Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), dai neuroni ai muscoli


La Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) è una malattia degenerativa tra le peggiori. In Italia si stimano 1.000 nuovi casi all’anno. Le cause rimangono sconosciute. Non esistono cure, ma solo la possibilità di rallentare il decorso. E le famiglie sono spesso lasciate sole.

Il 29 giugno di ogni anno è il Global day, la giornata dedicata in tutto il mondo ad una terribile malattia, la sclerosi laterale amiotrofica o Sla, capostipite di un gruppo di patologie neurodegenerative dette malattie del motoneurone o Mnd (motor neuron disease). Queste patologie colpiscono selettivamente i motoneuroni, cioè le cellule nervose che controllano l’attività della muscolatura striata o volontaria, la quale presiede alla fonazione, alla deglutizione, alla respirazione e a tutti i movimenti del corpo, quindi anche alla deambulazione, funzioni che vengono impedite dalla atrofia muscolare progressiva. Queste patologie sono progressive, gravemente invalidanti e dall’esito fatale per compromissione soprattutto della respirazione. La più grave del gruppo è la Sla, una malattia che colpisce il primo e il secondo motoneurone che sono localizzati a livello dei centri motori della corteccia cerebrale (il primo) e a livello del midollo spinale (il secondo). L’impulso nervoso che va a contrarre un muscolo, parte dal primo verso il secondo, e da questo va alla fibra muscolare.

Cos’è la Sla

La Sla, detta anche Morbo di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore americano di baseball, che ne fu vittima, o anche malattia di Charcot, dal nome del neurologo francese che la descrisse nel 1860, è una patologia che colpisce solitamente dopo i 50 anni e che nel 5-10% dei casi si presenta in forma familiare mentre nel rimanente numero dei casi è sporadica. L’incidenza della Sla, cioè il numero di nuovi casi per anno, è di 1,5-2,4 su 100.000 persone con 3 nuove diagnosi al giorno e la sua prevalenza, cioè il numero di pazienti con Sla su 100.000 persone per anno, è di 4-8 casi. Purtroppo in Italia non esiste ancora un registro di questa patologia, tuttavia si stima che i casi di Sla siano attualmente almeno 6.000, con circa 1.000 nuovi casi all’anno. Attualmente al mondo ci sono circa 200.000 malati di Sla, ma secondo uno studio italo-americano condotto dal prof. Adriano Chiò del Centro Sla delle Molinette di Torino e dal dr. Bryan Traynor del National Institute of Health di Bethesda e pubblicato su Nature Communication, nel 2040 si arriverà a circa 370.000 casi. L’aumento di questi non sarà lineare in tutti i continenti, essendo le cifre dipendenti dall’invecchiamento della popolazione e si stima che esso vada da circa il 20% in Europa a oltre il 50% in Cina e al 100% in Africa, con una media mondiale del 32%. Per motivi tuttora ignoti sembrano essere più colpite le donne degli uomini.

L’esordio e il decorso della malattia sono variabili da persona a persona e dipendono dalla forma di Sla da cui si è colpiti. Generalmente i primi sintomi sono brevi contrazioni muscolari detti fascicolazioni, crampi (soprattutto notturni) o rigidità muscolare, debolezza muscolare, che influenza la motilità degli arti e voce non comprensibile. Questo tipo di esordio, detto spinale, rappresenta circa il 75% dei casi, mentre il rimanente 25% presenta l’esordio bulbare, caratterizzato dalla difficoltà di parola fino alla perdita della capacità di comunicare verbalmente e dalla disfagia, cioè difficoltà di deglutizione. I due tipi di esordio dipendono da quale motoneurone è colpito per primo: se è il primo, a livello di corteccia cerebrale, abbiamo l’esordio bulbare, se è il secondo, a livello di midollo spinale, abbiamo l’esordio spinale. Fino a qualche tempo fa si pensava che i malati, sebbene colpiti da paralisi muscolare progressiva, mantenessero sempre intatte le proprie capacità cognitive. Purtroppo recenti studi condotti con tecniche di imaging hanno rivelato che questo non è sempre vero e in qualche caso la Sla aggredisce anche il lobo fronto-temporale, portando così a demenza. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, restano perfettamente integre le funzioni sensoriali, cognitive, sfinteriali, sessuali e il muscolo cardiaco.

Come si scopre

La diagnosi di Sla viene posta grazie a successivi esami neurologici, esami del sangue, un approfondito studio neurofisiologico mediante elettromiografia, elettroneurografia ecc., nonché risonanza magnetica nucleare dell’encefalo e del midollo spinale. Negli ultimi anni sono stati messi a punto dei marcatori biologici per la diagnosi di Sla, i quali hanno dimostrato un grado di accuratezza di circa il 90%. Si tratta in particolare di tre proteine, che si trovano in concentrazioni sotto la media nel liquor cefalorachidiano dei malati di Sla.

Le cause

Le cause di questa patologia restano al momento sconosciute. Le molteplici ricerche in questo campo hanno portato a ritenere che la Sla sia una malattia con cause multifattoriali, la cui insorgenza cioè sia determinata da una concomitanza di cause genetiche e ambientali. In particolare sono stati individuati una ventina di geni, ciascuno dei quali, se mutato, avrebbe un carattere predisponente per la malattia. Tra questi c’è il gene Sod1, che codifica un enzima che ha il ruolo di ripulire le cellule da un particolare radicale libero. Quando questo enzima non funziona, si verifica un accumulo tossico del radicale libero, che alla lunga uccide le cellule, in particolare i neuroni. Per quanto riguarda le cause ambientali, è risultata statisticamente significativa l’associazione tra l’esposizione a campi magnetici a frequenza estremamente bassa e la Sla per gli uomini, che lavorano in loro presenza. È stata inoltre osservata un’associazione positiva, sebbene non statisticamente significativa, tra la malattia e l’esposizione a solventi e a metalli pesanti. Si ipotizza che possano avere un ruolo nell’insorgenza della Sla anche gli shock elettrici, i fitofarmaci, il fumo di sigaretta, i traumi e l’attività fisica-sportiva intensiva. Quest’ultima ipotesi è stata avanzata dopo avere osservato che la malattia sembra essere particolarmente presente tra gli sportivi, tra cui diversi calciatori come Stefano Borgonovo, Lauro Minghelli, Adriano Lombardi, Albano Canazza, Piergiorgio Corno e Gianluca Signorini, tutti deceduti di Sla. Essa prende infatti uno dei suoi nomi da Lou Gehrig, giocatore di baseball deceduto a causa della Sla a 38 anni nel 1941.

Il decorso

Per quanto riguarda l’evoluzione della Sla, il decorso medio di questa malattia, senza ventilazione invasiva, è di 3-5 anni, il 50% dei pazienti muore entro 18 mesi dalla diagnosi, il 20% supera i 5 anni e il 10% i 10 anni. Ci sono rarissimi casi di una forma di Sla meno aggressiva, in cui la malattia resta stabile per più di 30 anni. Questo potrebbe essere il caso del famosissimo matematico, fisico, astrofisico britannico e candidato al premio Nobel (per la sua teoria sui buchi neri) Stephen Hawking, al quale la diagnosi di Sla venne posta nel 1963, anche se la progressione particolarmente lenta della sua malattia fa propendere alcuni studiosi per la diagnosi di atrofia muscolare progressiva, altra malattia del motoneurone (colpisce solo il 2°) a decorso particolarmente lento e che permette una sopravvivenza decisamente maggiore.

Le cure

Attualmente non esiste una cura efficace per la Sla. L’unico farmaco approvato dalla Fda (Federal drugs administration statunitense) in grado di rallentarne il decorso per qualche mese è il riluzolo, che in Italia viene somministrato solo a livello ospedaliero.

La Sla è una patologia che colpisce gravemente la persona, ma coinvolge anche tutta la sua famiglia, per cui è necessario un approccio multidisciplinare al paziente e un supporto informativo per lui e per i suoi familiari, per renderli edotti soprattutto sulle questioni di natura respiratoria, come l’arresto respiratorio improvviso o altre problematiche respiratorie acute che potrebbero comportare un intervento urgente con necessità d’intubazione e il passaggio alla tracheostomia, come spiega il Professor Mario Melazzini, medico e malato di Sla, nonché presidente di Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica) e autore di un’autobiografia dal titolo «Lo sguardo e la speranza. La vita è bella non solo nei film» (Ed. San Paolo, 2015).

Occorre prendersi cura

Tra i principali problemi, che richiedono un monitoraggio attento del paziente con Sla ci sono, come visto sopra, quelli respiratori, quelli di deglutizione e la scialorrea. Si è visto che la sopravvivenza dei pazienti può essere migliorata da un trattamento precoce dell’insufficienza respiratoria (dovuta a progressiva atrofia dei muscoli respiratori) mediante ventilazione non invasiva con maschera facciale.

La disfagia, che può insorgere nel corso della malattia, può portare a una scarsa alimentazione con conseguente deperimento del paziente, per cui diventa importante il parere di un dietologo, che eventualmente consigli l’uso di addensanti per i liquidi, qualora la disfagia ne impedisca l’assunzione e l’adattamento della consistenza degli alimenti per soddisfare le esigenze del paziente. Se quest’ultimo non è più in grado di alimentarsi e idratarsi a sufficienza, diventa necessario l’intervento del gastroenterologo per il ricorso alla gastrotomia percutanea endoscopica per via enterale (il paziente viene alimentato attraverso un tubicino collegato allo stomaco).

La scialorrea è l’iperproduzione di saliva, che può verificarsi in questi pazienti e che può diventare una ulteriore complicanza. In questi casi si effettua un trattamento con anticolinergici o, nei casi resistenti, con tossina botulinica iniettata nelle ghiandole parotidi o sottomandibolari.

Oltre ai problemi respiratori e di deglutizione, il paziente con Sla può essere afflitto da problemi di comunicazione, di immobilità, di spasticità e da quelli psicologici. È evidente quindi che la sua presa in carico da parte sia dei servizi di neurologia, che delle istituzioni (che dovrebbero garantire anche l’assistenza domiciliare) rappresenta per il malato un bisogno essenziale e purtroppo attualmente non sono molte, in Italia, le strutture o i centri in grado di farsi pienamente carico dei pazienti con Sla.

Una malattia di famiglia

Per i pazienti di Sla (e di molte altre gravissime patologie, cancro in primis) e per i loro familiari è inoltre fondamentale il supporto psicologico, poiché una diagnosi come questa cambia improvvisamente la qualità della vita dell’intero nucleo familiare che all’improvviso si trova catapultato nel mondo della malattia e della disabilità. Quando la malattia irrompe nella vita delle persone, infatti, cambiano improvvisamente non solo le abitudini, ma spesso le relazioni con il mondo circostante, a partire dal mondo del lavoro, e con le varie dimensioni che fanno parte della vita quotidiana, come quella dello sport, degli hobby e così via. All’improvviso ci si trova immersi in un mondo nuovo fatto di medici, tecnici, infermieri, dove spesso è difficile individuare i raccordi tra le diverse figure professionali, quindi una figura di supporto potrebbe essere d’aiuto anche in tal senso. I pazienti e le loro famiglie inoltre dovrebbero essere sempre informati sulle caratteristiche della malattia, sulle attuali cure e sulla loro possibilità di scegliere il percorso terapeutico che preferiscono, soprattutto quando si tratta di decidere se ricorrere o no alla tracheostomia, che comporta un successivo percorso adattativo della capacità di comunicazione del paziente.

Purtroppo le malattie degenerative come la Sla hanno un forte impatto sulle famiglie sia a livello affettivo che relazionale ed economico. Qualcuno definisce la Sla una «malattia per ricchi». Sarebbe auspicabile una politica sanitaria in grado di far sì che tutte le famiglie dei malati di Sla o di altre patologie gravemente invalidanti siano supportate sia culturalmente che economicamente (non si deve dimenticare che spesso i familiari che assistono un malato grave in casa devono rinunciare alla loro attività lavorativa e nel contempo affrontare ingenti spese per i presidi medici necessari), in modo da limitare al massimo le ospedalizzazioni dei malati e da migliorare così la qualità della loro vita.

Rosanna Novara Topino
(quarta puntata – continua)




Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)

 




Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi

 




I Perdenti 26. Anita Garibaldi


Anita nacque in Brasile, a Morrinhos nello stato di Santa Catarina, il 20 agosto 1821. Il suo nome completo era: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, figlia del gaucho (mandriano) Bento Ribeiro da Silva e di Maria Antonia de Jesus Antunes che ebbero tre figlie e tre figli. Battezzata Ana, era chiamata in famiglia Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Sarà in seguito Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale noi la conosciamo. Negli splendidi panorami della sua terra e nelle ampie distese della pampa imparò presto a cavalcare e sin dalla sua adolescenza dimostrò di avere un carattere forte e deciso. Nel 1834 la sua famiglia si trasferì nella cittadina di Laguna, sempre nello stato di Santa Catarina, dove purtroppo pochi anni dopo trovarono la morte il padre e i tre fratellini a causa di una epidemia di tifo. Un suo zio, al quale dopo la morte del padre si era molto affezionata, la iniziò agli ideali di giustizia sociale, in un paese governato con il pugno di ferro dai governatori dell’impero luso-brasiliano.

Nel 1835 scoppiò la rivolta dei farroupilha, ossia la rivolta degli straccioni. La sommossa popolare segnò profondamente l’animo di Anita, che guardava con ammirazione i ribelli, sognando di poter un giorno compiere le loro stesse gesta. Il 22 luglio 1839, i rivoltosi conquistarono la città, e gran parte degli abitanti di Laguna si recarono in chiesa per intonare un Te Deum di ringraziamento al Signore, tra loro c’era Anita. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta Giuseppe Garibaldi, presente insieme agli altri protagonisti della rivoluzione. Il giorno seguente i due si incontrarono di nuovo, lui la fissò intensamente e le disse: «Tu devi essere mia». Da quel momento Anita sarebbe diventata la compagna fidata di tutte le battaglie di Garibaldi e la madre dei suoi figli.

Anita, sembra quasi che sin dalla più tenera età tu fossi destinata ad avere un ruolo da protagonista sia nella storia del Brasile e dell’Uruguay come nella storia del Risorgimento italiano…

Il merito va tutto a mio zio Antonio, che dopo la morte del mio povero babbo mi prese sotto la sua protezione, insegnandomi fin da bambina ideali di libertà e giustizia. Egli seppe trasmettermi il suo atteggiamento responsabile di fronte ai problemi sociali che andavano delineandosi, facendomi capire che non si poteva rimanere neutrali di fronte ai soprusi che venivano compiuti dai prepotenti di turno.

Ma il tuo non fu un atteggiamento di semplice simpatia e di sostegno solo teorico verso i più deboli…

Una volta assunta la causa degli oppressi, passai subito nelle truppe degli insorti e insieme ad altre donne del popolo combattemmo al fianco dei nostri uomini. Il compito a cui più spesso ero assegnata era quello di difendere le casse di munizioni, sia durante gli attacchi navali che negli scontri a fuoco che si susseguivano a terra.

Ma il 12 di gennaio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, fosti fatta prigioniera dalle truppe imperiali luso-brasiliane…

Già, ma il comandante commise un errore fatale, in quanto mi concesse di dare sepoltura ai cadaveri dei miei compagni rimasti sul campo di battaglia. Io, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, afferrai un cavallo e riuscii a fuggire.

Quell’anno fu particolarmente importante per te e per il tuo Giuseppe, che voi chiamavate Josè.

Direi proprio di sì. Il 16 settembre 1840 nacque il nostro primo figlio al quale demmo il nome di Domenico. Sarebbe stato chiamato Menotti per tutta la sua vita, in onore del patriota modenese Ciro Menotti.

Poche settimane dopo il parto, tu Anita riuscisti a sfuggire avventurosamente a una nuova cattura.

I soldati imperiali avevano circondato la nostra casa e ucciso gli uomini lasciati da Garibaldi per la difesa, cercando di farmi prigioniera, ma io, con mio figlio in braccio, saltai da una finestra, montai a cavallo e fuggii nel bosco. Rimasi nascosta nel fitto della boscaglia per quattro giorni, con il neonato al petto, finché Garibaldi e i suoi mi ritrovarono. Dovevi vedere con che tenerezza il mio Josè portava il piccolo Menotti in un foulard a tracolla riscaldandolo con il calore del suo corpo durante la ritirata nella sierra.

Però gli avvenimenti si susseguivano implacabili: nel 1841, essendo divenuta ormai insostenibile la situazione militare della rivoluzione brasiliana, tu e Garibaldi prendeste congedo da quella guerra e vi trasferiste a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

Quella che doveva essere una tappa passeggera della nostra vita si trasformò in un’avventura che segnò non poco le nostre esistenze. In Uruguay restammo sette anni, durante i quali Garibaldi si guadagnò da vivere per mantenere la nostra famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica.

A Montevideo coronaste anche religiosamente il vostro legame di vita.

È vero, il 26 marzo 1842 ci sposammo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi. Nel 1843 nacque Rosita, che purtroppo morì a soli 2 anni, nel 1845 Teresita e nel 1847 Ricciotti quarto e ultimo figlio.

Al di là delle vostre vicissitudini familiari, pensi che l’esperienza latinoamericana, vissuta in modo così intenso da Garibaldi, vi abbia preparato a vivere il Risorgimento italiano?

Penso proprio di sì. Le vicende vissute dal mio Josè in Sud America hanno dell’incredibile. La sua epopea latinoamericana durò una dozzina d’anni di cui sette in Uruguay e cinque in Brasile. In Uruguay erano gli anni della guerra civile (1840-1852), che vide il Blancos (sostenuti dall’Argentina) e Colorados (sostenuti da francesi e inglesi) combattere sanguinose battaglie. Garibaldì formò e comandò la legione italiana schierata con i Colorados. Tutto questo senza mai rinunciare alla tenerezza reciproca, all’affetto della famiglia e alla nostra love story.

È per l’impegno profuso in quegli anni che poi Garibaldi si guadagnò la nomea di «Eroe dei due mondi».

Sì, si può dire che Garibaldi, in Brasile prima e in Uruguay poi, fu un condottiero muy valiente. Le sue vittorie militari si realizzarono per terra (tra scontri campali e ardite azioni di guerriglia) e per mare (fu ufficiale della marina uruguaiana sul Rio de la Plata e nei fiumi che lo generano). Era ai nostri occhi un vero libertador di stampo sudamericano, casualmente nato a Nizza.

Però nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, il tuo Josè nonostante le lusinghe che gli facevano i governanti uruguayani affinché rimanesse, ti imbarcò con i figli su una nave diretta a Genova con destinazione finale Nizza dove fosti ospitata da sua mamma, mentre lui si fermò per sistemare le ultime cose e vi raggiunse con un altro bastimento qualche mese più tardi.

L’accoglienza che ci riservò la mamma di Josè fu straordinaria, l’abbraccio che diede a me e ai suoi nipoti era carico di amore e tenerezza. Ospitati nella sua casa attendemmo di settimana in settimana l’arrivo di Garibaldi, ma quando lui giunse, accompagnato da un sessantina dei suoi legionari, si fermò poco tempo. Infatti avevano portato la notizia che il 9 febbraio 1849 a Roma era stata proclamata la Repubblica Romana, ed egli voleva raggiungere la città eterna con un corpo di volontari che erano subito accorsi per mettersi ai suoi ordini.

E tu lo seguisti?

Qualche tempo dopo decisi di raggiungerlo. Arrivai a Roma in tempo per assistere alla sconfitta che i volontari romani guidati da Garibaldi fecero subire ai francesi. Purtroppo in quella battaglia restarono sul terreno centinaia di morti. A seguito di quello scontro venne stabilita dalle due parti una tregua con scadenza il 3 giugno. In realtà i francesi stavano preparando una trappola per guadagnare tempo e fare arrivare altri rinforzi.

Quindi che successe dopo?

Quando ripresero i combattimenti, la superiorità francese era evidente a tutti e, nonostante la strenua resistenza dei volontari italiani sul Gianicolo, a poco a poco le forze della Repubblica Romana persero terreno, finché il 4 luglio 1849, venne decisa la resa.

Garibaldi però non si arrende e decide di andare con tutti coloro che intendevano seguirlo a Venezia che ancora resiste agli austriaci. Sebbene inseguito dai corpi di spedizione di quattro eserciti inviati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Regno delle due Sicilie, Garibaldi riesce a condurre in salvo i suoi uomini nel territorio straniero di San Marino dove scioglie la sua brigata di volontari. Anita in quei giorni è febbricitante e, sebbene incinta, segue il marito a cavallo. Lo segue anche nella cavalcata verso Cesenatico. Quando vi giunge è letteralmente consumata dalla febbre. Garibaldi con duecento seguaci cerca di raggiungere Venezia con delle imbarcazioni da pesca. Ma le navi austriache che controllano il litorale adriatico impediscono di proseguire. Alcune barche si arrendono, altre si avvicinano a terra. Tra queste quella di Garibaldi e Anita, che cercano di sfuggire agli austriaci che li cercano. I garibaldini si sparpagliano su strade diverse per sfuggire alla caccia dei soldati austriaci e dei gendarmi pontifici.

Garibaldi rimane solo con Anita e con il fedelissimo Capitano Leggero. Nelle valli di Comacchio i fatti precipitano. La donna perde conoscenza. Pur braccati dai nemici, Garibaldi e Leggero con l’aiuto di amici fidati caricano Anita su una piccola barca e poi, su un vecchio materasso, la trasportano nella fattoria Guiccioli in località Mandriole di Ravenna, dove cercano disperatamente di rintracciare un medico, il quale accorre immediatamente ma può solo constatare che Anita è spirata: è il 4 agosto 1849. Anita non ha ancora ventotto anni. La sua avventura umana, storica e sentimentale accanto a Giuseppe Garibaldi è durata appena undici anni.

Don Mario Bandera


Errata-corrige: la foto a pagina 72 MC non rappresenta Garibaldi e Anita, ma Garibaldi con la seconda moglie, Francesca Armosino, che gli diede tre figli.




Ora sai che sei amata

Sono dodici anni ormai. Il sangue non si arresta nemmeno di notte. Lo senti fluire continuamente, a volte goccia a goccia, a volte abbondante. È un’emorragia che ti svuota.

Da tempo non pensi ad altro. Non ti senti più tu, ti vergogni a uscire per strada, ti chiedi continuamente il perché. E hai visto le persone care allontanarsi.

Hai cercato la guarigione per molte vie: sei passata da una terapia a un’altra, da un medico a un altro, senza tralasciare alcuna opzione alla tua portata. Ma lo svuotamento non si è fermato.

Oggi sei scesa in strada perché hai sentito dire che c’è un uomo straordinario nel tuo villaggio. Qualcuno dice che è il medico più bravo mai visto, alcuni che è un mago, altri un profeta.

Ti infili tra la gente, cerchi di non farti notare perché gli sguardi indiscreti sul tuo corpo ti feriscono. Quasi subito ti senti soffocare. Quando decidi di tornare a casa ti si apre un varco e lo vedi.

Uno dei capi della sinagoga, Giairo, è ai suoi piedi, lo prega di salvare la figlia in fin di vita. Lui lo prende per mano, lo solleva e gli chiede di fargli strada. Pensi che di fronte a una figlia morente la tua emorragia non sia importante, e rinunci a chiedere aiuto, ma, quando l’uomo si avvicina, cedi all’impulso di toccarlo.

Gli sfiori appena il mantello, e subito senti che il flusso si ferma.

Sei stupita e confusa. E quando senti quella voce domandare alla folla chi avesse toccato il suo mantello, ti spaventi.

Vorresti sparire, ma il suo sguardo ti cerca.

Di nuovo quell’impulso ti prende e ti spinge avanti. Ti getti ai suoi piedi e senti la tua bocca pronunciare parole che non hai mai detto nemmeno a te stessa. Non descrivono la patologia del sangue, ma la tua vita. Senti che lo sguardo di quell’uomo ha il potere di tirare fuori da te la tua verità. E l’osservi mentre l’accoglie.

Lui ti prende la mano e ti solleva. Ti riconosce: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,25-34).

Subito pensi che sei già guarita, poi capisci che il tuo male non era l’emorragia.

Ora sai che sei amata.

Buona estate da amico,

Luca Lorusso