossi: dovrà sempre essere “per tutto e per tutti”. La porta della chiesa deve avere la soglia più bassa; cioè la porta deve essere la più accessibile a tutti».

Il secondo motivo – disse Mons. Brambilla – è la cura personale verso ogni parrocchiano. Quel sacerdote modello ha fatto sì che la parrocchia tradizionale fosse anche «per ciascuno». Non era, cioè, riferita solo «al quantitativo, ma anche al qualitativo»: sapeva valorizzare la storia, la vocazione, l’intuizione di ciascuno, e curare le persone con uno sguardo personale. Don Giuseppe era un parroco che proprio grazie alla sua grande umanità ha costruito la sua storia, insieme alla storia delle famiglie della piccola porzione di terra che era chiamato a servire, il suo essere prete fu un servizio totale e gratuito alla sua gente fino all’offerta della propria vita.

Infine la terza dimensione – aveva concluso il vescovo – è quella di aver avuto a cuore «il privilegio dei poveri, quelli che hanno la vita che fa fatica ad andare avanti nelle relazioni. Le relazioni sono oggi quelle che vengono più penalizzate».

da www.diocesinovara.it




Cultura-agricoltura: un nuovo stile di vita


Il paradigma dello sfruttamento infinito delle risorse del pianeta rimane dominante, sebbene abbia evidenziato i suoi enormi limiti. Esiste però un movimento che mostra un nuovo equilibrio con la natura. La terra ci fornisce cibo, ma noi dobbiamo prenderci cura di essa. Nasce il concetto di «agricoltura permanente», che getta le basi per un diverso modello di vita.

È possibile progettare un nuovo tipo di sviluppo basato su sistemi di vita sostenibili sia per le persone, sia per il pianeta? Questa domanda è lecito porsela in un’epoca come la nostra contraddistinta da una serie di profondi scossoni a livello economico e sociale. Si continua a parlare di un modello di sviluppo fondato sulla «crescita economica», sulla globalizzazione dei mercati e delle merci e sullo sfruttamento delle risorse della terra. Tuttavia, questo paradigma dominante appare proprio quello che ha prodotto le ultime crisi economiche in varie zone del mondo. Ormai da tre decenni, sappiamo che l’umanità ha iniziato a vivere al di là dei propri limiti ecologicamente sostenibili. In pratica, consumiamo più risorse rinnovabili di quante il pianeta possa metterne a disposizione, come evidenzia l’organizzazione internazionale di ricerca Global Footprint Network, impegnata da decenni ad analizzare il peso dei nostri stili di vita sugli equilibri ambientali.

Il modello attuale ha una visione eccessivamente globale dell’economia, poiché le maggiori industrie e multinazionali hanno bisogno di espandere i loro mercati per sopravvivere e per avere profitti. Questo approccio non tiene però conto delle peculiarità locali e regionali, negando e annullando le specificità di un territorio e della popolazione che lo abita. Negli ultimi decenni il modello della crescita economica costante e infinita è stato più volte messo in discussione, tanto da far emergere alcune alternative che si prefiggono di recuperare i nostri legami con la natura per avere un impatto più leggero sul pianeta. Questa rivalorizzazione di un’ecologia profonda la troviamo per esempio nel movimento della permacultura, approccio che cerca di riprendere antichi saperi, fondati in parte sulla saggezza contadina, rielaborandoli e attualizzandoli con nuove filosofie.

Riprogettare e ridefinire i nostri stili di vita

Il punto centrale della permacultura è lavorare la terra senza sfruttarla in modo invasivo, rimanendo in armonia con essa. L’Accademia di permacultura italiana definisce questo approccio «processo integrato di progettazione che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico». Si tratta di un modello di progettazione, di conservazione consapevole ed etica di ecosistemi caratterizzati da diversità, stabilità e flessibilità tipiche degli ecosistemi naturali.

La permacultura può essere applicata a un balcone, a un piccolo orto, a un grande appezzamento o a zone naturali, così come ad abitazioni isolate, villaggi rurali e insediamenti urbani. Allo stesso modo si applica a strategie economiche e alle strutture sociali. Si tratta quindi di progettare il proprio sistema di vita e l’ambiente in cui si abita partendo da una visione consapevole. Oggi è fondamentale recuperare un’interazione dinamica, proficua fra uomo e ambiente.

Agricoltura «permanente»

La permacultura mette al centro il concetto e la pratica dell’ecologia consapevole, attuabile a livello territoriale, oltre che a livello di gestione economica e di insediamenti umani.

Non a caso il termine permacultura integra insieme i termini inglesi permanent e agricolture: una sintesi che sottolinea l’importanza di sviluppare un modello socio economico e ambientale fondato su bassi consumi di energia fossile e sulle colture che durano diversi anni.

È a partire dagli anni ’70 del secolo scorso che incomincia a diffondersi la permacultura. È grazie alle ricerche degli australiani Bill Mollison e David Holmgren, i primi a parlare di agricoltura permanente, secondo i quali una cultura umana non può sopravvivere a lungo senza la base di una agricoltura sostenibile e una gestione etica della terra. Solo nel 2000 questo approccio è stato diffuso in Italia.

Applicare nella vita

Allievo di Mollison (1928-2016), Holmgren (classe 1955) è autore di diversi libri, tra cui «Permacultura» (ed. Il Filo Verde di Arianna, 2012). Holmgren ha imparato a creare terreni ecosostenibili attingendo dalla natura e dalle tradizionali conoscenze contadine; a riciclare e a utilizzare con più efficienza e parsimonia le risorse. Tra i tanti concetti, ecco a cosa è giunto a pensare: «Se facciamo entrare i bambini quando sono ancora molto piccoli in contatto con la gioia di raccogliere la verdura direttamente nell’orto, sarà più alta la probabilità che crescano con una comprensione profonda e intuitiva della nostra dipendenza dalla natura e dall’abbondanza dei raccolti».

Da qui l’importanza di accompagnare bambini e adolescenti nelle fattorie didattiche e in tutti quegli spazi che offrano l’opportunità di mostrare loro che non esistono solo centri commerciali, panini e merendine preconfezionate ma che c’è tutto un mondo vivo, vitale al di là del cemento urbano e della scatola televisiva. Holmgren invita la gente a essere partecipe dei cicli della natura e a preservare la biodiversità. Ciò è possibile per esempio diminuendo il consumo di oggetti in plastica, scegliendo detersivi alla spina e altri prodotti per i quali si riducono gli imballaggi.

Altrettanto importante è cercare di produrre una parte del cibo quotidiano: dal pane alla pasta, dallo yogurt alle torte, dalla frutta alla verdura. Chi vive in campagna può scegliere di seminare e piantare le colture più adatte a quel tipo di habitat (in base al terreno e al microclima), realizzando così un progetto di autoproduzione per la famiglia. Chi invece vive in città può tessere relazioni sociali che gli permettano di utilizzare prodotti «a km zero»: come contattare qualche piccola impresa agricola non distante dalla città o rivolgersi al più vicino Gruppo d’acquisto solidale (Gas).

Fondamentale anche l’uso sapiente dell’acqua attraverso, per esempio, sistemi di immagazzinamento della pioggia.

Semplice, ma rivoluzionario

Sepp Holzer è tra i pionieri della permacultura. Austriaco, classe 1942, Holzer è contadino e autore di diverse pubblicazioni sull’agricoltura biologica, che hanno riscosso notorietà a livello internazionale. A Sud di Salisburgo, Holzer ha creato la fattoria detta Der Krameterhof, caratterizzata da una straordinaria biodiversità. Il padre gli aveva lasciato in eredità un appezzamento di terra di 20 ettari e lui, nell’arco di 50 anni, l’ha estesa sino a raggiungere 45 ettari, dove sono coltivati differenti legumi, verdure, funghi, erbe medicinali e diverse varietà di alberi da frutto. Vi sono allevati anche vari animali e pesci d’acqua dolce, come trote, carpe e lucci. Tutto questo in una fattoria situata a un’altitudine che va da 1.100 ai 1.500 metri sopra il livello del mare. Gli inverni sono molto rigidi, ecco perché questo luogo, abbarbicato sul monte Schwarzenberg, viene chiamato «la piccola Siberia austriaca». Ma qui non vi sono né steppe desertiche, né terreni aridi. Anzi, tutt’altro. In base alle caratteristiche del suolo, Sepp sceglie quali piante seminare: per esempio, nei terreni asciutti coltiva aromatiche come timo, salvia e maggiorana, oltre che grano amaranto che non richiede molta acqua. Inoltre, Sepp ha rigorosamente bandito le monocolture e i semi ibridi: le prime impoveriscono il terreno, i secondi minacciano la biodiversità e costringono i contadini ad acquistarne regolarmente. Negli ultimi decenni la questione della perdita di diversità genetica negli orti e nelle fattorie è diventata anche questione politica, tanto che la Commissione agricoltura del parlamento europeo, nel 1991, stabilì un programma di conservazione delle risorse genetiche vegetali, incentivando reti di raccolta e progetti europei di banca del gene. Il lavoro di Sepp risponde perfettamente all’esigenza di salvaguardia della biodiversità, poiché ha seminato differenti varietà di piante, seguendo al contempo le consociazioni vegetali, un metodo che evita l’utilizzo di pesticidi chimici. Ogni verdura e frutta viene infatti associata a piante che hanno distinte funzioni: vi sono quelle che allontanano i parassiti dalle coltivazioni principali, e altre che li attirano su di sé, in modo da richiamare insetti che sarebbero dannosi per i vegetali dell’orto. Piante consociabili per esempio ai pomodori sono le carote, il prezzemolo e il tagete, mentre alla lattuga e all’insalata si possono associare fragole e ravanelli. Il metodo delle consociazioni vegetali aiuta poi ad attirare nell’orto insetti benefici, come le api, importanti per l’impollinazione dei fiori, e le coccinelle, preziose alleate contro la diffusione di afidi e moscerini.

Un terreno più fertile

In permacultura è stata inoltre riscoperta l’antica pratica del sovescio, utilissima per rendere più fertili i terreni, soprattutto se esposti al sole o se soggetti a climi secchi. La tecnica consiste nel coltivare vari tipi di erbe quando il suolo è a riposo o quando si pratica la rotazione delle colture tramite un’alternanza stagionale o annuale delle piante seminate. I vegetali coltivati seguendo la pratica del sovescio vengono tagliati e poi mischiati al suolo in modo da apportare ad esso sostanze nutritive come l’azoto. In alternativa, le erbe e le piante una volta falciate possono essere lasciate sul terreno a decomporsi, in modo da formare un humus ricco di microelementi. Questa tecnica evita l’erosione dei terreni e li protegge dal vento, dalla siccità e da altre intemperie.

Un altro metodo impiegato anche in permacultura per ovviare alla carenza di sostanze nutritive nel suolo è la creazione delle cosiddette aiuole rialzate. Come suggerisce il nome si tratta di uno spazio nell’orto o nel giardino, generalmente di piccole dimensioni, realizzato al di sopra del terreno naturale. Le aiuole vengono rialzate di 20-30 centimetri e sono circondate ai lati da assi in legno o muretti a secco. Questo metodo è valido nel caso si vogliano coltivare fiori o verdure in un ambiente più ricco di elementi nutritivi rispetto al terreno che abbiamo a disposizione, perché troppo calcareo, o perché caratterizzato da un pH nocivo per le piante che vogliamo far crescere.

Ridurre gli scarti

David Holmgren suggerisce questo slogan: «Rifiuta, riduci, riutilizza, ripara e ricicla». Se si seguono questi consigli, la produzione di rifiuti – che rappresentano un vero problema per tutte le società, soprattutto per quella capitalistico-occidentale – diminuisce notevolmente. Ecco il significato dello slogan:

  • – rifiutare di farsi coinvolgere nella mania del consumare a ogni costo, comprando cose che in realtà non ci servono;
  • – ridurre materiali ed energia o la frequenza del loro consumo;
  • – riutilizzare oggetti, come i contenitori con tappo a tenuta ermetica o vecchi tessuti della nonna, o scatole di cartone delle uova;
  • – riparare, in primis indumenti, piuttosto che buttare e poi comprare oggetti nuovi;
  • – riciclare per esempio gli scarti vegetali per produrre compost.

Un approccio culturale

Come suggerisce la parola stessa, permacultura non è soltanto un metodo di agricoltura biologica, ma più complessivamente un modo di progettare e vivere la vita secondo una visione ecologica rispettosa dell’ambiente e delle relazioni umane. Centrale in tutto questo è la cultura intesa in modo «sostenibile», molto differente rispetto all’approccio industriale ancora dominante nel mondo, come mette in evidenza la tabella riportata in queste pagine.

Silvia C. Turrin


Perché fare un orto

Qualche decennio fa, molte famiglie disponevano di un orto, piccolo o grande che fosse. Poi c’è stato il boom del cibo facile e dei supermercati sottocasa dove trovare tutto con comodità. Da qualche tempo a questa parte in molte nazioni, Italia inclusa, si sta tornando indietro. C’è chi coltiva sul proprio balcone o si è creato in giardino uno spazio ad hoc per la semina di qualche ortaggio, oppure c’è chi ha preso in affitto un appezzamento di terra per autoprodursi cibo fresco. Queste scelte potrebbero davvero rivoluzionare i nostri stili di vita e il sistema in generale. Basta guardare cosa hanno realizzato i britannici durante la Seconda guerra mondiale seguendo le direttive del piano «zappare per la vittoria»: sono riusciti a raggiungere l’autosufficienza alimentare grazie alla messa a coltura di un milione e mezzo di lotti di orto, che hanno prodotto circa una tonnellata di cibo per ogni terreno.

I corsi Imparare la permacultura

Chi desidera conoscere più a fondo queste tematiche, e praticare concretamente i principi della permacultura, può seguire un corso introduttivo riconosciuto a livello mondiale da tutte le organizzazioni di Permacultura della durata di 72 ore. Si tratta del modulo standard, denominato «Corso di progettazione in Permacultura», che deve essere tenuto da un insegnante abilitato. Chi vuole compiere un passo in più, e diventare progettista in permacultura, può seguire un corso di apprendimento, sotto la supervisione di tutor, della durata di almeno due anni. Al termine, previa presentazione del progetto, verrà riconosciuto il Diploma di progettazione in permacultura applicata.

Per info:

  • http://www.permacultura.it
  • http://www.permaculturaitalia.com



Allamano, un carisma per essere sempre “di moda”


Sono arrivati, come frutto del Capitolo da poco celebrato, gli «Atti», un modesto fascicoletto i cui semi, macinati e impastati, dovranno diventare il pane buono che alimenterà la futura attività missionaria, «rivitalizzata e ristrutturata». Tra le varie indicazioni, non poteva sfuggirci un’annotazione, che così suona: «Al Consiglio Continentale spetta mantenere vivo nel Continente l’approfondimento, lo studio, l’inculturazione e la trasmissione del carisma… promuovendo momenti di spiritualità centrati sul carisma (esercizi spirituali allamaniani, pedagogia allamaniana, ecc.)» (cfr. nn. 30 e 169). Poche e timide righe per ricordare a tutti i missionari l’importanza di rivitalizzare il nostro carisma (cioè la nostra stessa vocazione) che ha come sua limpida sorgente Giuseppe Allamano. Il suddetto suggerimento non sarebbe tanto originale, se non fosse per due paroline decisamente interessanti e cioè che, oltre allo studio e approfondimento del carisma, bisognerebbe curarne anche «l’inculturazione e la trasmissione». Per questo, l’invito viene rivolto non tanto all’Istituto nella sua totalità (come avveniva nel passato), ma ai singoli Continenti dove sono presenti i missionari e che, dal Capitolo, sono usciti come i veri protagonisti della missione Imc. Queste parole allargano il cuore perché, anche se appena sussurrate, ci confermano che l’Allamano non è un dono solo per noi, italiani o europei, ma può esserlo anche per altri popoli, altre culture, altri mondi diversi dal nostro (Allamano, missionario doc!). In più, questo dono non è relegato in un museo o in un santuario, ma è vivo e deve essere accolto da quelli che amano e invocano il Fondatore dei missionari della Consolata; occorre, perciò, «trasmettere e far conoscere» ciò che lui è stato per la Chiesa e il mondo. Proprio come avevano scritto i missionari, preparandosi al Capitolo: «Tra le ricchezze del passato che ci appartengono, c’è anche Giuseppe Allamano, un gioiello prezioso che non può rimanere chiuso in un forziere per paura di perderlo, ma deve tornare ad essere indossato, perché è soltanto esibendolo che potremo far vedere a chi ci incontra come il suo stile possa adattarsi anche alla moda del tempo presente. Uno dei nostri obiettivi consiste nel far nuovamente “indossare” il Fondatore. Non è parlando di lui che se ne mostra la bellezza spirituale, è “vivendone il carisma” che il suo pensiero, la sua dimensione spirituale, la sua ricchezza e profondità possono tornarci a dire qualcosa, anche oggi».

Giacomo Mazzotti

 

«Voi badate ai miei comandi, alle mie esortazioni e anche ai semplici desideri, che ben conoscete. Ecco ciò che vorrei da voi: la buona volontà, lo sforzo generoso e costante di assimilare lo spirito dell’Istituto». (Giuseppe Allamano)


Per leggere tutti i testi clicca sull’immagine

 




Tratta e sfruttamento nel 21° secolo


Negli ultimi 5 anni 89 milioni di persone nel mondo hanno subito una qualche forma di schiavitù. Nel solo 2016 sono stati 40 milioni: 25 per lavoro forzato, 15 per matrimoni forzati. Una persona ogni 185. Il 51% donne, il 20% bambine il 21% uomini, l’8% bambini. Il solo lavoro forzato genera un giro di denaro di 150 miliardi di dollari l’anno. E il contrasto non sembra efficace.

La tratta di esseri umani (in inglese trafficking in human beings) è stata definita nel 2000 dalle Nazioni Unite come «reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere […] a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi. […] Il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere un bambino ai fini di sfruttamento sono considerati “tratta di persone” anche se non comportano l’utilizzo di nessuno dei mezzi [descritti sopra]»1.

Leggere dietro i dati

Secondo le ultime stime dell’Oil2 (Organizzazione internazionale del lavoro), nel 2016 circa 40,3 milioni di uomini, donne e bambini di ogni parte del globo sono stati vittime di una qualche forma di schiavitù: sfruttati o costretti a sposarsi sotto minacce, violenze, coercizioni, inganni, abusi di potere. Di essi, erano 15,4 milioni le vittime di matrimoni forzati (il 37% minorenni), e 24,9 milioni le vittime di lavoro forzato (il 71% di sesso femminile, vedi box per maggiori dettagli). Nel mondo, nel 2016, erano 151,6 milioni i minori lavoratori (tra i 5 e i 17 anni).

Le cifre sono grosse, ma lette in un report dell’Oil rischiano di rimanere inerti. Diventa un esercizio assai utile allora provare a guardare dietro e dentro i dati per comprendere l’urgenza con cui l’umanità deve prendersi carico della situazione per tentare una risoluzione.

Il libro di Anna Pozzi, Mercanti di Schiavi, cerca di farlo. Snocciolando una quantità enorme di altri dati e informazioni, presenta situazioni di paesi concreti, racconta storie di persone, vittime o attiviste, e l’operato di gruppi e associazioni che in tutto il mondo lottano perché la schiavitù venga affrontata e debellata.

Dal mondo all’Italia

Diviso in tre parti, il volume accompagna il lettore in un itinerario che inizia da uno sguardo generale sul fenomeno, prosegue con l’approfondimento delle diverse forme di schiavismo presenti nel mondo e si conclude con un approfondimento sulla situazione italiana.

Nella prima parte, infatti, Anna Pozzi, offre al lettore uno sguardo complessimo con una rassegna globale delle forme dello schiavismo contemporaneo, i numeri del fenomeno, le sue cause e le azioni – spesso fallimentari – che, a livello di istituzioni internazionali, si sta cercando di sviluppare per contrastarlo. Nella seconda ci presenta alcuni approfondimenti tematici: la schiavitù come sfruttamento sessuale, la piaga del lavoro minorile, le spose bambine, la tratta e il traffico di persone legati alle migrazioni, il mercato delle gravidanze; ma anche alcuni approfondimenti legati a specifiche aree del pianeta: il Brasile, il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia. La terza parte punta l’obiettivo sulla nostra Italia, a dimostrazione del fatto che «praticamente nessun paese è immune da questo fenomeno». La produzione dei pomodori, ma anche quella di frutta e di uva da vino, lo sfruttamento della prostituzione, il lavoro schiavo nel campo del tessile, il caso delle nigeriane e quello dei minori stranieri non accompagnati che «spariscono».

Far crescere la consapevolezza

Anna Pozzi affronta il vasto mondo della tratta e dello sfruttamento con lo stile giornalistico che la contraddistingue3. Descrive il fenomeno, lo racconta attraverso i dati, la narrazione di singoli casi, ma anche attraverso il racconto di quali sono le strategie, purtroppo spesso inefficaci, di istituzioni come l’Onu, l’Ue, la Corte penale internazionale, gli organi dei singoli paesi. Tra le pagine più belle ci sono quelle in cui l’autrice presenta le azioni concrete messe in campo da alcuni dei tanti uomini e donne che si battono in tutto il mondo su questo tema. Ecco allora emergere alcune figure come padre Mussie Zerai, la suora comboniana Azezet in Israele, il premio Nobel per la pace Kailash Satyarthi che ha liberato 80mila piccoli schiavi in India e in altri paesi. Nel libro si parla anche dell’impegno di papa Francesco, ad esempio istituendo la prima giornata mondiale ecclesiale contro la tratta di persone l’8 febbraio 2015.

Il bilancio che viene fuori dal libro non sembra essere molto positivo, nonostante le molte iniziative dal basso e le dichiarazioni di leader mondiali. Più volte Anna Pozzi afferma, infatti, che sembra non esserci ancora una reale presa di coscienza della gravità di questa piaga. Tra i molti dati che offre c’è, ad esempio, quello che parla di un altissimo livello d’impunità, anche in Italia, quello che indica un aumento del numero di minori coinvolti, quello che ci parla di una grande adattabilità delle organizzazioni criminali al mutamento delle situazioni, oppure quello che dà a noi italiani il primato nel turismo sessuale.

Immaginiamo che sia proprio da questo quadro poco positivo che ha preso le mosse il lavoro di approfondimento e denuncia di Anna Pozzi, allo scopo di costruire una maggiore consapevolezza da parte di tutti su una problematica solo apparentemente lontana.

Luca Lorusso

Note:

  1. Dall’articolo 3 del Protocollo addizionale sulla tratta del 2000, uno dei tre Protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato.

  2. Il rapporto Global estimates of modern slavery. Forced labour and forced marriage (Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato) pubblicato a settembre 2017 dall’Oil e da Walk Free Foundation in collaborazione con l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Una bella presentazione si trova su http://www.alliance87.org/2017ge
  3. È giornalista e scrittrice, lavora per «Mondo e Missione», la rivista del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), ha realizzato diverse iniziative per parlare del problema della schiavitù, anche in collaborazione con suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata molto attiva su questo fronte, e tra le altre cose ha anche fondato un’associazione dal nome «Slaves no more».

Il libro

Anna Pozzi, Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo,
San Paolo, Milano 2016, 215 pagine, 14,50 Euro.


Dati su
Matrimoni e lavoro forzato

  • 15,4 milioni di vittime di matrimoni forzati
    Il 63% ha contratto il matrimonio in età adulta (tra essi, il 77% è donna). Il 37% ha subito il matrimonio da minorenne (tra loro è femmina il 96% e il 44% aveva meno di 15 anni). La più giovane vittima registrata dall’Oil aveva 9 anni al momento del matrimonio. In totale, l’84% delle vittime è di sesso femminile.
  • 24,9 milioni di vittime di lavoro forzato
    Il 71% è donna o bambina. In totale, una vittima su quattro è minorenne (il 25%).
    Il lavoro forzato viene distinto in tre tipologie:

    • 1- Il lavoro forzato presso privati che conta 16 milioni di vittime nel 2016. Di questi, il 59% sono di sesso femminile, l’81% adulti, il 19% minorenni.
    • Le vittime di questa forma di schiavitù ritrovano la libertà in media dopo 20,5 mesi. Sul totale, il 24,3% è impiegata in lavori domestici, il 18,2% nell’edilizia, il 15,1% nell’industria; l’11,3% nell’agricoltura e nella pesca, il 9,5% in alberghi e ristorazione, il 9,2% nel commercio all’ingrosso, il 6,8% nei servizi personali, il 4% nelle miniere, l’1,6% nell’accattonaggio e in altro.
    • 2- Il lavoro forzato imposto dalle autorità statali che conta 4,1 milioni di persone. Di queste, alcune lavorano per anni, molte per poche settimane.
    • 3- Lo sfruttamento sessuale forzato che coinvolge 4,8 milioni di vittime. Tenute, in media, per 23,4 mesi nella loro situazione, la stragrande maggioranza (99,4%) sono donne e ragazze. I minori rappresentano il 21,3% del totale.
  • Il tasso di schiavitù per area del mondo
    Altro dato interessante e il tasso di schiavitù per aree geografiche: il più alto è in Africa, con 7,6 vittime ogni 1.000 persone. Il secondo nell’area Asia meridionale e Pacifico, con il 6,1 per mille, il terzo in Europa e Asia centrale, con il 3,9 per mille, il quarto negli stati arabi, con il 3,3 per mille e infine nelle Americhe con 1,9 vittime ogni mille persone.

L.L.

 


     

 

 

 

La collana «#VoltiDiSperanza»
delle edizioni Velar / Marna

Diari dal Sud

Piccoli libri dai quali emergono volti e storie di persone incontrate dall’autore in diversi luoghi del mondo. Racconti di viaggio per ricordare situazioni drammatiche su cui porre attenzione: dalle violenze dell’Isis in Iraq a quelle di Al-Shabaab a Garissa, in Kenya del Nord, dalla guerra silenziosa nel cuore del Messico, alla violazione dei diritti umani nel carcere di Challapalca in Perù.
È la voce di don Luigi Ginami quella che attraversa le pagine dei volumetti editi a partire da dicembre 2016 dalle edizioni Velar Marna. Una voce che racconta, nello stile semplice e diretto dei diari di viaggio, paesi e situazioni di cui è bene non perdere il ricordo.

Sacerdote della diocesi di Bergamo e presidente della Fondazione Santina Onlus, don Luigi parte almeno due volte all’anno per un luogo diverso allo scopo di incontrare le comunità aiutate dalla sua associazione. Da ogni racconto di viaggio emergono volti e storie di persone. E sono proprio alcune di queste a dare il titolo a ciascuno dei volumetti: Nasren, ad esempio, è una ragazzina yazida conosciuta nel campo profughi Dawidiya, a 70 km da Mosul, in Iraq, affetta da «Disturbo post traumatico da stress» causato dall’incontro con gli uomini del Califfato nero nell’agosto del 2014, quando aveva 11 anni. Janet Akinyi, giovane donna di 22 anni, che don Luigi non ha incontrato perché assassinata il 2 aprile 2015 nell’università di Garissa, in Kenya, assieme ad altri 147 studenti, da un commando di al-Shabaab. Padre Dominic, sacerdote vietnamita che ha subito la prigionia durante il regime comunista nel suo paese.

 

 

 

 

Il ricavato della vendita dei volumi andrà ai progetti della Fondazione Santina, in favore delle realtà raccontate.




Sommario MC Novembre 2017

In questo numero il dossier è dedicato alla realtà, problemi sociali, politici e religiosi e opportunità dell’immigrazione in Germania. Tre articoli affrontano il problema della terra e dell’ambiente: la deforestazione del Borneo, i conflitti per la terra in Brasile e l’esperienza alternativa della «Permacultura». C’è poi una condivisione di vita missionaria dalla Corea del Sud, più le nostre caratteristiche rubriche. Buona lettura

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???  03  ???   Editoriale: Lacrime nascoste di missionari

Dossier

???  35 ???  Germania:  Essere tedeschi di Simone Zoppellaro

Articoli

??? 10  ???   Malaysia: Borneo: giungla addio di Marco Bello
??? 15  ???   Corea del Sud: L’ospite d’onore di Gian Paolo Lamberto
??? 43  ???  Brasile: Una pallottola non manca mai di Paolo Moiola
??? 53  ???  Italia: Una prospettiva per guardare il futuro di Silvia C. Turrin

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 23  ???   Pregare 9. Pregare, un collirio per la vista del cuore di Paolo Farinella
??? 19  ???   Cooperando: Come sta la sanità in Costa d’Avorio di Chiara Giovetti
??? 50  ???   I Perdenti /29 Don Giuseppe Rossi di Mario Bandera
??? 58  ???   Librarsi: Mercanti di schiavi di Luca Lorusso
??? 61  ???  ALLAMANO a cura di Sergio Frassetto


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