SOLIDARIETÀ AI MISSIONARI E AL POPOLO DEL VENEZUELA


MESSAGGIO DELLA DIREZIONE GENERALE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA

“Consolate, consolate il mio popolo!” Isaia 40,1

Un Paese alla fame e sull’orlo della guerra civile” quello raccontato dai nostri missionari dal Venezuela, ascoltando le storie di giovani, professionisti, anziani, studenti e di famiglie povere: “la tessera per il razionamento alimentare, la mancanza di medicine, l’iperinflazione, i supermercati vuoti, il clima di insicurezza, la rabbia per le libertà civili violate”. E ancora “Con le strade trasformate in terreno di una battaglia campale infinita, il regime di Maduro si afferra al potere con un colpo di mano per cambiare la Costituzione. Mentre l’opposizione politica grida al golpe”.

Queste sono alcune considerazioni fatte a Padre Stefano, Superiore Generale, che è in costante contatto telefonico con loro, per manifestare la vicinanza di tutto l’Istituto, la preoccupazione per l’aggravarsi della situazione degli scontri e, attraverso di loro, la nostra solidarietà al popolo venezuelano di fronte ai gravi problemi che lo affliggono.

I missionari sono sereni e stanno bene, ringraziano per il ricordo e le preghiere, loro unica preoccupazione è il futuro incerto di un paese allo stremo, e per il quale chiedono di pregare costantemente.

In questi giorni il Venezuela è tornato sotto i riflettori delle maggiori agenzie di informazione internazionali, apparso nei titoli di apertura dei telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e rispettivi siti web a causa dell’escalation della violenza, con i numerosi morti, feriti e i detenuti, ennesimo tragico epilogo di una situazione che si trascina oramai da 5 anni, dove non sembra esserci via d’uscita.

Mentre la gente soffre e vive nel terrore, i protagonisti del conflitto venezuelano, governo e opposizione, si trovano nel punto più distante tra loro, intenti solo a lanciare l’uno all’altro minacce e accuse.

 

I MISSIONARI A FIANCO DELLA GENTE

A Caracas i missionari della Consolata, insieme ad altri missionari e missionarie di altre Congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per barboni, senza casa, gente della strada che possono qui trovare riparo e sostegno, e se sono disponibili anche cura per rilanciarsi nella vita. Sempre a Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una Parrocchia situata nella periferia composta da almeno 150/200.000 persone che vivono incollate sulle casette di fortuna sulle colline attorno alla capitale. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna la vita con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione e contesto in nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente non sono maggioranza, ma sono presenza e fraternità e questo già basta per poter sognare almeno un poco.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa Regionale con un centro per l’Animazione Missionaria vocazionale collegato anche al Centro della città di Barquisimento. La casa regionale è un pochino originale giacché non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto da dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i tuoi problemi. E quando dico tutti, voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’AMV è in mano ad un’equipe che lavora anche con i Laici della Consolata e con gli Amici della Consolata, un’esperienza importante e condivisa che vale la pena di essere studiata ed approfondita.

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella con gli indigeni. Abbiamo un’equipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte: una alla città di Tucupita dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o cercando espedienti lavorativi e sul Delta Amucuro dove gli indigeni Warau vivono a loro stile sulle palafitte sospese sull’acqua. I missionari, senza pretese, ma con l’unica forza della presenza condividono la vita di questo popolo assumendone le sorti, con l’unica pretesa dell’amore.

Insieme a tanti altri sacerdoti, consacrati e consacrate e ai fedeli laici i nostri missionari hanno scelto di rimanere nel paese, per stare accanto alla gente, condividerne la situazione, attenti ai loro bisogni concreti, nel cammino sofferto di una comunità ecclesiale schiacciata tra due blocchi che tra loro hanno rotto ogni ponte e contatto.

La loro testimonianza di umile presenza tra i poveri e gli indifesi delle periferie di Caracas, realizza molto bene l’esortazione rivolta a tutti noi da Papa Francesco:

Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr. Rm 5,5). … Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice…” (Papa Francesco, ai partecipanti ai Capitoli Generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, Sala Clementina, 5 giugno 2017)

UNA SITUAZIONE COMPLESSA

Ci sarebbe bisogno di un’analisi sistematica ed approfondita per decifrare la complessità delle cause, nazionali ed internazionali, che hanno contribuito a gettare il Venezuela nel caos.

Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni che, pur non essendo esaustive, danno però l’idea della gravità del momento.

“ […] A seguito della caduta internazionale dei prezzi dell’oro nero, il Paese è sprofondato nel caos economico. Solo nel 2016 le entrate per prodotti derivati dalla vendita del petrolio erano scese del 5000% annuo. Di conseguenza, la necessità strategica di cercare risorse provenienti da fonti alternative all’industria petrolifera.”

«[…] Nella zona amazzonica sono state date delle concessioni a società di origine russa, canadese, britannica, sudafricana, cinese, iraniana e australiana, per lo sfruttamento di territori pieni di riserve aurifere, argento, petrolio, ferro, diamanti, coltan, uranio e ogni tipo di risorsa strategica… Si assiste alla dislocazione degli abitanti originari che per secoli hanno popolato queste zone; e ciò avviene solo per l’avidità che induce allo sfruttamento sconsiderato delle risorse del sottosuolo» (in Dossier Caritas Italiana, “Inascoltati. Un popolo allo stremo chiede i suoi diritti fondamentali”, www.caritas.it )

La rivoluzione bolivariana, avviata da Hugo Chàvez quasi vent’anni fa, si sta spegnendo in un sanguinoso caos. Perfino il procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega Diaz, alto funzionario nominato dal potere chavista, ha condannato la violenza della repressione della Guardia Nazionale bolivariana contro le manifestazioni di protesta, che ha causato decine di vittime.

La proposta fatta dal Presidente Maduro per l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, è stata respinta dall’opposizione che la considera soltanto un “nuovo tentativo di golpe”. L’avvilupparsi della crisi politica, la carestia, e l’iperinflazione (che potrebbe arrivare al 1600% secondo l’Fmi nel 2017) hanno fatto fare crac anche a tutto il progetto del socialismo bolivariano sostenuto, almeno fino alle ultime presidenziali, aprile 2013, da una maggioranza, seppur limitata, della popolazione.

Oggi il blocco sociale, che seguì il caudillo rivoluzionario morto nel 2013 e le sue promesse di riscatto sociale, è in minoranza. Per questo Maduro – che secondo i sondaggi ha ormai contro il 70% del Paese – ha rinviato le elezioni, amministrative e regionali. E per questo, insieme alla miseria sempre più drammatica nel Paese, l’opposizione si è lanciata in piazza.

LA NOTTE DEL VENEZUELA NON È ANCORA FINITA!

Infatti la situazione attuale si mostra qualitativamente diversa dal recente passato, perché le libertà sociali sono sempre più sotto assedio, la repressione inusitata, la crescente insicurezza personale e la sfiducia nel sistema giudiziario: la mancanza di tutela dei diritti lascia i cittadini indifesi davanti a una violenza mai vista. Il popolo venezuelano continua a protestare, inascoltato!

La crisi umanitaria avvolge il Venezuela in una spirale drammatica. L’82% della popolazione è in povertà, di cui il 52% in povertà estrema. La vita stessa delle persone è minacciata da quando sono venuti a mancare gli alimenti necessari per la sopravvivenza e la disponibilità di medicine per le cure fondamentali.

Questo favorisce l’aumento di morti premature, in particolare delle fasce più deboli della popolazione, specialmente bambini, anziani e malati. La mortalità dovuta a queste cause non risulta nelle cifre ufficiali di cui dispongono i mezzi di informazione, perché l’interesse è incentrato soltanto sul numero dei morti e dei feriti delle manifestazioni che si verificano ogni giorno, sin dal mese di aprile di quest’anno. In realtà, le cifre reali sono altre. Sono oltre 11.000 i bambini morti nel 2016 per mancanza di medicinali e la mortalità materna è aumentata quasi del 70%. (questi sono alcuni dati dell’Osservatorio di Caritas Venezuela, che emergono da una ricerca sullo stato nutrizionale dei bambini, riportati nel Dossier di Caritas www.caritas.it).

GLI APPELLI DELLA CHIESA

Anche se il Vaticano, che nei mesi scorsi guidò una trattativa per un compromesso fra governo e opposizione, ha dovuto gettare la spugna, giudicando “quasi impossibile” una nuova mediazione.

Anche se fuori e dentro del Venezuela, di fronte all’ostinazione e chiusura delle parti, governo di Maduro e partiti dell’opposizione, sembrano rassegnati al peggio, la Chiesa continua a lanciare appelli al dialogo, alla fine della violenza e alla ripresa dei negoziati.

La Conferenza episcopale del Venezuela in una lettera recentemente inviata al Presidente Maduro 8 luglio 2017, ha chiesto al Governo “di ritirare la proposta di un’Assemblea Costituente, di rendere possibile lo svolgimento delle elezioni stabilite dalla Costituzione”; e di “riconoscere l’autonomia dei poteri pubblici, abbandonando la repressione inumana di coloro che manifestano un dissenso, di smantellare i gruppi armati” e di liberare “le persone che sono state private della libertà per ragioni politiche”.

Ancora, i vescovi chiedono di impegnarsi “a risolvere i gravissimi problemi della gente e di permettere l’apertura di un canale umanitario perché possano arrivare medicine e alimenti ai più bisognosi”. Alle Forze Armate nazionali chiedono di “adempiere il proprio dovere di servizio al popolo nel rispetto e a garanzia dell’ordine costituzionale”. Dalla dirigenza politica i presuli esigono l’impegno nell’esclusivo bene “del popolo e mai per i propri interessi”, rispettando “la volontà democratica del popolo venezuelano”. Alle istituzioni educative e culturali chiedono di collaborare a “far crollare i muri che dividono il Paese”, incoraggiando “ogni sforzo in favore della pace e della convivenza, fondati sulla legge dell’amore fraterno”. (le lettera si         trova in: www.caritas.it)

Papa Francesco stesso in più di un’occasione ha lanciato accorati appelli al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana:

“affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione.” (Regina Coeli, 30 aprile 2017)

E in vista della festa dell’indipendenza del Venezuela del 5 luglio ha assicurato:

“la preghiera per questa cara Nazione e la mia vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro figli nelle manifestazioni di piazza. Faccio appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi. Nostra Signora di Coromoto interceda per il Venezuela!” (Angelus, 2 luglio 2017)

E in una lettera indirizzata all’episcopato venezuelano venerdì 5 maggio il Pontefice esprimeva la sua solidarietà ai Vescovi del Venezuela e la chiara convinzione:

“che i gravi problemi del Venezuela possono essere risolti se c’è volontà per costruire ponti, se si desidera dialogare seriamente e rispettare gli accordi raggiunti. Desidero incoraggiarvi a non permettere che i figli amati del Venezuela si lascino vincere dalla sfiducia e dalla disperazione, perché questi sono mali che penetrano nel cuore delle persone quando non si vedono prospettive future”.

I nostri missionari in Venezuela, nei dialoghi telefonici avuti, e nello scambio via posta elettronica, sono concordi nel sostenere la via del dialogo e dei negoziati come l’unica percorribile, perché:

“Nelle persone è sempre più diffusa la volontà di un forte cambiamento, bisogna seguire, però, la via della pace e della democrazia. La maggioranza del popolo chiede una soluzione pacifica. Ma i costi umani di questo processo sono troppo alti. Il governo deve ascoltare la gente che grida. È necessario trovare un accordo. Non sappiamo di quanto tempo avremo bisogno in Venezuela per riconciliare la popolazione e risanare le ferite che ci stiamo infliggendo”.

Noi come missionari della Consolata, facciamo nostro e rilanciamo l’appello di Papa Francesco, convinti che, quando ogni speranza tace, l’unica via di uscita stia proprio nella ricerca di soluzioni consensuali.

SOLIDARIETÀ’ CON IL POPOLO VENEZUELANO

Cari missionari, amici e uomini e donne di buona volontà, con questo messaggio vogliamo esprimere la nostra solidarietà a tutto il popolo venezuelano e la vicinanza e l’affetto ai nostri missionari, attraverso il ricordo e la preghiera.

La situazione d’insicurezza ed incertezza del Venezuela alla stremo, richiama quella vissuta dal profeta Isaia in uno dei periodi più difficili della storia del popolo di Israele: la città santa ridotta ad un cumulo di macerie, le persone più capaci e preparate deportate, distruzione e disperazione tutt’intorno, regna il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.

Il   profeta è invitato a contemplare i germogli di speranza che spuntano tra le rovine e, soprattutto a fidarsi del Signore per “saper irrobustire le mani fiacche e rendere salde le ginocchia vacillanti e dire agli smarriti di cuore: coraggio non temete! Ecco il vostro Dio giunge” (Isaia 35, 3-4)

Caro popolo venezuelano questa profezia del profeta Isaia, nella situazione in cui vi trovate, sembrerebbe “un sogno impossibile”, eppure chi crede, non si rassegna di fronte al male, non lo considera ineluttabile, perché sa che Dio è fedele ed è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo.

E a voi missionari auguriamo che la testimonianza della vita fraterna, il vostro impegno a fianco dei poveri, possano realizzare lo specifico del nostro stile missionario:

“Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schiavitù…” (Isaia 40,1-2).

Attraverso di voi la consolazione di Dio possa diventare una tenera carezza che rincuora e asciuga le lacrime; soccorso a chi si trova in condizioni disperate, riscatto per il misero sollevandolo dalla polvere (1Sam 2,8), mutando il lamento di tanti in danza e il loro grido in canto di gioia (Salmo 30,12).

In questo modo, in voi, la gente potrà toccare con mano, un Dio che veramente consola perché libera da tutte le schiavitù.

Rinnovando il nostro impegno di sostenervi e ricordarvi nella preghiera insieme a tutto il popolo venezuelano, vi salutiamo con l’esortazione del nostro Beato Fondatore:

«Coraggio dunque, sostenuti dalle nostre preghiere; coraggio in Domino, giorno per giorno, ora per ora. Ai piedi della nostra Ss. Consolata vi benedico di gran cuore» (Lett., IX/1,150).

La Direzione Generale dei Missionari della Consolata

p. Stefano Camerlengo
P. Bhola James Lengarin
P. Godfrey Portphal Alois Msumange
P. Jaime Carlos Patias
P. Antonio Rovelli

Roma, 15 agosto 2017, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

 




Elezioni 2017 in Kenya – cronologia


Elezioni in Kenya, giorno dopo giorno dal 27 luglio al 12 agosto 2017

Aggiornamento del: 13 Agosto 2017 alle ore 9.00

Seggi elettorali che hanno inviato i risultati: 40.762 su 40.883
Partecipazione: 79.26 % (86% nel 2013)
Elettori registrati: 19.611.423
Voti validi: 15.142.783
Voti controversi: 5.191
Voti rifiutati: 401.1981
Fonte: https://public.rts.iebc.or.ke/results/results.html

Stato dei voti per il posto di presidente:

Uhuru Kenyatta JP 8.208.373 voti (54.21%)
Raila Odinga ODM 6.799.850 voti (44.9%)

Per che cosa si è votato

Ogni elettore doveva dare sei voti diversi:

  • – a livello nazionale: presidente, membro del parlamento (Assemblea Nazionale), senatore, rappresentante delle donne;
  • a livello di contea (47 contee): governatore e membri dell’assemblea di contea

CRONOLOGIA

27 luglio 2017, assassinio di Christopher Msando presidente della Independent Electoral and Boundaries Commission (IEBC).

In preparazione alle elezioni c’è un diffuso timore che si ripetano le violenze del 2007 che causarono circa 1.100 morti e 600mila rifugiati interni. In tutte le chiese si intensifica la preghiera e gli inviti alla calma e alla partecipazione responsabile.

8 agosto 2017
Votazioni (dalle 7 alle 17, e in molti posti anche oltre viste le lunghe code). La polizia e dispiegata in forze (circa 180mila uomini) per prevenire disordini. Partecipazione altissima senza particolari tensioni.

9 agosto 2017
escono i primi risultati parziali che proiettano la vittoria di Huhuru Kenyatta, il presidente uscente, del partito Jubilee del Kenya ;
Raila Odinga (che corre per la quarta volta al posto di presidente), del Nasa – National Super Alliance – accusa di imbroglio dicendo che il sistema computerizzato dei voti controllato dalla ICBC è stato manomesso e hakerato.
Scoppiano tafferugli a Mathare (uno slum di Nairobi noto come roccaforte del partito di Odinga) e Kisumu. Ci sono almeno cinque morti.

10 agosto 2017
l’Iebc (Independent Electoral and Boundaries Commission) invita alla calma e ad attendere i risultati finali rifiutando l’accusa che i dati siano stati manipolati e hakerati usando il password del suo defunto presidente assassinato.
Anche altre voci autorevoli invitano alla calma e ad attendere i risultati.

In giornata il capo della Pubblica Amministrazione invita tutti i dipendenti della stessa a ritornare al lavoro.

Nel pomeriggio l’on. Odinga e i suoi, in una conferenza stampa,  insistono che i risultati riguardanti il presidente sono stati manipolati e che la vittoria sarebbero ampiamente in favore di Odinga.

Interviene la Law Society of Kenya (Lsk) che in una dichiarazione afferma che le elezioni sono andate bene, che occorre attendere i risultati finali e che se qualcuno ha di che lamentarsi vada in corte.

Gli osservatori internazionali (l’Elections Observation Group – Elog – composto da membri della Comunità Europea, Unione Africana, Commonwealth, East African Community e il Carter Centre, con 8.300 osservatori sul campo) elogiano lo svolgimento delle elezioni e non trovano irregolarità di rilievo nel processo elettorale e nel rilascio dei risultati.

11 agosto 2017
L’onorevole Raila Odinga del Nasa accusa gli osservatori internazionali di aver avvallato un processo elettorale che per lui è bacato e manipolato.
Continuano ad essere resi pubblici i risultati, man mano che i voti vengono certificati, circa i governatori, la rappresentante della donne e i vari parlamentari e senator e i membri delle assemblee di Contea.
Alle 9.00 ca., l’Iebc informa che mancano ancora pochi risultati per poter dare l’annuncio ufficiale sul presidente.
Alle 15 ca. (ora italiana) il partito di Odinga nega di aver dichiarato Odinga come vincitore e invita la Iebc a dare l’annuncio ufficiale solo quando tutti i documenti relativi sono arrivati e verificati.
Allo stesso tempo la Iebc comunica che mancano solo i documenti di due circoscrizioni elettorali e invita di nuovo alla pazienza.
In serata la Iebc annuncia la rielezione del Presidente Huhuru Kenyatta con William Ruto come suo vice presidente.
Alle ore 23.00 (ora italiana) in un messaggio televisivo il presidente rieletto si rivolge all’opposizione ricordando che “siamo tutti cittadini della stessa repubblica” e ha invitato alla pace.
Ma l’opposizione continua a contestare i risultati e denunciando brogli, scoppiano disordini negli slum di Mathare e Kibera e a Kisumu.

12 agosto 2017
I vescovi cattolici, (Kenya Conference of Catholic Bishops – KCCB)

pubblicano un comunicato stampa in cui

  • Lodano il popolo del Kenya per il modo calmo e sobrio in cui ha partecipato alle elezioni.
  • Fanno le congratulazioni al presidente eletto Huhuru Kenyatta e agli altri candidati alla presidenza, riconoscendo la loro condotta sobria (conducting themselves with sobriety) durante la campagna elettorale.
  • Congratulano la Iebc per il modo con cui ha gestito un processo elettorale oggettivamente difficile.
  • Poi, però, sottolineano i seguenti punti:
    • un appello al presidente eletto e al suo governo a muoversi velocemente per guarire e unire la nazione divisa dopo un periodo elettorale emotivo: i vescovi si augurano che nessuna comunità venga emarginata o esclusa per il modo con cui ha sostenuto e scelto i candidati;
    • un invito urgente a tutti i politici a usare un linguaggio che promuova unità, pace e riconciliazione;
    • invitano le forze di sicurezza a non usare forza eccessiva nel controllo delle folle e a rispettare la santità della vita; i vescovi sono particolarmente dispiaciuti per le notizie di morti e distruzioni di proprietà;
    • i vescovi prendono atto che anche dopo l’annuncio ufficiale dei risultati ci sono molte lamentele circa la correttezza di tutto il processo elettorale, per questo implorano e urgono (implore and urge) le parti interessate a usare i mezzi legali offerti dalla Costituzione per risolvere i problemi.
  • Concludendo assicurano i Keniani della loro vicinanza, sostegno e preghiera, invitano a mantenere pace e tolleranza sempre (maintain peace and tolerance at all times) e a ritornare alla vita normale lasciando alle Istituzioni incaricate il compito di risolvere le questioni legate alle elezioni.

Violenze morti, rapporti contraddittori.
In serata Nasa, la coalizione dell’opposizione, accusa le forze di sicurezza di brutalità e violenza annunciando che ci sono già altre 100 morti, molti dei quali uccisi da pallottole sparate a bruciapelo dalla polizia.  La notizia è riportata con rilievo anche dai giornali italiani.
Ma la Kenya National Commission on Human Rights (KNCHR) dichiara che ha l’evidenza documentata di 24 morti (di cui 17 a Nairobi, tra cui la bambina di 10 anni) in relazione ai disordini connessi con le elezioni dell’8 agosto.




Editoriale: Ciao, non solo un saluto

Ciao
Titolo non proprio originale, lo ammetto. Ciao è un saluto facile, immediato, familiare, informale, perfino un po’ trasandato e quasi universale. Nelle sue variazioni è diventato un saluto internazionale che si trova bene sulle bocche di giovani e adulti in Francia e in Russia, in Vietnam come in Brasile e in tanti altri paesi del mondo, anche dove si parla inglese. Usato originariamente nel Veneto, nell’Ottocento ha conquistato la Lombardia e poi anche la Toscana, diventando il saluto informale comune di tutta l’Italia del Novecento. Ma se i Veneti di un tempo (forse) ne conoscevano bene il significato, abituati com’erano a togliersi il cappello di fronte ai signori quando li salutavano, dubito che i giovani e meno giovani che lo usano con disinvoltura in ogni angolo del mondo siano preoccupati di saperne il significato etimologico. Se questo saluto fosse davvero capito e messo in pratica alla lettera, potrebbe innescare la più grande rivoluzione pacifica del pianeta e cambiare le relazioni tra persone e popoli. Sì, proprio il semplice «ciao». Ma andiamo con ordine.
Ciao «deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao, proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale». Così su Wikipedia e, similmente, su la Treccani, su Focus e su altri dizionari facilmente consultabili online. Ovvio che in origine era il saluto dei servi ai padroni, soprattutto i grandi proprietari terrieri e latifondisti che controllavano gran parte delle terre di tutta Europa fin dai tempi dei Romani. Retaggio di tempi in cui il fattore, longa manus del padrone, poteva entrare nelle case dei contadini e controllare quello che mangiavano per verificare che non ci fossero cibi non autorizzati e riservati soltanto ai signori. Era il saluto da servo a padrone, ma il tempo e l’uso l’hanno modificato e reso patrimonio comune. Nessuno oggi ne ricorda la dimensione servile, ma solo la familiarità, la gioiosità e l’uguaglianza tra persone che esso esprime.
Eppure il significato che questo saluto nasconde è davvero rivoluzionario. Immaginate solo per un momento che quello che si dice con la bocca (ciao = «sono suo/tuo schiavo») esprima davvero quello che si porta nel cuore, che davvero voglia dire: «Mi metto al tuo servizio» e, quindi, non penso ai miei interessi ma faccio tutto quello che è necessario per la tua felicità, il tuo benessere, la tua pace e la tua gioia. E che chi risponde al saluto con il suo «ciao» abbia gli stessi sentimenti e sia pronto ad aiutare, sostenere, accogliere, «servire» la persona che lo ha salutato. Immaginate un «ciao (= sono tuo servo)» che non sia di maniera né di opportunità, libero da timore e dipendenza, non corrotto da relazioni di tipo mafioso. Un «ciao» che esprima rapporti nuovi tra le persone, nei quali ognuno metta il benessere e la felicità dell’altro al centro. Un «ciao» che faccia sentire benvenuta, accolta, rispettata e, perché no?, servita la persona che è salutata.
Ve la vedete la scena di un qualsiasi ufficio pubblico dove l’impiegato/funzionario di turno ti dice «ciao» e veramente ti guarda e ti serve come una persona e non un numero o un rompiscatole? Un avvocato che dicendoti «ciao» pensa «come posso aiutare questa persona?» e non «quanto ci posso guadagnare?». Un prete che ti vede con gli occhi di Gesù e non con quelli del diritto canonico? I vicini di casa che non aumentino i divieti e i cancelli, ma dicano veramente «ciao» ai vivaci figli del vicino che hanno voglia di giocare in cortile e sappiano gioire della loro vitalità sbarazzina senza appellarsi ai regolamenti condominiali? Che succederebbe se i politici italiani incontrando la gente dicessero «ciao» perché vogliono fare un reale servizio al bene comune, con speciale attenzione a chi è più debole nella società? E un G20 del «ciao», nel quale i vari Trump, Putin, Xi, Merkel, May e tutti gli altri non pensino ciascuno a portare a casa il massimo vantaggio per la propria popolarità e il proprio paese, ma vogliano essere servi dell’umanità, della pace e della giustizia? Una pazzia?
Qualcuno, quasi duemila anni fa, ha osato sognare un mondo così. Nella cena in cui ha salutato per l’ultima volta i suoi amici, si è tolto il vestito della festa, ha indossato un grembiule da servo e si è messo a lavare i loro piedi. Alle loro reazioni scandalizzate ha detto che quello che lui faceva non era un’eccezione, ma mostrava quello che doveva essere il loro comportamento normale, quotidiano: «Lavarsi i piedi a vicenda» (Gv 13,14), «diventare servi gli uni degli altri» (cfr. Mc 9,35), come ha fatto lui che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28). Facendosi servo Gesù ha rivelato quello che è il vero volto di Dio, il volto dell’Amore. E ha anche mostrato agli uomini cosa significa essere davvero uomini, figli di quel Dio che è Amore, che è Misericordia.
Un sogno? A tutti un’estate ricca di ciao!




Cari Missionari: di cattiveria, di preghiera, di Banca Etica e volontariato

XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017

Si riaprono le candidature per le tre categorie del Premio del Volontariato Internazionale 2017.
Entro il 25 agosto sarà possibile candidarsi per le tre diverse categorie del XXIV Premio del Volontariato Internazionale Focsiv 2017: Volontario Internazionale, Giovane Volontario Europeo e Volontario del Sud, un riconoscimento che, in questo caso, può anche premiare gli immigrati che si sono distinti per le attività di co-sviluppo nel proprio paese d’origine oppure persone impegnate nel volontariato nella propria terra.

I premi saranno consegnati il prossimo 2 dicembre, in prossimità della Giornata Mondiale del Volontariato indetta dalle Nazioni Unite per il 5 dicembre.

Il Premio ha ricevuto, al momento, il patrocinio dell’Agenzia nazionale giovani, mentre sono partner Fondazione Missio, Forum nazionale terzo settore, Cei 8×1000, Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo e John Cabot University, accanto ai media partner storici, Famiglia Cristiana, TV2000, Avvenire, Radio Vaticana, Redattore Sociale e Rete Sicomoro. Missioni Consolata, insieme ad altre testate missionarie, sostiene il premio.

Per candidarsi in una delle categorie si potrà scaricare il Regolamento dal sito ed inviare la domanda entro il 25 agosto, allegando brevi video di presentazione, realizzati con la propria organizzazione di appartenenza. Nella seconda fase del concorso questi video potranno essere votati online. Dal sito www.focsiv.it vai alla sezione dedicata al premio.

Ufficio stampa Focsiv

Troppa cattiveria o troppo poca?

Dopo il 33° scudetto bianconero (il sesto consecutivo e anche il sesto della sua gestione…) Andrea Agnelli ha citato la «cattiveria» come uno dei segreti delle vittorie juventine («Passione, umiltà e cattiveria… domani più che ieri», scrive nel suo tweet del 21 maggio 2017) e qualche giorno dopo, commentando la sconfitta nella finale di Champions League con il Real Madrid, ha dichiarato che l’1-4 rimediato contro i galacticos: «Servirà a darci la cattiveria giusta per un altr’anno. L’anno prossimo dovremo andare in campo ancora più cattivi di come abbiamo fatto finora. Questa finale ci deve dare ancora più cattiveria. Cosa ho detto ai giocatori a fine partita? Che dobbiamo ricominciare con la cattiveria di sempre» (citazioni copiate da giornali e pagine web diverse, ndr).

Non credo che questa ostinazione nell’uso della parola «cattiveria» faccia onore al club torinese. Di cattiveria nel mondo del calcio ce n’è anche troppa e anche le persone che vogliono sdoganare la cattiveria sono troppe. Il messaggio che «senza cattiveria non si vince» è pericoloso, sia nel calcio che negli altri sport e soprattutto fuori dello sport. Certi concetti possono essere espressi in modo molto meno ambiguo usando parole come determinazione, coraggio, spirito d’abnegazione, disponibilità al sacrificio, mortificazione personale e molte, molte altre. Distinti saluti.

Silvano Montenigri e Mario Pace
07/06/2017

Svuotare le parole del loro vero significato, far diventare virtù quello che è vizio, non è un’operazione nuova nel nostro mondo. È quanto sta avvenendo con altre virtù importanti. Basta pensare a come sono bistrattate castità, onestà e modestia, per citarne solo alcune, senza poi contare quanto sta succedendo a istituzioni come la famiglia e la politica. Non credo, nel caso citato, che chi ha usato quel linguaggio lo abbia fatto di proposito, probabilmente si è adeguato al gergo di quell’ambiente. Ma come i nostri lettori hanno fatto notare, con la «cattiveria» non si scherza. Grazie a Silvano e Mario per aver attirato la nostra attenzione sulla pericolosità e ambiguità di questo tipo di messaggi. La cattiveria è cattiveria, sempre. Anche se poca è sempre troppa.

Preghiera

Caro confratello don Paolo Farinella,
leggo volentieri le sue riflessioni bibliche su Missioni Consolata, si impara sempre qualcosa anche con quasi 50 anni di Messa. Sulla preghiera di Gesù di maggio 2017, mi permetto di fare qualche appunto. Gesù è vero Dio e vero uomo, e si può esagerare nella divinità ma anche nell’umanità. Il mistero rimane. È cresciuto in sapienza, età e grazia, ma ha avuto anche doni particolari. Così pure tanti santi e sante hanno avuto doni di guarigione, preveggenza, lettura dei cuori, conservando tutta la loro fragilità umana. Lo stesso vale per la nota magico teologica sul Dio tappabuchi. Anche qui il mistero rimane, il senso del creato con tanta violenza, sofferenza, morte. A chi mi dice «ho dei dubbi», rispondo, «cara signora, caro signore, tra trenta, cinquanta anni avrà tutte le risposte, oppure, quando avrà due metri di terra sopra la testa, non avrà più tentazioni e sarà nella pace». Buon lavoro in Domino.

Don Silvano,
Oropa, 19/06/2017

Caro Don Silvano,
le sue osservazioni meriterebbero un trattato che per altro esiste già e si chiama «Cristologia» che i preti studiano in almeno 5 anni di teologia. Penso che il rischio di «esagerare» ci sia sempre o sul versante dell’umanità o sul versante della divinità. Nei tempi passati queste questioni hanno suscitato anche guerre e violenze a non finire (III e IV sec.) e non mi fermo a citare nomi perché si farebbe notte. Per fortuna oggi guardiamo la realtà «teo-andrica» che il grande teologo cattolico von Balthasar definì magistralmente «Teo-drammatica» non perché va in scena in teatro, ma perché va in scena nella storia di ogni giorno. Tutto questo, comunque, riguarda le teologia in quanto tale, mentre il biblista si limita a studiare i testi biblici, che non sono «immediati», per offrirne, per quanto possibile, il senso più vicino all’autore. Non è un segreto che il mondo cattolico ha conoscenza molto superficiale di essi. L’obiettivo non è schierarsi, ma «intuire» prospettive e possibilità che, per grazia di Dio, possono allargare il nostro rapporto con il Signore. Una cosa è certa: noi non conosceremmo il Padre se non facessimo esperienza di Gesù-uomo (Gv 1,18) perché l’ambito della nostra esperienza si compie e finisce entro i confini dell’umanità. Tutto il resto è, come dice lei, «mistero», ma non nel senso banale di non conosciuto o nascosto, ma nel senso di Tertulliano (sec. II) che traduce il paolino greco «mistero» con il latino «sacramento», cioè segno visibile di qualcuno che è oltre l’ordinarietà della nostra immaginazione. A me pare bello, comunque, sapere che, anche sulla preghiera, Gesù sia Maestro ed esempio perché solo così possiamo scoppiare come Tommaso: «Mio Signore e mio Dio». Un caro saluto e un abbraccio fraterno.

Paolo Farinella, prete, vecchio ma ancora
 in cammino

Maradona

Nel numero di maggio 2017 mi è saltato all’occhio l’articolo di Minà, un giornalista di cui ho la massima stima e che ho sempre seguito apprezzandone spesso le scelte mai facili. Detto questo, mi farebbe piacere scrivere a lui di non farsi tradire dalla voglia di enfasi perché alcune parti dell’articolo su Maradona gridano un attimo alla scorrettezza. Che l’Argentina, ad esempio, abbia perso il mondiale 1990 per scelte «superiori» mi sembra innanzitutto scorretto nei confronti della Germania vincitrice, e poi dimentica che, prima contro il Brasile e poi contro l’Italia, i biancocelesti avevano superato il turno perché fortunati dagli episodi di gara. E contro l’Inghilterra, il gol di mano non mi sembra testimoniare un presunto odio arbitrale. Quindi ritengo scorretto asserire che l’Argentina meritasse più di altri.

In generale nell’articolo, in particolare definendolo cocciuto nella lotta contro Equitalia lo disegna come un eroe che non è, dando una forma di schiaffo a tutti coloro che contro la burocrazia fanno battaglie senza avere casse di risonanza e soldi per avvocati. E magari l’avvocato dotato di testardaggine, è anch’esso alla facile ricerca della carriera in ascesa a difendere il Mito per eccellenza.

Maradona è stato un grande, Minà è un grande, ma per favore: non disegniamo il Pibe come un eroe, proprio no. In un mondo dove il trash sta imperando, non credo che il dono di raccontare bene le vicende della vita e i personaggi della storia, si possa sprecare preferendo fare il tifo piuttosto che mantenere l’equilibrio. Grazie.

Claudio Tartaglino
17/05/2017

Grazie da Dom Roque

Carissimo Paolo (Moiola, ndr), pace e bene a te. Ti ringrazio per il lavoro che fai per far conoscere la lotta e i sogni dei popoli indigeni del Brasile e l’impegno del Cimi. Qui ci dobbiamo confrontare con la Commissione d’inchiesta su Incra/Funai e i rinnovati attacchi contro i popoli indigeni e coloro che li aiutano. Molti missionari del Cimi sono stati posti sotto accusa e attaccati, ma siamo coscienti che non possiamo tirarci indietro proprio in questa ora che ci domanda di restare fermi nella lotta per superare questa macchinazione del governo che sta distruggendo i diritti dei poveri. Salutami i missionari. Con gratitudine.

dom Roque Paloschi
Porto Velho, 22/06/2017

Segnaliamo qui alcuni degli articoli più recenti dedicati alla causa indigena in Brasile: MC 07/2017, p. 10; MC 10/2016, p. 51; MC 1-2/2015, p. 51; 10/2015, pp.26-58; MC 11/2014, p. 27; MC 07/2013, p. 10; 10/2013, p. 21.

Carissimo professore

Lo scorso 6 giugno è morto a Quito, Ecuador, dove viveva da alcuni anni, François Houtart. Nato a

Bruxelles nel 1925, prete dal 1949, era teologo della liberazione e professore di sociologia nella famosa Università di Lovanio. È stato perito e consulente al Concilio Vaticano II, fondatore del Centro Tricontinentale per i rapporti Nord-Sud, del Forum mondiale delle alternative e del Forum sociale mondiale. Non amato da tutti a causa del suo spirito critico e delle sue posizioni politiche progressiste, Houtart si è sempre mosso all’interno della Chiesa cattolica. Da tempo era un amico e collaboratore di questa rivista. Di lui MC ha pubblicato articoli e lunghe interviste, l’ultima delle quali – raccolta a Quito nella sua modesta dimora (una stanza di pochi metri quadrati) – è apparsa nel giugno del 2016. Con François Houtart se ne va un persona di grandissimo spessore morale, culturale e umano. Ci mancherà.

Paolo Moiola e Marco Bello
24/06/2017

Banca Etica

Allora, cercherò di essere il più sintetico possibile e di non lasciare nulla di evaso.

1) Non sono mai stato socio, né tanto meno correntista, ma questo, per essere membri del G.I.T., allora non era nemmeno richiesto. Forse ora le cose sono cambiate.

2) Banche Armate: non ho mai capito le argomentazioni reali, segnalo solo che le banche già menzionate (Pop Emilia Romagna e Popolare di Sondrio) hanno fatto parte del pool che ha rinegoziato il debito di Finmeccanica nel 2015, come co-arrangers.

Popolare di Sondrio ha aumentato di 100 milioni di euro gli importi rispetto al 2015, mentre Bper li ha diminuiti a 40 rispetto ai 70 del 2015, scompare Bpm, ma questo è normale, essendoci stata la fusione col Banco Popolare, a sua volta parte del pool rinegoziatore. Dello stesso gruppo fa parte Banco Popolare Credito Cooperativo che nel 2016 riceve oltre 103 milioni di euro. Con le fusioni volute dal governo sarà sempre più difficile per una banca non partecipare al business degli armamenti.

Per un approfondimento del tema rimando al blog di Banca Etica «Non con i miei soldi» e all’articolo del 27/01/2015, «Banche armate a che punto siamo», di Giorgio Beretta che entra nel dettaglio delle argomentazioni offerte da Sabina Siniscalchi.

L’inchiesta per mafia in cui nel 2013 è rimasta coinvolta la Bcc di Borghetto Lodigiano insieme ad altre 2 Bcc, la Centropadana e quella di Offanengo, poi incorporata nella Bcc di Treviglio estranea all’inchiesta, è stata l’operazione Esmeralda.
Ho lasciato intendere che c’è una complicità di B.E.? Non mi pare, però proprio perché B.E. è tra i consulenti finanziari forse si imporrebbero dei criteri più stringenti almeno sui soggetti da finanziare, onde evitare cantonate clamorose come quella di Buzzi, che segna una debacle indelebile nella storia del gruppo. Cosa si insegna ai corsi di valutatori sociali? A non vedere certe cose? Meno male che non l’ho fatto.

Per quanto riguarda i fondi «valori responsabili» spiego come fare ad accedervi in modo che ognuno si possa fare un’idea del prodotto che stanno tentando di rifilargli e verificare se sono così in linea con gli standard etici. E se qualcuna non è incappata in qualche inchiesta un po’ inopportuna (tipo At&t negli Usa).

Si vada sul sito di Etica Sgr e si clicchi sui «nostri fondi». Una volta scelto il fondo, consiglio di analizzarli tutti, si clicchi su «portafoglio» e si scenda leggermente. Si troverà il Pdf con le imprese prescelte e con gli Stati inclusi. Non so se stati come Germania, Belgio e Olanda, possano definirsi virtuosi, forse dal punto di vista di un certo target di clienti dalle abitudini sessuali consolidate sì, per la Spagna ed il Portogallo si può chiudere un occhio, se non fosse che quello aperto nota che le rispettive economie non sono così solide ed i titoli del Portogallo sono ad alto rischio di insolvenza (rating BB, solo BBB- per la Spagna).

Quello che però è obbligatorio segnalare è l’improvvisa scomparsa dei rating sulle obbligazioni delle aziende che fino alla prima metà del 2016 era riportato e poi è improvvisamente scomparso. Questo vuol dire che l’investitore non è più in grado di farsi un’idea sul reale stato del debito di queste imprese.

Per quanto riguarda il Movimento 5 stelle non ho mai detto che controlla B.E., molto semplicemente andando sul loro sito si può appurare come Banca Etica sia stata la banca che hanno scelto sin dall’inizio anche per il deposito delle quote, e figura, sempre sul sito, tra le convenzionate per il famoso microcredito insieme ad altre, tra cui le «armate» Bnl, Unicredit e Banca Intesa.

Concludendo cito quello che fu il Catholich Ethical Balanced Found di J.P. Morgan, un tentativo fallito di fregare i cristiani che si accorsero presto di che natura era, di cui disse qualcosa il Corriere della Sera in un trafiletto che ancora oggi si può trovare sul sito di Etica Sgr. Approfonditene la storia […]. Spero di essere stato esaustivo, anche se mi piacerebbe scrivervi ancora.

Matteo Spaggiari
23/06/2017 

Su MC giugno 2017 abbiamo pubblicato una lettera di Matteo Spaggiari – seguita da una risposta di Sabina Siniscalchi – critica nei confronti di Banca Etica e di come essa fosse stata presentata nella rubrica Eticamente di MC aprile 2017. Come vedete, tempi lunghi! In seguito il sig. Matteo ci ha scritto due lunghe email, di cui pubblichiamo qui solo la seconda (come da lui stesso suggerito).

Il dibattito potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma non penso che queste pagine siano lo strumento più adatto.

Esso è rivelatore della realtà difficile, contraddittoria e spesso torbida del mondo della finanza in cui, come cristiani, siamo sfidati a fare delle scelte controcorrente, chiare, trasparenti, secondo giustizia e onestà e per il bene della persona, soprattutto quella più debole e meno protetta.

Un’impresa chiaramente controcorrente come la Banca Etica fa fatica a crescere sia per la diffidenza di cui molti la circondano, credenti compresi, sia per l’oggettiva difficoltà (o impossibilità?) a distinguersi da un sistema finanziario infiltrato a tutti i livelli dai profitti sulle armi, gli investimenti ad alto rischio, le speculazioni finanziarie, il riciclaggio di denaro, il traffico di materie prime ed esseri umani, droga, terrorismo, pornografia e mafie varie.

Di fronte a questo dico grazie a chi, come il sig. Matteo, ci invita a vigilare, e nello stesso tempo voglio incoraggiare chi è impegnato in Banca Etica per una finanza a servizio dell’uomo. È una strada in salita che richiede di essere «furbi come serpenti e candidi come colombe», ma anche «tenaci come lumache».




Colombia: Nel Caquetá la pace passa per la scuola


In un luogo dove meno te lo aspetti, alle porte di una cittadina amazzonica, sorge una scuola molto particolare. I suoi studenti provengono da sperduti villaggi e hanno vissuto la guerra civile. Vi si insegnano materie tecniche, ma soprattutto si vuole ricostruire il tessuto sociale. E far crescere negli studenti quella cosa stupenda chiamata autostima.

Fa caldo umido a San Vicente del Caguán. Siamo nel Caquetá, uno dei dipartimenti amazzonici della Colombia. San Vicente è anche noto per essere «il comune più deforestato dell’America Latina», dicono alcuni. Il vasto dipartimento, con una superficie pari a poco meno di un terzo di quella dell’Italia, si estende dalle pendici della cordigliera orientale all’Amazzonia profonda. Qui vivono meno di mezzo milione di persone, e ben quattro milioni di vacche. Parte della foresta ha infatti lasciato il posto ad ampi pascoli. Esistono tuttavia ancora molte zone e comuni raggiungibili solo via fiume, perché non ci sono strade.

San Vicente è anche uno dei comuni colombiani che più sono stati colpiti dalla guerra civile durata 52 anni. Oggi, all’indomani degli accordi di pace firmati tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) il 26 settembre 2016 (si veda MC novembre 2016 e maggio 2017), si respira un’aria diversa. Da un lato c’è speranza per questa nuova opportunità di costruire e vivere in pace, ma dall’altro è forte la preoccupazione per una situazione inedita ed equilibri che stanno rapidamente cambiando. La gente, in generale, ha poca fiducia nel governo ed è sospettosa. Per questo motivo non è troppo propensa a parlare della situazione e di quello che potrebbe succedere.

Nel frattempo Álvaro Uribe Vélez, il precedente presidente (di cui Santos fu ministro della Difesa), e il suo gruppo di destra hanno fatto una massiccia propaganda anti accordi di pace, sostenendo che, grazie a Santos, le Farc hanno guadagnato molti privilegi, e saranno presto in parlamento ed eleggibili alle varie cariche amministrative.

I combattenti delle Farc stanno smobilitando (a metà giugno era già stato consegnato il 60% delle armi) e si concentrano in 23 zone e 8 accampamenti in tutto il paese. Occorre prevedere per loro un programma di reinserimento sociale, ovvero formazione, educazione secondaria e talvolta primaria, in quanto molti di loro sono nati e cresciuti nella guerriglia e quindi lontano dalle città e dai centri di educazione formale. Il «post conflitto» è ormai il termine sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori (enti statali, Ong, organismi ecclesiali e religiosi), e la sua gestione è la sfida più importante per stabilizzare il paese con una pace vera e duratura.

Il Vicariato

A San Vicente, e nell’ampio territorio di sua competenza, il Vicariato apostolico è la struttura con maggiore autorevolezza e credibilità. Al suo capo c’è da 18 anni monsignor Francisco Javier Múnera Correa, missionario della Consolata colombiano. Durante i lunghi anni di guerra sacerdoti, suore e laici sono stati gli unici a poter intervenire sempre e ovunque nel Vicariato. Una vasta area, che nel febbraio 2013 si è divisa con la creazione del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano, e oggi si estende per 31.000 km quadrati (come Piemonte e Liguria insieme). Il Vicariato, grazie alla sua pastorale educativa e alla pastorale sociale, è oggi il più importante attore di sviluppo di tutta l’area del Caquetà.

«Oggi una delle grandi preoccupazioni – ci confida un operatore del Vicariato – è la cosiddetta “dissidenza”, ovvero quelle frange delle Farc che non hanno accettato gli accordi di pace, e restano in armi nella selva». In particolare, il comune di Cartagena del Chairà, sembra influenzato da questa dinamica. «Altre forze, inoltre, si affrettano a occupare i territori fino a ieri controllati dalle Farc, che ora se ne stanno andando. Qui ci sono narcotrafficanti, criminali comuni e fuoriusciti dalla guerriglia che si riciclano». Incontriamo il responsabile della pastorale sociale, padre Juan Pablo de los Rios, anche lui missionario della Consolata: «Nei prossimi anni vogliamo concentrarci su tre aree di lavoro principali: la cura della Casa comune, ovvero dell’ambiente, il cammino di perdono e riconciliazione nel post conflitto e la democrazia partecipativa. Questa è una terra di grandi profitti economici: caucciù, legname. Poi la coltivazione estensiva (illegale) della coca. E sopra tutti la deforestazione per l’allevamento estensivo di bestiame. Ma nei pressi di San Vicente c’è anche una zona di estrazione petrolifera (oggi ferma perché il prezzo del greggio a livello internazionale è troppo basso e non conviene pomparlo, ndr). Tutti fattori questi che hanno contribuito alla distruzione ambientale.

Vogliamo lavorare per formare quelli che chiamiamo “artigiani del perdono” e, inoltre, non meno importante, far assumere alla gente il ruolo che le conferisce la Costituzione, in termini di partecipazione attiva e godimento dei propri diritti».

La scuola della cittadella della speranza

A pochi chilometri da San Vicente, sulla strada per Neiva, con il fiume Caguán da un lato e circondata da una macchia di foresta dagli altri, sorge la Ciudadela Juvenil Amazonica Don Bosco. Qui le suore della Consolata stanno realizzando un’opera molto particolare.

Ci accoglie la dinamica suor Blanca Rubiela Orozco Gomez, colombiana. Una vera forza della natura.

«La Ciudadela è nata nel 1994 per volere dell’allora vescovo monsignor Luis Augusto Castro come scuola primaria e secondaria per i contadini, fondata dai salesiani – ci racconta -. Nel 2013 questi consegnarono la struttura al Vicariato, che decise di affidarlo a noi, suore della Consolata».

Da allora la Cittadella è cambiata: «La nostra missione è formare i giovani che provengono dall’ambiente rurale, ovvero quelli più emarginati e con meno possibilità di studiare». La struttura offre due corsi superiori completi, da tecnico agrario e di allevamento e trasformazione di alimenti e tecnico in programmazione di sistemi con approfondimento in umanità. Quest’ultimo corso, di avanguardia, insegna ai giovani l’utilizzo dell’informatica applicata all’agraria e all’allevamento, con lo scopo di renderli più competitivi. Per accedervi, i criteri sono molto particolari: «Essere contadino o di famiglia contadina, vulnerabile (diremmo di basso reddito, ndr) e accettare la condivisione e il desiderio di lavorare nei campi».

Mentre visitiamo la scuola, che pare un vero campus, suor Rubiela snocciola fiera i dati sulle ultime promozioni, facendo notare come si sia passati il primo anno da una trentina di studenti maschi a 50 di cui circa la metà ragazze.

Oltre alle lezioni pratiche, nella fattoria didattica i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi con diversi tipi di colture e allevamenti. Spicca per originalità la coltivazione del camu-camu (myrciaria dubia), frutto amazzonico ad altissimo contenuto vitaminico che viene utilizzato per produrre succhi. Gli allevamenti didattici di polli, maiali e pesci sono anche produttivi e utili per generare entrate economiche per la scuola.

Tutta una sezione è occupata dai laboratori di trasformazione alimentare, utilizzati dagli studenti per imparare a produrre formaggio, dolce di goiaba, dolce di latte, succhi e yogurt.

Cambio di livello per la scuola

Attualmente è in corso il processo di trasformazione della scuola da istituto tecnico a centro di educazione universitaria: «Stiamo facendo accordi con diverse università sia del Caquetá sia nazionali, e con il ministero dell’Educazione per elevare il livello dei nostri corsi e omologarli a programmi universitari di medicina veterinaria, ingegneria agricola e ingegneria degli alimenti».

«Qui gli studenti non pagano i corsi, perché, tranne pochissimi, non ne hanno le possibilità», racconta ancora suor Rubela. «Esistono diverse possibilità, come le borse di studio dei municipi».

Ma, spiega la suora, questa non è solo una scuola tecnica, «qui vogliamo ricostruire il tessuto sociale. Facciamo formazione umana, etica e puntiamo a sviluppare l’autostima dei nostri studenti. Per questo lavoriamo molto sull’ambiente umano e sul post conflitto».

«Ricordo un ragazzo che ha terminato l’anno scorso. Un campesino di 22 anni. Arrivò alla scuola in ritardo di due settimane. Veniva da lontano. Io lo accolsi e non gli chiesi perché. Gli chiesi se era interessato ai corsi e gli dissi di andare a lavarsi che avrebbe cominciato il giorno seguente. Mentre gli parlavo non mi guardava neppure negli occhi. Alla fine dell’anno era stato uno degli allievi migliori. Al momento di salutarci mi abbracciò forte e mi ringraziò. In quell’anno era cresciuto soprattutto il modo di vedere se stesso».

Contadini digitali

Suor Rubela è al colmo della soddisfazione quando ci presenta Alberto, un giovane (18 anni) istruttore di uno dei corsi delle «Scuole digitali contadine (Escuelas digitales campesinas)».

Il progetto è in linea con l’Action cultural popular, nata molti anni fa, che utilizzava le trasmissioni radio per l’alfabetizzazione e la formazione nelle zone più remote. «Questo è un plus fornito dalla scuola: corsi brevi per piccoli gruppi di studenti. E si svolge in parte con insegnamento in sede e in parte a distanza grazie a una piattaforma informatica». Così corsi come: alfabetizzazione digitale, leadership, conoscenza dell’ambiente, associazionismo per creare impresa, pace e convivenza, adattamento al cambiamento climatico e comunicazione e giornalismo rurale sono un fiore all’occhiello della scuola. Presto saranno anche disponibili i corsi di pesca responsabile, diritti umani nelle comunità rurali e progetto di vita in campagna.

Si tratta di corsi di perfezionamento frequentati da giovani dai 16 ai 35 anni. «Esistono accordi con i direttori di diverse scuole nel dipartimento, che ci mandano studenti meritevoli per questi corsi della scuola digitale», annuisce soddisfatta suor Rubela. La ricaduta è anche sulle comunità da cui arrivano i ragazzi, perché la metodologia prevede di coinvolgere le famiglie. Nell’anno 2015-2016 sono stati circa 2.000 gli studenti formati con le scuole digitali.

Anche monsignor Francisco Javier Múnera, amministratore apostolico del Vicariato di San Vicente del Caguán è molto soddisfatto del lavoro tecnico e umano svolto alla Ciudadela. Guarda ancora più avanti e ha in mente nuovi sviluppi. «C’è un evidente interesse del governo – ci dice -, in particolare dei ministeri dell’Educazione e del Postconflitto nella creazione di centri di formazione per gli ex combattenti». Un progetto in linea con il livello universitario, ma con corsi specifici per i guerriglieri smobilitati, in un luogo strategico dove la guerriglia ha avuto un ruolo importante e molto vicino alla realtà rurale dalla quale arrivano le ex Farc».

La pace ha molti nemici

Mentre scriviamo arriva la notizia dell’ignobile attentato realizzato con una bomba in un centro commerciale di Bogotà in un affollato sabato pomeriggio. La prima sensazione è che si tratti di gruppi che vogliono destabilizzare l’attuale governo e quindi l’importante processo di pace che ha intrapreso. L’anno prossimo in Colombia ci saranno le elezioni presidenziali. Né Alvaro Uribe né Manuel Santos si potranno ricandidare. Ma i loro gruppi rispettivi si fronteggeranno e, a seconda di chi vincerà, il processo degli accordi di pace potrebbe avere una battuta d’arresto (nel primo caso) oppure andare avanti, pur nelle molte difficoltà di una realtà così complessa.

Marco Bello


Dalla «Zona di distensione» al viaggio del Papa

Adesso occorre voltare pagina

A San Vicente del Caguán la guerra ha colpito duro. Ma è stato anche un municipio di sperimentazione sociale. Qui i missionari della Consolata sono presenti dal 1951. Incontro con il vescovo mons. Múnera.

Monsignor Francisco Javier Múnera Correa è missionario della Consolata da oltre 40 anni e da 18 è vescovo nel Vicariato apostolico di San Vicente del Caguán. Ricorda sempre con passione e nostalgia gli anni trascorsi in missione, nel Nord del Kenya. Ci accoglie sulla terrazza di casa sua, circondata da alcuni lussureggianti alberi e ci ricorda che i missionari della Consolata compiono oggi 70 anni di presenza in Colombia.

Monsignor Múnera, San Vicente è stato (un posto) molto strategico durante il conflitto armato, perché?

«Voglio precisare che io sono il secondo vescovo di San Vicente, dopo mons. Castro, che è stato padre fondatore di questo vasto Vicariato. Lui si è impegnato molto sul tema della pace, anche in prima persona per la liberazione di militari e poliziotti sequestrati dalla guerriglia. È sempre stato un uomo chiave per avvicinare le parti, anche nella negoziazione che ha portato ai recenti accordi di pace.

All’inizio del 1999, quando presi il suo posto, in quest’area stava iniziando una esperienza particolare: la cosiddetta “Zona di distensione”. Un territorio grande quanto la Svizzera che comprendeva oltre a San Vicente altri quattro comuni nel dipartimento del Meta. Erano in corso delle trattative di pace e questa regione fu lasciata sotto il controllo politico e militare delle Farc-Ep. Esercito, polizia e stato si erano ritirati. Rimase solo il sindaco tra le autorità statali. C’era una polizia civica, formata da elementi della popolazione civile e uomini della guerriglia. Questo ha consentito alle Farc di sentirsi sicure per portare avanti il negoziato con il governo del presidente Pastrana.

Ma dopo tre anni, il 20 febbraio 2002, il presidente dette un ultimatum, dicendo che finivano i dialoghi e i guerriglieri avevano 24 ore per andarsene. Mons. Castro spiega questo fallimento dicendo che erano dialoghi tra orbi: le Farc vedevano solo le loro richieste di giustizia, ma non fecero niente per la pace; il governo voleva la pace ma senza fare concessioni per la giustizia. In quegli anni le Farc erano ancora molto forti. Il governo, che aveva avuto delle batoste sul piano militare, utilizzò quel periodo per rafforzare l’esercito e la sua strategia.

Con la Zona di distensione, per un tempo lungo si è mantenuto un territorio senza conflitto, ma nel resto del paese era terribile. La stessa Zona di distensione si era convertita in una specie di rifugio per i guerriglieri. Quegli anni sono stati più calmi qui perché non c’erano scontri. I guerriglieri gestivano anche la giustizia. Abbiamo subito alcune arbitrarietà, ma la gente ha imparato a convivere con loro e viceversa. La Chiesa ha appoggiato il processo di pace come presenza morale, ma molti settori sociali non erano favorevoli alle Farc perché avevano subìto maltrattamenti da parte loro».

Poi c’è il cambio di presidenza … e di marcia.

«A maggio del 2002 Alvaro Uribe vinse le elezioni e da agosto fino allo stesso mese del 2010 sono stati otto anni molto duri. Il piano del governo era portare le Farc ad arrendersi. Scontri, bombe, sofferenze, uccisioni, sfollati e rifugiati. Io ho aiutato persone a uscire dalla zona per andare ad esempio in Canada. Chiunque la guerriglia riteneva collaboratore dell’esercito diventava obiettivo militare, e con lui la sua famiglia. Intanto parte della popolazione si era messa ad appoggiare la guerriglia. Erano molte le violazioni dei diritti umani da entrambe le parti.

L’esercito riduceva l’accesso dei viveri a San Vicente e qui eravamo isolati. La strategia era duplice: lotta anti guerriglia e lotta anti narcos. Perché in gran parte del territorio c’era la produzione della coca, appoggiata dalla guerriglia. Il conflitto armato è durato molto tempo proprio perché ha trovato nel narcotraffico i soldi per finanziare le armi.

La Chiesa ha cercato di mantenere sempre un posizionamento vicino alle vittime.

Con Uribe il rapporto di forza si è invertito. Gli Usa hanno appoggiato il governo colombiano con gli ingenti finanziamenti del Plan Colombia. Le Farc facevano rapimenti, anche eccellenti, ma Uribe li ha colpiti duramente, con grandi costi».

Come si è arrivati agli accordi di pace?

«Le posizioni delle parti si erano indurite. Quando è arrivato Santos alla presidenza (2010), ha subito cercato una via per la pace. Nonostante fosse stato lui a infliggere duri colpi alle Farc nella veste di ministro della Difesa di Uribe. Nel 2012 sono iniziati i colloqui. Quattro anni di negoziati. Durissimi ma molto più seri, con due principi: negoziare anche durante il conflitto e “nulla è accordato finché tutto non sia accordato”.

Le Farc si sono rese conto che militarmente non avrebbero vinto. Inoltre la pressione della comunità internazionale è stata molto grande sia su di loro sia sul governo. A quest’ultimo faceva ricatti di tipo economico minacciando l’azzeramento degli investimenti. In primo luogo l’Unione europea e poi gli Usa, che con l’arrivo di Barak Obama al potere sono stati decisivi. Lo scenario politico internazionale era cambiato, il governo avrebbe avuto meno appoggi per la guerra.

Gli accordi di pace non risolvono tutto ma aprono la strada per la soluzione a tanti altri problemi che erano stati messi in secondo piano. Ad esempio per la prima volta, dopo 50 anni, il budget per l’educazione ha superato quello della guerra. Avevamo un esercito con più di 500mila uomini, in un paese con grandissime disuguaglianze. Ad esempio il livello di infrastrutture per l’educazione di questa regione è molto basso».

Ma il no al referendum ha segnato una battuta d’arresto?

«La vittoria del no è stata costruita suscitando l’indignazione, mettendo paura. È servito per modificare certe cose degli accordi, perché alla gente sembrava che le concessioni del governo alle Farc fossero troppo generose. Alcuni dicevano: se vince il sì diventeremo un’altra Venezuela o un’altra Cuba. La destra più dura, diceva che eravamo quasi al punto di vincerli militarmente, quindi per loro è stata una sciocchezza arrivare a una trattativa, con la quale le Farc hanno ottenuto di più con una via politica, rispetto a quello che avrebbero ottenuto militarmente. Questo è vero, ma è il prezzo della pace.

Anche per la chiesa è stato molto difficile: vescovi, preti e popolazione si sono divisi sulle due posizioni. Molti vescovi dicevano: “La pace sì ma non così”. Come Conferenza episcopale abbiamo deciso di aiutare la gente a formarsi e informarsi e dare un voto per il futuro del paese. Ma non potevamo schierarci per votare sì o no. Alcuni membri della chiesa e gruppi ecclesiali si sono invece sbilanciati e hanno fatto apertamente campagna, per uno dei due campi.

Per molta gente c’è sfiducia e risentimento nei confronti delle Farc, ma anche sfiducia verso il presidente, che sembrava avesse concesso loro tutto.

In realtà riforme come quella agraria, che le Farc chiedono, sono necessarie al di là della guerriglia».

Quali sono i maggiori problemi del paese oggi?

«Adesso che non c’è più il conflitto (c’è ancora con il gruppo Eln con il quale esiste una trattativa), viene fuori la corruzione terribile di questo paese. A tutti i livelli, della classe politica ed economica. Dagli anni ‘70 – ‘80 in poi il narcotraffico ci ha rovinati. Siamo un paese che era costruito su valori molto forti. Poi è arrivata una classe politica con mentalità del denaro facile, abbondante, a qualsiasi costo. Questo ci ha rovinato la testa, la cultura, i valori, creando quella che mons. Castro chiama la “narco mentalità”. Adesso c’è anche un effetto boomerang, ovvero un gran consumo interno di droga. Ma con speranza diciamo che sperimentiamo già giorni diversi. Anche se questa nazione non si rallegra con gli accordi, perché per le grosse città non cambia molto. È in questa periferia che sentiamo il cambiamento».

Le Farc controllavano territori, adesso ci sono altri soggetti che cercano di entrare?

«Sì, è terribile. I dissidenti e i gruppi criminali si sostituiscono alle Farc. Molti hanno paura che si rafforzi il paramilitarismo, che in alcune zone, come nel Cauca è appoggiato dai grandi latifondisti.

La Colombia è una nazione con più territorio che stato. Le frontiere non son controllabili. Riempire con le istituzioni il vuoto che lascia la guerriglia è una delle grosse sfide. È il passo dall’illegalità alla legalità. In alcune aree il riferimento erano le Farc, tramite l’imposizione con le armi. Passare a un esercizio di democrazia vera, partecipativa, sarà difficile sia per la guerriglia, sia per le comunità che sono state sempre sottomesse. Molta gente preferiva che le Farc non smobilitassero: “Chi ci salverà poi?”. La popolazione non ha mai avuto fiducia nello stato perché ha solo conosciuto la repressione militare a causa di narcotraffico e guerriglia. Occorre un processo educativo».

Nel 2018 ci saranno le elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se vincesse qualcuno contrario agli accordi?

«Se vincesse la destra potrebbe ostacolarli. Le Farc hanno avuto fiducia. Loro fanno i conti, sono strategici. Entreranno in politica e la sanno pure fare, sono abili a costruire le alleanze. Questi sono periodi in cui otterranno rappresentanti in camera e senato e punteranno a consolidare il partito».

Cosa vi aspettate dal viaggio del Papa, che verrà tra il 6 e l’11 settembre?

«Papa Francesco ci ha sempre invitati a fare un passo per costruire un paese riconciliato. Credo che se noi fossimo capaci di fare politica senza le armi, da entrambe le parti, sinistra e destra, potremmo farcela.

È un paese che ha bisogno di ricostruirsi, di costruire un concetto di nazionalità, con tutta questa ricchezza che ha, plurietnica e multiculturale. Penso che il papa ci spingerà verso una cultura dell’incontro, della fratellanza. Scoprire la grandezza del riconoscerci cittadini, compatrioti, avere un orizzonte comune, in un paese in cui possiamo stare bene tutti, andando oltre alle diseguaglianze. Il papa ci aiuterà a girare questa pagina dolorosa, tragica, macondiana (irreale, ndr) per essere una nazione sostenibile, progredendo in un livello di democrazia partecipativa, e costruzione del bene pubblico».

Marco Bello




Capitolo Generale IMC: Tornare alle radici della Missione

Il 22 maggio 2017 si sono ritrovati a Roma 45 missionari della Consolata provenienti dai quattro angoli del mondo. Ventidue africani, 15 europei e 8 latino americani, in rappresentanza di 231 comunità missionarie in 27 paesi diversi (foto 1).

Sono stati insieme per quattro settimane, fino al 20 giugno, festa di Maria Ss. Consolata, per il XIII capitolo generale. Il capitolo avviene ogni sei anni ed è l’autorità suprema di un istituto religioso, in esso si tracciano le linee guida e viene eletto il nuovo «governo», il superiore generale e i suoi consiglieri.

Questo capitolo ordinario aveva come tema guida «Il nostro futuro come discepoli missionari della Consolata», come modelli di riferimento gli apostoli Paolo e Barnaba, e come obiettivo quello di rivitalizzare e ristrutturare l’istituto per mantenerlo fedele al suo carisma originale, quello della «Missione ad gentes».

Primo giorno

Nella cerimonia di apertura (foto 2) il padre generale, Stefano Camerlengo, ha ricordato che «con questo capitolo vogliamo entusiasmare tutto l’istituto per la missione che il Signore ci ha affidato e per la quale il Fondatore ha formato i primi missionari. Siamo consacrati per la missione – ha ribadito -. Il cuore di questo capitolo e di tutta la nostra vita è la missione, come diceva il beato Giuseppe Allamano, che ripeteva sempre la parole di s. Paolo, “tutto faccio per il Vangelo”».

Invocato lo Spirito Santo e adempiute le formalità di rito (giuramento di riservatezza, conferma dei moderatori e segretari, approvazione del regolamento, divisione degli incarichi e dei servizi – anche quello di lavare i piatti), il capitolo è iniziato (foto 3).

Cerimonia di apertura del 13mo capitolo generale dei Missionari della Consolata

Momento conviviale a cena con il cardinal Pietro Parolin, segretario di stato del Vaticano

Il primo giorno si è concluso con la celebrazione eucaristica presieduta dal cardinal Pietro Parolin, segretario di stato della Santa Sede (foto 4). Le sue parole sono andate dritte al cuore del capitolo: «Credo che il desiderio di ristrutturare il vostro istituto vada inteso non semplicemente come un lavoro di restyling, ma deve essere un modo autentico per portare la missione veramente ad gentes, alle persone». Nel caso non avessimo capito il concetto, ha ribadito che cambiare le strutture senza che le persone cambino dal di dentro sarebbe del tutto inutile. «Il missionario deve essere soprattutto un testimone e vivere come uno che si è lasciato fecondare e abitare dallo Spirito Santo».

Capitolari avvisati …

Preghiera, digiuno e comunità

Incontro del cardinal Luis antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC

La mattina del secondo giorno è passata in compagnia del cardinal Luis Antonio Tagle, di Manila, Filippine (foto 5). La sua riflessione, arricchita da molti episodi della sua vita, è stata centrata sugli apostoli Paolo e Barnaba, i nostri modelli di riferimento. Ci ha proposto quattro punti forza su cui lavorare per rivitalizzarci: preghiera, digiuno, comunità e organizzazione. In pratica ha detto ai capitolari che se davvero i missionari vogliono rinnovarsi devono essere come i cristiani della comunità di Antiochia che mandò Paolo e Barnaba: una comunità (non individui, ognuno per sé) che prega e digiuna, che è ancorata in Dio ed è povera, libera e leggera nei mezzi e, quindi, capace di dare un’anima all’organizzazione a servizio della missione.

Questi principi sono stati poi approfonditi in una due giorni con il capitolo generale delle suore missionarie della Consolata, con le quali ci siamo messi alla scuola di quella grande missionaria della misericordia di Dio che è stata la beata suor Irene Stefani (foto 6-8). Ma su questo ritornerò un’altra volta. La conclusione del convegno è stata nella basilica di Santa Maria del popolo (foto 7) dove c’è l’originale dell’icona della Consolata che si trova a Torino.

Giornata di condivisione con le Missionarie della Consolata e I Laici Missionari della Consolata

Gli ospiti

Cena con il cardinal Filoni, prefetto di Propaganda Fide

Durante il capitolo ci hanno poi visitato diversi «amici», anche se, ufficialmente, nostri superiori diretti. Il 1° giugno è venuto il cardinal Fernando Filoni, prefetto di Propaganda Fide (foto 9), dalla quale, come missionari, dipendiamo. Partendo dalle risposte di Pietro a Gesù che gli domandava «mi ami?», ci ha ricordato che la vera rivitalizzazione parte dalla profondità della relazione con Gesù, cioè dall’amarlo veramente, da dire con la vita «sì, ti amo!». Se c’è questo ti amo, allora la risposta di Gesù è «coraggio», forza motivante del proprio essere missionari, sia come persone che come congregazione. «Solo se c’è una profonda relazione d’amore con Gesù si ha poi la forza e il coraggio di testimoniare fino al dono della vita, di fare passi nella direzione della Missione».

Con l’arcivescovo Rugambwa Protase di Propaganda Fide, Pontificia unione del Clero.

È venuto poi un altro nostro superiore diretto, l’arcivescovo Protasio Rugambwa, (foto 10) tanzaniano, presidente delle Pontificie Opere Missionarie. A conoscenza del nostro impegno di rivitalizzazione, ci ha detto che «le sfide non si possono affrontare solo con gli sforzi umani e l’azione di strategie pianificatrici, bisogna pregare e ascoltare lo Spirito Santo, che è il protagonista principale della missione».

Celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica

Il cardinal João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica (foto 11), è arrivato verso sera da noi camminando nel grande caldo di quei giorni. «Voi usate due parole che fanno vedere il vostro desiderio di una nuova tappa: rivitalizzare e ristrutturare! Mamma mia: vita e struttura!». Un progetto che vuole far sì che l’istituto torni a essere quello per cui è stato fondato. Ma se non riscopriamo «l’Amore, ad immagine del quale siamo stati creati», tutto il nostro sforzo serve a niente. Per questo è importante «assumere lo stesso stile di Dio in Gesù: si è svuotato per amore. Per essere Amore, bisogna svuotarsi. Dio per trovarci si è svuotato! Per amore. Questo “per Amore” è tutto».

Celebrazione dell’eucarestia con il Cardinal Giuseppe Bertello

L’ultimo amico a visitarci (foto 12) è stato il cardinal Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, ma per noi quasi un parente, perché cugino di uno dei nostri missionari, padre Giovanni, attraverso il quale ci ha conosciuti fin da ragazzo. Dimostrando un’ottima conoscenza del nostro Fondatore, che ha citato abbondantemente, ci ha richiamato con forza su due punti nevralgici: «La testimonianza della fraternità» e le nostre «radici mariane». «Voglio – scriveva l’Allamano – che ci sia una carità fiorita. Non potete amare il prossimo lontano, se fin da ora non avete carità verso quelli con i quali trattate tutti i giorni». «E non possiamo dimenticare che voi siete i Missionari della Consolata. Nel suo amore alla Madonna, il beato Allamano aveva capito che l’umanità ha bisogno di una evangelizzazione consolante, che faccia incontrare ovunque il Suo Figlio, che è la manifestazione del Padre di ogni consolazione. […] Questa sera – ha concluso – prego con voi perché siate sempre coscienti delle vostre radici mariane e siate sempre dei missionari entusiasti, grati al Signore per la vostra vocazione!».

Papa Francesco

Il 5 giugno siamo stati noi ospiti di papa Francesco, in un’udienza privata nella sala Clementina. Ci siamo andati con le nostre sorelle, le missionarie della Consolata (foto 13-14). Dopo l’incoraggiamento «a proseguire con generosa fedeltà nell’impegno di missione ad gentes», ci ha ricordato che «voi siete chiamati ad approfondire il vostro carisma, per proiettarvi con rinnovato slancio nell’opera dell’evangelizzazione, nella prospettiva delle urgenze pastorali e delle nuove povertà». «Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta … Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete … Per portare avanti questa non facile missione, occorre vivere la comunione con Dio. […] È molto più importante renderci conto di quanto siamo amati da Dio, che non di quanto noi stessi lo amiamo! […] Sappiate anche raccogliere con gioia i continui stimoli al rinnovamento e all’impegno che provengono dal contatto reale col Signore Gesù, presente e operante nella missione attraverso lo Spirito Santo. Ciò vi consentirà di essere operosamente presenti nei nuovi areopaghi dell’evangelizzazione, privilegiando, anche se ciò dovesse comportare dei sacrifici, l’apertura verso situazioni che, con la loro realtà di particolare bisogno, si rivelano come emblematiche per il nostro tempo». «Sull’esempio del vostro beato Fondatore, non stancatevi di imprimere nuovo impulso all’animazione missionaria. Sarà soprattutto il vostro fervore apostolico a sostenere le comunità cristiane a voi affidate, in particolare quelle di recente fondazione. Nello sforzo di riqualificazione dello stile del servizio missionario, occorrerà privilegiare alcuni elementi significativi, quali la sensibilità all’inculturazione del Vangelo, lo spazio dato alla corresponsabilità degli operatori pastorali, la scelta di forme semplici e povere di presenza tra la gente.

Attenzione speciale meritano il dialogo con l’Islam, l’impegno per la promozione della dignità della donna e dei valori della famiglia, la sensibilità per i temi della giustizia e della pace».

Non ci potevano essere parole più dirette per incoraggiarci nel nostro cammino di rinnovata fedeltà alla nostra identità missionaria.

Il capitolo continua

Nella prossima puntata vi racconterò del cammino e delle scelte del capitolo. Qui vi anticipo la scelta più evidente: la nuova direzione generale. Le votazioni (foto 15) sono cominciate il 12 giugno.

Votazioni per l’elezione del superiore generale.

Lo stesso giorno è stato riconfermato padre Stefano Camerlengo come superiore generale (foto 16).

Elezione del superiore generale: rieletto padre Stefano Camerlengo.

Il giorno dopo sono stati eletti il vice e i consiglieri (foto 17 – da sinistra): i padri Jaime Patias (brasiliano), Godfrey Msumange (tanzaniano), – al centro, padre Stefano -, James Lengarin (vice superiore, keniano) e Antonio Rovelli (italiano).

la nuova direzione generale IMC eletat il 13 giugno 2017 festa di sant’Antonio da Padova/Lisbona

A elezioni concluse foto di gruppo con vista del cupolone (foto 18).

Gigi Anataloni
(1 – continua)




Marocco. Argento e ambiente


Assetati d’argento

Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.

Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.

Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).

Accaparramento e resistenza

Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.

In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.

L’argento del re

Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.

La miniera è gestita dalla Société Metallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.

La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.

Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.

Danni ambientali e repressione

Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.

Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.

Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.

Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.

Movement on the Road ’96

Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.

Proteste socioambientali in aumento

Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.

E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.

Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.

Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.

Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili

L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.

Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.

Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.

Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.

Non basta dire «sostenibilità»

In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas


Altri tre casi emblematici

1.      L’impatto ambientale dell’energia solare

Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?

2.      Le donne Soulaliyate

Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.

3.      Land grabbing a Rabat

La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.




America Latina, Chiese evangeliche.

A ogni fede la propria sharia


Cosa spinge molti cattolici latinoamericani a passare alle nuove Chiese evangeliche? E come mai il fondamentalismo sta prendendo piede in molte fedi? Conversazione con Jorge García Castillo, missionario messicano e giornalista.

Nel 1918, in un paesino del dipartimento di Arequipa, nel Sud del Perù, nasce Ezequiel Ataucusi Gamonal. Fin da ragazzo – racconterà in seguito lui stesso – il giovane Ezequiel ha numerosi segnali che lo indirizzano verso la Bibbia. Poi un giorno è lo stesso Signore che lo chiama e gli dice che deve predicare al mondo i suoi comandamenti. Nel 1959 Ezequiel fonda la sua organizzazione religiosa, che nel 1968 assume il nome di Asociación Evangélica de la Misión Israelita del Nuevo Pacto Universal (Aeminpu). Per rendere più efficace la sua missione, nel 1989 fonda il Fronte popolare agricolo (Frepap), partito teocratico con il quale per tre volte si candida alla presidenza del Perù. Quando Ezequiel muore, nel giugno del 2000, la sua chiesa conta 200mila membri. Alla morte del fondatore l’organizzazione evangelica e il partito passano – quasi fossero un cespite patrimoniale – al figlio, Ezequiel Jonás Ataucusi Molina.

Meno romanzesca, ma certamente più influente è la storia della brasiliana Marina Silva, leader ecologista, senatrice, ministra dell’ambiente sotto Lula e candidata presidenziale. Cattolica, nel 1997 si converte al cristianesimo evangelico. Divenuta prima missionaria e poi pastora, forte dell’appoggio della potente Assembleia de Deus, nel 2018 potrebbe ritentare la scalata alla presidenza. «Dio mi ha rivelato che Marina sarà la prossima presidente», ha dichiarato una volta il pastore André Salles. Lei, adusa alla politica, ha sempre detto: «Non ho mai strumentalizzato la mia fede religiosa per un fine politico».

Sulle tematiche delle nuove Chiese evangeliche abbiamo conversato con padre Jorge García Castillo, messicano, missionario comboniano che ha operato in Perù, in Italia e in Messico.

Laureato in giornalismo, padre Jorge è stato per 8 anni direttore della rivista Misión sin Fronteras a Lima. Da gennaio è direttore delle riviste Esquila Misional e Aguiluchos a Città del Messico.

«Smetti di soffrire»

Padre Jorge, nel suo paese lei ha avuto modo di assistere alla crescita delle nuove Chiese evangeliche?

«Mi ricordo che durante la visita pastorale di Giovanni Paolo II in Messico – era il gennaio del 1979 – e all’inaugurazione dell’Assemblea di Puebla si era già insinuato questo problema. La fetta di cristiani non cattolici già superava il 10 per cento e in questa percentuale c’erano sia le Chiese evangeliche storiche che quelle neoevangeliche. La maggior parte di loro si opponevano al culto della Vergine di Guadalupe, punto di riferimento dei cattolici messicani. A questa situazione si reagì non sempre con metodi di successo e, peggio ancora, eludendo un’autocritica, un impegno più serio per l’evangelizzazione e una vicinanza maggiore al mondo dei poveri e dei sofferenti».

E in Perù, dove lei ha lavorato per molti anni?

«In Perù la situazione era molto simile. Là, a causa di una crisi politica e sociale acuta, e del terrorismo di Sendero Luminoso e dello Stato, la gente semplice si avvicinò molto alle chiese di origine brasiliana e in particolare a Pare de sufrir (“Smetti di soffrire”, filiale peruviana della Chiesa Universale, ndr).

Era molto comune vedere gruppi evangelici di recente fondazione riunirsi in strutture semplicissime o in altre più grandi che un tempo erano cinema, teatri o saloni per spettacoli. Questo accadeva soprattutto nei quartieri poveri di Lima o in quelli chiamati pueblos jovenes».

La Bibbia e la sua lettura

Sia le Chiese evangeliche «storiche» (luterana, anglicana, calvinista, eccetera) che quelle «nuove» hanno come riferimento assoluto la Bibbia. Tutto il resto è diverso. Questa è un’affermazione veritiera?

«Tutte hanno la Bibbia come fondamento assoluto. La differenza è nel modo in cui si legge e interpreta il libro sacro. La mia percezione è che nelle chiese storiche ci sia uno sforzo di effettuare una lettura “scientifica”, storica e contestualizzata, in molti casi anche con un’impostazione liberatoria. Il risultato è una lettura militante e popolare della Parola, simile a quella delle Comunità ecclesiali di base e a quella di teologi ed esegeti della cosiddetta teologia della liberazione.

Al contrario, in molte chiese di estrazione neopentecostale, l’approccio alla Bibbia è stato “letterale” (conta solo ciò che sta scritto, a prescindere dal tempo, dal luogo, dalla cultura) e, nel peggiore dei casi, fondamentalista. Penso anche a casi estremi come quelli dei “predicatori elettronici” che si sono lanciati nella radio e nella televisione con molto successo raggiungendo ampi settori del mondo urbano e del mondo andino.

In ogni caso, non si può generalizzare dicendo che c’è un approccio buono e uno cattivo alla Scrittura. Va ricordato che anche nelle chiese storiche, compresa la cattolica, si è spesso fatta una lettura fondamentalista».

Influenza statunitense?

Si dice che, almeno inizialmente, le Chiese evangeliche arrivarono in America Latina sulla base di un programma strategico degli Stati Uniti che mirava espressamente a indebolire la Chiesa cattolica, vista come un nemico della loro dominazione in quei paesi (considerati come il loro «giardino di casa»). Particolarmente paura facevano il movimento della teologia della liberazione, l’opzione preferenziale per i poveri, la richiesta di una maggiore giustizia economica, eccetera. Tutto questo corrisponde al vero o è una mera ipotesi politica? 

«È in gran parte vero. Secondo me, sono due i passaggi storici fondamentali. Il primo è dato dal Rapporto Rockefeller sulle Americhe del 1969, affidato dall’allora presidente statunitense Nixon a Nelson Rockefeller. L’ipotesi del Rapporto era che la Chiesa cattolica non fosse più un fedele alleato degli Stati Uniti e che al suo interno germogliassero idee rivoluzionarie che si sarebbe dovute contrastare attraverso altre chiese o denominazioni evangeliche.

Vennero cercati alleati anche negli alti comandanti militari usciti dalla Escuela de las Americas, pronti a combattere i gruppi di sinistra che spesso erano di appartenenza cattolica. In quegli anni un gran numero di catechisti, delegati della Parola, religiosi, sacerdoti e vescovi furono eliminati in Messico, Guatemala, El Salvador, Brasile, Ecuador, Argentina, Cile.

Qui è stata patetica e scandalosa la complicità di troppi vescovi, cardinali, nunzi. Il caso più noto probabilmente riguarda un cardinale, attuale decano del collegio cardinalizio, amico personale del golpista e pluriassassino generale Augusto Pinochet.

Un altro momento cruciale fu durante l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Nel 1981 egli creò l’“Istituto sulla religione e la democrazia” per appoggiare le chiese evangeliche e finanziare la loro predicazione nel continente americano in contrasto con l’azione liberatrice e di coscientizzazione delle altre chiese».

I motivi dell’abbandono

Nei paesi dell’America Latina, la percentuale di cattolici è passata dall’80 (1995) al 63 (2013) per cento. Molti cattolici hanno abbandonato la Chiesa di Roma per entrare in quelle evangeliche, che infatti sono arrivate ad avere il 20 per cento dei fedeli nel giro di un ventennio. Come si spiega quest’esodo?

«Il fenomeno è molto complesso. Le cause sono molteplici e alcune di loro strutturali. Per quanto mi è dato di capire una delle cause principali è la scarsa evangelizzazione e formazione dei cattolici, anche per colpa di noi sacerdoti. Don Sergio Méndez Arceo, vescovo di Cuernavaca (Morelos), uno dei pastori più coraggiosi e controversi del Messico, dopo il Concilio Vaticano II parlava di cristiani “remojados” o “anagráficos”, eredi di una tradizione piuttosto che di un’esperienza di fede.

Quello che cercano i cristiani che emigrano verso altre confessioni è affetto, accoglienza, vicinanza; una chiesa meno piramidale e ministeriale, dove ognuno abbia voce in capitolo. Essi desiderano un culto meno rigido; più libertà e spontaneità in una chiesa dove siano protagonisti e non semplici consumatori di qualcosa che viene offerto già confezionato. A questo si aggiunge anche un ruolo da protagonista della donna che la Chiesa cattolica relega invece a servizi pratici ed esclude dalle posizioni di responsabilità».

L’accoglienza e la vicinanza di cui lei parla si concretizzano anche con l’uso da parte dei pastori evangelici di canti, applausi, grida di gioia?

«Mi riferisco a questo, ma pure al modo in cui gli evangelici accolgono le persone che arrivano per la prima volta nelle loro strutture. Di solito ci sono persone che, all’ingresso, accolgono molto affettuosamente, chiedono il nome, offrono del materiale stampato (a volte anche la Bibbia), accompagnano ai banchi. I nuovi vengono presentati ai pastori e alla comunità perché preghino per loro, impongano le mani ecc. Poi magari li invitano a tornare, ad approfondire certi argomenti nelle loro scuole domenicali o perfino visitandoli nelle loro case. Domandano se ci sono dei malati in casa, offrono aiuto spirituale e anche materiale. Di solito, fra noi cattolici, questi aspetti sono molto trascurati».

Non è che i fedeli cerchino anche risposte pratiche a problemi pratici?

«È ovvio che cercano soluzioni e risposte alla vita di ogni giorno. Ci sono persone che sopravvivono in condizioni di povertà (o impoverimento) e di insicurezza. Persone che affrontano la violenza, la disoccupazione, la mancanza di salute e di una casa».

Anche in Brasile, il più grande paese cattolico del mondo, le nuove Chiese evangeliche sono in rapidissima e costante crescita. Ci sono ragioni peculiari?

«Purtroppo, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica brasiliana è stata spogliata dei suoi migliori pastori per sostituirli con vescovi conservatori, alcuni dei quali nemici dichiarati della teologia della liberazione e delle comunità di base. Disorientati, i fedeli brasiliani hanno intrapreso un esodo di massa verso i gruppi neopentecostali che promettevano altre cose».

Pedofilia

Lei ha parlato di scarsa autocritica della Chiesa cattolica. In molti paesi latinoamericani – inclusi Messico e Perù – si sono verificati scandali di pedofilia. Quanto hanno contribuito alla perdita di fedeli?

«Statisticamente non credo che siano molti i cristiani che hanno lasciato la Chiesa per queste ragioni. Nonostante contraddizioni e peccati (ma in alcuni casi si dovrebbe parlare di crimini) la Chiesa rimane una delle istituzioni più credibili, non escludendo che la sua integrità morale e spirituale sia stata intaccata dagli scandali cui lei accenna. Per fortuna molte persone ripongono la loro fede e fiducia in Dio (e Gesù), e questo consente loro di continuare a rimanere nella chiesa, nonostante tutto. Per le persone semplici o forse per le meno istruite, non è difficile perdonare il comportamento scandaloso di sacerdoti, religiosi e clero. Tra i maggiori casi uno è nato proprio qui in Messico: è quello di Marcial Maciel la cui congregazione – i “Legionari di Cristo” – e i laici di “Regnum Christi” ad essa legati stanno proseguendo con il sostegno e la simpatia di molte persone, nonostante i ripetuti comportamenti immorali del loro fondatore (morto nel 2008, ndr).

In ogni caso la Chiesa ha il dovere di fare giustizia: accompagnare le vittime, essere vicina a loro e riparare il danno. Perché tutto ha un limite, anche la pazienza della gente. Occorre agire con urgenza prima che sia troppo tardi e si produca un esodo di massa».

 

Un pastore  di una delle tante chiese evangeliche in ginocchio nel Parco Centrale di Città del Guatemala – AFP PHOTO / JORGE UZON

Chiese evangeliche: «Miracoli» in vendita

 

Quali sono gli strumenti d’attrazione delle nuove Chiese evangeliche?

«Dalla teologia della prosperità al marketing sono molti gli strumenti utilizzati. Secondo me il problema più grave è l’intenzione che troppo spesso si nasconde dietro queste chiese: l’interesse di pastori senza scrupoli. Uno dei casi più noti è quello del pastore guatemalteco Cash Luna, diventato incredibilmente ricco sfruttando la religiosità e, non di rado, l’ignoranza e la buona fede dei suoi seguaci».

Lo strumento più meschino e vergognoso è però la promessa di «guarigioni miracolose», non crede?

«Sono uno strumento e sono molto redditizie. Tante persone disperate ripongono la loro ultima speranza in taumaturghi di ogni genere. Questi personaggi accompagnano i rituali con elementi che toccano la sensibilità e la suscettibilità delle persone. Ma questo non accade solo nel campo evangelico. Io stesso ne sono stato testimone in ambito cattolico durante le famose “messe di guarigione” (misas de sanación). In occasione delle quali viene allestito un mercato del sacro con vendita di olio e acqua benedetta, libri e video del taumaturgo di turno».

E l’utilizzo della paura del diavolo («Lo que no es de Dios es del diablo»)?

«Il discorso sul diavolo diventa spesso patetico. Lo vedono dappertutto e in tutti quelli che non la pensano come loro. Diventa un’autentica ossessione. Satanizzano tutto, specie il culto o la pietà popolare verso la Madonna e i santi. A volte lo fanno anche in modo violento e con parole disgustose. Lo stesso vale per governi, sistemi o gruppi che non la pensano come loro o che portano avanti un’etica laica rispetto a certi temi».

Teologia della liberazione versus teologia della prosperità

I poveri sembrano più attratti dalla teologia della prosperità che dalla teologia della liberazione.

«Credo che i poveri, non tutti ovviamente, siano stati attratti più dalla teologia della prosperità che dalla teologia della liberazione a causa della miseria, del dolore e dello sfruttamento secolare. Le promesse di prosperità sono più allettanti per la loro immediatezza rispetto alla speranza proposta dalla teologia della liberazione. Questa è un processo lento, graduale, sofferto e conflittuale che molti hanno finito per pagare con la loro vita.

È più facile aspettare una soluzione dall’alto che collaborare con Dio per abbattere le barriere e creare nuove strutture in cui prevalgano la pace, la giustizia, l’equità.

Entrare nella dinamica della vera fede – come proposto dalla teologia della liberazione – ha un prezzo alto che non tutti sono disposti a pagare. Molte volte, l’esempio di martiri e profeti, invece che incoraggiare e stimolare, spaventa».

Origini del fondamentalismo

Padre Jorge, per le nuove Chiese evangeliche si può parlare di fondamentalismo-integralismo religioso alla stregua dell’islam? In fondo anche la Bibbia – come sta accadendo in maniera drammatica con il Corano – può essere letta in modo fondamentalista.

«Si, purtroppo. Ma questo non è un problema solo delle nuove Chiese evangeliche. Succede così anche nella Chiesa cattolica e nelle altre chiese storiche. Di sicuro accade di più nelle nuove confessioni perché ci sono tanti interessi. Ai pastori non interessa arrivare alla verità. Ciò che vogliono è riaffermare potere, ricchezza, successo personale o di gruppo sfruttando l’ignoranza della gente semplice che deve lottare ogni giorno per sopravvivere. Basta vedere i già citati “predicatori elettronici” che – Bibbia in mano – promettono salvezza e miracolose guarigioni o minacciano coloro che non si convertono alle loro chiese.

A me ha fatto impressione sentire i predicatori di taglio fondamentalista nel grande piazzale davanti alla cattedrale di São Paulo, in Brasile. Così come oggi mi fa paura ascoltare gli improvvisati predicatori davanti alla cattedrale di Città del Messico che insultano e minacciano quelli che entrano per pregare o visitare la chiesa. Sono autentici terroristi che ammazzano con la lingua».

In qualsiasi fede ci sono elementi di fondamentalismo. Lei come lo spiega?

«Io mi spiego questo fenomeno così: dietro ogni fede ci sono esseri umani fragili e peccatori. Incapaci di andare in profondità. Quanta ragione aveva l’apostolo Paolo nel dire: «La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica» (2Cor 3,6).

Questo succede un po’ in tutte le fedi: nel cristianesimo, nell’islam, nel buddhismo (che solitamente s’identifica con la pace e la benevolenza). Ho sentito parlare pure d’induisti zelanti che, mentre vanno in giro, spazzano davanti a loro per non pestare o magari uccidere gli insetti che sono per terra e poi magari vanno a uccidere o appiccare fuoco a chiese cristiane.

Per i fedeli in genere è un modo di tirarsi fuori dalla realtà, tante volte crudele, per entrare in un mondo di sogni e illusioni, che purtroppo molte volte risultano frustranti. Da noi si dice: Resultò peor el remedio que la enfermedad (È stata peggiore la medicina della malattia, ndr).

In realtà il fondamentalismo religioso è un fenomeno molto complesso che spesso finisce con il prevalere sulla ragione, il buon senso e la tolleranza».

Le scelte di Francesco

In questo scenario complesso come si sta comportando la chiesa di papa Francesco?  

«Il papa è stato molto vicino, tollerante e umano verso le altre chiese e denominazioni religiose.  In tale contesto sono significativi i suoi incontri con pastori e comunità di diverse confessioni: anglicana, luterana, valdese, ortodossa. Un atteggiamento il suo che si accompagna a una sana autocritica».

E rispetto all’avanzata del neoevangelismo?

«Ciò che la Chiesa cattolica può fare davanti all’avanzata del neoevangelismo è di seguire il papa. E cioè di rispondere al suo reiterato messaggio di essere una Chiesa missionaria che si muove verso le periferie esistenziali, che promuove la comunione e costruisce ponti invece di muri».

Paolo Moiola
(seconda puntata – fine)

Archivio MC

La prima puntata, Paolo Moiola, Scalare il potere (con religione),
è uscita in aprile 2017.

 


Un fenomeno diffuso

Il virus del fondamentalismo e dell’intolleranza

Non soltanto l’islam e il neoevangelismo, ma anche l’induismo, l’ebraismo e il buddhismo possono ammalarsi con il virus del fondamentalismo e dell’intolleranza. In forme più o meno gravi.

Per definire fondamentalismo e intolleranza facciamo ricorso al dizionario Treccani. Con il termine di fondamentalismo s’intende una «caratteristica dei movimenti religiosi, ma anche ideologici e politici, che propugnano un ritorno radicale ai “fondamenti” di una dottrina, identificati come autentici e infallibili. Adoperato per la prima volta in ambito cristiano negli Stati Uniti alla fine del 19° sec., per indicare le correnti protestanti dichiaratamente ostili al mondo moderno in nome dei cosiddetti fondamenti della fede minacciati dalla secolarizzazione, il termine fondamentalismo viene oggi impiegato per indicare qualsiasi gruppo caratterizzato dall’intransigente difesa del fondamento puro e incontaminato della propria identità, in particolare religiosa». L’intolleranza è invece «l’atteggiamento di chi, nella religione come nella politica o nella scienza, sente così forte l’attaccamento per le proprie idee, opinioni, sentimenti, da non potere ammettere in alcun modo la manifestazione di un pensiero diverso, al quale in base unicamente a tale disformità nega qualsiasi valore; e pertanto intende anche la polemica soltanto come mezzo rivolto a quel fine più generale. Tale atteggiamento nasce dalla convinzione di possedere una verità assoluta e immutabile». Due fenomeni – il fondamentalismo e l’intolleranza – che vanno a braccetto. Non sempre, ma spesso. Con un’immagine metaforica possiamo assimilarli a un virus che colpisce varie fedi religiose, probabilmente tutte, in forme più o meno gravi.

  • Difficile non considerare come fondamentalista e intollerante la sharia, la legge islamica. Abituati ad accostarla a paesi quali l’Arabia Saudita e il Pakistan, oggi vediamo che essa potrebbe essere adottata anche da paesi musulmani fino a ieri considerati laici come la Turchia.
  • Dal 2014 in India è primo ministro Narendra Modi, leader del partito nazionalista indù Bharatiya janata party (Bjp). Con lui al potere i sostenitori del nazionalismo indù sono usciti allo scoperto mostrando una forte intolleranza verso le minoranze religiose musulmane e cristiane, vittime di centinaia di episodi di violenza. Nel paese si stanno diffondendo i Gau Rakshaks, gruppi di vigilantes indù che linciano camionisti, macellai e acquirenti di carne di vacca, animale considerato sacro (Gau Mata) dell’induismo. 
  • In Israele la crescita – in numero e forza – degli ebrei ultraortodossi (Haredim, «timorosi di Dio») è in atto da anni. Gran parte delle colonie nei territori palestinesi occupati sono abitate da loro. Il fondamentalismo degli Haredim è così diffuso e radicato che – all’inizio del 2017 – Ikea, la multinazionale svedese dell’arredamento, ha prodotto un catalogo appositamente per loro: senza immagini di donne.
  • Anche il buddhismo, fede nota per avere la tolleranza tra i propri principi basilari, non è esente dal fondamentalismo. Lo scorso marzo le autorità del Myanmar hanno emesso un ordine per bandire dalla preghiera pubblica il noto monaco buddhista Ashin Wirathu. Il religioso è accusato di diffondere l’odio contro i musulmani Rohingya di Rakhine, stato in cui ci sono state ripetute violenze contro la minoranza islamica. Dire che si tratta di un unicum legato a una situazione particolare non è esatto, dato che anche in Sri Lanka ci sono scontri tra la maggioranza buddhista e le minoranze cristiana e musulmana. Nell’isola è il monaco Gnanasara Thero, leader del gruppo buddhista «Bodu Bala Sena» (Bbs), a predicare il fondamentalismo.

Paolo Moiola




Insegnaci a pregare 7.

«Dio amico e Padre, non compagnone»


In ogni sinagoga antica vi era una stanza cieca, senza porte e finestre che fungeva da «ripostiglio», in ebraico «ghenizàh». Essa era dotata di una piccola finestrella, attraverso la quale venivano introdotti i rotoli e gli scritti liturgici non più utilizzabili. Questi testi non potevano essere gettati via tra gli oggetti comuni o peggio nella spazzatura, perché in essi vi era scritto il «Nome» santo di Dio, «YHWH». Gli Ebrei, spinti dal supremo rispetto per il Nome di Dio, hanno perciò inventato questa specie di cimitero dei libri sacri. Tale usanza ha permesso di trovare centinaia di testi, oggi a noi utili per la comprensione dei tempi passati, specialmente per la natura e le modalità della preghiera.

Sintesi tra tu ed egli

Nella ghenizàh-ripostiglio del Cairo sono state trovate preghiere costruite su una doppia valenza: iniziano con il vocativo «tu» della 2a persona singolare e si concludono con la 3a persona singolare «egli». Ecco un esempio tratto dal Siddùr (Rituale) di Rab Amram Gaon del sec. IX d.C., segno che i testi recenti possono contenere tradizioni antiche: «Benedetto sei tu, Adonài, tu che scegli il suo popolo Israele». Da un punto di vista morfologico, le due proposizioni «sei tu» e «scegli il suo popolo» sono stridenti perché istintivamente verrebbe da dire: «Benedetto sei tu, Adonài che scegli il tuo popolo». Questo gioco di onda tra la 2a e la 3a persona singolare è una costante della preghiera ebraica che, da una parte, intende mettere in evidenza la familiarità affettiva di Dio, espressa dal «tu sei», e dall’altra, il «rispetto» della Gloria divina perché, allo stesso tempo, Dio è vicino, ma anche lontano, Padre e Creatore: Dio è Padre, ma è anche il «Signore», non è un amicone da pacca sulla spalla.

Molte traduzioni fanno piazza pulita di questa distinzione, eliminandola e traducendo tutto con la 2a persona, mentre invece bisogna mantenere l’andamento originario: la 2a persona singolare esprime la confidenza affettuosa con Dio, mentre la 3a persona esprime la «singolarità» di Dio e la sua «grandezza» nel senso che egli non può essere Padre e compagno di gioco, compagnone di strada. Riportiamo un altro esempio tratto dal Siddùr della ghenizàh del Cairo, nella preghiera in forma breve: «Benedetto sei tu YHWH nostro Dio, Re dell’universo, lodato dal suo popolo, cantato dalla lingua dei suoi Chassidìm e dai canti di David tuo servo».


Ghenizàh-Ripostiglio del Cairo

È annessa alla sinagoga di Ezra di Fustat (antica Cairo), costruita nel sec. IX d.C., in Egitto, sopra una preesistente chiesa dedicata a San Michele. Durante gli scavi del 1864, Jacob Saphir rinvenne circa 280 mila frammenti cartacei, in pergamena e papiro che furono attentamente studiati da Solomon Schechter e successivamente dall’orientalista olandese Shlomo Dov Goiteen. Il materiale rinvenuto ricopre circa due secoli di tempo, dal 1025 al 1266. Nei trent’anni successivi alla scoperta, circa metà del materiale fu disperso in diverse biblioteche (San Pietroburgo, Parigi, Londra, Oxford, New York, ecc.), i restanti 140 mila frammenti furono da Schechter trasferiti all’università di Cambridge in Inghilterra. I testi sono scritti in ebraico, arabo, aramaico e altre lingue locali e contengono traduzioni della Bibbia, grammatiche ebraiche e commenti e testimonianze importanti sull’attività mercantile degli Ebrei durante la dinastia fatimide del sec. IX d.C. discendente da Fatima bint Muhammad, figlia del profeta Maometto. Nella ghenizàh si trovano le prove della esistenza pacifica di società miste ebraico-islamico-cristiane, che hanno obbligato a riscrivere la storia economica e sociale dei secoli IX, X e XI. Molti libri di preghiera ci sono utilissimi per capire e conoscere il modo orante di chi ha frequentato la sinagoga.

Per un riferimento più puntuale e per l’approfondimento di questo aspetto cfr. Frédédic Manns, La preghiera d’Israele al tempo di Gesù, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996.


Da questi rilievi, emerge con grande evidenza che la preghiera non è, né può essere, una pratica abitudinaria, ma una costante attenzione da prestare perché è in gioco il rapporto tra due: tra noi e Dio. Pretendere di parlare della preghiera è come pretendere di conoscere l’intimità di Dio: una realtà inesauribile. Della preghiera si possono dare mille definizioni e ciascuna sarebbe pure giusta, perché espone «un solo» aspetto di essa, senza esaurirla, ma nessuna sarebbe adeguata perché non si può definire la vita con una formula di poche parole. Essa, come la vita, ha moltissimi aspetti e deve essere vissuta: solo chi vive sperimenta e conosce; pregare, infatti, è sperimentare Dio, conoscendone il cuore. In ebraico il verbo «yadà‘ – conoscere» non esprime mai una conoscenza astratta, concettuale, ma una conoscenza che nasce da una «sperimentazione». La sua radice fa riferimento al rapporto sessuale che è la «conoscenza» più radicale esistente in natura perché mentre sperimenta trasforma, in quanto diviene l’altro fino alla trasformazione suprema che è il «generare» (cf Gen 4,1). La versione greca della LXX traduce con il verbo «ghnôsk? – io conosco», la cui radice (ghn?-) è molto vicina a quella del verbo «ghennà? – io genero» (radice ghèn[na]-) che si riferisce all’atto procreativo maschile; per la donna, infatti, si usa «tìkt? – io partorisco», da cui «tèkna – prole/figlioli». Da queste interferenze lessicali possiamo dedurre, da un lato, che la conoscenza è atto generativo che coinvolge l’intimità della propria profondità feconda: si dice anche popolarmente «concepire un’idea»; dall’altro lato, che l’atto sessuale, l’atto cioè più profondamente umano, è il grado più alto di conoscenza che si possa sperimentare in vita perché è attraverso di esso che l’umanità «somiglia» al Creatore: la propria identità profonda, il proprio Lògos diventa carne. Può essere definibile tutto ciò? Per la preghiera, penso che possa valere quello che Sant’Agostino dice del tempo: «Cos’è il tempo?… Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Sant’Agostino, Confessioni, XI,14,17). Come abbiamo illustrato nelle puntate precedenti, specialmente nell’ultima, l’unica spiegazione possibile della preghiera è «stare» nel silenzio, come pienezza della parola, come ambiente naturale della preghiera e ascoltarlo come eco del «Lògos [che] carne fu fatto» (Gv 1,14), entrando così nel cuore della comunità orante.

La Scrittura paradigma della «mia» storia

In 2Tm 3,14-4,2 l’autore insegna a Timòteo che tutta la Scrittura è Parola di Dio e non può esserci preghiera al di fuori della Parola di Dio che dà forma e contenuto alle parole umane. La Parola di Dio è la persona stessa del Lògos e quindi pregare è lasciarsi possedere dalla Shekinàh/Dimora per essere alla Presenza di Dio che è «già» nell’intimo di ciascuno, prima ancora di noi stessi. La Bibbia non è solo la lettera che Dio ha inviato all’umanità attraverso i profeti e il suo stesso Figlio (cf Eb 1,1-2), ma è anche il diario di bordo essenziale dell’intervento di Dio nella storia sia universale che personale. Essa è il paradigma della storia di ciascuno che tutti noi dobbiamo declinare in modo personale. Pregare quindi significa prendere coscienza dello stadio della storia di salvezza personale e rispondere alla domanda: a che punto sono della «mia» storia della salvezza? La Bibbia è il paradigma del «viaggio» personale di fede, ed è lecito che il lettore, all’interno di questo paradigma, si domandi dove si trova «adesso».

Pregare è la risposta alla prima domanda che Dio rivolge ad Àdam che si nasconde e fugge dalla sua presenza: «Àdam, dove sei?» (Gen 3,9). Non è una richiesta d’identità di un luogo, ma il fondamento della coscienza della consapevolezza. «Dove» significa prospettiva, dimensione, profondità, angolo di visione, orizzonte, utopia. Il «dove» è il punto focale della consistenza e dell’identità di ciascuno perché indica il cuore interiore da cui noi prendiamo posizione per la conoscenza di noi stessi, degli altri, dell’Altro. «Dove?» indica la visione strategica della vita, ma anche la profondità e lo spessore della nostra identità nel contesto della comunità e ancora prima in quello della storia della salvezza. Molti uomini e donne, religiosi per tradizione, per il fatto di essere battezzati e di «andare» qualche volta in chiesa, pensano e s’illudono di credere in Dio, di conoscere Gesù Cristo e magari pretendono di «essere con la coscienza a posto».

«Dove siamo?». Non è affatto detto e non è scontato che nel nostro cammino di vita ci troviamo nel NT. Nonostante oltre duemila anni di Cristianesimo, il battesimo e l’impegno in parrocchia, potremmo trovarci molto lontani da Cristo, in un qualunque momento descritto dall’AT: potremmo ancora essere con Àdam ed Eva, vittime complici del serpente; solidali con il fratricida Caino; schiavi in Egitto; vaganti nel deserto senza Legge e senza coscienza; attenti ascoltatori della Parola dei profeti o in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni il Battezzante. Potremmo essere ai piedi della croce o ai bordi del sepolcro vuoto. Pregare significa «sapere chi si è e dove si è».

 


Per un approfondimento spirituale e teologico del «dove», cf P. Farinella, Bibbia. Parole segreti misteri, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR), 2009, pp. 77-82, capitolo intitolato «Dove sei? Chi sei?».


Pregare è essere nudi davanti alla nudità di Dio: creatura e Creatore, mediati dalla Parola, fondamento sia della creazione che della redenzione. Prendiamo due esempi di preghiera della Scrittura e osserviamoli da vicino. Si tratta di un uomo, Mosè, e una donna anonima del NT, una vedova. Mosè e la vedova, il profeta e la povertà assoluta: il mediatore che «sta ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9) e la vedova molesta e importuna (cf Lc 18,4-5), che è vittima del sopruso e della prevaricazione. Tutti e due pregano, tutti e due ottengono risultati perché tutti e due non si sono stancati, ma sono stati perseveranti e insistenti, ciascuno fedele alla propria condizione e alla propria natura, perché ambedue coscienti del proprio «dove», cioè del proprio ministero (Mosè) e della propria dignità (la vedova). Il profeta induce addirittura Dio a cambiare pensiero, cioè lo obbliga a «convertirsi» alla sua natura di Dio di salvezza (metànoia/conversione), costringendolo alla fedeltà alla sua natura e quindi al suo popolo (cf Es 32,1-14), così come la vedova che non ha paura di chi «non temeva Dio» (Lc 18,2) perché forte del proprio diritto. Qui di seguito ci occupiamo solo di Mosè, della preghiera della vedova tratteremo nella prossima puntata.

Mosè con le mani alzate

Nel libro dell’Esodo leggiamo l’esperienza di Mosè che intercede per la vittoria d’Israele:

«9Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”… 11Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. 12Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Arònne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. 13Giosuè sconfisse Amalèk» (Es 17,9-13).

Il testo potrebbe essere molto antico perché è evidente una traccia di forma magica di preghiera legata alla gestualità. Esso non dice nulla sul contenuto dell’intercessione di Mosè, che anzi pare sia assente: è sufficiente la presenza fisica, là «ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9). Tutti i riti di tutte le religioni hanno necessariamente una dimensione di «teatralità» perché esigono vesti proprie, gesti, danze, canti: una rappresentazione mimica che coinvolga sia lo spirito che il corpo.

Ancora una volta il popolo ebraico ci viene in aiuto per capire il senso profondo che si ricava dal testo. Sottolineiamo alcuni testi del Targùm che commentano il brano, considerato dalla tradizione giudaica esemplare per la preghiera di intercessione. Il testo biblico dice: «Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”» (Es 17,9).

Il Targùm dello pseudo Giònata (sigla: TJ I) così parafrasa nella traduzione verbale:

«Scegli per noi uomini validi e forti nell’[osservanza] dei precetti e vittoriosi in battaglia… Domani io starò ritto, in digiuno, appoggiato sui meriti dei padri, i capi del popolo, e sui meriti delle madri, che sono paragonabili alle colline, e terrò in mano il bastone col quale sono stati operati prodigi davanti al Signore».

L’altro Targùm, il Neòfiti (sigla: N), invece, così commenta il gesto delle mani alzate:

«Le mani di Mosè rimasero alzate in preghiera, ricordando la fede dei padri giusti, Abramo, Isacco e Giacobbe, e ricordando la fede delle madri giuste: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144).

Il ms. ebraico n.100, conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi, così commenta:

«Ricordando la fede dei tre padri giusti che sono paragonabili ai monti: Abramo, Isacco e Giacobbe, e la fede delle quattro madri giuste, che sono paragonabili alle colline: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, e le sue mani rimasero alzate in preghiera fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144 nota o).


Targùm (plurale targumìm)

È parola aramaica e letteralmente significa «traduzione». Dal 539 a.C., dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia, in Palestina l’ebraico cadde in disuso, rimanendo però la «lingua sacra» riservata alla Bibbia nella liturgia ufficiale. Per far capire al popolo, che parlava la lingua comune, l’aramaico, era invalso l’uso di tradurre la Parola proclamata. Per questo, con il lettore, che leggeva in ebraico, vi era anche un «targumìsta – traduttore» che spiegava in aramaico. Egli però doveva stare non accanto al lettore, ma dalla parte opposta con il divieto di leggere la Parola e l’obbligo di commentare «a senso», proprio per sottolineare la distanza tra Parola di Dio e commento. Dal sec. I a.C. al sec. II d.C., per non perdere un immenso patrimonio liturgico e culturale, tutto il materiale orale fu raccolto per iscritto. I più antichi Targumìm sono: Targum Ònkelos, detto anche Babilonese, perché nato a Babilonia, databile tra il 60 a.C. e il sec. II d.C.; il Targum Yonatham ben Uzziel, contemporaneo del primo e come questo originario di Babilonia; Targum Yerushalmì (Gerusalemme), che si divide in tre parti, e datato sec. VII d.C. Tra i più recenti c’è lo Pseudo Gionata e Targum Neofiti del sec. XVI-XVII d.C.


I Targumìm aprono una prospettiva affascinante: la preghiera poggia sui meriti dei padri e delle madri, cioè degli antenati, paragonati ai monti e alle colline di Israele. Chi prega non prega mai da solo, ma porta con sé tutta la storia che lo ha preceduto perché prepara quella che segue: nella preghiera il futuro è dietro di noi perché uarda avanti con la forza dello Spirito che assume il nostro presente come pietra su cui è assisa la nostra intercessione al Signore della Storia. Pregare è entrare in una salvezza che si fa storia di Nomi e di Volti, diventandone parte attiva e sostegno sicuro.

In questo senso, la preghiera è una prospettiva di vita, un progetto esistenziale che avvolge e coinvolge ogni atto e respiro, ogni scelta e ogni gesto: tutto ciò che ci appartiene è già appartenuto ai nostri padri e alle nostre madri che sono diventati, con i loro meriti, i colli e le colline su cui poggia solida e stabile la preghiera dell’assemblea santa, oggi radunata dallo Spirito attorno al Monte Santo del Padre che è Figlio suo Gesù, Lògos, Pane e Vita, anima e corpo del nostro desiderio orante. Tutti preghiamo per i nostri morti, ma quanti pregano «con» i genitori, antenati, maestri, amici che sono stati e continuano a essere l’alimento e il sostegno del nostro pregare incessante?

Paolo Farinella, prete
 [7 – continua].




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.