Sommario MC ottobre 2017

Sommario di questo numero di ottobre, il mese missionario. Si conclude la fotostoria sul capitolo generale dei missionari della Consolata che diventano anche responsabili di una parrocchia a Taiwan; poi c’è spazio per la Malaysia, per l’esperienza di Nawal che salva i migranti nel Mediterraneo e di padre Solalinde che da lo stesso in Messico; da leggere è il dossier che ci fa conoscere Kim, il giovane dittatore della Corea del Nord, che sembra in rotta di collisione col mondo. E poi le rubriche di Farinella, Bandera, Chiara Giovetti; e le lettere; e per concludere le belle pagine di AMICO. Buona lettura.

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???  03  ???   Editoriale: Missione … e Malaria

Dossier

???  35 ???    Kim, il dittatore incompreso di Piergiorgio Pescali

Articoli

??? 10  ???   Malaysia: Allah, ma non per tutti di Marco Bello
??? 15  ???   Italia: Ogni Continente la «sua» Missione di Gigi Anataloni
??? 21  ???   Taiwan: Nell’isola «bella» un parroco africano di Eugenio Boatella
??? 26  ???  Italia-Mediterraneo: È il cuore che mi paga di Luca Lorusso
??? 51  ???  Messico: Un salto nel buio di Paolo Moiola
??? 58  ???  Islam: Finché il jihadismo rimane «halal» di Angela Lano

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 31  ???   Insegnaci a pregare 8. Pregare nel cuore della lotta di Paolo Farinella
??? 62  ???   Nostra Madre Terra: Zanzare e plasmodium, una coppia pericolosa di Angelo Dutto
??? 66  ???   Cooperando: La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1 di Chiara Giovetti
??? 70  ???   I Perdenti /28 Admira Ismic e Bosko Brkic di Mario Bandera
??? 73  ???  AMICO a cura di Luca Lorusso


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Missione … e malaria


In una valle delle nostre splendide Alpi un gruppo di giovani di una parrocchia di città, a fine agosto, sta facendo il campo estivo. Accanto alla casa che li ospita cresce una alberello di prugne, che, ormai mature, dolcissime e assolutamente bio, cadono sul sentiero che i giovani percorrono più volte al giorno. In terra prugne calpestate. In alto rami carichi di blu profondo. Passano i ripassano i giovani. Non vedono le prugne. Non allungano la mano per cogliere quella bontà fresca e gratuita.

Un’altra storia. Da un altro mondo. Africa, Tanzania. Un missionario scrive entusiasta ad amici e benefattori delle meraviglie che il Signore sta operando: le ordinazioni di tre nuovi missionari, dieci giovani che hanno completato il loro periodo di noviziato e iniziano gli studi di teologia, e molti altri che finita la scuola secondaria entrano in seminario per iniziare il cammino di formazione per essere un giorno testimoni di Gesù nei più remoti angoli del mondo.

Due storie apparentemente slegate tra loro, da due mondi molto diversi.

Missione, gioia contagiosa

Ho pensato a questi due fatti leggendo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale del 22 ottobre. «La missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di buona volontà, è fondata sul potere trasformante del Vangelo. Il Vangelo è una Buona Notizia che porta in sé una gioia contagiosa perché contiene e offre una vita nuova: quella di Cristo risorto», scrive papa Francesco. Un messaggio trasformante, realizzato attraverso l’annuncio del Vangelo, nel quale Gesù si fa «sempre nuovamente nostro contemporaneo».

Leggendo queste parole ho pensato a quei ragazzi di città talmente abituati alla frutta del mercato o del frigo di casa da non accorgersi di quella ancora sull’albero. Forse ci rappresentano un po’, abituati come siamo a lasciarci saziare da social, televisione, giornali, fake news, opinione pubblica, guru, politicanti e specialisti vari che ci sommergono di «ricette» per vivere felici senza problemi, al punto da trascurare l’ascolto di quella Parola di Vita che è Gesù stesso, Parola spesso relegata a una frettolosa oretta domenicale – ferie, ponti e settimane bianche permettendo -.

Ho pensato anche ai giovani del Tanzania, più poveri e con meno mezzi di noi, perché sono ancora capaci di «arrampicarsi sugli alberi per cogliere la frutta fresca» della Parola di Dio che li apre alla gioia contagiosa e trasformante dell’incontro con il Cristo risorto e con gli altri.

Beati noi, però, perché Dio non si stanca mai di offrirci la sua «frutta fresca e gratuita».
Beati noi, perché Dio crede nell’uomo più dell’uomo stesso.

Malaria e manipolazione della verità

Malaria. Cambio argomento, provocato dalle assurdità che vedo, leggo e sento in questi giorni a proposito di malaria. Comincio autodenunciandomi come suo possibile «portatore sano» e potenziale fonte di contagio (cfr. articolo pag. 62) per chi mi sta vicino con zanzara anofele di mezzo. Questo perché dopo 21 anni di Kenya e un po’ di Tanzania, di punture di zanzare portatrici del parassita ne ho prese a volontà, anche se la malaria vera e propria non l’ho mai avuta. Mi vergogno come italiano della strumentalizzazione della morte di una bambina e del dolore della sua famiglia per diffondere notizie false che alimentano odio e razzismo, sfruttando buon cuore, ignoranza e paure della gente. Certo la malaria non è una bella malattia. L’ho visto di persona. Ricordo che all’ospedale di Wamba nel Nord del Kenya, durante i periodi di siccità e fame moriva almeno un bambino al giorno di malaria. Inoltre so bene che più di un missionario ha perso la vita per lo stesso motivo, tra di essi alcuni cari amici. Ma usare il pretesto della malaria per alimentare il razzismo e aumentare l’odio verso persone come i migranti dall’Africa che di dolore, violenze e sofferenze sono carichi, mi sembra ingiusto e indegno del nostro essere italiani.

Queste manipolazioni a scopi di politica elettorale non sono accettabili, né per i migranti che ne pagano il prezzo con ulteriori sofferenze, né per ogni italiano, perché come italiani ci meritiamo più rispetto di quello che certi nostri politici ci danno. Solidarietà e volontariato sono due impagabili caratteristiche del nostro paese che noi missionari conosciamo bene. Due forze di vita che si manifestano sia sul nostro territorio sia nella miriade di associazioni e gruppi che aiutano a livello internazionale. Solo che non fanno rumore, come la foresta che cresce. «L’italiano qualunque», quello che ama la pace, quello dal cuore grande, ha gli anticorpi al plasmodio dell’intolleranza e del razzismo. Usiamo l’insetticida della fraternità, della compassione e della vera umanità contro le zanzare dell’odio e del razzismo che si nutrono delle nostre paure.




Cari Missionari: di Rohingya, Trasparenza e preghiera e missione


Rohingya

Preg. P. Gigi,
vorrei condividere alcune riflessioni sul dossier sui Rohingya che mi aveva gentilmente mandato. Il testo è buono anche se non aggiornato, per questioni di tempo, alla seduta del Tribunale dei Popoli che ha avuto luogo il 6-7 marzo 2017 a Londra. C’è però un punto su cui ho avuto qualche perplessità. L’articolista sembra essere incorso in un’ingenuità quando riferisce un’opinione secondo cui la situazione di questa popolazione sembra più difficile ora che non sotto la dittatura. Ma è chiaro che sotto la dittatura tutti erano compressi e bloccati e nessuno poteva fare ascoltare le proprie ragioni, né questo popolo né nessun altro gruppo o persona perseguitati, ma questo non vuol dire che «si stava meglio quando si stava peggio», facile slogan qualunquista e filofascista. Io sono sempre convinta che Aung San Suu Kyi sia una persona straordinaria e piena di buoni propositi, ma questioni così antiche e complesse hanno bisogno comunque di un tempo un po’ disteso per la loro risoluzione. Quindi segnalare e sollecitare va bene, ma condannare no. Forse l’autore non voleva dire questo, ma la forma usata induce un po’ a pensarlo e mi sembra perlomeno un’ingenuità. Cordiali saluti. Grazie,

Maria Rosaria Salvini
26/07/2017

Abbiamo passato la email a Piergiorgio Pescali per un suo commento.

Nel mio lungo dossier (e soprattutto nei documenti, interviste, libri elencati come riferimenti alla fine del dossier e che ne sono l’ossatura) delle mancanze di Aung San Suu Kyi (Assk) si è parlato ben poco. Anzi, direi quasi nulla rispetto a quello che avrei dovuto fare. E volutamente, proprio perché si è voluto lasciare spazio alla comprensione della complicata vicenda dei Rohingya che ha le sue radici nella colonizzazione britannica, è scoppiata durante la Seconda Guerra Mondiale con la lotta tra britannici (appoggiati dalle etnie non bamar) e giapponesi (appoggiati dal governo di Aung San e dai Bamar [Birmani]), per divampare negli anni Settanta, durante la giunta militare.

Se c’è stata «ingenuità», allora sono in buona compagnia, perché della stessa ingenuità si sono «macchiati» Muhammad Yunus, Josè Ramos Horta, Shirin Ebadi, Desmund Tutu, Malala Yousafzai, Emma Bonino, Oscar Arias, lo stesso Ufficio di Diritti Umani delle Nazioni Unite, l’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari (Unocha), l’Unicef e molte altre singole persone e agenzie umanitarie che hanno chiesto (inutilmente) ad Assk di condannare «senza se e senza ma» le violenze di cui sono vittime i Rohingya e di mostrare (inutilmente) la volontà del governo di risolvere il problema non solo dei musulmani, ma delle decine di etnie che costellano il paese. Hanno peccato di ingenuità anche quelle persone che per anni hanno sostenuto Aung San Suu Kyi ed oggi si ritrovano inevitabilmente delusi a criticare il suo operato. Famosa l’intervista (proprio sui Rohingya) della Bbc (una delle emittenti che più hanno appoggiato la Lady durante il periodo di prigionia) in cui la stessa Assk ad un certo punto è sbottata dicendo che nessuno l’aveva avvisata che l’intervistatrice, troppo precisa nell’elencare le mancanze del governo, era musulmana. Già, perché la signora Assk, dopo aver tanto predicato contro il regime militare, oggi si trova a giocare dalla stessa parte del Tatmadaw (l’esercito birmano), negando i diritti ai lavoratori, negando le terre ai contadini di Monywa, negando ai Kachin il diritto all’autodeterminazione e giustificando le rappresaglie dell’esercito. Tutto in nome di una identità unitaria del paese.

Ho iniziato a frequentare il Myanmar nel 1988, quando ancora si chiamava Birmania. Ero presente al primo comizio pubblico di Assk e ho incontrato la Lady diverse volte prima, durante e dopo gli arresti domiciliari, quando in Occidente era una perfetta sconosciuta. Ho incontrato Michel Aris, il marito, il primo figlio Alexander e i numerosi professori con cui Assk ha lavorato ad Oxford. La figura che ne ho tratto è molto diversa dall’ Assk edulcorata e iconica propinata dal film agiografico di Luc Besson, forse per via degli astii e dei rancori che si erano instaurati tra queste figure e Assk. La sua miopia politica è sempre stata evidente, ma è stata celata da validi collaboratori (oggi purtroppo morti o troppo anziani) e dal fatto che, dalla sua casa – in cui era agli arresti domiciliari -, poteva criticare (anzi, per usare un termine più adatto, «condannare») senza dover dimostrare le sue capacità di governo. Ma quando si è trovata a dover affrontare i problemi che lei stessa, con ingenuità, denunciando, aveva detto che avrebbe risolto, ecco che è crollata perdendo consensi.

Assk ha accentrato su di sé tutte le cariche più importanti del governo, anche quelle che permettono di interloquire direttamente sul problema dei Rohingya (Assk è ministro degli Esteri, primo ministro, Consigliere di Stato, presidente del Comitato Centrale di pace nel Rakine, presidente del Comitato Unione e Dialogo, ministro dell’Ufficio del Presidente).

Sono stato espulso dal Myanmar di Than Shwe; diverse volte mi sono stati sequestrati appunti, fotografie, macchine fotografiche, registrazioni. Non sarò certo io, quindi, a chiedere il ritorno al regime militare, ma di fronte a quanto sta avvenendo non basta «segnalare», occorre anche «condannare» quello che è contro giustizia e democrazia.

Piergiorgio Pescali
09/08/2017


Trasparenza

Gentile direttore,
la lettera «Sorpresa e tristezza» (MC 7/2017 p.7) merita qualche ulteriore riflessione. Nessuno nega la possibilità, anche all’interno di una stimata congregazione come quella dei MC, che esistano mele marce. Succede nelle migliori famiglie […]. L’interesse delle rimanenti mele buone dovrebbe però essere quello di evitare che in futuro possano accadere fenomeni fraudolenti, e questo solitamente nelle diocesi e negli ordini religiosi non accade. Una gestione più trasparente dei beni mobili e immobili di proprietà sarebbe un valido antidoto. Se per esempio venisse rispettata la legge che impone di pubblicare i bilanci, e quindi rendere conto di come vengono amministrati i beni e quale provenienza abbiano, sarebbe sicuramente più difficile per i malintenzionati, interni ed esterni agli enti, agire in modo fraudolento.

La fondazione Missioni Consolata Onlus pubblica già da anni i bilanci, ma non evidenzia le proprietà e nulla viene riportato riguardo il loro utilizzo, anche se nella stragrande maggioranza dei casi queste informazioni non farebbero che aumentare il grado di soddisfazione in chi, riponendo in voi fiducia, vi affida donazioni e lasciti. L’ente cui lei appartiene è già innovativo: è abitudine infatti della maggior parte degli enti religiosi cattolici di nascondere ogni dato relativo, nonostante la Cei imponga da anni di redigere un bilancio anche alla più sperduta parrocchia, fino a quando l’ennesimo scandalo li obbliga a difendersi da accuse fondate urlando al complotto.

Gli amici protestanti su questo argomento sono avanti anni luce e vengono ripagati dall’opinione pubblica con un 8 per mille decuplicato rispetto al numero di fedeli. MC dovrebbe farsi promotore all’interno del mondo cattolico torinese, magari in compagnia dei Camilliani che hanno recentemente subito analoghe vicissitudini, di una campagna perlomeno torinese che invochi più trasparenza nelle gestioni economiche. Sono sicuro che troverebbe numerosi compagni di viaggio. Con sincero affetto,

Paolo Macina, Torino
04/07/2017

Caro Sig. Paolo,
concordo pienamente con lei sulla necessità della trasparenza, anche se ritengo che per essere davvero tale debba essere molto di più che un fatto legale o di pubbliche relazioni. Trasparenza si sposa anzitutto con giustizia, con onestà, con gratuità, con servizio e, per noi missionari e religiosi, con povertà. Per una vera trasparenza non basta certo aumentare o inasprire le leggi (dello stato, con 75mila leggi e 160mila norme varie), i canoni (del diritto Canonico, 1.752) o le normative (delle Costituzioni e Direttori di Diocesi e Istituti religiosi).

È una realtà che abbiamo sperimentato anche durante il nostro recente Capitolo generale: abbiamo una caterva di normative, documenti, direttorii, regolamenti, ma senza una profonda conversione personale, una vera passione per Gesù Cristo che diventa imitazione del suo stile di vita, tutto rischia di restare lettera morta. Grazie quindi della sua email, che esprime una preoccupazione che va ben oltre la nostra piccola realtà e coinvolge tutta la Chiesa.

Avevo preparato una lunga e articolata risposta, poi l’ho messa da parte perché troppo lunga per queste pagine. Ho fatto qualche ricerca e non mi risulta che esista una normativa precisa che impone agli enti religiosi di pubblicare i bilanci. Ci sono però tre punti chiave che tutti i documenti della Chiesa sottolineano: trasparenza, legalità e chiarezza. Fossero sempre applicati, avremmo risolto molti problemi.

Concludo con una mia considerazione. Gesù dice che dobbiamo valutare «dai frutti». Noi missionari della Consolata, e tutti gli altri missionari, non siamo un’organizzazione segreta di stampo mafioso o massonico, agiamo (e facciamo anche sbagli) alla luce del sole. Giudicateci dalle nostre opere.

In questi giorni di ferragosto abbiamo appena sepolto un missionario che in vita sua (50 anni di messa celebrati lo scorso anno) ha perso il conto di quanti milioni di lire (e forse di euro) ha maneggiato per aiutare i poveri e dare la possibilità a tantissimi bambini (quanti? non credo abbia mai tenuto il conto) di andare a scuola in Kenya, in Colombia e in Ecuador e costruirsi così un futuro diverso. Padre Giuseppe Ramponi è uno dei tanti Missionari della Consolata, l’810°, che ha dato tutto per amore, anche se ha fatto i suoi sbagli. La sua ricchezza e la sua debolezza? L’amore per i bambini poveri dell’Ecuador per i quali «rompeva» tutti, affidati ora al buon cuore dei suoi tanti amici.


Preghiera per ringraziare

Egregio sacerdote don Paolo Farinella,
sono particolarmente interessato alla sua rubrica «Non sappiamo pregare». Ogni sera dedico ore cercando di interpretare per un rinnovo della mia coscienza, un modo nuovo per ringraziare il Signore per quanto mi ha concesso nell’arco della mia vita: 83 anni. Purtroppo debbo rinunciare a malincuore, causa la mia scarsa preparazione teologica. Sono credente e praticante, apro e chiudo la giornata ringraziando il Signore, come mi ha insegnato la mia cara mamma. Le chiedo umilmente scusa per quanto espresso.

Domenico Musso
Rivoli, 20/07/2017

Risponde don Paolo.

Carissimo Domenico, il suo modo di pregare altro non è che l’Eucaristia: ringraziare. È il vertice della preghiera cristiana. È vero che noi non sappiamo pregare (lo dice san Paolo!), ma è anche vero che lo Spirito Santo agisce in noi «sia che dormiamo sia che vegliamo» (sempre lo stesso san Paolo!). Mi permetta un piccolo suggerimento: non si accanisca più nel dedicare ore nell’interpretazione, si abbandoni soltanto, chiuda gli occhi e dica con san Tommaso, l’apostolo birichino: «Mio Signore e mio Dio». Il resto è in più. Pregare non è consumarsi nella ricerca, ma nell’imparare a «vedere Dio» con gli occhi del cuore. Lei è figlio, Dio Padre l’ama come è e non pretende nulla di più, perché lui è abituato a prendersi tutto con dolcezza e tenerezza: «Signore, non ho niente da darti, solo me stesso, prendimi così perché ti cerco con la stessa sete della cerva. Mi basta sapere che tu ci sei. Grazie e buon giorno… buona notte, Signore!». Un caro saluto affettuoso e grazie per la sua bella lettera.

Don Paolo Farinella
11/08/2017


Di pecorelle «buone» e altro ancora

Cari missionari,
ho ricevuto il numero di giugno [di MC, ed è] stata una gradita sorpresa, [vedere che] avete preso sul serio certe argomentazioni che non sono solo mie. Vorrei fare però delle precisazioni, [cominciando dal] titolo [perché] non intendevo discutere se siate o no ancora cattolici. Un giudizio temerario.

Titolo. Io intendevo enfatizzare che la rivista si occupa sempre più di cose collaterali. Le pagine più direttamente di formazione sono quelle di don Farinella che io poi ho criticato e ora aggiungo anche che non possono essere rivolte a tutti. Anzi lo sono, ma spesso sono o troppo difficili, o troppo provocatorie o troppo e solo per le pecorelle smarrite, troppo poco per quelle che non vorrebbero smarrirsi e per le quali ci sono sempre e solo rimproveri. Se però la scelta editoriale è questa lo si può dire, così si fa meno confusione. Però mi chiedo «chi si occupa delle pecorelle non smarrite?». In teoria sono 99 su 100, sappiamo che ora sono molte meno. Fa bene il pastore a inseguire quelle smarrite ma a me sembra che tanti pastori più che altro si occupino di rompere la staccionata e poi dicono, essendo noi ormai adulti, che non c’è né dentro né fuori (anzi guai a parlare di dentro e fuori, si è divisivi, scandalo) e le pecorelle «buone» devono con il dialogo convincere quelle altre. Anzi ormai siamo andati oltre e il dialogo non è più un mezzo ma il fine. Bisogna rimanere in dialogo, una sorta di stallo e se uno si convince, indurlo al dubbio che magari è meglio non convertirsi. Gesù però parlava di dentro e fuori, non è venuto a portare la pace, anzi la spada, era divisivo e ci ha indicato come esempio i bambini che credono con fiducia perché ha parlato la mamma e non gli adulti che discutono sempre tutto per partito preso. Mi scusi ma anche questa cosa dei cristiani adulti non mi va bene. Faccio un discorso fondamentalmente logico. Io credo che quelli che si definiscono come cristiani adulti intendano dire che hanno prima, diciamo, sentito il messaggio cristiano, l’hanno sottoposto a critica, girato e rigirato, hanno voluto fare come Tommaso e mettere il dito nella piaga, e poi e solo poi hanno accolto il messaggio. Ed è una cosa meritevole ma rimane il fatto che Gesù ama Tommaso ma «consiglia» di non fare come lui. L’esempio che indica è quello dei bambini e di quelli che credono senza mettere il dito nella piaga.

Fintanto che non si spiega in modo convincente quanto tutta questa pastorale creativa di questi cristiani adulti si accorda con gli insegnamenti di Gesù si fa una gran confusione, anzi purtroppo è già stata fatta, e quindi si fa un danno alla Chiesa. Io credo che faccia cosa buona il cristiano che non dice di essere adulto così si evita almeno la confusione. Di tutto c’è bisogno tranne che di ulteriore confusione.

[…] Ribadisco i complimenti per l’ottimo articolo riguardo alla Siria e tutta l’informazione che fate riguardo il Medio Oriente che dovrebbe passare sui telegiornali e senza la quale si ha una immagine distorta della situazione. Cordiali saluti

Andrea Sari
10/07/2017

Caro Sig. Andrea,
come le ho scritto personalmente, ho tagliato la sua email che avrebbe occupato da sola non tre, ma ben quattro pagine. Cercherò di pubblicarne altre parti nei prossimi numeri. Per quanto riguarda il titolo, ha ragione. Sono caduto nella trappola di voler attirare l’attenzione a tutti i costi. Come quel titolo di prima pagina letto in questi giorni su un quotidiano: «Sala giochi in chiesa». Che? Hanno messo i videogames o le slot machine? No, solo un angolo dove i bambini possono giocare in pace.
A risentirci. Intanto lascio ai nostri amici lettori dire la loro sulle pecorelle non smarrite. Ogni bene a lei.


Preghiera e missione

Caro Direttore,
allego una preghiera ispirata dal Messaggio di Papa Francesco per la prossima 91a Giornata Missionaria Mondiale.

La missione al cuore della fede cristiana.

O Signore nostro Gesù Cristo crocifisso e glorioso,
Radunati attorno a Te, apostolo del Padre, continuamente ci riscopriamo Tuoi discepoli-missionari, accogliendo con intima gioia il Tuo invito ad annunciare il Vangelo dell’amore. Il fondamento della missione della Tua Chiesa, di cui siamo membra vive, è la forza trasformatrice del Tuo Vangelo, che è la Tua stessa Persona. Nutrendoci con la Tua Parola, che è Spirito e vita, riceviamo luce per seguirti con fiducia e coraggio, riconoscendoti nostra Via e indicandoti ai nostri fratelli.

Alla Tua scuola sperimentiamo che sei la Verità che ci rende liberi da ogni egoismo, ricevendo la Tua Vita. In ubbidienza al Padre Tuo e nostro, desideriamo imitarti, lasciandoci trasformare dallo Spirito Santo perché la nostra vita sia culto, proclamazione e irradiazione di Te, che continuamente ti fai carne in ogni situazione umana.

Tu mediante la missione della Tua Chiesa – tempo provvidenziale della salvezza nella storia – continui a evangelizzare e agire, diventando nostro contemporaneo, affinché chi ti accoglie con fede umile e carità operosa sperimenti il potere trasformante del Tuo Spirito vivificante, che rende fecondo il cuore e il creato, come fa la pioggia con la terra.

La Tua Pasqua è energia vitale che rinnova il mondo, facendo germogliare la risurrezione dove tutto sembra che sia morto. Chi si apre al Tuo Vangelo, si scopre gioiosamente chiamato a partecipare al mistero della Tua passione, morte e risurrezione.

Mediante il Battesimo liberi gli uomini dal dominio del peccato e della morte, facendoli rinascere come nuove creature dall’acqua e dallo Spirito. Mediante la Cresima effondi il sigillo del Tuo Santo Spirito, che fortifica i battezzati indicando loro itinerari e metodi nuovi di testimonianza e di vicinanza al prossimo. Mediante l’Eucaristia, farmaco d’immortalità, Ti fai Pane del cammino per continuare attraverso di noi, Tuo Corpo e Tua Sposa, la Tua missione di Buon Samaritano, curando le ferite dell’umanità dolorante, e di Buon Pastore, cercando appassionatamente chi si è smarrito per sentieri contorti e senza meta.

Divino Maestro, benedici in particolare i giovani perché siano viandanti della fede, felici di portarti in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra, vivendo la loro responsabilità missionaria con immaginazione e creatività.

Signore della Chiesa, suscita in ogni comunità cristiana il desiderio di uscire dai propri confini e dalle proprie sicurezze per raggiungere le periferie esistenziali e geografiche bisognose del Tuo Vangelo. Fa’ crescere in tutti noi un cuore missionario, perché rispondiamo alle vaste necessità dell’evangelizzazione con la preghiera, con la testimonianza della vita e con la comunione dei beni.

Maria, Madre dell’evangelizzazione, che – mossa dallo Spirito – hai accolto il Verbo della vita con umile fede, aiutaci a dire il nostro «eccomi» per collaborare a far risuonare nel nostro tempo il Vangelo della vita che vince la morte, perché a tutti giunga il dono della salvezza.

Lode, onore e gloria Te, Gesù Signore, il primo e il più grande evangelizzatore. Amen. Alleluia!

Don Francesco Dell’Orco
Bisceglie, 06/06/2017

 

 




Corea del Nord:

Verità e segreti oltre il 38° parallelo


Kim, il dittatore incompreso.
Kim Il Sung, detto il Grande leader, suo figlio Kim Jong Il e suo nipote Kim Jong Un, l’attuale presidente, hanno guidato la Corea del Nord (Repubblica democratica popolare di Corea) dal 1948 a oggi. In questo dossier presentiamo un viaggio tra politica, economia, diritti umani e nucleare per scoprire se la Corea del Nord costituisca un pericolo reale, soprattutto dopo il sesto test atomico (con la prima bomba termonucleare) effettuato da Pyongyang lo scorso 3 settembre. E senza scordare che la guerra di Corea (1950-1953) ancora non è stata chiusa con un accordo di pace.

L a «Storia delle Cinque dinastie», compilata nel 974 dallo storico cinese Xue Juzheng durante la dinastia Song, racconta che nel 946 d.C. il monte Paektu – al confine tra la Corea del Nord e la Cina – fu sconvolto da una violenta eruzione. I geologi fanno risalire a quell’evento naturale la formazione del lago del Paradiso, lo specchio d’acqua che riempie il cratere del vulcano. Sembra però che la guida che mi accompagna ansimando lungo la parte nordcoreana della caldera non sia al corrente di questa acquisizione scientifica riguardo alla formazione del lago: «Da qui si domina tutta la Corea. Le acque di questo lago hanno visto due degli episodi più importanti della storia della Corea», racconta seduto guardando la riva opposta appartenente alla Cina. «È qui che è nato Dangun (il leggendario fondatore del paese, ndr) ed è qui che, quattromila anni dopo, il Grande Leader Kim Il Sung ha donato a una Corea umiliata e colonizzata, il suo futuro leader: Kim Jong Il. Kim Il Sung, Kim Jong Il e Kim Jong Un sono i veri e unici eredi di Dangun e il lago del Paradiso ne è il perpetuo testimone».

I primi cenni storici riguardanti Dangun risalgono al XIII secolo d.C.. Egli è il leggendario fondatore del primo regno coreano nel 2333 a.C., un personaggio sospeso tra mito e realtà che Kim Il Sung ha voluto storicizzare e prendere come pietra miliare per rafforzare la successione di Kim Jong Il, meno carismatico del padre, facendolo nascere ai piedi del monte Paektu, il «sacro luogo della rivoluzione coreana dove il giovane generale Kim Il Sung creò la guerriglia antigiapponese».

In Corea del Nord epopee, leggende, miti, fatti storici si intrecciano tra loro in un groviglio inestricabile alimentando molta letteratura fantasiosa che circonda il paese asiatico e di cui un certo tipo di giornalismo poco serio, alla ricerca di facili scoop e di likes sui social network, si è ormai appropriato.

Leggende metropolitane e bufale sulla Corea del Nord se ne contano a decine. Anche le redazioni delle testate più quotate e popolari troppo spesso preferiscono sorvolare sulla verifica delle fonti e sulla veridicità delle notizie per conquistare la loro fetta di lettori (e di pubblicità).

Certamente parlare con cognizione di Corea del Nord, un paese difficile (ma non impossibile) da visitare ed in cui è complicato (ma non impossibile) separare la propaganda dalla realtà, non è facile. Per questo molti si accontentano di riportare come veri fatti ripresi da testate satiriche o semplicemente da siti poco attendibili (vedi sotto: «Piovono le bufale»).

I «signori dei soldi» e il mercato immobiliare

Varcare a Nord il 38° parallelo non è, come pretendono molti, un viaggio a ritroso nel tempo: la Corea del Nord, in particolare dopo che, nel 2011, Kim Jong Un è succeduto a Kim Jong Il, è una nazione in continua trasformazione economica, sociale e, seppur in modo meno evidente, politica.

L’attuale giovane leader nordcoreano ha dimostrato di credere nel mercato rivoluzionando un governo gerontocratico e anchilosato dai militari, mettendo al loro posto tecnocrati ed economisti.

Ed i risultati si vedono, a cominciare dalle città che in questi ultimi anni sono state oggetto di un drastico riassetto urbanistico caratterizzato da un boom immobiliare. Strano a dirsi, in un regime a mercato socialista, la compravendita di immobili è oggi uno dei maggiori giri d’affari del paese tanto che a Pyongyang (ma non solo) c’è un nuovo quartiere residenziale i cui prezzi sono schizzati talmente alle stelle che viene spesso soprannominato Pyonghattan. Qui, lungo la Changjon Street, joint venture sino-nordcoreane hanno costruito appartamenti utilizzando strutture moderne, nuovi materiali, nuovi spazi che dovranno essere riprodotti negli altri centri urbani del paese. Case insonorizzate, vetrate più ampie per dare luminosità alle stanze, colori vivaci, coibentazione per risparmio energetico: sono le residenze dei donju, letteralmente «i signori dei soldi», i nuovi ricchi della Corea del Nord, coloro che, grazie a conoscenze o parentele all’estero, sono riusciti, durante gli anni Novanta e la prima decade del Duemila, a creare redditizie attività commerciali (si stima che i soli 10.000 nordcoreani che lavorano in Sud Corea inviino al Nord circa 10-15 milioni di dollari annui)1.

«I donju occupano quelle posizioni imprenditoriali e economiche che il governo, per mancanza di fondi o di inventiva, non riesce a colmare», spiega Kang Go-eun, professoressa di Economia alla Pyongyang University of Science and Technology (Pust), l’unica università privata della Corea del Nord, creata e finanziata dalla Chiesa cristiana evangelica sudcoreana ed in cui, durante l’anno scolastico, una sessantina di professori provenienti da Cina, Stati Uniti, Canada, Corea del Sud e Gran Bretagna, si alternano a insegnare a una élite di 500 studenti le basi dell’economia di mercato. Nelle aule della Pust, ma anche in alcuni corsi della più famosa università del paese, la Kim Il Sung University, si sta formando la futura classe economica della Corea del Nord, che si avvia sempre più verso un’economia di mercato.

È in questo nuovo contesto sociale che avvengono le cospicue transazioni immobiliari nordcoreane; mediatori contattano funzionari dei vari Dipartimenti regionali di assegnazione degli alloggi i quali, con una «commissione» che va dal 10 al 30%, riservano a chi ne fa richiesta i migliori appartamenti. Un affare da trilioni di won, vista la crescita esponenziale avuta negli ultimi anni dei prezzi degli immobili dal 2004 a oggi. Un appartamento di 100 metri quadrati sulla Changjon situato sui «piani reali» (fino al terzo o quarto piano di un edificio e così chiamati perché più accessibili senza l’ausilio di ascensori spesso fermi per mancanza di energia elettrica), può costare l’equivalente di 170.000 euro. In centro a Pyongyang i prezzi medi si aggirano sui 1.000 euro al metro quadrato, mentre a Chongjin, una città in piena fase di sviluppo sulla costa settentrionale ci si accontenta di 800 euro al metro quadrato. Se si pensa che nel 2004, quando iniziarono a funzionare le prime transazioni immobiliari, un appartamento a Pyongyang costava meno di 2.000 euro, si può capire quanto sia consistente il movimento di denaro che interessa il settore.

Il governo è naturalmente a conoscenza di tale commercio, così come di altre attività private quali ristorantini, pubs, bar, discoteche, negozi che permettono alla maggior parte delle famiglie nordcoreane di aumentare i loro introiti, ma fa buon viso a cattivo gioco. Un funzionario statale guadagna tra i 3.000 e i 5.000 won al mese, l’equivalente di 15-33 euro che però si riducono a 30-60 centesimi di euro al mercato nero2; un’inezia anche per un paese, come la Corea del Nord, dove – in teoria, ma in pratica avviene sempre più di rado – ogni cittadino avrebbe diritto a ricevere cibo e generi di prima necessità gratuitamente da parte dello stato. In realtà si stima che, per sopravvivere, una famiglia di quattro persone necessiterebbe un’entrata mensile di 100.000 won3. Molte famiglie guadagnano ben più della cifra minima di sopravvivenza e l’80% delle entrate di un nucleo famigliare proviene dalle attività private.

Nei centri commerciali: i prodotti e i prezzi (in «won»)

I prezzi non sono più determinati dallo stato, ma dal mercato (e quindi dal cambio nero). Nell’affollatissimo centro commerciale di Kwanbok trovo bottiglie di Chivas a 272.000 won, mele a 5.500 won al chilo, shampoo L’Oréal a 40.000 won, diverse marche di vino di produzione cinese a 100.000 won, un chilo di riso a 5.000 won, scarpe a 200.000 won, e poi lavatrici, frigoriferi, tablets, Pc e, cosa sempre più popolare in una nazione in cui sono normali black out energetici, pannelli solari che costano tra i 500.000 e i due milioni di won. Dal 2015 le strade di Pyongyang sono percorse da un numero sempre maggiore di biciclette elettriche cinesi Anqi, che trovo al centro commerciale a 2.620.000 won. Uno smartphone, che 2,5 milioni di nordcoreani posseggono, costa 2 milioni di won4.

Il tutto può essere pagato sia in contanti che con due tipi di carte di credito valide, però, solo all’interno del circuito nordcoreano: la «Narae» e la «Chonsong».

Trovo anche televisori a schermo piatto che potrebbero far sorridere pensando che ufficialmente nel paese vi sono solo tre canali dal palinsesto abbastanza scarno e ripetitivo, due dei quali trasmettono solo nei giorni feriali per 4 o 5 ore al giorno. In realtà le Tv sono i prodotti che vanno per la maggiore perché i nordcoreani adorano guardare i Dvd venduti al mercato nero delle serie televisive cinesi e soprattutto sudcoreane (la più popolare di queste porta sullo schermo le gesta militari di Taeyang-ui Huye, «I discendenti del Sole»). Il fenomeno è divenuto talmente virale che lo stesso Kim Jong Un ha ritenuto suo dovere denunciarne la corrente: «È necessario contrastare l’ideologia imperialista, l’avvelenamento culturale per proteggere e preservare strettamente il nostro stile di vita e la nostra cultura socialista […]. Dobbiamo stabilire una forte disciplina morale nella società. […]. È necessario aumentare ulteriormente il potere dell’ideologia politica e militare»5.

Situazione alimentare e migrazioni

Lontano dalle città, dove non esistono supermercati e centri commerciali, ci sono i golmokjang (mercati contadini non autorizzati, ma tollerati), e i jangmadang (mercati contadini autorizzati).

Le «Misure del 30 maggio», il pacchetto di riforme avviate da Kim Jong Un nel 2014, consentono ai contadini di trattenere tra il 30 e il 60% del raccolto per proprio consumo o per commercializzarlo, mentre ai dirigenti d’impresa vengono offerti forti incentivi sui profitti delle aziende statali. Questo ha permesso all’economia nordcoreana di riprendere vigore, tanto che recentemente in alcune contee questi jangmadang hanno iniziato a vendere anche piccoli animali d’allevamento, in particolare anatre, galline, maiali, conigli.

Nelle campagne la terribile crisi degli anni Novanta è solo un ricordo ma il problema alimentare perdura, anche se oggi non si muore più di fame, ma c’è malnutrizione e non si parla di disponibilità, ma di accessibilità al cibo. La produzione agricola è aumentata, ma per sfamare i 25 milioni di abitanti, il paese deve importare ogni anno tra le 400 e le 500mila tonnellate di cibo, circa il 10% della necessità alimentare6, sotto forma di aiuti internazionali, il 75% dei quali giungono rispettivamente da Cina, Sud Corea, Stati Uniti e Giappone. Nulla di strano che le nazioni più ostili al governo nordcoreano siano anche le più generose nell’elargire gli aiuti: a nessuno, infatti, gioverebbe un crollo improvviso del regime, che porterebbe milioni di profughi a varcare il 38° parallelo per dirigersi a Sud o a inondare le aree cinesi a ridosso della frontiera settentrionale.

«La Corea del Nord sta sfruttando questa paura di esodo biblico come “arma di migrazione di massa” per ottenere aiuti dall’estero», spiega Kelly Greenhill, professoressa alla Tufts University di Medford, Massachusetts, specializzata in politica dei flussi migratori. Un collasso improvviso del regime porterebbe nei mesi immediatamente successivi 300.000 profughi in Sud Corea e Cina, mentre nel primo anno la migrazione interesserebbe diversi milioni di nordcoreani7. Una cifra che terrorizza sia la Cina, ma anche, e soprattutto, la Corea del Sud, già alle prese con grossi problemi di inserimento dei 27.000 nordcoreani presenti sul suo territorio, molti dei quali devastati da problemi psicologici e dediti al crimine organizzato, all’alcolismo e alla droga8.

In Cina, poi, la situazione è ancora peggiore: qui molti dei 100.000 rifugiati nordcoreani sono visti come bassa manovalanza da sfruttare nei lavori meno gratificanti; nel peggiore dei casi, alcune delle ragazze hanno terminato il loro viaggio in bordelli gestiti da bande sino-coreane.

La versione ufficiale della Corea del Nord nei confronti di questi cittadini fuggiti dal loro paese è che siano «terroristi che si oppongono al sistema sociale della Dprk (acronimo inglese per «Repubblica democratica popolare di Corea», ndr), paese in cui i cittadini godono di una vita genuina e felice»9.

Naturalmente ben pochi a Nord del 38° parallelo sono ancora convinti di vivere in un paradiso, ma l’osmosi di notizie tra Nord e Sud ha anche cambiato la visione del mondo di molti nordcoreani. I talbukja, letteralmente «coloro che sono scappati dal Nord», nonostante le difficoltà rimangono in contatto con le loro famiglie e questo ha permesso di sfatare alcuni dei miti che rendevano Cina e Sud Corea delle mete incantate e ineffabili.

Questa disillusione, accompagnata anche dal sensibile miglioramento delle condizioni di vita registrato dai primi anni Duemila, ha fatto sì che le fughe, oggi principalmente dovute a motivi economici più che politici, si siano ridotte.

I rapporti economici con Cina e Russia e le sanzioni internazionali

Secondo il ministero dell’Unificazione della Corea del Sud, il 48,4% dei nordcoreani che nel 2014 si erano trasferiti al Sud erano disoccupati10. Per arrestare questa emorragia di giovani lavoratori (il 58,2% aveva tra i 20 e i 39 anni)11 Pyongyang deve trovare il modo di migliorare la propria economia e, soprattutto, modernizzare le proprie infrastrutture. Alle strade, porti, macchinari industriali fatiscenti e obsoleti si aggiungono frequenti interruzioni di energia elettrica che mantengono le compagnie straniere lontane dall’altrimenti allettante mercato nordcoreano.

Nel paese ci sono una trentina di aziende europee e, secondo un rapporto della Samsung Economic Research Institute, il governo ha commissionato alla Cina la costruzione e la ristrutturazione di impianti e servizi per 6,5 miliardi di dollari. Gli investimenti stranieri, che nel 2010 ammontavano a 1,475 miliardi di dollari, sono destinati ad aumentare, ma sino a quando la nazione asiatica non stabilizzerà le proprie leggi sul lavoro non sono molte le industrie intenzionate a concludere affari con Pyongyang.

«Guarda l’hotel Ryugyong», mi dice un membro di una delegazione europea in visita nel paese indicandomi l’edificio di 330 metri che avrebbe dovuto essere completato sin dal 1989 per divenire l’hotel più alto al mondo. «È dal 1987 che è in costruzione e a distanza di trent’anni non è ancora finito. È l’emblema di come sia inefficiente e inaffidabile il sistema nordcoreano».

Al tempo stesso, la necessità di «espandere e sviluppare le relazioni economiche con l’esterno»12 ha indotto Kim Jong Un a continuare con la realizzazione dell’idea avuta da Jang Song-taek (marito della sorella di Kim Jong Il e, quindi, zio di Kim Jong Un e da questo fatto prima imprigionare e poi fucilare, ndr) nel 2013 di creare tredici nuove «Zone ad economia speciale» (Zes).

La più redditizia e sviluppata è (era) il Kaesong Industrial Complex (Kic), creata nel giugno 2000 e chiusa temporaneamente dalla Corea del Sud nel febbraio 2016 in risposta al lancio del satellite Kwangmyongsong-4 e al presunto (ma mai avvenuto) test termonucleare. La Kic ospitava 123 compagnie sudcoreane che davano lavoro a 55.000 nordcoreani con un introito, per le casse di Pyongyang, di 90 milioni di dollari annui e un giro di affari di 1,2 miliardi di dollari, pari al 4,1% dell’intero Pil nordcoreano.

Da allora gli sforzi nordcoreani sono rivolti alla Zes di Rason, nel Nord Est del paese, in cui operano aziende cinesi e russe.

Dopo l’esecuzione di Jang Song-taek e la purga della fazione «cinese» (dicembre 2013), la Corea del Nord guarda con sempre maggiore interesse alla Russia come possibile partner commerciale e politico, non disdegnando, al tempo stesso, altri mercati come l’Iran o l’Africa. Il Mansudae Art Studio, il principale centro di produzione artistica nordcoreano, solo nel 2016 ha costruito statue e monumenti in 15 paesi africani.

Alla ricerca continua di investitori, ogni anno la Corea del Nord organizza viaggi di affari per imprenditori europei interessati a credere nel mercato nordcoreano, ma senza destare grandi interessi.

Dopo le recenti dure prese di posizione da parte di Pechino nei confronti di Pyongyang per via dei test missilistici e soprattutto del test termonucleare dello scorso 3 settembre, quest’ultima non ritiene più sufficientemente affidabile il vecchio alleato. Il simbolo del gelo che si è venuto a formare tra i due paesi lo trovo a Sinuiju, la città al confine cinese da dove passa la ferrovia che collega la Corea del Nord con Dandong e dove transita il 70% del commercio tra i due paesi. Qui mi siedo sulle sponde del fiume a guardare il Nuovo Ponte sullo Yalu che avrebbe dovuto rafforzare i legami economici sino-coreani. Costato 350 milioni di dollari e iniziato nell’ottobre 2011, la sua costruzione è stata sospesa nel 2013, subito dopo la fucilazione di Jang Song-taek. I suoi piloni si stagliano contro il cielo sorreggendo un inutile campata significativamente vuota perché i nordcoreani non hanno terminato la strada di raccordo con l’autostrada verso la capitale. La Cina, con un commercio bilaterale di 5,29 miliardi di dollari13, continua ad essere il principale partner commerciale della Corea del Nord, ma la Risoluzione 2270 delle Nazioni Unite che impone sanzioni economiche a Pyongyang ha indotto il governo cinese a ridurre del 75% le importazioni di carbone, la principale fonte di entrate economiche della nazione.

La Russia, che condivide con la Corea del Nord 17 chilometri di confine con solo un ponte ferroviario, sembra abbastanza restia ad entrare nel mercato coreano, ed obiettivamente non potrà mai sostituirsi alla Cina. Il commercio bilaterale tra le due economie è solo di 83,8 milioni di dollari (quasi interamente importazioni di prodotti russi)14 e recentemente è stato inaugurato il primo traghetto passeggeri che unisce la Corea del Nord con Vladivostok. I rapporti tra le due nazioni sono comunque migliorati da quando, nel 2012, la Russia ha cancellato il 90% degli 11 miliardi di dollari di debiti contratti da Pyongyang con l’ex Urss e creato il ministero dello Sviluppo dell’Estremo Oriente, divenuto il principale interlocutore di Mosca con il governo di Kim Jong Un. Al tempo stesso la Russia ha alzato a 50.000 la quota di permessi concessi a lavoratori nordcoreani nelle proprie industrie tessili, edili e di pesca nelle regioni di Amur, Khabarovsk e Primosky (per confronto, la Cina ha emesso 933.000 visti per lavoro a cittadini nordcoreani).

La guerra (1950-1953) e l’unificazione

Più complicati sono i rapporti con la Corea del Sud, nonostante tra i due stati esistano scambi commerciali che ammontano a 2,34 miliardi di dollari annui, pari all’8,8% del Pil della Corea del Nord15.

Seoul si sente minacciata dai test missilistici e nucleari nordcoreani: in caso (improbabile) di guerra sarebbe il Sud a subirne le maggiori conseguenze.

«La Corea del Sud deve prima di tutto divincolarsi dalla sudditanza americana. Solo allora il suo presidente avrà il potere di decidere il destino del popolo sudcoreano», mi spiega So Mi-yeon, la onnipresente (e obbligatoria) guida che mi accompagna durante la visita in Nord Corea ripetendo un mantra, quello della colonizzazione statunitense, ancora in voga nei libri di testo nordcoreani. Secondo Pyongyang, infatti, la penisola coreana è divisa in due non tanto perché vi sono due governi indipendenti e ostili tra loro, ma perché – come ha scritto il Rodong Sinmnun, il giornale del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori – il Sud sarebbe occupato da un «gruppo di fantocci sudcoreani che si comportano in modo avventato» succubi di Washington. I vari governi che si sono susseguiti nel Nord, guidati da Kim Il Sung, Kim Jong Il e oggi da Kim Jong Un, sarebbero i soli e legittimi rappresentanti del popolo coreano. Tra Pyongyang e Seoul non esiste ufficialmente belligeranza, ma un armistizio (quindi non un trattato di pace) tra Pyongyang e Washington. Gli sforzi della Corea del Nord per portare gli Stati Uniti al tavolo delle trattative si concentrano principalmente su questo punto: trasformare l’armistizio del 27 luglio 1953 in un vero e proprio trattato di pace. L’elezione di Moon Jae-in a presidente della Repubblica di Corea, salutata con ottimismo da quasi tutti i governi della regione a partire dalla Cina, è invece guardata con cautela dal Nord: «La Dprk e la Corea del Sud dovrebbero aprire un nuovo capitolo per migliorare le relazioni tra loro rispettandosi reciprocamente e stringendosi le mani come partner per giungere all’unificazione», scrive il Rodong Sinmnun, punzecchiando il nuovo inquilino della Casa Blu (nome della residenza del presidente della Repubblica della Corea del Sud, ndr) proprio sul tema apparentemente più propagandato da lui stesso: quello del dialogo tra Nord e Sud e della futura potenziale unificazione della penisola: «Se il governo sudcoreano insiste sulla proposta della “unificazione dei due sistemi” – una proposta assolutamente ingiusta – e decide di incamminarsi lungo la via della guerra, l’unica cosa che (Seoul, ndr) affronterà sarà la morte e una spaventosa distruzione». Pyongyang ha sempre osteggiato l’unificazione politica tout court, che vede come un tentativo di assimilazione del Nord da parte del Sud, preferendo ad essa una più soffice e meno traumatica via federale da realizzarsi in un lungo periodo di transizione durante il quale l’economia dei due paesi si integrerebbe mantenendo però un sistema politico e ideologico bicefalo. La soluzione proposta dal Nord potrebbe, nel giro di diversi decenni, livellare l’immenso abisso oggi esistente tra le due economie che vede il Pil pro capite della Corea del Sud sopravanzare quello del Nord di 20 volte (un nordcoreano produrrebbe ogni anno un Pil di 1,33 milioni di won contro i 25 milioni di won del collega sudcoreano), mentre in termini assoluti, il Pil del Sud è 38 volte quello del Nord (tabella a pag. 36).

Questo sistema di «due paesi una economia» si innesta sulla richiesta fatta dal Nord a Moon Jae-in di ridiscutere i confini del 38° parallelo e quelli marittimi. Su queste premesse il dialogo tra i due paesi sembra irto di ostacoli: le differenze di vedute, pur non essendo insormontabili, sono comunque ampie e quandanche Moon e Kim dovessero inaugurare una nuova versione della Sunshine Policy («politica alla luce del sole») c’è sempre l’incognita delle forze conservatrici (sia del Nord che del Sud) e dell’ambiguità politica di Washington e di Pechino. La Cina difficilmente perdonerà la Corea del Nord di aver dato l’occasione agli Stati Uniti di dispiegare il Thaad («Terminal High Altitude Area Defense», sistema antimissile statunitense, ndr) a pochi chilometri dalle sue coste dopo che lo stesso Giappone lo aveva rifiutato qualche anno addietro. Il Pentagono, da parte sua, non si azzarderebbe mai a scatenare una guerra suicida nella regione nordorientale asiatica sapendo anche che i suoi due alleati sono assolutamente contrari ad azioni di forza.

La politica del «byungjin»

Se nessuno vuole provocare una guerra, allora perché Kim Jong Un ha accelerato il programma missilistico e nucleare, strettamente legati tra loro? Nel 2012 la costituzione della Corea del Nord venne emendata con la dichiarazione che la Dprk era uno stato nucleare16. Il 31 marzo 2013 il Grande Leader ha inaugurato una nuova linea di sviluppo per il paese: la byungjin, o pyongjin («sviluppo parallelo»), che andava a sostituire la politica della songun («prima i militari») che aveva contraddistinto il governo di Kim Jong Il.

Il nuovo indirizzo economico-ideologico di Kim Jong Un intendeva perseguire una politica di sviluppo economico e sociale sostenuta dal programma nucleare: «Le forze nucleari della Dprk rappresentano la vita della nazione e non potranno mai essere abbandonate sino a quando le minacce nucleari e imperialiste esisteranno sulla terra… Solo quando lo scudo nucleare di autodifesa sarà completato, sarà possibile frantumare le ambizioni imperialiste Usa di annettere la penisola coreana con la forza per rendere i coreani dei moderni schiavi»17.

L’obiettivo era molteplice: concentrandosi solo sul programma nucleare la ricerca avrebbe subito un’accelerazione consentendo al tempo stesso di diminuire il budget della Difesa del 2-3% rispetto alla politica della songun dato che sarebbero state finanziate solo quelle attività correlate agli studi e ai test atomici. Il taglio ai militari avrebbe permesso a Kim Jong Un di rafforzare il proprio potere all’interno del Partito eliminando gli elementi ostili. L’eventuale successo dei programmi nucleari e missilistici ad esso connesso, avrebbe permesso a Kim Jong Un di elevare il prestigio internazionale del paese proponendosi, inoltre, come nazione guida per quegli «stati paria» impossibilitati a promuovere simili progetti. Infine, i ritorni finanziari dovuti al risparmio sulle spese militari e sui ricavi delle eventuali commesse derivate dalle ricerche avrebbe consentito di allocare più risorse per i programmi di sviluppo economico e sociale.

Quasi tutti gli obiettivi della byungjin sono stati raggiunti: dopo aver indebolito e allontanato (più con le cattive che con le buone) l’opposizione, Kim Jong Un ha completato – nel giugno 2016 – la scalata al potere sciogliendo la potentissima Commissione di difesa nazionale, di cui Jang Song-taek era vice presidente, per formare la nuova Commissione degli affari di stato, l’organo più importante della Corea del Nord che presiede la sicurezza interna ed esterna della nazione e di cui lo stesso Kim Jong Un è presidente. Con questa mossa il leader nordcoreano, oltre che essere presidente del Partito dei lavoratori (il segretario generale eterno è Kim Jong Il, morto nel 2011), Comandante supremo delle forze armate e presidente della Commissione centrale militare del Partito dei lavoratori, è de facto presidente dello stato (il presidente eterno è Kim Il Sung, morto nel 1994).

La trasformazione degli organi di stato ha consentito a Kim Jong Un di circondarsi di uomini a lui fedeli. Due dei tre vicepresidenti della Commissione degli affari di stato, il vice maresciallo Hwang Pyong-so e il primo ministro Pak Pong-ju, sono stretti collaboratori e sostenitori delle riforme volute dal Grande Leader, mentre il terzo, Choe Ryong-hae, ritenuto un cane sciolto e meno legato al presidente, è comunque isolato.

I test e la prima bomba termonucleare

I successi in politica interna di Kim Jong Un si sommano a quelli in campo militare. Dal suo insediamento il programma missilistico, atto a dotare le Forze armate nordcoreane di un missile balistico intercontinentale capace di trasportare una testata atomica, ha fatto passi da gigante, siglando la quasi definiva conclusione lo scorso 3 settembre 2017 con il sesto test nucleare che, a differenza degli altri, ha confermato il possesso della bomba termonucleare negli arsenali di Pyongyang.

Se Kim Jong Il aveva voluto il programma nucleare per consentire alla Corea del Nord di sopravvivere al disastro energetico e all’isolamento economico, la volontà di Kim Jong Un di dotarsi di armi nucleari è dovuta, oltre che per recuperare prestigio interno nei confronti dei militari, anche alle considerazioni fatte osservando la fine riservata ai suoi «colleghi» oltreoceano dalle potenze Occidentali.

Secondo la visione del Grande Leader la caduta in disgrazia di dittatori con cui la famiglia Kim aveva tessuto stretti rapporti di cooperazione (Gheddafi, Saddam Hussein, Assad) è stata favorita dalle loro «debolezze» nell’accettare le condizioni richieste da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Oltre che inutile sarebbe quindi dannoso per la leadership nordcoreana privarsi della minaccia nucleare. La byungjin, quindi, è la chiave che chiude la cassaforte del potere di Kim Jong Un. Gli scienziati e i tecnici nordcoreani stanno oggi lavorando su tre fronti intrecciati tra loro: quello missilistico, quello nucleare e quello termonucleare.

Il programma missilistico sarà completato solo quando dalle basi di lancio nordcoreane partirà un vettore potenzialmente capace di raggiungere il territorio statunitense (obiettivo raggiunto lo scorso 28 luglio con il razzo Hwasong-14), ma, al tempo stesso, capace di trasportare una ogiva nucleare.

Sul fronte nucleare, dopo i cinque test svoltisi tra il 9 ottobre 2006 e il 9 settembre 2016, i ricercatori nordcoreani lo scorso settembre sono riusciti a miniaturizzare l’ordigno, creando un’arma potente e sufficientemente leggera da poter essere trasportata da un razzo. Dopo l’annuncio fatto il 6 gennaio 2016 dalla Kcna (Korean Central News Agency, l’agenzia di stampa nordcoreana)18 che la Corea del Nord avrebbe fatto scoppiare la sua prima bomba termonucleare (la bomba all’idrogeno o bomba H), rivelatosi un bluff, ora il paese asiatico ha effettivamente testato la tanto temuta bomba H. L’effetto sismico generato dall’esplosione sotterranea attorno al sito di Punggye-ri il 3 settembre sarebbe stato provocato da una bomba di circa 120 kilotoni, tra le 6 e le 10 volte più potente dell’ultimo test nucleare avvenuto il 9 settembre 2016. È esattamente la potenza che dovrebbe avere una bomba termonucleare rispetto a quella di una normale bomba a fissione dato che la più semplice bomba termonucleare, quella a singolo stadio, avrebbe una potenza detonante pari a circa sei volte quella di una pari bomba nucleare.

Nel cuore del programma nucleare

Mentre ci spostiamo verso Chongjin da Wonsan, attraversiamo la città di Hamhung. Qui c’è la Hungnam Chemical Fertilizer Complex, una fabbrica di produzione agricola costruita negli anni Trenta dai giapponesi che oggi avrebbe anche un impianto per la produzione del Litio-6, metallo necessario per la produzione del trizio, componente fondamentale nella bomba a idrogeno.

Il Litio-6 è un isotopo contenuto nel litio naturale, elemento abbastanza abbondante in natura, ma perché lo si possa utilizzare nel programma nucleare occorre arricchire questo isotopo portandolo dal 7,56% al 40-95%. Nella fabbrica agricola di Hamhung esisterebbe un impianto di arricchimento per aumentare la percentuale di Litio-6. La General Precious Metal, azienda nordcoreana del gruppo Green Pine Associated Corporation, avrebbe cercato di vendere Litio-6 ad alta purezza online19.

Da diversi anni la Hungnam Chemical Fertilizer Complex è chiusa alle visite, ma riesco ad ottenere un permesso per visitare l’impianto di ricerca nucleare di Yongbyon. Qui, in mezzo ai campi coltivati, centinaia di scienziati, tecnici, lavoratori si occupano di realizzare l’incubo peggiore degli Stati Uniti: la bomba nucleare miniaturizzata. Subito mi viene mostrato il luogo dove sorgeva la torre di raffreddamento dell’acqua proveniente dal reattore, distrutta nel 2008 sulla base degli accordi nucleari con gli Stati Uniti20. Fu l’unico segno dato dal governo nordcoreano di rispettare i punti dell’intesa: pochi mesi dopo, il 14 aprile 2009, dopo l’ennesimo rifiuto di permettere le verifiche sullo stato di smantellamento dell’impianto di arricchimento di uranio per usi militari, il governo nordcoreano espulse dal sito di Yongbyon tutti i tecnici stranieri.

Nel 2009 Kim Jong Il aveva autorizzato la costruzione di un secondo reattore ad acqua leggera (Lwr) da 30 MWe21, ma i lavori, terminati esteriormente, non sono mai stati completati, quindi l’unico reattori oggi funzionante è il piccolo e vecchio reattore di grafite ad acqua pesante da 5 MWe. Ogni due anni le 8.000 barre di uranio, pari a circa 50 kg di combustibile nucleare, vengono estratte e lasciate per 5 mesi nelle apposite piscine di raffreddamento per poi essere processate nel laboratorio di radiochimica, situato poco distante dal reattore, su una penisola lungo l’ansa del fiume Taeryong.

Con un processo simile a quello utilizzato negli Stati Uniti, il Purex, plutonio e uranio vengono separati in circa 3-6 mesi di lavorazione per ottenere il plutonio-239, elemento base per la costruzione di bombe nucleari. L’ultimo periodo di attività del laboratorio risale all’estate 2016 e ad ogni ciclo si produrrebbero tra i 5,5 e gli 8 kg di plutonio, sufficienti per 2,5 bombe.

Poco distante il famoso impianto di arricchimento di uranio, avviato con l’aiuto di Abdul Qadeer Khan, padre della bomba nucleare pakistana, nel settembre 2009, solo cinque mesi dopo l’espulsione dei tecnici stranieri. Dal 2013 la potenza dell’impianto è stata raddoppiata ed oggi si stima che sia in grado di produrre uranio Wgu (Weapon Grade Uranium) necessario per la produzione di bombe nucleari a nucleo composito, molto più leggere rispetto a quelle tradizionali. Estrapolando i dati sopracitati è possibile fare una stima dell’arsenale nucleare in possesso dalla Corea del Nord: il paese sarebbe in grado di produrre tra le 3 e le 5 bombe nucleari ogni anno, avrebbe separato circa 33 kg di plutonio-239 e prodotto 175-645 kg di uranio Wgu (175 kg con 2.000 centrifughe; 645 con 4.000 centrifughe). Questi numeri portano ad una cifra di 13-30 bombe nucleari a disposizione del paese a cui si devono detrarre le bombe utilizzate nei cinque test sino ad oggi svolti (agosto 2017).

La situazione sanitaria

«Sappiamo che all’estero si domandano se sia giusto spendere soldi per il programma nucleare, mentre il popolo langue in un paese che fatica a ritrovare il benessere economico raggiunto negli anni Sessanta e Settanta», azzarda un fisico che lavora a Yongbyon mentre ci salutiamo. «Il fatto è che la Dprk è stata costretta a optare per la ricerca nucleare per proteggere il suo stesso popolo dalla prepotenza degli Stati Uniti». La frase del fisico nordcoreano mi torna in mente quando in seguito visito alcuni ospedali lontani dalle case di cura modello che vengono propinate alle delegazioni in visita. «La condizione sanitaria è problematica nei centri più isolati e nelle province più povere, dove non arrivano gli aiuti internazionali, le Ong hanno difficoltà a operare dove il sistema di assistenza sociale del governo è assente», mi dice un operatore della Croce Rossa Internazionale della provincia di Nord Hamgyong.

Qui, nella città industriale di Chongjin, i medici dell’ospedale provinciale lamentano la mancanza di medicine e di anestetici, ma la situazione si fa drammatica quando ci spostiamo verso Hoeryong, una cittadina di circa 120.000 abitanti posta al confine con la Cina dove nacque Kim Jong Suk, prima moglie di Kim Il Sung e madre di Kim Jong Il. Nel piccolo e fatiscente ospedale locale i pazienti sono ammassati in stanze prive di riscaldamento (in inverno la temperatura scende sotto zero), e i famigliari devono accudire i parenti portando loro coperte, lenzuola, cibo. Le medicine, quando si trovano, sono a pagamento e i medici sono costretti a ricorrere alla medicina tradizionale, più un palliativo che un rimedio. La corrente, così come in molte città nordcoreane lontane dai flussi turistici, arriva solo tre o quattro ore al giorno. Il sistema sanitario nordcoreano, però, si sta riprendendo: dal 2013 le malattie che uccidono maggiormente non sono più quelle trasmissibili, ma quelle cardiovascolari o tumori, un indicatore che, nonostante tutto, evidenza i progressi ottenuti. Tra il 2001 e il 2011 i casi di malaria sono crollati da 300.000 a meno di 25.00022, mentre i casi di Tbc sono scesi da 150 per 100.000 abitanti nel biennio 1996/97 a 27 per 100.000 abitanti nel 201223.

Anche la mortalità infantile al primo anno di vita è scesa dal 57,81 per mille nel quinquennio 1995-2000 a 21,99 nel quinquennio 2010-201524. Ancora alta, se comparata con i paesi dell’area25, ma inferiore a quelle di Cambogia, Myanmar, Pakistan, India, Indonesia.

La questione dei diritti umani

Alla situazione sanitaria fa il paio quella, estremamente dibattuta e spinosa, dei diritti umani. In mancanza di dati ufficiali, l’Undp non inserisce la Corea del Nord in alcuna classifica dell’indice di sviluppo umano26, mentre Amnesty International e Human Rights Watch continuano a registrare abusi ai danni dei cittadini nordcoreani da parte del loro stesso governo27. Lo stato asiatico ha replicato che «non ci sono diritti umani standard che ogni paese può accettare» perché «gli standard dei diritti umani internazionali non devono copiare gli “standard” di particolari paesi e neppure deve essere chiesto di seguire questi “standard”»28.

Nonostante organizzazioni umanitarie e agenzie delle Nazioni Unite abbiano più volte chiesto alla Corea del Nord il permesso di condurre inchieste e indagini in loco, Pyongyang ha sempre negato a loro accesso al paese29. Il Rapporto della commissione d’inchiesta sui diritti umani nella Dprk dell’Human Rights Council delle Nazioni Unite si è, quindi dovuto basare sulla testimonianza di 80 persone fuggite dalla Corea del Nord e rifugiate in Corea del Sud, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti30. Questo metodo ha, in un certo senso, falsificato il rapporto in quanto basato su testimonianze non completamente verificabili e prive di contraddittorio. Non per questo, però, le numerose prove, documenti di vario genere e video, oramai in possesso dalle organizzazioni internazionali lasciano dubbi sulla durezza con cui il regime soffoca ogni tentativo di opposizione interna. Il sistema songbun, che durante il periodo di Kim Il Sung era alla base della società nordcoreana dividendo i cittadini in classi sociali basate sulla fedeltà al regime e decidendo il luogo in cui la famiglia doveva vivere e a quale carriera scolastica e lavorativa potevano aspirare, oggi è meno discriminante31. L’importanza sempre crescente del denaro ha soppiantato il songbun, mentre, dalla prima decade del 2000, i reati di una persona non ricadono più sulla famiglia e sul parentado. Questo significa che solo chi compie una violazione viene punito (a differenza di quanto accadeva nel passato quando la colpa veniva espiata in forma collettiva e, in caso di reati politici, l’intero nucleo famigliare era spedito nei kwanliso, i campi di prigionia riservati agli oppositori del governo). Vi sarebbero tra le 80 e le 120.000 persone detenute in quattro kwanliso ed un numero indeterminato nei kyohwaso, i campi per reati comuni32.

La pena di morte è praticata in luoghi sia pubblici che segreti33 ed è indirettamente confermata anche dalla stessa Corea del Nord, la quale afferma che «le pene (per i crimini e atti pericolosi che violano il potere dello stato, il sistema socialista e la legge e l’ordine, ndr) vanno dalla pena di morte, la rieducazione attraverso il lavoro per un periodo indefinito, la rieducazione attraverso il lavoro per un periodo definito e la disciplina attraverso il lavoro. Pene addizionali sono la privazione del diritto al voto, la confisca delle proprietà, multe, privazione o sospensione di una licenza»34. Il governo nordcoreano difende la scelta di imporre la pena capitale affermando che essa «non costituisce una violazione del diritto alla vita […]. Mantenere o abolire la pena di morte in un paese non può essere un criterio in base al quale si possa giudicare se uno stato protegge o meno i diritti umani»35.

La Corea del Nord avrebbe anche rapito cittadini di 12 nazionalità diverse, tra cui circa 480 sudcoreani. Il Giappone ha ancora un contenzioso con Pyongyang per il rapimento di 17 cittadini giapponesi da parte dei servizi segreti nordcoreani tra il 1977 e il 198336. Il governo ha ammesso 13 rapimenti permettendo a cinque rapiti di far ritorno in Giappone con le rispettive famiglie.

Fatiche e problemi del giovane Kim

La Corea del Nord di Kim Jong Un sta cambiando. A chi afferma che il paese è retto da una dittatura si può rispondere che è vero così come è vero che i suoi cittadini non vivono in un paradiso. Ma sono anche finiti i tempi in cui la figura di Kim Il Sung era esente da ogni critica. Kim Jong Il è sopravvissuto perché era il figlio di Kim Il Sung ed ha vissuto «di rendita» sul mito del padre. Kim Jong Un ha la fortuna di assomigliare al nonno (cosa spesso sottovalutata fuori dal paese, ma importantissima in Corea del Nord), ma sa benissimo che questa somiglianza e la sua parentela non lo potranno proteggere per molto.

La sua giovane età lo ha costretto a ritagliarsi un posto nella leadership. Ecco il perché di tante esecuzioni e di tanti allontanamenti. Kim Jong Un ha anche dovuto smantellare la politica del songun che aveva contraddistinto la linea paterna, per formare un governo più tecnocrate e economico di quanto fosse quello Kim Jong Il, dominato dai militari.

La politica di Kim Jong Un è decisamente fuori dagli schemi, non solo della Corea del Nord. E paradossalmente il giovane leader si è mostrato molto più duro con i dirigenti del regime e del partito che con il popolo. D’altra parte, chiunque abbia visitato il paese durante le tre fasi del potere della famiglia Kim può facilmente testimoniare che la vita dei nordcoreani è decisamente migliorata da quando è salito Jong Un al potere.

Piergiorgio Pescali

 

Piovono… «bufale»

Periodicamente i media internazionali riportano con molta enfasi notizie riguardanti brutali o «curiose» epurazioni in Corea del Nord. Spesso, anche se non sempre, queste informazioni si rivelano essere delle «bufale» o, nel migliore dei casi, delle esagerazioni. Perché queste notizie riescono a farsi largo nei media internazionali? Generalmente gli articoli sono riadattamenti di pezzi originali pubblicati sulla stampa sudcoreana che, anche se non ancora confermati, trovano ampio seguito in tutto il mondo. La principale ragione per cui queste bufale vengono pubblicate – anche da parte di quelle redazioni che ancora controllano attentamente la veridicità delle notizie – verte sulla quasi totale mancanza di conoscenza del paese Corea del Nord.

Un’altra ragione può essere trovata in una precisa volontà da parte dell’editore e della direzione, di dare in pasto ai lettori notizie sensazionalistiche. Pochi giornalisti spendono il loro tempo a verificare e ad avere conferme delle notizie: essere i primi a dare l’informazione è ora più importante che appurarne la veridicità.

Anche la necessità politica di mostrare alcune nazioni, come, appunto, la Corea del Nord, in modo negativo così da rispecchiare il facile stereotipo del folle tiranno, del popolo affamato, di una società crudele e cinica, rientra nei motivi di questo tipo di divulgazioni.

È, infine, molto più difficile (e destabilizzante) presentare ai propri lettori una visione reale della Corea del Nord (molto differente dagli stereotipi generalmente utilizzati) piuttosto che continuare a scrivere di un paese che il lettore comune vuole sentirsi raccontare.

Quasi tutti i media che pubblicano notizie in seguito rivelatesi false, non fanno alcuna ammenda. E questo non solo perché perderebbero credibilità verso i loro aficionados, ma principalmente perché ai lettori stessi non interessano le rettifiche. Semplicemente non le leggono o non credono ad esse.

Di seguito alcune tra le più famose bufale riguardanti esecuzioni di nordcoreani che, al tempo della loro diffusione, hanno suscitato scalpore e che sono state utilizzate per biasimare il governo di Pyongyang. Da notare che quasi nessun giornale, Tv, radio, sito di informazione ha pubblicato una rettifica dopo che queste notizie sono state dichiarate ufficialmente false.

Nel febbraio 2016 l’agenzia sudcoreana Yonhap riportò l’esecuzione di Ri Yong Gil, capo di Stato maggiore dall’agosto 2013. Nel luglio 2016 Ri Yong Gil vivo e vegeto, apparve nella Tv di stato nordcoreana. Nel maggio 2016 venne anche eletto membro del Comitato centrale del Partito dei lavoratori di Corea.

Stessa sorte venne riservata a Hyon Yong-chol, ex ministro della Difesa, la cui prima uccisione da parte dello stato venne divulgata nell’aprile 2015 dai Servizi segreti nazionali (Ssn) della Corea del Sud (nella comunicazione si precisò che la sua esecuzione avvenne usando quattro cannoni di artiglieria antiaerea). Ragione della presunta condanna fu l’appisolamento durante un discorso di Kim Jong Un (stando alle accuse addebitate, sembra che gli ufficiali nordcoreani soffrano particolarmente di ipersonnia). Il 13 maggio 2015, gli stessi Ssn annunciarono di non poter confermare l’esecuzione. Nello stesso giorno diversi siti occidentali riportarono, forse non ricordando di averla già pubblicata in precedenza, la notizia della morte (la seconda) di Hyon Yong-chol. In alcuni altri paesi, tra cui l’Italia, alcune fonti di informazione annunciarono la notizia (la terza esecuzione) solo nel successivo ottobre, riportandola come se fosse accaduta pochi giorni prima.

Nel 2015 il Korea Times dichiarò che il vice maresciallo Ri Yong-ho, capo di Stato maggiore dal 2009 al 2012, era stato condannato a morte e ucciso nel 2012. Nel gennaio 2016 lo stesso Ri Yong-ho venne ripreso dalla stampa nordcoreana assieme a Kim Jong Un durante un test nucleare. Qualche sito (specialmente occidentale) confuse (e confonde ancora oggi) il vice maresciallo Ri Yong-ho con Ri Yong Gil o con il suo omonimo attuale ministro degli Esteri nordcoreano.

Anche Hyon Song-wol, ex fidanzata di Kim Jong Un, venne data per morta nell’agosto 2013 dal giornale sudcoreano Chosun Ilbo perché accusata di pornografia. Song-wol, però, riapparve nel maggio 2014 sugli schermi della televisione nordcoreana. Il professore giapponese Toshimitsu Shigemura, della Waseda University, a suo tempo ipotizzò che l’ex fidanzata del leader nordcoreano fosse stata uccisa per volere della moglie di Kim Jong Un, Ri Sol-ju.

Le notizie infondate riguardano anche i metodi di esecuzione: nel 2014 il Chosun Ilbo scrisse che l’uccisione di O Sang-hon, vice ministro del ministero della Pubblica sicurezza e nipote di Jang Sung-taek, fu compiuta utilizzando lanciafiamme bruciando il malcapitato ancora vivo. Qualche giorno prima i giornali di tutto il mondo scrissero che lo stesso Jang Sung-taek fu ammazzato dandolo in pasto a 120 cani affamati, senza rendersi conto che la fonte da cui proveniva la notizia era un giornale di satira.

Falsi anche gli articoli che annunciavano la condanna (a volte a morte, a volte ai lavori forzati) di alcuni ufficiali, rei di aver mostrato poca emozione e di non aver pianto in modo adeguatamente commosso durante il funerale di Kim Jong Il.

Infine, anche lo sport non viene risparmiato dalla disinformazione: per ben due volte (2010 e 2014) l’intera nazionale di calcio nordcoreana sarebbe stata incarcerata in campi di rieducazione per non essere stata in grado di raggiungere i vertici in competizioni internazionali. Naturalmente, anche queste, si rivelarono delle bufale. Mai rettificate.

Piergiorgio Pescali


  • Piergiorgio Pescali Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Dal 2010 cura per Asia Maior (asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar.Ha pubblicato: Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010; ll custode di Terra Santa. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino 2014; S-21. Nella prigione di Pol Pot, La Ponga Edizioni, 2015. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
  • Avvertenza – Piergiorgio Pescali ha scritto questo dossier privilegiando l’analisi rispetto alla cronaca. Tuttavia, gli avvenimenti raccontati sono aggiornati fino al 3 settembre 2017. Ove fosse necessario, la redazione di MC si riserva di tornare con altri articoli su questi temi. (pm)

Note

 (1)   Andrei Lankov, Remittances from North Korean Defectors, East Asia Forum, 21 aprile 2011; Sonia Plaza, Is It Possible to Send Remittances to North Korea?, World Bank, 28 luglio 2011.
(2)   A luglio 2017 il cambio ufficiale si assestava a 130 won per dollaro, mentre il cambio al mercato nero era di 8.500 won per dollaro. Siti internazionali per trovare il valore ufficiale della valuta nordcoreana: www.xe.com; www.oanda.com.
(3)   Institute for Far Eastern Studies, Two Years after DPRK’s Currency Revaluation, Seoul, 8 dicembre 2011.
(4)   I prezzi si riferiscono al cambio non ufficiale di 8.500 won per dollaro, la cui quotazione è esposta anche all’interno del grande magazzino.
(5)   North Korea’s 7th Party Congress, discorso di Kim Jong Un, 6 maggio 2016.
(6)   FAO, Special Alert n. 340 – Prolonged dry weather threatens the 2017 main season food crop production, 20 luglio 2017.
(7)   Courtland Robinson, Famine in slow motion: A case study of internal displacement in North Korea, Refugee Survey Quarterly, 19(2), 113-127.
(8)   Woo-Teak Jeon, Shi-Eun Yu, Young-A Cho, Jin-Sup Eom, Traumatic Experiences and Mental Health of North Korean Refugees in South Korea, in Psychiatry Investigation 5, n. 4, 2008, pp. 213-220; Joanna Hosaniak, Jessica Jinju Pottenger, Pukhan Inkwon Simin Yonhap, Homecoming Kinsmen or Indigenous Foreigners? The Case of North Korean Re-Settelers in South Korea, Life and Human Rights Books, Seoul, 2011; Jun-Hong Kim, A Study on the Mental Health Outcomes of North Korean Male Defectors: Comparing with General Korean Males and Searching for Health Policy Implication, Journal of the Korean Medical Association 54, n. 5, 2011, pp. 537-548.
(9)  Report of the Dprk Association for Human Right Studies, 13 settembre 2014, cap. 2.
(10-11) Ministero dell’Unificazione della Corea del Sud, 2014 Statistics on North Korean Arriving in South Korea.
(12) Kim Jong Un, Speech at the North Korea’s 7th Party Congress, 6 maggio 2016.
(13) The Observatory of Economic Complexity, North Korea Economy, 2015; l’export nordcoreano in Cina è pari a 2,34 miliardi di dollari, mentre l’import è di 2,95 miliardi di dollari.
(14) The Observatory of Economic Complexity, North Korea Economy, 2015; l’export nordcoreano in Russia è pari a 5,58 milioni di dollari, mentre l’import è di 78,2 milioni di dollari.
(15) Ministero dell’Unificazione della Repubblica di Corea, Inter-Korean Exchanges and Cooperation, Seoul, 2014; l’export nordcoreano in Sud Corea è pari a 1,206 miliardi di dollari, mentre l’import è di 1,136 miliardi di dollari.
(16) Socialist Constitution of The Democratic People’s Republic of Korea, Preamble, p.2, Pyongyang, Juche 103 (2014).
(17) Kcna, Report on Plenary Meeting of WPK Central Committee, 31 marzo 2013.
(18) Kcna, DPRK Proves Successful in H-bomb Test, 6 gennaio 2016.
(19) United Nations, Report of the Panel of Experts established pursuant to resolution 1874 (2009) S/2017/150, 27 febbraio 2017, p. 15/326.§
(20) Joint Statement of the Fourth Round of the Six-Party Talks, Beijing, 19 settembre 2005.
(21) Kcna, Dprk Foreign Ministry Declares Strong Counter-Measures against Unsc’s Resolution 1874, 13 giugno 2009.
(22) United Nations Dpr Korea, Fighting Malaria and Tbc in Dpr Korea – A Partnership Approach, 10 agosto 2015.
(23) Who, Estimated Tubercolosis (TB) Cases and Death, 1990-2012, 12 agosto 2015.
(24) Unicef, Infant mortality rate, 9 settembre 2015.
(25) Mortalità al primo anno di vita in Sud Corea; 2,91 ‰, Cina 11,65‰, Giappone 2,2‰, Unicef, Infant mortality rate, 9 settembre 2015.
(26) Undp, Human Developmen Report 2016.
(27) Amnesty International, Annual Report – North Korea 2016/2017; Human Rights Watch, World Report 2017 – North Korea.
(28) Report of the Dprk Association for Human Right Studies, 13 settembre 2014, cap. 1.
(29-33) Human Rights Council, Report of the commission of inquiry on human rights on the Democratic People’s Republic of Korea, 7 febbraio 2014, cap. 2.
(34) Legge per i crimini adottata dal Comitato Permanente della Suprema Assemblea Popolare, Decisione n. 6, Articolo 27, §28, 15 dicembre 1990.
(35) Report of the Dprk Association for Human Right Studies, 13 settembre 2014, cap. 2.
(36) Ministero degli Affari Esteri del Giappone, Abuctions of Japanese Citizens by North Korea, 2012.




Malaysia: Allah… ma non per tutti


Un paese ricco di diversità, diviso tra il continente asiatico e l’isola del Borneo. Un tempo ponte tra Occidente e Oriente. Da oltre due secoli vi convivono tre principali gruppi etnici e quattro grandi religioni. Non senza problemi. Abbiamo incontrato il direttore del settimanale cattolico nazionale che ci ha raccontato le nuove sfide della Malaysia.

Kuala Lumpur. Padre Lawrence Andrews, gesuita malese, nel 1994 ha fondato il settimanale cattolico «Herald» (www.heraldmalaysia.com). Con una tiratura di 16.000 copie, il periodico è distribuito in tutta la Malaysia. Il giornale pubblica articoli in diverse lingue, le principali parlate nel paese: malay (lingua malese), cinese mandarino, indiano tamil e inglese. Il paese è infatti un mosaico di popoli e culture. Le etnie principali, oltre ai nativi (malesi o malay, che si dividono a loro volta in diverse etnie locali, molte delle quali vivono nel Borneo), i cinesi (migrati qui a partire da inizio 1800) e gli indiani tamil.

La Malaysia è una federazione di monarchie costituzionali, e riunisce 11 stati della Malesia continentale (o peninsulare) e gli stati Sabah e Sarawak sull’isola del Borneo. Oltre il 61% della popolazione è musulmana (l’islam è pure religione ufficiale), seguono i buddhisti (19,8%), i cristiani (9,2%) e gli induisti (6,3%), oltre altre religioni.

«La maggioranza dei cattolici parla malese e vive in Borneo. Qui invece, nella Malaysia occidentale, c’è una grande mescolanza di lingue e quella più comune è l’inglese», ci racconta padre Lawrence che incontriamo nel suo ufficio, alla parrocchia Saint Francis Xavier, a Petaling Jaya, comune periferico di Kuala Lumpur, la capitale.

«È importante sottolineare che i nativi cattolici che parlino malay vivono in Borneo. Su questioni linguistico-religiose abbiamo avuto un contenzioso con il governo. Il termine “Allah” in malay significa “Dio” ed è un nome generico, ma lo stato ha proibito a noi cattolici di usarlo, in particolare a mezzo stampa, perché lo possono utilizzare solo i musulmani. Per secoli abbiamo detto e scritto “Allah” anche noi per indicare Dio, ecco perché mi sono impuntato. Ma abbiamo perso. Adesso dobbiamo scrivere nomi come la traduzione di “Lord” (Signore) che è “Tuan”, che però non è la stessa cosa. Si dovrebbero usare entrambi».

Le comunità etniche

Il giornale cattolico è dunque indirizzato a tutte le comunità etniche del paese. Padre Andrews ci racconta l’evoluzione del multiculturalismo in Malesia.

«A partire dagli anni ’80 c’è stata una progressiva sistematica polarizzazione su base etnica. La gente è diventata più cosciente del proprio background culturale e quindi è andata nella direzione di una maggiore divisione tra un gruppo e un altro. Se negli anni ’50 e ’60 i gruppi non erano un problema, c’era una grande mescolanza, le persone di comunità etniche diverse erano amiche tra loro, si invitavano a casa una con l’altra, oggi assistiamo a maggiore divisione. In particolare si sta verificando un’avanzata del fondamentalismo islamico a causa di un’influenza che viene dal Medio Oriente. Le donne hanno iniziato a coprirsi con l’hijab (velo semplice che lascia scoperto il volto, ndr), e a ritirarsi nel proprio gruppo. Prima si dava la mano anche alle donne, adesso non più, o almeno è sconsigliato. Oggi se un musulmano va nella casa di un non musulmano non mangia, perché ha paura che ci sia carne di maiale. Questo processo si è molto accentuato negli ultimi anni».

Malesi per Costituzione

In Sarawak, Borneo, un testimone ci aveva raccontato: «Ci sono molte differenze tra Malaysia peninsulare e Borneo per quello che riguarda l’integrazione tra le comunità. Nella penisola i gruppi etnici sono molto più divisi, ovvero si frequentano persone dello stesso gruppo. In Borneo invece è molto comune la frequentazione interetnica, ad esempio tra musulmani e cristiani o tra cinesi e malay».

Continua padre Lawrence: «I gruppi etnici e le religioni stanno diventando una cosa sola, mentre prima non era così. In Malaysia vivono cinesi di differenti dialetti, indiani e diversi gruppi etnici e nativi, di cui i malay sono la maggioranza. Questi ultimi sono in gran parte musulmani (soprattutto nella zona peninsulare, ndr). Questo è l’unico paese al mondo in cui le etnie sono definite nella Costituzione. Essere malay è definito nella carta fondamentale».

La Costituzione federale malese definisce come malay colui che è nato localmente, abitualmente parla malay, segue i costumi malay e professa l’islam (art. 160). Cinesi e indiani sono definiti come discendenti di immigrati di questi due gruppi. L’articolo 153, inoltre, conferisce particolari privilegi ai malay. Un malay che si converte e non è più musulmano, non è più considerato malay per la legge e perde tali privilegi.

«Gli indiani qui sono maggioritariamente indu, ma ci sono anche musulmani. Il 60% dei cattolici vivono nel Borneo (Sabah e Sarawak) e sono anche malay. In Malaysia occidentale, invece, i cattolici non sono mai malay, ma solo cinesi e indiani. I malay sono musulmani. Qui in territorio peninsulare se un malay vuole diventare cattolico, può essere arrestato. Ecco perché non possiamo usare il nome Allah, perché i musulmani temono che si possa creare confusione (e quindi conversioni)». Di fatto legalmente un malese deve essere musulmano. Le corti islamiche, hanno deciso che i malesi etnici devono rimanere musulmani e non è loro consentito cambiare religione. Questo è valido anche per una persona di altra etnia convertita all’islam. «In tutto siamo circa 3 milioni di cattolici su una popolazione totale della Malaysia di 30 milioni. In penisola siamo circa 300.000 cattolici».

In Malaysia l’islam è religione ufficiale di stato e, questioni linguistiche a parte, le relazioni tra chiesa cattolica e governo sono passabili. «Sono ok – ci dice padre Lawrence, ripetendo più volte l’ok -, non possiamo dire buone, ma va bene. Occorre avere permessi per qualsiasi cosa. Per costruire una chiesa devi avere il permesso e a volte non te lo danno. Tutto ciò crea ritardi. Se non chiedi troppo puoi vivere in pace, nessun problema. Non siamo al livello dell’Indonesia, a grande maggioranza musulmana, dove gli islamici possono andare in una chiesa e chiedere che si fermino le funzioni. Qui non lo hanno ancora fatto, almeno fino ad ora.

Con la polizia, inoltre, abbiamo buoni rapporti, possiamo parlare con loro. Ci danno protezione durante le grandi feste. In questo periodo storico è importante, con l’avanzata del terrorismo e dell’Isis».

Non è terra di missione

La chiesa cattolica in Malaysia storicamente ha avuto l’appannaggio dell’educazione. Tramite istituti religiosi, come i fratelli delle Scuole cristiane (di La Salle) e le suore canossiane, ma anche le francescane, da Italia, Francia e Irlanda, furono fondate scuole di ogni grado. «Oggi la maggior parte delle scuole sono però gestite dal governo. Il numero di religiosi è sceso, per cui le risorse umane sono diminuite. Molte delle nostre scuole sono ora gestite da islamici e hanno professori musulmani. Le migliori scuole sono quelle in lingua cinese, ma non ci sono religiosi. Cerchiamo di assumere professori cinesi, ma difficilmente sono cattolici. E non saremo sorpresi se una volta ritirati, saranno sostituiti da musulmani».

In Malaysia sono presenti diverse congregazioni religiose anche di origine europea, ma non ci sono quasi più missionari. «La chiesa locale è forte e inoltre non possono più venire gli stranieri a causa di una legge del 1970 che ostacola l’arrivo di nuovi missionari. Quelli che vivevano già nel paese, potevano stare ma al massimo otto anni. Alcuni sono diventati residenti per cui sono riusciti a prolungare la loro permanenza, ma in generale non abbiamo possibilità di avere altri missionari. Le congregazioni sono tutte costituite da persone locali, il che è un bene. Non siamo più un paese di missione», dichiara con un certo orgoglio. In Malaysia, non si vedono appariscenti casi di povertà, neppure nelle grandi città, come invece capita in tante capitali nel mondo. La povertà è presente ma circoscritta, ci ricorda padre Andrews. Secondo la Banca mondiale la Malaysia è quasi riuscita a eradicare la povertà, portando il numero di famiglie che vivono sotto la soglia di 8,50 dollari al giorno dal 50% degli anni ‘60 al 1% di oggi. Secono padre Andrews «si tratta di statistiche un po’ esagerate. Il Borneo è più povero, soprattutto nelle zone rurali. Anche qui a Kuala Lumpur ci sono quartieri poveri. Se in una famiglia entrano 1.500 ringgit al mese (320 euro) e ne servono 500 per l’affitto, quello che resta non basta».

Occhio alle conversioni!

I cattolici non sono gli unici cristiani. Sono presenti anglicani e gli altri protestanti. «Con gli altri cristiani, anglicani, luterani, metodisti, evangelici, partecipiamo alla Christian federation of Malaysia, Cfm. È una piattaforma che ci permette di parlarci e confrontarci quando ci sono difficoltà. Ad esempio adesso non possiamo più stampare bibbie in malese. Una legge ce lo proibisce. Stiamo negoziando con il governo per cambiare le cose. Ci sono le vecchie bibbie ma non possiamo averne di nuove. Gli evangelici sono piuttosto duri, per cui a volte hanno avuto problemi. Ad esempio quando cercano di battezzare dei musulmani. Due pastori sono scomparsi per questo motivo. Noi cerchiamo di metterli in guardia».

Chiediamo a padre Andrews qual è, secondo lui, la sfida per il futuro. «Ne abbiamo due: una all’esterno della comunità cristiana e l’altra all’interno. Quella all’esterno è la sfida dell’islam, sempre più presente. I musulmani cercano di convertire i fedeli di altre religioni. Noi, invece, dobbiamo lavorare per costruire ponti ovunque con altre comunità e religioni, come dice papa Francesco. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità e non guardare solo noi stessi. Se non riusciamo a lavorare con le altre religioni non ci sarà pace in questo paese, perché una religione dominerà sulle altre. Lo chiamiamo dialogo interreligioso. Il papa sta spingendo su questo e ha creato un nuovo dicastero su questo tema. In particolare lui parla ai musulmani, affinché non ci sia scontro, ma amicizia. L’altra sfida che abbiamo è non perdere i nostri fedeli, in quanto siamo una minoranza».

Marco Bello
(fine prima parte – continua)


Cronologia essenziale

Dalla via delle spezie alla Petronas

  • 1402 – Il principe pirata hindu Parameswara, giunto da Sumatra, fonda quello che sarà il grande porto commerciale di Melaka (a Sud dell’attuale Kuala Lumpur), cerniera tra India e Cina. Negli anni successivi viene adottata la religione musulmana (la penisola era buddhista e hindu) e Melaka diventa centro nevralgico per la diffusione della fede e della lingua malese.
  • 1509-11 – Arrivano i primi commercianti portoghesi in cerca di spezie. Melaka viene poi conquistata dai portoghesi che la controllano per 130 anni.
  • 1641 – Gli olandesi, in concorrenza con i portoghesi per il commercio delle spezie dall’Asia all’Europa, si fanno aiutare dal sultano di Johor e conquistano Melaka, che gestiranno per 150 anni. Inizia il declino della città. Gli olandesi potenziano Batavia, l’attuale Jakarta (Indonesia).
  • 1786 – Anche gli inglesi, con la loro Compagnia delle Indie Orientali, si rendono conto dell’importanza di una base commerciale sulla penisola malese, tra India e Cina. Il britannico Francis Light ottiene l’isola di Penang (a Nord di Kuala Lumpur) per un primo insediamento.
  • 1819 – Stamford Raffles, governatore inglese di Java, sbarca sull’isola di Singapore e negozia un accordo con il sultano: la Compagnia delle Indie ottiene l’isola in cambio di denaro e ne fa un importante porto.
  • 1824 – Gran Bretagna e Paesi bassi firmano un trattato per dividere la regione in due distinte zone d’influenza: agli olandesi l’Indonesia e ai britannici i territori sulla penisola.
  • 1839 – L’avventuriero inglese James Brook sbarca nel Borneo Nord orientale, dove aiuta il sultano del Brunei a sedare una rivolta. Nel 1841 riceve l’incarico di governare sulla regione (Sarawak), che si allargherà e sarà prospera sotto di lui e suoi discendenti (i rajah bianchi) per 100 anni, fino all’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale e poi al protettorato britannico.
  • 1865 – Il console statunitense del Brunei (impero potente in passato) approfitta della malattia del sultano per farsi affidare il Nord (l’attuale Sabah) che poi passerà agli inglesi diventando British North Borneo company (1881). Nel 1888 il Brunei diventa protettorato britannico.
  • 1941 – I giapponesi conquistano la Malaysia peninsulare e il Borneo. Reprimono il movimento comunista cinese. Si crea una guerriglia nella giungla che si oppone all’invasore. Nel 1945 i giapponesi si arrendono e i britannici riprendono il controllo della penisola.
  • 1946 – I britannici convincono i sultani a creare Malay Union controllato dall’Inghilterra. I malesi protestano e viene creato il primo partito malese: United Malays National Organization (Umno). Questo porta alla creazione della Federazione della Malesia e apre la via per l’indipendenza.
  • 1953 – L’Umno stringe un’alleanza con la Malayan chinese association (i cinesi) e il Malayan indian congress (gli indiani). Nasce il Parti Perikatan guidato da Tunku Abdul Rahman, che vince le prime elezioni nazionali nel 1955 e guida il paese verso la Merdeka (indipendenza).
  • 1957 – Dichiarata l’indipendenza della Malesia peninsulare. Rahman diventa primo ministro.
  • 1963 – Sabah e Sarawak (Borneo sotto controllo britannico) si uniscono a Malesia e Singapore formando la moderna Malaysia. Singapore ne esce due anni dopo per problemi interetnici cinesi – malesi.
  • 1969 – La Federazione vive frizioni tra le comunità etniche. I malesi nativi (detti bumiputra) sono più poveri di cinesi e indiani, ma hanno privilegi politici. Le tensioni sfociano in disordini in capitale che fanno 198 vittime. Il governo a prevalenza malese, vara un programma economico a favore dei nativi (1971), che continua ancora oggi. In venti anni di programma sono aumentate le aziende gestite dai nativi ed è cresciuta una classe media dei malesi.
  • 1970 – oggi – Grazie ai numerosi giacimenti di petrolio e gas naturale (getiti dalla Petronas, compagnia di stato), ma anche alla diversificazione industriale, la Malysia è riuscita a mantenere tassi di crescita vicini al 7% per 25 anni (Banca mondiale). Anche durante la crisi finanziaria asitica (‘97-’98) e quella mondiale (dal 2008), i livelli di crescita si sono mantenuti intorno al 5,5%. La crescita ha agito nel senso della riduzione delle disuguaglianze, con l’effetto di eradicare la povertà estrema, passata da oltre il 50% della popolazione negli anni ‘60, all’1% di oggi, secondo dati ufficiali.

Ma.Bel.




Capitolo generale IMC:

Ogni continente la «sua» Missione


Ho terminato la prima puntata raccontando dell’elezione del nuovo gruppo di «servitori» dell’Istituto. Li definisco così, anche se portano il nome ufficiale di «Direzione generale»: un gruppo di cinque missionari che per la loro «promozione» non ricevono nessun aumento di stipendio (non ne hanno proprio, solo vitto, alloggio e spese vive) e neppure avranno diritto al vitalizio.

Al centro della foto 1: il riconfermato superiore generale, padre Stefano Camerlengo, 61 anni, marchigiano verace, con lunga esperienza in RD Congo, dove è arrivato diacono quando ancora si chiamava Zaire.
Accanto a lui, con maglietta a righe, il vice superiore generale, padre James Lengarin della famiglia samburu dei Leaburia di Maralal, Kenya, 46 anni. Padre James ha fatto diversi anni di servizio missionario in Italia, prima al Sud e poi nel seminario teologico di Bravetta (Roma). Ultimamente era in Kenya come amministratore.
Il primo a sinistra è il consigliere con responsabilità di coordinamento per le Americhe, padre Jaime Patias, 53 anni, del Rio Grande do Sul in Brasile, giornalista nella nostra rivista Missões e poi responsabile delle comunicazioni per le Pontificie opere brasiliane.
Il secondo da destra è il consigliere per l’Africa, padre Godfrey Msumange, 44 anni, nativo di Iringa in Tanzania, missionario in Italia per anni, ben conosciuto a Vittorio Veneto e poi parroco della parrocchia della Speranza a Torino, nominato superiore regionale in Tanzania a metà del 2016.
Padre Antonio Rovelli (il primo a destra), 59 anni, brianzolo di Barzago (Lecco), missionario in Uganda a Bweyongerere, poi attivissimo in Italia nell’animazione e nella cooperazione, e negli ultimi anni responsabile della pastorale dei migranti della diocesi di Torino, è il consigliere incaricato per l’Europa.

L’elezione si è conclusa il 13 giugno e ha segnato il passaggio tra la prima parte (di analisi e condivisione) e la seconda (di programmazione) del capitolo. Fondamentale è stato l’approfondimento di quello che siamo e facciamo nel mondo, analizzando in dettaglio i progetti che i missionari della Consolata hanno elaborato in ogni continente.


Padre Tamrat presenta il progetto Asia

Asia: piccolo gruppo, grandi speranze

Padre Mathews Owuor e padre Tamrat Defar.

Dove

Un continente che pur occupando solo il 30% delle terre emerse, ha oltre il 60% di tutta l’umanità. È il luogo di nascita di tutte quelle che sono chiamate le «religioni del libro»: Giudaismo, Cristianesimo e Islam, tutte sono nate nel Medioriente. Induismo, Buddismo, Giainismo, Sikhismo provengono dall’Asia del Sud; Confucianesimo, Taoismo e Shintornismo nell’Asia dell’Est. In questa realtà i Cristiani sono solo l’8,4% della popolazione totale (foto 2).

Le sfide

In questa situazione la Chiesa cattolica deve affrontare delle serie sfide:

  • ha ancora bisogno di inculturarsi;
  • è una comunità in minoranza;
  • non è autosufficiente e dipende dal sostegno delle altre chiese;
  • è una chiesa dove prevale l’impegno sociale;
  • opera in paesi dove la libertà religiosa è negata o strettamente controllata;
  • è in dialogo con le altre religioni.

I missionari della Consolata

Icona della Consolata in stile Coreano

Sono arrivati nel continente solo nel 1988 con la prima apertura in Corea del Sud; nel 2003 insieme alle missionarie della Consolata sono andati in Mongolia e nel 2014 a Taiwan. Organizzati in realtà giuridica unitaria dal 21 marzo 2016, con l’etiope padre Defar Tamrat come superiore (foto 3), i 19 missionari (11 in Corea in 3 comunità, 4 in Mongolia a Ulanbaatar e Arvaiheer e 4 in Taiwan nella nuova parrocchia del Sacro Cuore a Hsinchu – vedi pag 21) vivono la loro presenza in Asia con coraggio e tanta speranza.

Priorità ben chiare

Sono il gruppo di missionari tra i più giovani dell’Istituto, con 42 anni di età media (38 in Sud Africa e 68 in Italia); sono una comunità multiculturale con asiatici, africani, latino americani ed europei uniti nell’unico scopo di testimoniare e annunciare Gesù a chi non lo conosce. Per fare questo sono impegnati nel dialogo interreligioso e con le culture; sono una presenza di consolazione (foto 4, la Consolata dipinta con il linguaggio simbolico e i colori della Corea) in mezzo ai giovani, agli immigrati e agli emarginati.

La loro forza è essere comunità vive, fraterne e multiculturali, che sono in comunione e collaborano con la Chiesa locale, con altre forze missionarie, con le missionarie della Consolata e i laici cristiani del posto.

Una speranza e un desiderio

La speranza: raddoppiare quanto prima il numero dei missionari presenti a Taiwan e poi anche in Mongolia. Un desiderio: stabilire presto anche un piccolo centro di formazione teologica per i nuovi missionari per dare loro la possibilità di iniziare da giovani a imparare le lingue (che richiedono diversi anni di studio) e le culture locali.


Celebrazione eucaristica prima giornata progetto continentale africano – membri del capitolo che lavorano nel continente Africa

Africa: le sorprese di una chiesa viva

Radici profonde

Il cristianesimo appartiene all’Africa fin dalle sue origini, a partire dall’eunuco etiope a Simone nativo di Cirene (in Libia). San Marco, ad Alessandria d’Egitto, fondò una comunità fiorente (che, come quella nella vicina Etiopia, dura a tutt’oggi) e il Nord Africa, prima dell’invasione islamica, ha offerto una messe rigogliosa di martiri, santi e padri della Chiesa.

Un’Africa che sorprende

Padre Marco Marini e padre Matttieu Kasinzi presentano il progetto continentale dell’Africa

«Ex Africa semper aliquid novi – dall’Africa (viene) sempre qualcosa di nuovo», dicevano già i Romani. La vitalità della Chiesa africana è la sorpresa e il dono che Dio sta dando a tutto il mondo.

I missionari della Consolata, arrivati in Kenya nel 1902, sono presenti in 10 nazioni con 88 comunità e circa 400 missionari (compresi i 92 studenti professi) e sono pronti ad aprire a breve una nuova missione nel Nord del Madagascar.

I missionari di origine africana (439) costituiscono quasi il 45% di tutto l’Istituto e ne sono la parte più giovane. In 268 lavorano nelle varie nazioni dell’Africa e 166 sono negli altri continenti. Una vitalità missionaria bellissima per un continente che pur avendo ancora bisogno di missionari è capace di condividere dalla sua povertà.

Le scelte

Con la sobrietà e la concretezza che caratterizza il mondo africano, i missionari vogliono concentrare i loro sforzi su tre ambiti principali.

  • Rimettere la missione ad gentes al centro: l’annuncio del Vangelo ai non cristiani viene prima della cura delle comunità già formate. Con alcune priorità: i cristiani superficiali o abbandonati (come nelle grandi periferie urbane multietniche, deculturate e povere) e la scelta delle minoranze etniche (come i Pigmei).
  • Una formazione di qualità per la Missione: ai 92 giovani in formazione dal noviziato alla teologia occorre aggiungere gli oltre 200 giovani che sono nel periodo di studi che precede il noviziato. È una realtà molto bella, di cui ringraziare il Signore, che ha però i suoi problemi: garantire formatori qualificati ed esperti; sostenere la gestione dei seminari che assorbe molte risorse; assicurare la continuità e la qualità formativa nei quasi dieci anni di studio; tenere acceso il fuoco della Missione e preparare i giovani ad andare in luoghi anche più poveri di quelli da cui provengono.
  • Autosufficienza economica e trasparenza: c’è l’urgenza di trovare forme di autofinanziamento in Africa, di ridurre le spese, di responsabilizzare ogni missionario nell’uso dei beni, e di garantire equità e trasparenza curando i rapporti di fiducia e correttezza con benefattori e donatori esteri.

Celebrazione presieduta da padre Venanzio per il continente America – rappresentanti del continente

Americhe: contro la tentazione di restare a casa

Due continenti, una sola Missione

In questi anni tra i missionari della Consolata è venuto a crescere il senso di continentalità e al capitolo è stata la prima volta che quelli del Sud e del Nord hanno parlato a una sola voce. Apparentemente tra il Nord e il Sud le differenze sono molto accentuate sia dal punto di vista sociopolitico (pace contro instabilità politica, guerre e tensioni sociali) che economico (ricchezza e povertà, dominio e sfruttamento), religioso (mondo protestante e mondo cattolico) e linguistico. Ma un’analisi più attenta rivela che ci sono molti aspetti comuni: crisi economica, crisi etica valoriale e morale, corruzione, disastri ecologici, produzione/consumo di droga, genocidi di popoli indigeni, migrazioni, ecc. Tutte realtà che richiedono un nuovo impegno da parte di tutta la Chiesa.

Quanti e dove

Il continente America presenta il suo progetto all’assemblea capitolare

In America (Nord e Sud) ci sono 261 (di cui 51 ancora in formazione) missionari della Consolata, con una media di età di 54 anni. Sono in Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Messico, Stati Uniti e Canada, per un totale di 69 centri.

Esame di coscienza

Facendo un bell’esame di coscienza, i missionari che operano nelle Americhe si sono resi conto che:
• solo il 30% di tutti loro è dedito alla prima evangelizzazione o impegnato con i popoli indigeni e gli afroamericani; • pochi missionari sono davvero disponibili al servizio a vita fuori dal proprio continente o anche solo in missioni disagiate, povere, senza comunicazioni (sia strade che web) e difficili per lingua e cultura.

Conversione

Per questo il progetto rimette la missione ad gentes, a vita e ai poveri al centro con alcune opzioni preferenziali: • l’Amazzonia e i popoli indigeni, • le periferie urbane, • gli afroamericani, • i migranti e rifugiati, e tutte le periferie esistenziali. Questo insieme all’impegno di accrescere la collaborazione e corresponsabilità tra il Nord e il Sud nel campo della giustizia e della pace, nell’aiuto ai poveri e nella salvaguardia del creato.


Foto di gruppo dei rappresentanti dell’Europa dopo la Messa presieduta da mons. Giovanni Crippa

Europa: «Missione» antidoto alla rassegnazione

Quanti e dove

In Europa, attualmente, ci sono 257 missionari, di cui 35 studenti (non europei), distribuiti in 35 comunità: 22 in Italia, 1 in Polonia, 4 in Spagna e 8 in Portogallo. L’età media è alta: 53 anni in Spagna, 60 in Portogallo e 68 in Italia (Polonia inclusa). Solo 4 giovani europei sono in formazione; la maggioranza dei missionari sotto i 50 anni proviene da nazioni extra europee.

Tentati dalla rassegnazione

Padre Luis Pereyra e padre Luca Bovio.

Da questi dati e, soprattutto da quello dell’età molto avanzata, nascono alcune domande: cosa ci stiamo a fare in Europa oggi? Con che tipo di presenze? Un tempo i missionari partivano dall’Europa per andare in missione in Africa e America Latina, oggi succede il contrario, i nostri missionari vengono in Europa per «fare la missione». Dobbiamo subire passivamente questa situazione accontentandoci di fare qualche servizio pastorale e di prenderci cura dei nostri anziani e malati?

Missione Europa

La risposta dei missionari al Capitolo generale è stata unanime: non vogliamo subire il cambiamento ma viverlo perché crediamo che è urgente vivere la Missione anche qui a casa nostra. I tempi non sono facili, ed è sotto gli occhi di tutti che l’Europa sta vivendo grandi e rapidi cambiamenti e crisi profonde che coinvolgono Chiesa e società, famiglia e giovani, lavoro ed economia, sicurezza e migranti, ambiente e scuola, demografia e salute …

Padre Michelangelo Piovano e padre Eugenio Butti.

Stile nuovo

Questa situazione complessa e contraddittoria ci stimola a ripensare il nostro modo di essere nel continente: non più prevalentemente «cacciatori e raccoglitori» (di vocazioni e di aiuti) come eravamo un tempo, ma anche «agricoltori» che seminano il seme bello della Parola di Dio.

Scelte nuove o riconfermate

  1. Servizio nella chiesa locale con un’attenzione speciale ai migranti, al dialogo interreligioso, ai giovani, alla formazione dei laici e alle aree più abbandonate o emarginate.
  2. Cooperazione missionaria (progetti di sviluppo, educazione, salute ed evangelizzazione) sostenuta da un impegno fattivo «per giustizia, pace e salvaguardia del creato» e da un’informazione a servizio dei poveri, di chi non ha voce e del Vangelo, facendo rete con organismi e associazioni della società civile che condividono la nostra stessa sensibilità e lo stesso sogno di un mondo più giusto e fraterno.
  3. Formare i giovani missionari (non europei) specificamente per la missione in Europa.

 


La gioia di un cammino insieme

La presentazione dei progetti in queste righe è davvero ridotta all’osso. L’originale occupa molte pagine ed è frutto di mesi di consultazioni e molti incontri prima del capitolo. Ogni progetto è stato poi esaminato sotto il «fuoco incrociato» degli altri continenti per cogliere i punti di forza e di debolezza e arrivare a proposte realistiche e, allo stesso tempo, piene di speranza e futuro.

In questo siamo stati guidati da una riflessione del padre generale, che ha citato da Sant’Ignazio di Antiochia: «Vidi con gli occhi di Dio, pensai con la mente di Dio. Sentii con gli orecchi di Dio, amai con il cuore di Dio. Desiderai con i desideri di Dio, decisi con le decisioni di Dio». Un invito chiaro a fare un cammino di discernimento nella fede e nello Spirito per attualizzare quelli che sono i due obiettivi fondamentali della nostra vita missionaria: diventare santi e servire la Missione (che è Gesù). Un modo per ricordarci che non ci può essere vera ristrutturazione senza una profonda rivitalizzazione.

La sorpresa dell’ovvio

Foto 12: Firma degli atti del capitolo

Dal risultato dei lavori dei gruppi continentali, senza bisogno di particolari discussioni, sono emerse – in parte sorprendendo i capitolari stessi – alcune convergenze importanti.

  • Il primo punto di convergenza è stato il ridirsi con forza l’urgenza che ogni missionario ha di ricentrare la sua vita in Gesù Cristo come fonte e ragione dell’essere discepoli-missionari. L’unanimità riscontrata su questo punto è stata motivo di gioia per tutti. Si è vista in essa la mano dello Spirito e la benedizione del nostro beato Fondatore, che ci ha ripetuto «Prima santi poi missionari».

Apparentemente si è detta una cosa ovvia. Eppure la convergenza spontanea su questo punto così semplice ed essenziale ha sorpreso tutti, perché tutti – convinti come siamo di risolvere i problemi con nuove leggi – ci aspettavamo di sentire tante ricette e strategie diverse: più anni di formazione, più studio, più specializzazioni, più mezzi, più internet, più regole, più questo e più quello. Invece ci siamo trovati concordi nel ripartire da quello che è fondamentale: Gesù Cristo.

  • • Il secondo elemento di gioia è stato la convergenza immediata sul tema della comunità. Bello l’invito a ritrovare la gioia e il gusto della vita comunitaria, dello spirito di famiglia e del senso di appartenenza all’Istituto, mettendo in evidenza la bellezza della testimonianza di comunità interculturali con missionari provenienti da nazioni e culture molto diverse.
  • •• Una terza convergenza che ha sorpreso e ha dato gioia è avvenuta al momento di scegliere il tipo di organizzazione continentale desiderato. Sul tavolo c’erano diverse proposte, più o meno innovative, più o meno complicate. Senza particolari discussioni tutti i gruppi hanno confermato la validità dell’attuale modello di governo: superiore generale, vice e tre consiglieri, uno per continente. Questo si è poi riflesso nell’elezione della nuova direzione generale avvenuta con poche votazioni in meno della metà del tempo previsto.

Foto 13: con il personale della casa generalizia di Roma.

Il capitolo è finito …

Il racconto della seconda parte del capitolo è più un verbale che un «reportage». In realtà non c’è stato niente di speciale nelle lunghe sedute, nei lavori di gruppo, nei momenti di preghiera comune, nel paziente lavoro della segreteria che ha fatto miracoli armonizzando testi in italiano, inglese, portoghese e spagnolo. Già, perché nonostante la lingua ufficiale fosse l’italiano, quando qualcuno voleva esprimere un concetto senza essere frainteso, lo faceva nella sua lingua (fortunatamente non in quella materna, perché allora ci sarebbe proprio stato da divertirsi).

Concludo questa storia con tre foto.

La foto 12, nella quale padre Stefano Camerlengo, superiore generale riconfermato, pone la parola «fine» al capitolo firmandone gli atti.

La foto 13, che vuole essere un grazie al personale della casa generalizia di Roma (insieme ai padri D. Pendawazima, ex vice generale, e R. Marcolongo, superiore della casa) per il loro eccellente e umile servizio ai capitolari.

L’ultima, la 14a, ricorda un momento della messa conclusiva, celebrata il 20 giugno nel seminario di Bravetta, a Roma, in onore della nostra «fondatrice», la Vergine e Madre Consolata. È il momento della gioia e del ringraziamento con le parole del Magnificat, il cantico di Maria. Ed è stata danza, in puro stile africano.

Foto 14: Celebrazione eucaristica finale a Bravetta con studenti e amici.

Gigi Anataloni




Taiwan: nell’isola «bella» un parroco africano


Dopo quasi tre anni di paziente studio della lingua e della cultura cinese, padre Mathews Owuor, keniano, e padre Eugenio Boatella, spagnolo, iniziano il loro servizio missionario «in Cina» prendendo la responsabilità della parrocchia del Sacro Cuore nella città di Hsinchu.

Il momento è finalmente arrivato. La nostra comunità sta per compiere tre anni di presenza nella diocesi di Hsinchu, a Taiwan, un tempo conosciuta come isola di Formosa: l’isola «bella». Siamo arrivati in tre, dopo un periodo di discernimento e studio, per capire se questo piccolo paese del Pacifico potesse diventare la terza presenza dei Missionari della Consolata nel continente asiatico.

Il Capitolo generale del 2011 aveva chiesto che l’Istituto, prevalentemente orientato al lavoro di evangelizzazione in Africa e America Meridionale, si aprisse all’Asia con decisione. Gli obiettivi erano due: creare tra i missionari una maggiore consapevolezza e una conoscenza più profonda della missione in Asia e operare una nuova apertura che, dopo la Corea (1988) e la Mongolia (2003), fosse il segno tangibile dell’assunzione di questo impegno da parte dell’Istituto.

Il lavoro di discernimento, portato avanti dalla Direzione generale insieme ai missionari già presenti nel continente, aveva sin da subito suggerito Taiwan come una delle possibili mete; questo per tre ragioni principali:

1) l’importanza, per un Istituto come il nostro, di avere una qualche apertura verso il mondo cinese, in modo da esporsi alla cultura, impararne la lingua, conoscerne le caratteristiche principali;
2) rimanere compatti e non distanziarsi troppo dalle altre presenze, per avere la possibilità di incontrarsi periodicamente;
3) la relativa facilità di accesso e la positiva accoglienza da parte del governo e della Chiesa locale.

La scelta di Hsinchu

Le due visite fatte dal sottoscritto insieme all’allora consigliere generale per l’Asia, padre Ugo Pozzoli, nel luglio 2013 e maggio 2014 avevano offerto nuovi elementi capaci di far pendere definitivamente il piatto della bilancia a favore della scelta di Taiwan. Determinante era stato l’incontro con mons. John Baptist Lee, vescovo della diocesi di Hsinchu dove poi ci siamo diretti e attualmente lavoriamo.

Hsinchu si trova molto vicina alla capitale Taipei. È una cittadina industriale che vive sui proventi dell’industria tessile e di quella della tecnologia. Ospita una grande quantità di migranti provenienti da moltissimi altri paesi del Sud Est asiatico, in particolare Filippine, Vietnam e Thailandia, ma anche da alcuni paesi dell’America Latina. Durante il periodo di studi della lingua cinese ci siamo avvicinati a questo mondo complesso e bisognoso di «consolazione» rappresentato dai lavoratori stranieri.

La chiesa locale ha anche un grande bisogno di clero, fattore che ha contribuito in maniera risolutiva alla scelta di Hsinchu come nostra meta. Il vescovo ci ha ospitati presso l’episcopato per tutto il tempo del nostro inserimento nella realtà di Taiwan, garantendoci accompagnamento e incoraggiamento nella prima, arida fase di apprendistato nella nuova realtà. I primi due anni e mezzo di permanenza sono stati infatti dedicati allo studio intensivo del cinese mandarino, senza la conoscenza del quale si è praticamente bloccati in ogni attività pastorale. Eravamo in due: padre Mathews Odhiambo, keniano, e il sottoscritto, spagnolo. Personalmente avevo già fatto la fatica di imparare un idioma complesso come il coreano e adesso mi trovavo davanti a questa nuova domanda: sarei stato capace di iniziare un lavoro pastorale efficace con la conoscenza del cinese che avevo maturato fino a quel momento? Dove, soprattutto, il vescovo ci avrebbe chiesto di iniziare la nostra missione «sul campo»? Con padre Mathews, sovente ci chiedevamo quale sarebbe potuta essere, al termine dei nostri primi due anni in Taiwan la nostra responsabilità pastorale. Forse una parrocchia in qualche città della diocesi? O in una zona rurale dove vivono i nativi? Saremmo stati capaci, col nostro cinese così limitato, ad affrontare una tale responsabilità?

Esterno della chiesa costruita secondo lo stile di un palazzo tradizionale nella città di Hsinchu.

La parrocchia del Sacro Cuore di Gesù

Alcuni di questi dubbi si sono sciolti quando il vescovo Lee mi ha chiamato per dirmi: «Ho già pensato quale sarà la parrocchia per voi missionari della Consolata. È la parrocchia dei Gesuiti, quella del Sacro Cuore. Loro stanno per consegnare la parrocchia alla diocesi e così ho pensato a voi!». Che sorpresa! Non lo avremmo mai immaginato. La conoscevamo già, perché è una di quelle che avevamo visitato con padre Ugo durante il nostro secondo viaggio di esplorazione prima di fare la scelta di aprire una missione in Taiwan. È una chiesa molto significativa nella diocesi di Hsinchu, e il vescovo l’ha anche designata come santuario per i pellegrinaggi. Eravamo rimasti allora colpiti dalla forma particolare di questa chiesa, unica per la sua bellezza, costruita 45 anni fa ispirandosi all’architettura dei palazzi cinesi.

A gennaio di quest’anno, terminati i nostri primi due anni di studio del mandarino, il vescovo ci ha inviato in questa parrocchia come assistenti fino a oggi, 30 di luglio, giorno in cui ne abbiamo assunto la completa responsabilità. Fino a oggi padre Mathews e io abbiamo vissuto e lavorato insieme con la comunità dei Gesuiti (quattro padri anziani e un fratello), e questo ci ha permesso di conoscere a poco a poco le persone e la vita della comunità.

Il lavoro pastorale e missionario della diocesi di Hsinchu fu assegnato fin dal 1952 alla Compagnia di Gesù. Molti dei padri espulsi dalla Cina comunista vennero qui e cominciarono un gran lavoro missionario che diede come frutto la costruzione delle attuali parrocchie di questa città. E tra queste la nostra, la parrocchia del Sacro Cuore. Ovviamente i Gesuiti godono del rispetto e dell’ammirazione di tutti i fedeli della diocesi per il loro impegno di evangelizzazione. E questo vale anche per l’ultimo parroco, il padre Sun di 93 anni nato nella Cina continentale, e per il suo vice parroco, il padre Arturo, ottantenne colombiano, che hanno guidato questa comunità con grande visione, facendola crescere in 10 anni sia come numero che come qualità di fede. I fedeli sono una novantina e sono attivi in vari gruppi parrocchiali, come la Legio Mariae, la catechesi domenicale dei bambini, il coro, il gruppo di preghiera «Taizé», lo studio della Bibbia e dei documenti del Vaticano II, il gruppo anziani, il gruppo di formazione di evangelizzatori e la catechesi battesimale.

Certo, questo numero di fedeli è veramente piccolo a confronto delle chiese di altri paesi. Ma noi guardiamo a questo piccolo gregge con tanta speranza. Saranno loro che ci aiuteranno a entrare in questa cultura e con loro potremo arrivare a quelli «di fuori», che ancora non conoscono il Vangelo, e così realizzare il primo obiettivo della nostra missione.

Passaggio del testimone

Oggi, 30 luglio, finalmente è stato passato il testimone. Il nostro vescovo Lee ha presieduto la cerimonia di consegna della parrocchia, dai Gesuiti ai missionari della Consolata. Per questa occasione sono venuti dalla Corea il nostro superiore regionale, padre Tamrat Defar, e padre Gian Paolo Lamberto, il quale ci ha anche predicato il ritiro annuale la settimana precedente a questa cerimonia.

È stato un momento emozionante per tutti, specialmente per i padri gesuiti che dopo tanti anni lasciano questa comunità parrocchiale tanto amata. Il provinciale dei Gesuiti ha ricordato ai fedeli che la parrocchia non è qualcosa dei Gesuiti, o del vescovo o della Consolata, ma di Gesù, che dona questa comunità alla Chiesa.

Da oggi padre Mathews è parroco, e si assume la responsabilità di questa comunità. Potete immaginarvi le sfide che ha davanti, tra cui forse la più grande è quella di una lingua che non si finisce mai di imparare, anche se lui già se la cava molto bene. Questa parrocchia per noi non è solamente la prima opportunità di realizzare il nostro servizio pastorale a Taiwan, ma è anche la sede della nostra comunità, formata per ora da quattro padri (Mathews Odhiambo, Gilberto Da Silva, il sottoscritto Eugenio Boatella, e Jasper Kirimi – foto a sinistra). La diocesi ha ristrutturato per noi un secondo piano dell’edificio, trasformando cinque uffici e un salone nella nostra attuale residenza, che diventa così sede e punto di riferimento della nostra presenza nella bella isola di Taiwan.

Oserei quindi dire che questo è un momento storico della nostra presenza in Asia. È un passo importantissimo per la nostra famiglia missionaria, per il suo desiderio di aprirsi con decisione all’Asia. Oggi siamo già con un piede in mezzo al popolo cinese. Che il Padrone della Missione ci assista in questo lungo cammino in cui oggi ci ha fatto fare un gran passo in avanti.

Eugenio Boatella




Nawal Soufi: È il cuore che mi paga


Nawal Soufi, giovane donna siciliana, dal 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalle acque del mare Mediterraneo. I migranti che hanno il suo numero la chiamano quando sono in pericolo. E lei comunica le coordinate dell’imbarcazione alla Guardia costiera.

Nawal in arabo significa «dono». È il nome di una giovane donna italiana, nata in Marocco nel 1987, arrivata in Sicilia quando aveva un mese. Lei si definisce «attivista per i diritti umani». Molti la chiamano «lady sos». Dall’estate del 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalla morte in mare ricevendo le loro richieste di aiuto sul suo telefonino. Non si sa quante ne abbia aiutate. Solo lei, forse, potrebbe farne il conto consultando i quaderni sui quali appunta i dettagli di ogni singola richiesta di aiuto.

Oggi gli sos arrivano anche dalla terra ferma: dai confini dell’Europa orientale, dagli hotspot (i centri di identificazione), come quello greco di Moria, Lesbo, dove sono trattenuti richiedenti asilo che la chiamano per denunciare abusi e violenze. Il 24 luglio scorso1 lei stessa, presente durante alcuni scontri nel campo, sembra sia stata trattenuta alcune ore dalle forze dell’ordine greche.

Lo scorso maggio Nawal Soufi ha ricevuto a Dubai, dalle mani dello sceicco e primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammad bin Rashid al Maktoum, il premio «Arab hope maker 2017», fautrice della speranza araba, scelta perché, secondo al Maktoum, «con la sua azione ha fatto la differenza per 200mila persone».

Nel libro che ne racconta la biografia, Nawal. L’angelo dei profughi, di Daniele Biella (Paoline 2015), si parla di 20mila persone salvate. Alla domanda «chi te lo fa fare», lei risponde: «È il cuore che mi paga»2.

Con il cellulare (e la tenacia)

L’azione di lady sos, studentessa di scienze politiche a Catania e, grazie alla sua conoscenza della lingua araba, interprete e mediatrice culturale presso il tribunale, è molto semplice: riceve sul suo cellulare richieste di aiuto da parte di persone in difficoltà o in pericolo di vita, e le gira a chi può fare qualcosa per aiutarle.

La prima chiamata l’ha ricevuta nell’estate 2013: un uomo urlava in arabo che si trovava con altre centinaia di persone in mezzo al mare su una barca che affondava. La giovane – racconta Biella nel suo libro -, presa alla sprovvista, ha chiamato la Guardia costiera. Quando dalla sede centrale di Roma le hanno chiesto le coordinate del punto in cui si trovava l’imbarcazione, lei si è fatta spiegare come trovarle: il telefono satellitare da cui l’uomo l’aveva chiamata era in grado di fornire le coordinate esatte. Una volta comunicate alla Guardia costiera, questa ha salvato i migranti.

Da allora, Nawal ha ricevuto centinaia di chiamate. «La cosa continua tutti i giorni – ci dice Biella -, giorno e notte. Negli anni sono cambiati i luoghi da cui le persone la chiamano: all’inizio dalla Libia, poi dalla Turchia-Grecia. E oggi, quando non sono sos dal mare, sono richieste di aiuto di altra natura, legate alla violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, o in Europa, negli hotspot».

Mentre scriviamo, Nawal è a Lesbo e non riusciamo a contattarla direttamente, ma Daniele Biella ne ha notizie quasi quotidianamente: «Nawal va avanti, mettendo in difficoltà prima di tutto la sua persona, perché lo fa come volontaria, ma a volte, a livello fisico e mentale, è sfiancata».

Il periodo in cui Nawal ha ricevuto più chiamate è stato l’estate del 2014: almeno una al giorno. «Un po’ per volta le cose sono cambiate. Ora non ci sono più così tanti siriani che scappano. Chi doveva partire è già partito».

Siriani in fuga

La gran parte delle chiamate che riceve sul suo cellulare sono di siriani in fuga dalla guerra. Il legame di Nawal con la Siria risale al 2011: «Lei da tempo era un’attivista per i diritti umani – ci spiega Biella -. Quando è scoppiata la guerra in Siria le ha fatto molta impressione perché, come dice lei, era a due ore di aereo dalla Sicilia. Ha iniziato a contattare, tramite i social media, attivisti siriani che le mandavano video e informazioni dalle manifestazioni che in principio erano pacifiche. E lei ha preso a fare da cassa di risonanza, sia per i media che per la gente di Catania. Di sera andava con un proiettore in piazza Bellini per dire ai passanti: “Guardate che succede”».

Da quell’esperienza è nata l’idea di una carovana di medicinali per la popolazione civile in Siria. Nel marzo del 2013 Nawal stessa ha attraversato il confine turco-siriano con i medicinali e ha vissuto per 17 giorni ad Aleppo, dove ha incontrato gli attivisti con cui era in contatto da tempo. Sul suo canale di Youtube «Nawal Syriahorra» si possono vedere alcuni video girati durante quei giorni. Prima di venire via dalla Siria ha lasciato agli amici il suo numero di telefono.

«Proprio in quel periodo le barche cominciavano a partire. Nawal non immaginava che il suo numero di cellulare sarebbe finito in mano a migliaia di persone tramite il passa parola», un passa parola che si è moltiplicato attraverso Facebook, tramite i profili di siriani che man mano venivano salvati dal mare grazie all’intervento di Nawal e che poi la conoscevano di persona a Catania: «Quando i Siriani sbarcavano – soprattutto in quegli anni 2013-2015, in cui non c’erano gli hotspot e le persone venivano lasciate libere dopo la prima notte in accoglienza di andare verso il Nord Europa -, passavano da Catania e lì conoscevano Nawal».

È in quelle circostanze che nasce il soprannome «angelo dei profughi»: la persona che prima salva i migranti dalla morte in mare, poi li accoglie e aiuta nel loro viaggio sulla terra ferma. Li aiuta, ad esempio, a non finire nelle mani di quelli che approfittano del loro spaesamento e gonfiano i prezzi dei biglietti del treno, o delle schede telefoniche. «Questi migranti che hanno ricevuto da Nawal abbracci, consigli, alimenti, pannolini…, quando sono arrivati in Germania, in Svezia, hanno scritto ai loro parenti e amici: “Guardate che questa ragazza è fantastica, ci ha aiutati”. E, tramite i social, è girata la voce».

Una voce amica

Ma perché i migranti in difficoltà preferiscono chiamare lei invece della Guardia costiera? «L’idea che si è fatta lei a quei tempi è che preferiscono usare un numero di una persona che parla arabo. La Guardia costiera non ha un servizio di operatore arabo 24 ore su 24. È vero che i profughi potrebbero comunicare in inglese, però in quelle situazioni, in stato di panico, al buio, in una barca che rischia di affondare, per chiedere aiuto, se c’è una persona che parla la tua lingua e che poi avvisa la Guardia costiera, è più facile. Credo che il suo numero sia un po’ ovunque. I migranti si mettono i numeri di telefono dappertutto, se lo cuciono sui vestiti, per paura di perderlo. Il passaggio è semplice: sanno che a quel numero risponde una persona che li può aiutare».

Favoreggiamento?

Biella, nel suo libro, a un certo punto racconta di una strana chiamata ricevuta da Nawal: un uomo le dice che riceverà una denuncia – poi mai arrivata – per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ai tempi erano ancora distanti le polemiche che dalla primavera del 2017 e nei mesi successivi avrebbero colpito le Ong, accusate in modo generalizzato di essere complici dei trafficanti di uomini. «La cosa triste, in questo periodo in cui si attacca “l’umanitario” – ci dice l’autore del libro -, è vedere che anche Nawal è finita nel tritacarne3. Con conseguenti insulti sui social network. Sono cose che rischiano di distoglierla da quello che fa. Nawal dice: “Devo perdere tempo ad argomentare queste cose, quando sto solo aiutando nell’emergenza le persone”».

Dalle frontiere

Dall’estate del 2013, il nome e il numero di telefono di Nawal sono diventati sempre più di dominio pubblico. Questo comporta, oltre al disagio di venire coinvolta in polemiche politiche e ideologiche, anche il fatto che sono sempre più varie le chiamate di emergenza che la raggiungono. Nonostante siano ancora soprattutto siriani a contattarla, ora ci sono persone anche di altre nazionalità, e richieste di soccorso di altro tipo. «Se non chiamano dal mare, chiamano da altre situazioni problematiche. Ad esempio dalle frontiere. “Siamo in questo centro e abbiamo subito abusi”, “Sono mesi che siamo fermi qui, cosa facciamo?”. Lei vede qual è la situazione e cerca canali per risolverla: contatta avvocati, volontari, ecc. Ad esempio, poco tempo fa ha ricevuto una chiamata dalla Malesia da un profugo siriano – non fuggono tutti in Europa, alcuni vanno in Brasile, in Cina… Uno scappa dalla guerra e cerca di andare dove sa che può -. Alla frontiera ti fermano perché il tuo passaporto è falso, però tu dovresti riuscire a chiedere asilo, perché questo è l’obiettivo del viaggio. Nawal cosa ha fatto? – ci racconta Biella -. Ha chiesto via Facebook se qualcuno conosceva un avvocato in Malesia che potesse aiutare il profugo. Queste sono le emergenze degli ultimi tempi. Sono legate a una seconda fase, meno drammatica rispetto a quella dei naufragi, ma comunque piuttosto forti. Senza scordare che comunque i naufragi continuano, sia in Libia che vicino alle isole greche».

Cortocircuito europeo

Prima di ricevere il premio Arab hope makers 2017, Nawal ha ricevuto un certo riconoscimento del suo operato da diverse istituzioni. Per prima è arrivata la menzione speciale del Premio volontario internazionale 2015 Focsiv (Federazione ong cristiane). È stata poi ricevuta, nel giugno 2016, a Rabat, dal re del Marocco Muhammad VI. Nel settembre 2016 ha ricevuto il premio dell’Ue come cittadina europea dell’anno: «Bello il riconoscimento da parte dell’Ue – dice Biella -. Nel marzo precedente aveva anche fatto un discorso al Parlamento europeo4, però, nel concreto, le cose continuano a non cambiare».

Uno dei cavalli di battaglia di Nawal, portato anche nel suo breve e intenso discorso al Parlamento europeo è la richiesta di creazione di corridoi umanitari: «Quelli che ci sono già riguardano un migliaio di persone in tutto. In essi sono coinvolti la comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese, la Cei. Riguardano persone che vengono selezionate nei campi profughi in Libano. Persone vulnerabili, con famiglia, ecc. Si verifica in loco l’identità, se ne verifica l’effettiva fuga e il rischio di vita nei loro paesi di origine, e si fanno venire in Europa con canali sicuri e legali, con un aereo. Tra le soluzioni possibili, si parla anche di visti umanitari. I corridoi umanitari su grande scala non si riescono a fare, perché l’Ue non li vuole proprio fare. Forse perché arriva troppa gente? Ma i visti umanitari, come è successo per le guerre balcaniche, si potrebbero concedere. La direttiva 55 del 2001 del Consiglio dell’Ue ne parla. Visti umanitari temporanei. Poi, quando la guerra finisce, le persone ritornano in patria: se chiedi a un siriano se vuole tornare a casa sua, il 100% ti dice di sì, ovviamente quando le condizioni lo permettono. Quando l’Unhcr ha fatto i campi in cui le persone venivano selezionate, questi sono diventati dei parcheggi, a causa della lentezza della burocrazia. A un certo punto arrivava il trafficante e sapeva che lì c’erano persone che attendevano di partire da mesi.

A me fa un po’ impressione l’idea che l’Europa stia esternalizzando le frontiere facendo accordi con paesi singoli per tenere le persone lì. Ma se lì non stanno bene, se i loro diritti non vengono riconosciuti, cercheranno sempre di andarsene. Dove c’è un blocco, il trafficante aumenta i suoi guadagni. Questo è il corto circuito cui stiamo assistendo in Europa».

Nawal con Daniele Biella durante la presentazione del libro.

Fede, motore di solidarietà

Nawal Soufi, di origine marocchina, è di fede musulmana. Nel libro di Daniele Biella se ne parla, con molta discrezione: «Lei parla di fede in modo generale, ecumenico. La fede per lei è il motore che la spinge ad aiutare chiunque abbia bisogno. Nella sua visione, le religioni spingono a essere sempre pronti per gli altri. Lei è musulmana, io sono cattolico, mi sono trovato a parlare davvero la stessa lingua in questo senso: l’aiuto disinteressato. Lei dice che chi usa la religione per motivi terroristici la snatura da quello che è, e va fermato. Si parla di criminali e non di fedeli».

Luca Lorusso

Note:

1- O. Spaggiari, Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi, vita.it, 21/7/2017; Flore Murard-Yovanovitch, Moria, il laboratorio della brutale intolleranza anti-migrante, huffingtonpost.it, 28/7/2017.

2- F. Tonacci, Parla Nawal Soufi, lady Sos “I profughi siriani mi chiamano dai cargo e io lancio l’allarme”, repubblica.it, 6/1/2015.

3-Durante la trasmissione “Piazza pulita” del 1 maggio 2017, su La7, è andato in onda un servizio sul traffico di uomini nel quale veniva fatto il nome di Nawal. Il giornalista, fingendosi un migrante, ha chiamato un uomo, identificato come trafficante, per chiedergli informazioni su un viaggio dalla Libia. Nella videochiamata l’uomo ha citato Nawal dicendo che gli scafisti avevano il suo numero. Nel servizio il giornalista ha poi chiamato Nawal che, semplicemente, ha risposto ai sospetti con il buon senso: esattamente come la Guardia costiera, quando riceve una chiamata, non può verificare chi la stia chiamando, se sia uno scafista o meno. Raccoglie la richiesta, le coordinate e le trasmette.

Nonostante l’evidente infondatezza delle accuse, alcuni giorni dopo, Il Giornale ha pubblicato un pezzo nel quale l’articolista insinua la colpevolezza di Nawal (G. De Lorenzo, Nawal Soufi, “Lady Sos” d’Italia. Il trafficante: “Gli scafisti chiamano lei”, 10/5/2017): «“Lady Sos” ovviamente nega di sapere che dall’altra parte della cornetta ci siano scafisti. “Il mio numero di telefono è pubblico”, dice. […]. “Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate”, ha provato a difendersi. E ci mancherebbe che il ladro dichiari di essere un bandito».

4- M. Luppi, Il discorso di Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina che scuote il cuore dell’Europa, africarneuropa.it, 4/3/2016.


Richieste di asilo politico: +49%

Grafico dal Quaderno statistico della commissione nazionale per il diritto di asilo

Alla data del 20 giugno 2017, giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) calcola che le persone morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno erano 1.990. Quelle che lo avevano attraversato «con successo» 82.897, di cui 71mila in Italia.
In occasione della stessa ricorrenza, la Fondazione Ismu ha pubblicato un rapporto sui richiedenti asilo. Nei primi cinque mesi del 2017, le richieste in Italia da parte di persone provenienti da diversi paesi nel mondo sono aumentate del 49% rispetto allo stesso periodo del 2016.
«Tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2017 in Italia sono state presentate quasi 60mila domande di asilo […]. Se si considera che nel 2016 il numero […] ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio (oltre 123mila), si può, per il 2017, prevedere un nuovo record […]».
Tra i 59.579 richiedenti, l’85% sono uomini (come nel 2016). I minorenni sono 6.700, di cui 3.530 non accompagnati, una quota molto maggiore rispetto allo stesso periodo del 2016 (+89%).
La Nigeria, come nel 2016, è il primo paese di origine tra chi cerca protezione in Italia (12.300 richiedenti, un quinto del totale). Il Bangladesh è il secondo con 5.500 richieste (cioè più del triplo rispetto ai primi cinque mesi del 2016).
Gli esiti delle domande esaminate tra gennaio e maggio 2017 sono negativi per il 58,6%. Aumentano però, rispetto al 2016, coloro che ottengono lo status di rifugiato (8,7%, 2.900 migranti), mentre continua la prevalenza delle concessioni di permessi a titolo di protezione umanitaria (7.900, il 24% del totale).
In Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, per numero di richiedenti asilo, sia nel 2016, sia nei primi quattro mesi del 2017 (dati Eurostat).

Luca Lorusso




Insegnaci a pregare 8:

Pregare nel cuore della lotta


Nella puntata precedente avevamo citato due esempi di preghiera, Mosè, il patriarca e profeta che con le mani alzate sconfigge Amalèk (cf Es 17,9-13) e la vedova del Vangelo di Luca che pretende giustizia da un giudice «che non temeva Dio» (Lc 18,1-8). Abbiamo esaminato per sommi capi la preghiera del gigante dell’AT, ora ci apprestiamo a considerare la vedova protagonista della «parabola sulla necessità di pregare sempre, senza mai stancarsi» (Lc 18,1). Due figure, un uomo e una donna, il più grande profeta della storia della salvezza, e una popolana, per giunta anonima, ma qualificata come «vedova», cioè un’emarginata della società.

Preghiera innocente o colpevole

La parabola della vedova e del «giudice che non temeva Dio» si trova in Lc 18,1-8 ed è esclusiva del terzo Vangelo dal momento che è assente negli altri. Il capitolo precedente, Lc 17, si chiude con la descrizione della fine del mondo e l’irruzione di Dio Giudice: la vedova e l’invito alla preghiera, quindi, devono essere letti in questo orizzonte escatologico che ruota attorno al tema della «Giustizia». Non si tratta di giustizia giuridica, da tribunale, ma di quell’attitudine radicale, interiore che, sola, può provocare lo svelamento delle ragioni e delle motivazioni che stanno al fondo delle scelte di ciascuno.

Nelle parole di Gesù si staglia potente la figura di una povera vedova che, forte del suo diritto, sta ritta davanti al giudice, forse corrotto. Nel rileggere la parabola, occorre superare un equivoco generato dalla traduzione italiana. L’ultima versione della Bibbia Cei-2008 parla di «parabola…sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Nella precedente edizione del 1974, la stessa Bibbia-Cei ometteva l’avverbio di tempo «mai». Il testo greco dice «to dêin pàntote prosèuchesthai autoùs kài mê enkakêin», che tradotto alla lettera può essere reso così, sapendo che ogni traduttore è sempre un po’ traditore: «Sull’essere necessario sempre che essi preghino e non disertino/vengano meno/depongano le armi». L’espressione «non vengano meno» ha quindi il senso di «non si ritirino», cioè «non si rassegnino». Il verbo «enkakè? / ekka kè?» ha il significato di «agire male / stancarsi / venire meno / scoraggiarsi / perdersi d’animo». L’espressione si riferisce al militare che abbandona la lotta perché non gli importa più nulla di niente, quasi che, di fronte al pericolo, dicesse: ma chi me lo fa fare? A quale scopo? A riguardo scrive il biblista Giovanni Vannucci:

«“Senza stancarsi” è la debole e vaga traduzione di un’espressione greca che significa l’abbandono delle armi fatto da un soldato ignavo durante il combattimento; potremmo rendere meglio il testo originale traducendo “senza abbandonare le armi”, “senza disertare”; l’esaudimento della preghiera dipende dalla difficoltà inerente al cammino della preghiera» (Giovanni Vannucci, La vita senza fine; Servitium editrice, Milano 2012, 205).

In questo senso l’espressione evangelica di Luca dice che bisogna pregare «mentre» si lotta. Durante la lotta bisogna intensificare la preghiera per avere la forza di continuare a lottare e non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento depressivo fino al punto di disertare dalla vita, dall’impegno, dalla fatica di affrontare le difficoltà. Pregare, allora, significa immergersi nella vita con tutte le sue contraddizioni, sapendo che non siamo soli. Ci è vietata solo la diserzione, che può essere proprio il rifugiarsi nella preghiera parolaia, una macina a vuoto di vuote parole che ci illudono. In questo senso Lc è in sintonia con Mt quando nel «Padre nostro», invoca «non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13), cioè nel cuore della lotta.

«Alla» o «nella» tentazione?
In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione».

Qui trova anche fondamento cristiano la tradizione rabbinica che esige l’amore di Dio «anche con la tendenza al male» (v. puntata 6a commento allo Shemà’ Israel), invocando il dono della fortezza per reggere gli assalti del male che come grossi «tori di Basan [ci] circondano… ci accerchiano» (Sal 22/21,13) per farci venire meno e disertare dall’impegno dell’alleanza.

A Giovanni Vannucci (1913-1984), biblista profeta dell’Ordine dei Servi di Maria del secolo XX, fa eco un grande teologo e filosofo suo contemporaneo, padre Ernesto Balducci (1922-1992) dell’Ordine degli Scolopi, che commentando il brano lucano afferma lucidamente:

«A chi vive, come noi viviamo, ad un certo livello di cultura, non è più lecito pregare con innocenza. Che voglio dire? Voglio dire che la preghiera, come invocazione a Dio, come appello a Dio, e di questo ci parla la Scrittura di oggi, per essere autentica, presuppone che si sia messo in opera tutto quello che è nelle nostre possibilità per realizzare l’obiettivo che riteniamo buono e necessario. Se noi preghiamo invece che operare, se noi preghiamo invece che cercare l’efficacia del nostro operare, non c’è dubbio che la preghiera va incontro alle nostre accidie e alle nostre inadempienze, presume di riempire i vuoti della nostra umanità. E siccome in un mondo qual è il nostro, generalmente colto, la consapevolezza delle ragioni delle ingiustizie, dei soggetti storici che ne portano la responsabilità, è viva e presente, pregare perché avvenga la giustizia nel mondo è atto ambiguo o, a volte, addirittura iniquo se si accompagna al disimpegno. Ecco perché è difficile che la nostra preghiera sia innocente. Essa porta su di sé i riflessi oscuri delle nostre complicità con le cause di quel male che vorremmo eliminato da questo mondo. È come quando, in certe comunità che io ho frequentato, si faceva la preghiera per i poveri. Si trattava di comunità strutturalmente solidali con il mondo dei ricchi e quindi impegnate a mantenere le condizioni che favoriscono la divisione del mondo fra ricchi e poveri e che poi si costruivano per l’occasione una buona coscienza con la preghiera periodica per i poveri» (Ernesto Balducci, Il Mandorlo e il Fuoco, Borla, Roma 1979, 344).

Nel cuore della lotta

Pregare nel cuore della lotta, dunque, senza diserzione! Quanta distanza dalle preghiere meccaniche macina-vuote-parole, ripetitive e distratte, staccate dal corpo, dall’anima e dalla stessa realtà. Dice padre Balducci che è difficile che la «nostra preghiera sia innocente» perché per essere tale deve essere la coscienza della «sapienza» della nostra identità: chi sono io che in questo momento «presumo» di pregare? «Dove» sto per essere certo di pregare? Qual è il mio rapporto con il dramma della fame, della morte di gran parte dell’umanità, cioè di carne di Dio perché suoi figli e mia perché fratelli e sorelle? Qual è il grado di complicità mio nel sostenere la struttura dell’ingiustizia di questo mondo che trangugia i deboli e osanna i potenti? Quale consapevolezza ne ho, mentre dico di pregare? Sono sicuro che quel Dio che io penso di pregare non sia lo stesso che parlò agli Ebrei del secolo VIII a.C. per mezzo del profeta Isaia? Che disse:

«11Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,11-17).

C’è, dunque, fin dai tempi remoti, una preghiera che può non essere esaudita e non lo dice solo il profeta Isaia, ma lo conferma anche Gesù: «Dai loro frutti dunque li riconoscerete. Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,20-21). Da ciò è chiaro che pregare è direttamente proporzionale alla volontà di Dio. Quando mai, pregando, ci siamo chiesti in che rapporto fossimo con la volontà di Dio su di noi o in che modo la nostra vita esprimesse il rapporto con essa? La preghiera ha regole serie che non possono essere espunte o disattese, come lo stesso Gesù afferma nel discorso della montagna, cioè nel programma costituzionale del suo regno:

«5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. 7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,5-8).

Per il Vangelo, la preghiera non ama l’ostentazione, la finzione e lo spreco di parole, tre tentazioni che oggi abbondano e circondano peggio dei «grossi tori di Basan». Il modello mediatico impone di portare sempre e comunque una maschera per esporsi al pubblico nelle vesti di qualcuno che non si è, in quanto vale solo ciò che appare, come in certi candelieri di legno liguri che, per risparmiare, erano dipinti in oro solo dalla metà che era esposta al pubblico – la parte in vista – mentre la parte rivolta all’altare era lasciata grezza.

Il modello scandaloso

Il modello di preghiera che presenta Gesù è scandaloso e irritante per la cultura e la religione del suo tempo: una donna, per giunta vedova, quanto di più insignificante e inconsistente si potesse immaginare. Essa è l’emblema della emarginazione assoluta, insieme agli orfani e ai menomati (ciechi, zoppi, storpi, lebbrosi), in una parola «poveri». Eppure la fortezza della «nullità» della vedova è la consapevolezza del suo diritto. Ella non si rassegna e non fugge, deve lottare e quindi non depone le armi, perché, decisa, si attesta nel cuore della battaglia, alle falde della verità e inchioda il giudice a compiere il suo dovere. È qui l’attuazione concreta del principio paolino:

«Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28).

Alla luce di questo contesto, pregare vuol dire entrare nella logica del regno di Dio e capovolgere le prospettive del mondo perché tutto e ogni singola persona o avvenimento abbia un senso e lo abbia pieno. Se ognuno di noi è parte essenziale del regno di Dio, vuol dire che ne è anche responsabile e co-artefice. Nella prospettiva del regno, il nuovo modo di vivere le relazioni umane, instaurato da Gesù, pregare è riconoscere la signoria di Dio sulla propria vita e quindi affermare la propria dignità di liberi figli del Creatore e riconoscere a tutti gli altri la stessa dignità.

La preghiera, perciò, diventa un processo di crescita, un percorso di armonia che conduce alla maturità e quindi a una relazione affettiva con Dio, dove non conta più la modalità tecnica, ma unicamente la qualità del rapporto che si esprime in tutta l’ampiezza della gamma di una relazione d’amore, perché coinvolge i sensi, l’immaginazione, i sentimenti, la paura, i dubbi, la fatica, la tensione, la stanchezza, il bisogno di solitudine, la parola, il silenzio, il grido, l’angoscia, la gioia, l’abbandono, l’evasione e tutti gli sbalzi umorali a cui può essere assoggettato l’animo di una persona normale.

Pregare: imparare a sposare la mentalità di Dio

Se prendiamo il libro dei Salmi, che racchiude la preghiera secolare d’Israele e della Chiesa, vi scorgiamo tutta la gamma della dimensione psicologica della persona umana: dolore e gioia, angoscia e speranza, terrore e lode, richiesta di aiuto e ringraziamento, malattia e gioia di vivere, richiesta e abbandono, estasi e disperazione. Nulla di ciò che forma la vita umana vi è estraneo, perché pregare è vivere con Dio. La stessa Eucaristia, che è la preghiera per eccellenza della Chiesa, contiene i medesimi elementi: la richiesta di perdono, la parola, l’ascolto, l’anelito, la lode, la richiesta di aiuto, la professione di fede, la memoria storica, l’abbraccio, il silenzio, i sentimenti di fraternità e di gratuità, il dono, la pace e la missione come testimonianza.

Infine, pregare è l’urlo di disperazione e di amore con cui «pretendiamo» da Dio che sia al nostro fianco, cireneo perenne, nella nostra lotta, vero combattimento con il quale c’impegniamo a:

  • Non alimentare la guerra che impedisce alla pace di avere cittadinanza sulla terra.
  • Non tollerare la povertà ignobile che rende schiava la maggioranza dell’umanità.
  • Non partecipare al gioco di una società che vive di parole morte.
  • Non essere mai complici di manipolazioni di qualsiasi genere.
  • Non inquinare il mondo, causa del sovvertimento dell’ecosistema (pioggia e clima).
  • Condannare la ricchezza di pochi come atto fondativo di ingiustizia.
  • Contestare la struttura di un mondo che affoga nell’idolatria del superfluo e dello «scarto».
  • Creare ponti di congiunzione e non abissi di separazione e rifiuti.
  • Essere pazienti con chi sbaglia non una, ma «fino a settanta volte sette».
  • Esporre nella propria vita la misericordia che ciascuno di noi sperimenta per sé.
  • Usare sempre la parola per creare la comunicazione e non per la finzione esteriore.
  • Essere sempre noi stessi «immagine e somiglianza di Dio, tempio dello Spirito del Risorto.

La preghiera cristiana c’immerge nello sposalizio con la mentalità di Dio, perché più preghiamo più ci avviciniamo al modo di pensare di Dio e ne acquisiamo il metodo, che è sempre un metodo di misericordia e di pazienza, di possibilità e di riserva d’amore. La perseveranza nella preghiera ha solo questo obiettivo primario: educarci attraverso gli esercizi oranti ad imparare a vivere, ad agire e a pensare come vive, pensa e agisce Dio.

Paolo Farinella, prete
[8 – continua].


Segnaliamo alcuni dei libri su argomento biblico e liturgico pubblicati da Paolo Farinella con Gabrielli Editori (www.gabriellieditori.it).

? Il padre che fu madre. Rilettura moderna della parabola del “figliol prodigo” (2010)

? Bibbia, Parole Segreti Misteri (2008), [Pagine di esegesi di passi o termini difficili]

? Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi (2007) con prefazione di Padre Rinaldo Falsini, segretario della commissione conciliare per la Liturgia.
Il giorno 14 settembre 2007 entrò in vigore il motu proprio papale «Summorum Pontificum» con cui papa Benedetto XVI autorizzò tutti i preti che lo vogliono a celebrare senza alcuna riserva la Messa preconciliare, dando così forza e vigore ai traditori del concilio Vaticano II, i lefebvriani & C. che giudicavano e giudicano eretici non solo il concilio che è il magistero più alto nella Chiesa cattolica, ma anche i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI.

? Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale (2006), sull’orrendo tentativo di trasformare il Crocifisso, Gesù l’ebreo-palestinese-semita, in «valore occidentale», cioè religione civile.

? Nel sito dell’autore, www.paolofarinella.eu, si trovano la liturgia di ogni domenica nel ciclo degli anni A-B-C sia come testo stampabile che audio.




Messico. Migranti: un salto nel buio


Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.

Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.

Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.

Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.

A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.

Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.

Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva

Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.

«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».

Il rifugio quante persone riceve?

«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».

Da dove provengono?

«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».

E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?

«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».

In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?

«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».

L’accoglienza

Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?

«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».

Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?

«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».

A che denuncia si riferisce?

«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».

A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?

«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».

Narcos e migranti

Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?

«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.

Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.

Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».

Quanti cartelli sono coinvolti?

«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».

Autorità criminali

E le autorità messicane che fanno?

«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».

Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?

«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».

Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?

«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».

Viaggiare sulla «Bestia»

Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.

«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.

Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.

Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».

I messicani negli Usa

Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?

«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».

Il diritto a emigrare e il modello capitalistico

Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?

«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.

I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».

In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?

«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.

Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».

Da chi vengono le minacce

Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.

«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».

Ha paura per la sua vita?

«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».

Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.

«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.

La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».

Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!

«Perché c’è forse differenza?».

Non c’è differenza?

«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».

Questo è molto triste.

«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».

«Io non sono solo»

Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.

«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».


Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.

A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.

Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.

Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.

Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.

Paolo Moiola

Note

(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.

L’articolo completo con le cartelle statistiche si trova sullo sfogliabile:

Foto

* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.

Archivio MC

Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:

Documentari

Sulla tematica sono visibili su YouTube numerosi documentari tra cui:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=r_s6HOYo6SI?feature=oembed&w=500&h=281]

Videointervista

Un ampio stralcio della videointervista a padre Alejandro Solalinde – arricchita con inserti filmati sull’Albergue e La Bestia – è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=S3rGfU-avxo?feature=oembed&w=500&h=281]