Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.
Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.
«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.
Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?
Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.
E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.
Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.
Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».
Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».
Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?
FAMIGLIA LINGUISTICA – Ramo iranico delle lingue indoeuropea, con rilevanti affinità con il persiano parlato in Iran. La lingua kurda si divide a sua volta in due varianti, Sorani e Kurmanji, con notevoli varietà dialettali.
DOVE SONO – Nord dell’Iraq, al confine con Siria, Turchia e Iran, zone anch’esse abitate dai Kurdi. I territori indicati dalla Costituzione irachena del 2005 come Regione autonoma del Kurdistan sono inferiori rispetto all’area occupata dai Kurdi, oggi contesa fra Baghdad ed Erbil (il capoluogo della regione).
CAPOLUOGO – La città di Erbil.
POPOLAZIONE – 5-8 milioni, a seconda delle stime.
RIFUGIATI E SFOLLATI – Si trovano oggi in Kurdistan circa 2 milioni di rifugiati e sfollati, la larga parte dei quali giunti negli ultimi tre anni in seguito all’avanzata dello Stato islamico (Isis-Daesh).
ORGANIZZAZIONE POLITICA – I Kurdi in Iraq vivono, con un’ampia autonomia politica ed economica, all’interno della Regione autonoma del Kurdistan, sancita, dopo la caduta di Saddam, dalla costituzione irachena del 2005. I territori in essa inclusi sono però di molto inferiori rispetto a quelli effettivamente controllati dai Kurdi, il che provoca frequenti diatribe con Baghdad.
RELIGIONE – Circa il 94% degli abitanti del Kurdistan iracheno sono musulmani sunniti.
MINORANZE – Siriaci, armeni, turkmeni e arabi. Da un punto di vista religioso, si trovano inoltre musulmani sciiti, cristiani, zoroastriani, yazidi, ebrei, shabaki, kakai, mandei e bahai.
MONETA – Dinaro iracheno.
BANDIERA – Un tricolore a bande orizzontali rossa bianca e verde, con un sole al centro. La bandiera fu per la prima volta introdotta dai leader Kurdi presenti alla conferenza di pace di Parigi del 1919-20, quando la nascita di uno stato chiamato Kurdistan sembrava imminente. Oggi questa bandiera è bandita in Turchia, in quanto ritenuta simbolo delle aspirazioni kurde all’indipendenza, mentre è assai diffusa nel Kurdistan iracheno.
PETROLIO – Con una riserva stimata attorno ai 45 miliardi di barili, il petrolio rappresenta una voce fondamentale dell’economia del Kurdistan, oltre che un elemento di attrito continuo con Baghdad.
b) Le date principali
1918: con la sconfitta dell’Impero ottomano nel primo conflitto mondiale, il territorio dell’attuale Kurdistan iracheno diventa parte del dominio della corona britannica.
1919: creazione ex novo dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico.
1920: il trattato di pace di Sèvres, firmato dall’Impero ottomano, prevede la nascita di uno stato kurdo, cui avrebbero potuto unirsi – tramite referendum – anche i Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul.
1922: Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la loro aviazione e schiacciando la rivolta.
1923: il trattato di Losanna dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
1943: Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida una rivolta che riesce a strappare per breve tempo al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan.
1946: nasce un’effimera, ma importante, Repubblica di Mahabad, entità statale kurda nel Nord Ovest dell’Iran che durerà meno di un anno.
1980-88: la guerra Iran-Iraq causa migliaia di morti, persecuzioni e divisioni politiche all’interno del Kurdistan iracheno.
1986-89: campagna di al-Anfal compiuta da Saddam Hussein contro i Kurdi, che porterà alla morte di migliaia di persone.
1988: attacco chimico di Halabja compiuto dalle forze irachene contro i Kurdi.
1991: i Kurdi riescono finalmente, dopo una sollevazione, a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia, quella della regione del Kurdistan, resa effettiva anche grazie alla no flight zone americana.
2005: la nuova costituzione irachena, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq, riconosce l’autonomia kurda nel Nord del paese.
2014: l’Isis avanza in Iraq, compiendo un genocidio contro gli Yazidi e costringendo i Kurdi siriani e iracheni a una strenua resistenza. La regione diviene approdo, in breve tempo, di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.
Simone Zoppellaro
Kurdistan: uno, tanti, nessuno
Storia della regione kurda dell’Iraq
Nel mondo si stimano esistere tra i 20 e i 40 milioni di Kurdi. Costituiscono la più grande nazione senza uno stato (riconosciuto dalla comunità internazionale). Il nostro collaboratore è andato a vedere cosa succede nel Kurdistan iracheno, che un tempo era la mitica Mesopotamia, mentre oggi è l’unica entità territoriale kurda vicina alle caratteristiche di un vero e proprio stato indipendente.
Quello del Kurdistan è un nome divenuto ormai noto a tutti in questi ultimi anni, seppure si riferisca a una realtà per molti aspetti sfuggente, dai tratti incerti e in parte persino misteriosi. Non sarà un caso: costretta a cavallo dei confini di diversi stati – Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia, con una notevole presenza diasporica in Europa – quella dei Kurdi rappresenta oggi la più grande nazione al mondo senza uno stato. Una frattura difficile da sanare causa di numerose altre ferite: non solo le persecuzioni e le discriminazioni subite periodicamente nei diversi contesti, ma anche le divisioni politiche, talora fratricide, che hanno segnato il destino di questa gente pur legata da una cultura salda e antica. Il risultato è che oggi non esiste un solo Kurdistan, ne esistono diversi o, almeno da un punto di vista del riconoscimento internazionale, non ne esiste ancora nessuno. Eppure, situato com’è nel cuore del Medio Oriente, forte di una popolazione complessiva stimata (ma i dati sono assai dibattuti) fra i 20 e i 40 milioni di persone, il Kurdistan è uno dei luoghi del mondo tra i più caldi e cruciali dal punto di vista geopolitico, strategico e delle risorse. E questo non certo da oggi.
Un tempo era la Mesopotamia
Troppe volte in passato questa splendida terra, fertile e dai paesaggi rigogliosi, è stata contesa da potenze straniere e dai loro eserciti. Limitandosi al solo Kurdistan iracheno – che tratteremo in modo esclusivo in questo nostro lavoro – si parla di una regione che ha radici antichissime, che arrivano fino agli albori stessi della civiltà. In questo spazio si trovava infatti parte della Mesopotamia propriamente detta. Nella piana di Ninive, gli storici ritengono sia avvenuto lo scontro decisivo fra Alessandro Magno e i persiani. Ci riferiamo alla battaglia di Gaugamela, snodo fondamentale per la storia antica nel determinare le fortune del Macedone e il tramonto, almeno temporaneo, dell’impero di Persia.
In epoca più recente, quello che oggi chiamiamo Kurdistan iracheno è stato soggetto alla dominazione ottomana. Proprio sotto questa dominazione, fra battaglie e rivolte represse nel sangue, va forgiandosi e definendosi l’identità kurda di questa popolazione di origine iranica. Nel 1918, con la sconfitta della Sublime Porta nel primo conflitto mondiale, questo territorio passa a essere dominio della Corona britannica. Dell’anno successivo è invece la creazione dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico. Un’entità statale, come diverse altre in Africa e in Asia, che è in ultima analisi solo una creazione realizzata a tavolino dalle potenze coloniali, senza alcun riscontro storico preciso. È così che una porzione di Kurdistan diviene parte di uno stato che un secolo dopo, a dispetto dei tanti mutamenti, esiste ancora. Il risultato di tale disegno, concepito su esclusivo interesse di capitali lontane anziché sui bisogni delle popolazioni locali, è sotto gli occhi della comunità internazionale ancora nel 2017. Una delle caratteristiche dell’esperienza coloniale è che essa è durata ben oltre la fine del colonialismo stesso.
La svolta: il trattato di Sèvres
La mancata nascita di uno stato kurdo viene vissuta da questa minoranza, nel frattempo galvanizzata da aspirazioni nazionaliste e irredentiste, come un tradimento. Il trattato di pace di Sèvres del 1920, firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero Ottomano, prevede infatti di dare voce ai Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul sul loro destino. Questi dovrebbero poter decidere, tramite un referendum, se unirsi a un nascente stato kurdo previsto più a Nord, che dovrebbe includere città dell’attuale Kurdistan turco quali Diyarbakir. Ma né l’una né l’altra ipotesi diventano realtà, e i territori a maggioranza kurda – complice anche la nascita della Turchia kemalista – vengono spartiti senza che i loro abitanti possano esprimersi in alcun modo sul loro futuro. Da questo passaggio storico fondamentale avranno origine una serie di rivolte espressione delle rivendicazioni nazionaliste dei Kurdi.
Barzani e i Peshmerga
Nel 1922 Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio a essa adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la Royal Air Force, l’aviazione. Una serie di bombardamenti aerei colpiscono Barzinji e i suoi uomini per circa un anno fra il 1923 e il 1924, fino alla resa finale. Il primo tentativo di realizzare uno stato kurdo finisce quindi in un bagno di sangue.
Barzinji, che è stato protagonista di una rivolta già in precedenza, nel 1919, si ritirerà in seguito sui monti, dove tenterà inutilmente di fare esplodere di nuovo la scintilla dell’irredentismo kurdo. Valente guerriero, il suo ricordo si imprimerà nella memoria delle successive generazioni di Kurdi, quale simbolo di libertà e rivalsa nei confronti del giogo coloniale. Nel frattempo il trattato di Losanna, firmato nel 1923, dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
Nel 1932 un’ulteriore rivolta segna l’inclusione dell’Iraq nella Lega delle Nazioni, evento che ha luogo ignorando ancora una volta le ambizioni e le richieste politiche dei Kurdi. Proprio il Kurdistan iracheno dà i natali a quello che è probabilmente il maggior leader kurdo del secolo scorso, Mustafa Barzani (1903-1979). Proveniente anche lui, come Barzinji, da una famiglia di importante tradizione sufica, Barzani sarà per mezzo secolo una spina nel fianco di Baghdad, nonché simbolo vivente della lotta per l’indipendenza dei Kurdi. Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida nel 1943 un’ennesima rivolta che riesce a strappare al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan. Nel 1946 si afferma come comandante della Repubblica di Mahabad, nel Nord Ovest dell’Iran. A Barzani si deve infine anche la fondazione del «Partito democratico del Kurdistan» (riquadro pagina seguente), che rimane fino ad oggi il maggior partito politico kurdo dell’Iraq.
Dopo la fine dell’esperienza di Mahabad nel 1947 (riquadro in alto), Barzani si rifugia nell’Azerbaigian sovietico, dove rimane fino alla rivoluzione irachena del 1958. Dopo il ritorno e un fallito accordo con il governo di Baghdad, nel 1960 si rifugia in montagna, da dove guida per oltre un decennio i suoi uomini, i Peshmerga, alla resistenza contro le forze irachene. Muore in esilio negli Stati Uniti nel 1979, dopo essere stato infine sconfitto militarmente dal regime di Saddam Hussein, con la complicità dello scià iraniano. E proprio gli anni di governo del dittatore si dimostreranno i più duri per i Kurdi iracheni.
Sotto Saddam Hussein
La repressione inizia in sordina negli anni Settanta con una campagna di arabizzazione della regione, che mira a sopprimere l’identità kurda insieme a quella delle altre minoranze etniche e religiose.
Le cose precipitano in seguito con la guerra fra Iran e Iraq, combattuta fra il 1980 e il 1988. I due maggiori partiti politici kurdi si dividono, e quello di Barzani appoggia apertamente l’Iran, voltando le spalle a Baghdad. Una volta che inizierà a profilarsi la fine del conflitto, arriverà puntuale la vendetta di Saddam con la campagna di al-Anfal. Secondo i Kurdi (e non solo), un genocidio che costerà la vita a decine di migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire. Altre migliaia di vittime costerà l’attacco chimico nella città di Halabjah, nei pressi del confine iraniano. Crimini poco noti al grande pubblico, ma fra i più efferati commessi negli ultimi decenni nell’intero Medio Oriente.
Nel 1991, dopo una sollevazione, i Kurdi riescono finalmente a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia resa possibile anche grazie alla no-flight zone americana dello stesso anno, che permette ai Kurdi di tirare il fiato dopo anni terribili in cui i baathisti al potere a Baghdad avevano commesso contro di loro i crimini più atroci.
Il Kurdistan oggi
Questa regione dalla storia travagliata è stata negli ultimi trent’anni teatro di massacri e genocidi. Nonostante ciò, il Kurdistan iracheno è riuscito a conoscere uno sviluppo economico e urbanistico senza precedenti che, seppure non scevro da gravi contraddizioni quali speculazione, corruzione e disuguaglianze, ha permesso ai Kurdi di raggiungere una notevole autonomia politica ed economica, e di sognare l’indipendenza. Un passo avanti di portata storica per questa gente che, a dispetto delle reiterate promesse di un riconoscimento statuale da parte delle ex potenze coloniali, non aveva mai fino ad ora potuto godere di una così ampia libertà di determinare il proprio destino.
Oggi molti Kurdi dei paesi vicini guardano a questa regione autonoma dell’Iraq con grande attenzione e partecipazione. Ricordo come un ragazzo, uno studente kurdo iraniano conosciuto a Teheran, mi raccontasse trasognato la sua scelta di studiare a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno. Il semplice fatto di poter studiare e parlare nella propria lingua madre, il kurdo, rappresentava per quel giovane – come per molti altri Kurdi dei paesi confinanti – un vero sogno, la realizzazione di oltre un secolo di aspirazioni, lotte e persecuzioni.
Benché già in essere dal 1991, l’autonomia kurda diviene una realtà con la nuova Costituzione irachena del 2005, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq. Da qui, come detto, ha inizio una stagione di grande sviluppo che entrerà in crisi solo negli ultimissimi anni con l’avanzata dell’Isis. E così ai crimini già ricordati si aggiungerà anche il genocidio della minoranza yazida iniziato nel 2014 e tuttora in corso (si veda MC marzo 2017). La presenza di centinaia di migliaia di profughi e sfollati è un altro prodotto importante di questa nuova crisi, che è divenuta anche economica.
Tra Erbil e Baghdad
In questa situazione complessa e delicata, sono ancora una volta i contorni stessi del Kurdistan a essere in questione. Se sono solo quattro in totale i governatorati riconosciuti ufficialmente parte di questa regione (Duhok, Erbil, Sulaymaniyah e Halabja), assai più ampia è però l’area controllata dai Peshmerga kurdi, che rivendicano un territorio ancora più vasto. Emblematico a tal proposito il casodi Kirkuk, città contesa da Baghdad e Erbil. In questo caso come in altri, non si tratta di un caso di facile soluzione: come capita spesso in Medio Oriente e nel Caucaso, si tratta di territori tutt’altro che omogenei da un punto di vista etnico e religioso, cosa che dà adito a infinite manovre e giochi di potere che, inevitabilmente, finiscono per essere pagati dalle fasce più deboli della popolazione e, in primis, dalle minoranze. Difficile anche stabilire con esattezza il numero di abitanti della regione autonoma del Kurdistan. Se le autorità di Erbil parlano di oltre cinque milioni di abitanti, secondo Baghdad si tratterebbe invece di un milione di meno.
Kurdistan turco e Kurdistan siriano
Numeri e politica a parte, l’importanza del Kurdistan iracheno è enorme anche solo da un punto di vista umano e culturale. Mentre la morsa del presidente turco Erdogan si fa sempre più stretta sui Kurdi di Turchia, e perdura la guerra nel Kurdistan siriano (noto come Rojava), costata infinite sofferenze, la relativa stabilità del Kurdistan iracheno è un approdo sempre più insostituibile per i Kurdi della regione. Un ruolo prominente attribuitogli anche dalla collocazione geografica, oltre che dall’evoluzione storica recente: situata com’è al centro della regione, la porzione irachena mette in comunicazione le altre parti del mondo kurdo separate nelle diverse nazioni. Un dato positivo, senza dubbio, che finisce però per produrre numerosi contraccolpi, scaricando su questa regione tutte le tensioni che investono i Kurdi nei paesi limitrofi.
Simone Zoppellaro
I Kurdi e il dna linguistico
Lingua, cultura, identità
Essendo distribuite su vari paesi (Iraq, Turchia,?Siria, Iran), le popolazioni kurde possono avere caratteri culturali molto diversi. Ma sono unificate da un unico idioma (che è una lingua indoeuropea), pur con tutte le sue varianti.
Il Kurdistan iracheno è un territorio ricco di storia e cultura, cosa che si evince anche dalla grande diversità linguistica, religiosa e culturale che vi si incontra. I Kurdi stessi che lo abitano, ben lungi dall’essere un monolite, hanno partiti politici, usi, costumi e idee molto diversi dai loro omologhi turchi e siriani, e proprio qui in Iraq hanno sviluppato un tassello fondamentale – per quanto tuttora incompiuto – nella loro lunga marcia verso l’autonomia e l’indipendenza. Ma non sono solo il passato e la tradizione a colpire il viaggiatore. Città come Erbil e Dohuk appaiono moderne e completamente rinnovate negli ultimissimi anni, per quanto nel loro tessuto sia facile scorgere edifici costruiti a metà, basi militari e campi profughi, cicatrici dovute a quello spartiacque che è stato l’ascesa dello Stato islamico ai confini di questa regione.
In questo articolo cercheremo di fornire al lettore di Missioni Consolata un quadro il più possibile aggiornato della società kurdo-irachena di oggi, muovendoci dalla lingua alla cultura, dall’economia alla politica, facendo anche tesoro di un viaggio appena concluso in questa regione.
Una lingua indoeuropea
Scrive il linguista e politologo Noam Chomsky: «Una lingua non è fatta solo di parola. È una cultura, una tradizione, il collante di una comunità, una storia intera che determina ciò che una comunità rappresenta. E tutto ciò è incarnato in una lingua». E proprio questo aspetto, quello linguistico, è il principale che determina ieri come oggi l’identità dei Kurdi, in contrapposizione ai vicini sia arabi che turchi, entrambi in maggioranza di fede musulmana, ma che usano idiomi molto lontani, riconducibili a famiglie linguistiche assai diverse. Il kurdo, invece, nelle sue diverse varianti appartiene alle lingue iraniche, come il persiano, parte della comune famiglia indoeuropea. E proprio con la lingua parlata in Iran si scoprono punti di contatto sorprendenti. Per limitarci a un solo esempio, che ho rilevato di persona parlando io persiano, prendiamo il caso dei numeri. Una cosa, questa, che mi ha permesso facilmente di dire molte cose in kurdo, senza aver fatto neppure una lezione o aperto una grammatica. Non mi era mai capitato di imbattermi in due lingue che avessero le medesime parole, perlopiù con variazioni minime di alcune vocali, per indicare tutti i numeri. Eppure, è esattamente quello che succede fra persiano e kurdo, lingue che hanno un legame profondo e antico.
Una lingua, tanti alfabeti
Tornando al kurdo, è giusto ricordare che non si tratta di una lingua unificata: esistono almeno due tipologie linguistiche del kurdo, chiamate Kurmanji e Sorani, presenti entrambe in Iraq. Queste sopravvivono senza che una sia riuscita a prendere il sopravvento sull’altra, tanto nella lingua parlata che in quella scritta e nella letteratura. Non ancora standardizzato è anche il modo in cui si trascrive questa lingua. Accanto al kurdo in caratteri arabi – egemone e preponderante in Iraq, dai cartelli stradali, ai libri e alle scuole – sopravvive ancora l’uso di trascrivere la lingua in caratteri latini. Non si deve dimenticare, infine, come il kurdo sia stato usato, anche da un punto di vista letterario, in un terzo alfabeto: quello cirillico, usato soprattutto quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Per un breve periodo, infine, negli anni venti, fu usato anche nell’alfabeto armeno, sempre nell’Urss. Una grande varietà che è, certo, conseguenza della storica mancanza di uno stato, di un centro di riferimento che sia in grado di imporre un canone, ma anche segno di una commistione culturale e linguistica che ha prodotto notevoli frutti.
Erbil e le università italiane
Se gli albori letterari della lingua kurda risalgono alla prima fioritura poetica del XVI secolo, le radici di questo popolo e di questa terra, come detto, sono però assai più antiche. A testimonianza di ciò è la cittadella di Erbil, patrimonio dell’Unesco, la cui vista che domina e sovrasta il centro della capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Una presenza tanto più importante, in quanto sia la furia iconoclasta dell’Isis che il boom edilizio degli ultimi decenni hanno cancellato molte delle tracce storiche di questa terra in rapida evoluzione. E proprio la cittadella è al centro di un progetto di studio e valorizzazione promosso dalle autorità kurde insieme con la «Missione archeologica italiana nel Kurdistan iracheno» (Maiki: www.maiki.it), portata avanti da ormai molti anni dall’Università la Sapienza di Roma.
L’eccezionalità di questa altura artificiale, simile a quella che domina il centro di Aleppo in Siria, sta nella sua capacità di raccontare come un libro aperto migliaia di anni di storia racchiusi nei vari strati di sedimentazione di cui è composta. I reperti più antichi trovati in essa risalgono, infatti, addirittura al Paleolitico. Su questa altura sorgeva un tempo di Ishtar, ed oggi, racchiusa fra la possente cinta muraria, si trovano case storiche d’epoca ottomana, oltre che una moschea. Un altro importante lavoro archeologico, sempre italiano, è quello dell’Università di Udine, impegnata a investigare e valorizzare la piana di Ninive. Un progetto, questo, che ha individuato oltre centocinquanta insediamenti che coprono un arco cronologico che parte dalla preistoria per giungere fino all’epoca ottomana. Grande attenzione è poi riservata alla cultura assira, un altro importante tassello della storia di questa regione. Infine, come detto, proprio qui potrebbe aver avuto luogo una delle battaglie più importanti della storia antica. Come si legge in un articolo apparso di recente sul bimestrale Archeologia Viva:
«Le indagini degli archeologi udinesi hanno confermato che la storica battaglia di Gaugamela, vinta da Alessandro Magno contro il persiano Dario III nel 331 a.C., si svolse probabilmente nella grande piana di Navkur, al cui centro si trova il sito di Tell Gomel. Grazie a una precisa ricognizione delle fonti testuali, unita a un’esplorazione topografica, è stato accertato che la zona ha le caratteristiche presenti nelle antiche descrizioni».
Uno sviluppo convulso
Meno suggestivo è invece il lato moderno, del tutto preponderante, delle città kurde irachene di oggi, che è però anch’esso parte integrante della vita di questa regione, nient’affatto statica o persa in un suo lontano passato. Certo è che le maggiori città, quali Erbil e Dohuk, appaiono edificate in fretta e furia negli ultimi decenni, lasciando forse poco spazio sia alla memoria che all’immaginazione. Uno sviluppo convulso e, soprattutto nella capitale, per molti aspetti fuori controllo, ma che, esattamente come nell’Italia del dopoguerra, ha rappresentato per i Kurdi il simbolo liberatorio di una rivalsa nei confronti di un passato di repressione e sofferenze. Un panorama urbano, quello contemporaneo, dove a dominare sono anonimi quartieri sorti dal nulla e centri commerciali, e dove la disuguaglianza segna purtroppo in modo netto la differenza fra un’élite assai esigua e la larga maggioranza della popolazione molto lontana dagli standard dei primi.
A rendere ancora più stridente questo contrasto è la massiccia presenza, percepibile non appena si esce fuori dalle città, dei campi di profughi e sfollati. Si stima infatti che siano più di due milioni i rifugiati e sfollati interni presenti nel Kurdistan iracheno. Secondo il governo regionale del Kurdistan, questi rappresenterebbero oggi il 28% della popolazione totale della regione. Cifre importanti, che dovrebbero far riflettere chi oggi parla con troppa leggerezza di un’invasione in Italia o in Europa. Campi, quelli che ho visitato, dove manca di tutto: dall’elettricità alle cure mediche, alle terapie di recupero per i molti profughi che hanno subito violenze indescrivibili da parte dell’Isis e non solo.
Indipendenza da Baghdad?
Il tema politico più importante dibattuto in questi mesi dai Kurdi iracheni è quello di un possibile referendum sull’indipendenza da Baghdad, più volte annunciato, e sempre con maggior insistenza, ma finora non ancora messo in atto. Secondo gli interpreti più smaliziati, si tratterebbe solo di un escamotage per strappare ulteriori concessioni all’Iraq. Ma è pur vero che non va sottovalutata la portata simbolica dell’evento, il cui richiamo andrebbe a travalicare i confini della regione. Per i Kurdi, dopo un secolo di lotte, una simile opportunità rappresenterebbe un’occasione storica forse irripetibile. Certo è che a Erbil, a Dohuk e in altre città è assai raro vedere una bandiera irachena, mentre il tricolore kurdo, con il sole al centro, sventola con orgoglio ad ogni angolo e in ogni occasione.
Legata a doppio filo alla politica è l’economia del Kurdistan iracheno, marcata da diseguaglianze feroci, anche se, almeno per gli standard mediorientali, la povertà non è a livelli fuori controllo.
Una triste realtà di questa regione è poi la corruzione, come mi racconta un’antropologa sociale che ho intervistato a Dohuk, e che mi ha chiesto di rimanere anonima. Un argomento tabù, difficile e pericoloso da trattare per i media locali, che pure hanno conosciuto negli ultimi anni (si pensi al caso della televisione satellitare Rudaw, vedi foto a lato) un successo internazionale senza precedenti. Oltre al settore delle costruzioni, e al notevole sostegno finanziario ricevuto dai creditori internazionali, a fare la differenza nell’economia locale è la presenza del petrolio. Causa di frizione fra i Kurdi e Baghdad, una parte dei proventi di questa importante risorsa ha sostenuto lo sviluppo economico della regione, attirando l’attenzione di due potenze regionali come la Turchia, dove giunge la pipeline Kirkuk-Ceyhan da cui passa il petrolio kurdo, e l’Iran, che punta a sviluppare nuovi progetti.
Piccole e grandi frontiere
Se non mancano le basi storiche, economiche e sociali per un futuro prospero e democratico che superi le tante problematiche del presente, vi è però un ostacolo fondamentale da superare: la guerra, che insanguina da tanti, troppi decenni il Kurdistan iracheno. Se il germe del radicalismo non ha attecchito in una società in buona parte laica come questa, il contesto geopolitico incandescente ha lasciato però poca scelta alla società kurda, che vive in uno stato di perenne militarizzazione. Ed ecco allora che una delle presenze più evidenti, che scandiscono continuamente i panorami mozzafiato di questa regione, è quello dei check point militari. Piccole frontiere che moltiplicano le grandi frontiere e le rafforzano, lacerazioni del passato e del presente di questa terra.
Simone Zoppellaro
Dalla tolleranza ai drammi del presente
I cristiani e le altre minoranze religiose
Per cristiani dell’Iraq – passati da 1,4 milioni a soltanto 250 mila persone – il presente è drammatico. E tuttavia almeno nel Kurdistan la tolleranza religiosa resiste.
Circa il 94% dei kurdi iracheni sono musulmani, con una netta prevalenza di sunniti e una minoranza sciita nella zona di Khanaqin, nei pressi del confine con l’Iran. Il sufismo ha una ruolo importante nella regione, come si evince dal fatto che i maggiori leader kurdi siano affiliati a questa corrente.
Dall’avvento dell’islam in avanti, e ancora fino a un’epoca assai recente, il Medio Oriente non ha mai smesso di essere patria di una pluralità religiosa sorprendente, inimmaginabile nell’Europa preilluministica. Una realtà storica diametralmente opposta a quella prevalente nell’immaginario comune e nei media, che tendono a rappresentare la religione islamica come unicamente fanatica, intollerante e spietata nei confronti delle altre fedi. In realtà, ebrei, cristiani e zoroastriani – fra gli altri – hanno goduto per secoli sotto la mezzaluna di una libertà inconcepibile in Occidente, giungendo in moltissimi casi ai massimi vertici della vita politica, culturale ed economica dei territori dell’ecumene musulmana. Un patrimonio religioso, sempre declinato al plurale, che neppure la cieca violenza del fondamentalismo islamista è riuscita a sradicare del tutto.
Una tolleranza che affonda peraltro le sue radici nel dettato coranico stesso, che riconosce e tutela – accanto alla nuova fede di Muhammad – le altre religioni monoteistiche preesistenti, garantendo loro buoni margini di autogoverno per molti aspetti della vita privata e religiosa delle comunità minoritarie. Alle «genti del Libro», come le definisce il Corano alludendo alla Bibbia, come alla Torà e all’Avesta, va così garantita protezione da parte della maggioranza musulmana, a patto di un versamento di un’imposta personale chiamata jizya. A testimonianza ulteriore di una relativa apertura, come dimostrano gli studi più recenti in questo campo, anche l’estrema lentezza con cui la conversione all’islam si affermò nei territori via via conquistati nell’impero nato con la nuova fede del profeta Muhammad.
Caso esemplare a tal proposito è quello dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, quando la presenza di cristiani ed ebrei nelle corti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale divenne così forte da minacciare la stessa egemonia culturale e religiosa dei musulmani. Questo grazie alla presenza di numerosi cristiani fra le fila dei mongoli stessi, fra cui generali di primo piano e persino alcune regine.
Il Kurdistan, esempio di pluralità di fedi
In tutto questo, i territori facenti oggi parte del Kurdistan iracheno – con la loro storia millenaria – rappresentano un caso positivo esemplare, che si distingue in modo netto dalla persecuzione che afflige le minoranze nelle zone fuori della regione. Anche il viaggiatore più distratto non potrà fare a meno di notare la sorprendente presenza di una pluralità di fedi, una accanto all’altra, i cui segni sono assai diffusamente presenti, nonostante le brutali persecuzioni degli ultimi anni. Nel territorio della Piana di Ninive, ad esempio, affiorano spesso nel paesaggio urbano e nelle campagne i profili di chiese e croci, oppure i bianchi tempietti della minoranza yazida con il loro caratteristico profilo conico. Oltre a ciò, armeni e siriaci – nonostante la drammatica crisi del cristianesimo iracheno dopo l’invasione americana del 2003 – continuano a trasmettere di generazione in generazione non solo la loro fede e il loro patrimonio culturale e liturgico, ma anche le loro lingue, diverse da quelle della maggioranza kurda e araba. In queste lingue si canta, si prega e si tengono le funzioni religiose nelle chiese, spesso estremamente suggestive. In diverse scuole e nelle parrocchie si studiano e si coltivano così il neo-aramaico, un’evoluzione moderna della lingua parlata da Gesù, e l’armeno, ognuna con i rispettivi alfabeti usati spesso anche nelle insegne e nei negozi. Lettere che si fanno simbolo di un’identità rivendicata con orgoglio nello spazio pubblico, di un’appartenenza che sfida apertamente l’insorgere del fondamentalismo in tutto il Medio Oriente, da cui per fortuna – oggi come ieri – il Kurdistan è ancora in larga parte immune.
Ma non solo i luoghi di culto e le insegne a marcare la presenza delle minoranze religiose nel territorio. Nel villaggio cristiano di Alqosh, ad esempio, sventola con orgoglio su molte case la bandiera siriaca, mentre nel villaggio di Havresk, allo stesso modo, non manca appeso alle finestre il tricolore armeno. Piccoli segni che però non possono lasciare indifferenti, dato il contesto in cui si trovano: quest’ultimo villaggio, ad esempio, è ad appena a una trentina di chilometri dalla diga di Mosul, città ancora contesa fra lo Stato islamico e Baghdad. E proprio in molti di questi villaggi e insediamenti cristiani e yazidi si incontrano di continuo sfollati interni sfuggiti dalla furia omicida dell’Isis. Un gruppo, quest’ultimo, che con la assurda pretesa di richiamarsi ai fondamenti del credo islamico rinnega invece oltre un millennio di storia che, pur fra eccezioni e contraddizioni a volte violente, va ascritto sotto il segno benevolo della tolleranza religiosa. Un’eredità portata avanti invece dai kurdi, una società dai tratti in larga parte secolare, almeno per gli standard vigenti oggi nel Medio Oriente.
La paura
Oggi, purtroppo, la paura è il sentimento dominante fra le minoranze, che non possono dimenticare i genocidi, le stragi, la resa in schiavitù e i continui soprusi che ancora avvengono nei loro confronti a poche decini dei chilometri da qui. Questa gente non parla d’alto, e non potrebbe essere altrimenti. Un timore tanto più grande, ripetono i cristiani di qui, proprio perché non limitato ad alcuni gruppi terroristici, ma anche alle zone grigie, alle complicità e ai fiancheggiamenti dimostrati da tanta gente comune, soprattutto nei centri a maggioranza araba e sunnita. La paura la fa da padrona, dicevamo, ma insieme dominano anche l’amarezza e la solitudine. La domanda che ricorre forse più di frequente nelle persone che ho intervistato – a volte esplicitata, altre semplicemente implicita, ma sempre presente – è perché l’Europa e l’Occidente si ostinino a voltarsi dall’altra parte di fronte al perpetuarsi delle orribili violenze dell’Isis, e non solo, nei confronti delle minoranze. Una frustrazione che si alterna però di continuo al sogno (perché di ciò soltanto si tratta) di una salvezza che giungerà presto da Occidente, dando finalmente sicurezza e autonomia alle minoranze dell’Iraq. Difficile dire se ci credano davvero, in un Medio Oriente dominato in modo sempre più esclusivo dai semplici interessi economici e dallo sfruttamento. Certo è che la speranza, anche in questi luoghi che traboccano di sofferenze, trova sempre la sua via nella mente e nei cuori degli uomini. Non sarà un caso: troppo il bagaglio di orrore che questa gente porta sulle spalle ogni giorno da anni.
La sparizione dei cristiani
Per quel che riguarda i cristiani in Iraq, la situazione è particolarmente drammatica. Si è passati da 1,4 milione di cristiani, prima del 2003, a meno di 250.000 persone. Il rischio concreto, come denuncia il recente rapporto «No Way Home: Iraq’s Minorities on the Verge of Disappearance», da cui riprendiamo questi dati, è quello di una definitiva scomparsa di questa e delle altre minoranze dal paese. Siamo dunque sull’orlo di un baratro, dopo oltre un millennio di convivenza. «Tredici anni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti di lungo termine per la società irachena», ha dichiarato Mark Lattimer, direttore esecutivo di Minority Rights Group International. «L’impatto sulle minoranze è stato catastrofico. Saddam era terribile, ma la situazione da allora è peggiorata. Decine di migliaia di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose sono state uccise e in milioni sono fuggiti per avere salva la vita».
Forse ancora più drammatica, rispetto ai cristiani, è la situazione dell’altra minoranza religiosa più importante del Kurdistan iracheno, quella yazida (cui abbiamo dedicato un dossier su Missioni Consolata di marzo 2017). Il tutto è avveuto con la complicità di molti arabi sunniti, i quali, vedendosi spodestati dal loro ruolo egemone con la caduta di Saddam, e sentendosi discriminati a loro volta dai governi succedutisi negli ultimi anni a Baghdad, hanno almeno in parte appoggiato l’ascesa dell’Isis sperando in una rivalsa sociale ed economica.
Piccoli segni di speranza
In questa situazione tragica non mancano però alcuni segni positivi che ho riscontrato nel mio viaggio. Ora più che mai, è giusto dare voce anche ai casi positivi, se non altro per non dare adito al messaggio nichilista – spesso del tutto egemone, ma falso – che la violenza sia una situazione invariabile e immutabile nel mondo musulmano. Non lo è oggi, come non lo è mai stata. Gli uomini sono liberi di scegliere il loro destino, come non lo siamo di scegliere se voltarci dall’altra parte o se invece di impegnarci per scongiurare guerre e catastrofi. Nella città di Dohuk, ad esempio, il sacerdote armeno locale mi ha raccontato come la chiesa, da poco costruita e il centro culturale Ararat ad essa adiacente – usato per matrimoni e feste – siano state costruite con il sostegno pubblico della regione kurda. O ancora, ho avuto occasione di intervistare Hussein Hasun, yazida, consigliere speciale del primo ministro del Kurdistan per i procedimenti legali legati ai genocidi. Una parola che usa al plurale: le autorità kurde, infatti, nonostante la scarsa collaborazione di Baghdad, stanno raccogliendo testimonianze ed ogni genere di prove per dimostrare che le violenze subite dalle minoranze religiose in questi anni siano casi di genocidio. No
n mancano infine contatti e incontri fra le diverse comunità religiose, e il rispetto reciproco è ancora alla base della convivenza fra i cittadini di diverse fedi, nonostante le ferite del presente.
Da segnalare infine come sia stato da poco inaugurato un tempio zoroastriano a Sulaymaniyah, oltre al progetto di edificare una sinagoga ad Ebril, dove lo scorso anno si è tenuta per la prima volta una commemorazione dell’Olocausto ebraico insieme alla piccola comunità ebraica locale. Piccoli segni, forse, ma che testimoniano che è una sfida che si può e si deve vincere, quella per la sopravvivenza dei cristiani e delle minoranze tutte, almeno qui in Kurdistan iracheno. Una sfida tanto più importante, proprio perché unica, preziosa e antica è l’eredità religiosa di cui è depositaria questa terra. E mentre Baghdad e la Siria sono allo sbando, potrebbe essere proprio da qui – dai kurdi, essi stessi vittime di tante persecuzioni nell’ultimo secolo – che la convivenza potrà rinascere appieno, scongiurando il rischio che il cristianesimo e lo yazidismo in Medio Oriente divengano solo un ricordo, cancellati per sempre, come in una tabula rasa.
Simone Zoppellaro
Schede
Lotte interne e strane alleanze
La scena politica e militare del Kurdistan iracheno di oggi appare dominata in modo pressoché esclusivo da due partiti storici, conosciuti con due acronimi, il Pdk e l’Upk. Il primo, il «Partito democratico del Kurdistan», affonda le sue radici nella Repubblica di Mahabad, dove è nato, e nella figura carismatica del suo leader combattente, Mustafa Barzani. Una storia importante, raccolta non a caso dal figlio di questi, Masud Barzani, l’attuale presidente della regione kurda. Più recente è invece il Upk, l’«Unione patriottica del Kurdistan», partito fondato a metà degli anni settanta e guidato oggi dall’ex presidente iracheno Jalal Talabani. Anche il suo successore alla guida del paese, Fuad Masum, è fra i fondatori del partito, nato da una costola del Pdk, critica nei confronti della leadership dopo la sconfitta dei Kurdi nella rivolta del 1974-1975. I due partiti, in seguito, sono arrivati più volte a scontrarsi, fino a giungere a una vera e propria guerra civile negli anni Novanta.
Se comune a entrambi è una storia di lotte per la causa kurda, e l’ambizione dell’indipendenza da Baghdad, a distinguere oggi i due partiti è anche un diverso orientamento geopolitico: se il Pdk di Barzani è particolarmente vicino alla Turchia, prima sostenitrice del Kurdistan iracheno, l’Udk guarda invece più a Oriente, all’Iran. Due potenze regionali che hanno un’influenza enorme sulla vita politica ed economica del Kurdistan iracheno. E così, per un amaro paradosso, Erbil finisce per essere legata a doppio filo ad Ankara, ovvero con il nemico più acerrimo dei kurdi turchi e siriani. Un legame, questo, che produce una grave frattura all’interno del mondo kurdo. A tal proposito, non va trascurata infine la presenza politica e militare del Pkk, il «Partito kurdo dei lavoratori» di Ocalan, per quanto i suoi supporter vengano tenuti ai margini dai vertici politici ed economici di Erbil. Una presenza che ha prodotto, anche di recente, frizioni e persino scontri aperti con gli altri partiti kurdi.
Si. Zo.
Terra?adorata
Ricordiamo una poesia del poeta kurdo Hemin Mukriyani (1921-1986), uno degli eroi della breve esperienza della Repubblica di Mahabad, stroncata nel sangue:
«Terra adorata, mia terra,
amore che ho perduto
se tu fossi remota
in un cielo inaccessibile
o su una vetta ai limiti del mondo
saprei correre da te
anche con scarpe di ferro.
Ma ti separa da me un tratto sottile.
L’invasore lo chiama confine».
Dal volume «Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo», a cura di Laura Schrader (Newton, 1993).
I domenicani Garzoni e Campanile
I primissimi studi europei sulla lingua e la cultura dei kurdi sono opera di due missionari italiani, veri e propri pionieri in questo campo: i padri domenicani Maurizio Garzoni (1734-1804) e Giuseppe Campanile (1762-1835). Il primo raggiunge Mosul nel 1762, per poi stabilirsi nella vicina Amadiya, città ieri come oggi a maggioranza kurda. Qui studia e raccoglie materiali per la sua opera, la «Grammatica e vocabolario della lingua kurda», la prima in assoluto nel suo genere, pubblicata a Roma nel 1787. Pochi decenni più tardi toccherà invece al suo successore, Giuseppe Campanile, eletto nel 1800 Prefetto apostolico nella Mesopotamia e il Kurdistan, un altro primato: quello di aver pubblicato, con la sua «Storia della Regione del Kurdistan» pubblicata a Napoli nel 1818, il primo resoconto organico su questa parte del mondo. Un lavoro ulteriormente arricchito dalle esperienze personali dell’autore. Entrambe le opere, al di là del primato temporale, rappresentano ancora oggi fonti preziose ed uniche nel ricostruire la storia, la lingua e la cultura dei kurdi nel loro tempo. A un missionario di Basilea, Gottlieb Christian Hörnle (1804-82), spetterà invece la prima versione biblica in questa lingua, con la traduzione del Vangelo di Giovanni nel dialetto kurdo di Mokri.
Si.Zo.
Rabban Ormisda
«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo». Con queste parole il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako, ha lanciato ad aprile la Marcia Interreligiosa della Pace, che ha coinvolto nella settimana santa pellegrini di varie nazionalità, oltre a molti abitanti della Piana di Ninive appartenenti alle diverse religioni. Punto di arrivo di questa marcia, luogo per nulla casuale, quello che è forse il luogo più suggestivo dell’intero Kurdistan iracheno: il monastero di Rabban Ormisda, situato nei pressi del villaggio cristiano di Alqosh.
Fondato nel VII secolo, porta il nome del monaco che lo fondò: Rabban Ormisda. Si tratta di un capolavoro nell’interazione fra architettura e paesaggio. Scavato nella roccia sulla parete di un monte affacciata sulla Piana di Ninive, il monastero è un angolo di tranquillità e pace in una terra che continua ad essere segnata dalla guerra. Da qui si può vedere l’orizzonte per chilometri, in un paesaggio mozzafiato, il tutto con una doppia funzione: difensiva ed estetica. Per alcuni secoli, fu sede dei patriarchi nestoriani, a testimonianza dell’importanza rivestita. Più volte distrutto e ricostruito, l’ultima volta a metà ottocento con il supporto del Vaticano, questo monastero e il vicino villaggio rappresentano un simbolo di pace e convivenza, dato che per secoli furono sede di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per ebrei e musulmani.
Si.Zo.
Infodossier
Autore e curatore di questo dossier:
Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016), Armenia (ottobre 2016) e il dossier sugli Yazidi (marzo 2017).
A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Cari Missionari
Mama Ufariji
Era il lontano agosto del 1979 quando per la prima volta volai in Kenya. Non era il classico viaggio turistico, era un viaggio diverso, speciale, organizzato per i missionari da Alda Barone che, facendoti visitare il Kenya, ti faceva conoscere la realtà delle missioni della Consolata, era insomma il viaggio che da anni sognavo di fare. L’itinerario della prima settimana prevedeva la visita di diverse missioni ed è così che, per la prima volta, ho avuto l’opportunità di incontrare e conoscere i missionari con i quali sono tutt’ora in contatto. Padre Adolfo De Col era a Kangeta (nel Meru) all’epoca e padre Giuseppe Quattrocchio era a Westland (Nairobi) a gestire il suo negozio con tanti oggetti che tu acquistavi per portarti a casa un pezzo di Kenya (ora sono tutti e due in casa madre a Torino, sempre arzilli nonostante gli anni si facciano sentire, ndr). A Kangeta ho tenuto a battesimo una bellissima bambina, Cristina, che ho potuto seguire per anni.
A quella prima esperienza ne seguì una nel 1982 sempre in agosto quando, con mio marito Gianni, siamo ritornati in Kenya per trascorrere alcune settimane nella missione di Kangeta. Viaggio indimenticabile anche perché eravamo a bordo del primo aereo che arrivava dopo il colpo di stato. Ma questa è un’altra storia. Il periodo a Kangeta è stato incredibilmente importante perché ha consolidato il mio rapporto con la congregazione che non ho più lasciato.
Sono poi trascorsi moltissimi anni, perché nel frattempo sono diventata mamma ed ho aspettato che mio figlio crescesse per poter ritornare con lui e far conoscere anche a lui quel mondo al quale sentivo di far parte. Così nel luglio 2000 siamo ritornati tutti e tre insieme. Il quarto viaggio risale al giugno del 2006 sempre per la durata di qualche settimana passando da una missione all’altra per reincontrare gli amici missionari e consolidare la nostra amicizia. Sono ritornata poi nel luglio del 2009 portando un’amica.
Quando decisi di smettere di lavorare per poter finalmente realizzare il sogno che avevo nel cassetto per quasi 40 anni, e cioè di trascorrere un periodo più lungo in missione, ne ho parlato con un amico missionario che mi fece conoscere la Familia ya Ufariji (a Kahawa West, Nairobi) che visitai nell’aprile 2010. Qui vengono ospitati bambini che vengono trovati a vagabondare nelle strade, alcuni sono orfani, alcuni hanno famiglia ma la realtà nella quale vivono è talmente difficile che i genitori, magari anche alcolizzati, non sono in grado di provvedere loro.
Così ebbe inizio la più bella «avventura» della mia vita. Era il gennaio 2011. Trascorsi ben tre mesi con i «miei» ragazzi a Kahawa West. Certo non è stato così semplice all’inizio, ho dovuto farmi accettare dai ragazzi, con i più piccoli naturalmente è stato più facile, ma con i più grandi c’è voluto un po’ di tempo. Alla fine ce l’ho fatta, ed è stato veramente gratificante. Con i missionari e lo staff di Familia invece non c’è stato alcun problema, sono stata accettata da tutti con affetto e mi hanno fatto subito sentire parte della famiglia.
Da parte mia c’è sempre stata la massima disponibilità per aiutare in molteplici attività: cucire, lavare, cucinare, seguire i ragazzi nei compiti a casa, metterli a letto alla sera, ma soprattutto cercare di trasmettere loro tutto l’amore di cui ero capace e di cui avevano tanto bisogno. Insomma ero diventata «mamma Ufariji» per tutti.
Sono così ritornata l’anno successivo e quello dopo ancora. E così quest’anno è stato il mio settimo anno da keniana, perché ormai mi sento di esserlo al cinquanta per cento. I miei ragazzi sono cresciuti, i grandi sono usciti, perché a diciotto anni per legge si deve uscire dalla Familia; qualcuno è già papà, molti hanno trovato un lavoro, alcuni hanno finito gli studi universitari, altri stanno ancora studiando, pochissimi hanno scelto una strada sbagliata. Insomma, come in tutte le famiglie, ci può sempre essere una pecora nera. Ma il lavoro che hanno fatto negli anni i missionari è fantastico: hanno cresciuto i bambini con amore, li hanno fatti diventare uomini e hanno fatto il possibile per prepararli alla vita che dovevano affrontare. Negli anni si sono aggiunti altri piccoli che hanno arricchito la famiglia ed hanno contribuito alla sua continuità come realtà molto importante per la loro crescita.
Certo che di soddisfazioni ne ho avute ed in abbondanza. Ho tanti episodi che ricordo con piacere che mi fanno capire di essere stata utile ed il mio lavoro necessario. Mi sopravvaluto? Spero di no, gli abbracci dei ragazzi quando mi accolgono al mio arrivo, i contatti che continuo ad avere con i più grandi anche se sono già usciti, il rapporto bellissimo ed affettuoso con i missionari e lo staff mi fa dire che ho scelto e seguito la strada giusta, che spero di poter proseguire per molti anni ancora, fino a quando il buon Dio continuerà a regalarmi una buona salute.
Liviana Valle o, meglio, mamma Ufariji, 17/05/2017
Complimenti
Complimenti, padre Gigi, per «Interrogativi» (MC 4/2017), così puntuale, limpido, e ricco di indicazioni e di suggerimenti. E soprattutto di «chiamate a correo» (richiamo alla corresponsabilità, ndr) quanto mai opportune e necessarie. Cordialmente.
Ferdinando Albertazzi 18/05/2017
Grazie dei complimenti. Sono un incoraggiamento a fare ancora meglio. Ci proviamo con l’aiuto di Dio e mettendoci il cuore.
Capitolo generale
Spett.le Direttore Missioni Consolata,
ho dato una scorsa alla vostra rivista di maggio, notando che sul Capitolo in corso avete dedicato solo l’editoriale e un trafiletto a pagina 7. Data l’importanza del Capitolo per l’istituto, mi sarei aspettato maggiore spazio ad esso dedicato, almeno il documento redatto dal padre generale di preparazione e programmazione, debitamente commentato.
Don Pietro C., vostro lettore, 12/05/2017
Essendo io stesso membro del capitolo generale, mi sono trovato un po’ «inguaiato» da un accumularsi di impegni da portare a termine prima dell’inizio del capitolo stesso il 22 maggio, senza avere il tempo materiale per fare quello che lei ha suggerito e che anch’io avevo pensato: una presentazione articolata dei punti forti del dibattito capitolare, in una maniera comprensibile a tutti. Ho optato per l’editoriale nella speranza di riuscire poi, durante e, soprattutto, dopo il capitolo, a condividere con i lettori e gli amici il cammino che sarà fatto. Grazie per il suo accompagnamento nella preghiera, affinché, come ha scritto al nostro padre generale «la Consolata, quale Madre del suo istituto e Consigliera mirabile, vi consoli aiutandovi a realizzare al meglio i lavori di preparazione, di esecuzione e attuazione del poderoso impegno capitolare».
Le sto scrivendo (a inizio giugno) in uno dei pochi momenti liberi del capitolo, al quale sono stato, tra l’altro, l’ultimo ad arrivare per poter partecipare il 21 maggio alle cresime dei ragazzi della parrocchia in cui sono viceparroco a Torino.
Siamo riuniti a Roma in 45 missionari: 23 africani, 8 latinoamericani e 14 europei. Rappresentiamo missionari di 23 nazionalità diverse che lavorano in 26 paesi in quattro continenti (non abbiamo nessuno in Oceania). Nel cuore portiamo la passione per la Missione, che è opera di Dio e non nostra, e che vorremmo servire con dedizione e «professionalità». Siamo coscienti che per fare questo servizio nella Chiesa non basta la buona volontà e non servono operazioni cosmetiche, ma ci viene richiesta una vera conversione, a cominciare da noi stessi.
Quasi in contemporanea con noi, anche le nostre sorelle, le missionarie della Consolata, dal primo maggio, stanno facendo il loro capitolo, occasione di grazia per rilanciare con coraggio il loro servizio alla Missione come impegno a vita che le porta a uscire dai propri paesi di origine per l’annuncio del Vangelo ai non cristiani. Hanno già rieletto la loro superiora generale, confermando suor Simona Brambilla per un altro sessennio ed eletto un nuovo consiglio. A loro va la nostra vicinanza nella preghiera, nella condivisione della stessa vocazione, dello stesso carisma e degli stessi fondatori, il beato Giuseppe Allamano e la Vergine Consolata.
Mentre le scrivo siamo a metà del capitolo. Quando questa rivista sarà nelle sue mani avremo già concluso e saranno stati eletti (o rieletti) i membri della nuova direzione generale. Sul numero di agosto-settembre della rivista spero proprio di raccontarvi qualcosa dal di dentro di questo evento così importante per noi.
Mancanza di serietà?
Buongiorno,sono scandalizzato da due testi apparsi sull’ultimo numero della vostra rivista (MC maggio 2017): a pagina 8 si parla dei Dalit, ma non si dice cosa siano. Sono persone costrette a togliere dalle latrine delle altre caste le feci umane, spesso a mani nude, ecc. (v. la vostra rivista del marzo 2016). Alla pagina successiva, sotto il titolo che sembra sarcastico di «Libertà religiosa», si parla delle attività religiose in Cina, senza dire le cose essenziali: innanzitutto la libertà religiosa lì non esiste affatto, nemmeno sulla carta. Anzi, i veri credenti sono puniti coi lavori forzati nei laogai, con le torture e la pena di morte. Perciò vi chiederei perlomeno, nel prossimo numero, di scusarvi per la disinformazione, e soprattutto di trattare quei temi, magari succintamente, ma con la dovuta serietà. Cordiali saluti, in Cristo. Nel frattempo sospendo ogni mio finanziamento alla vostra rivista, nella speranza di poterlo riattivare.
dott. Carlo C. 15/05/2017
Caro dott. Carlo,
saluti a lei. In verità la sua email mi ha sorpreso. Ammetto che il semplice titolo «Libertà religiosa» non è forse esaustivo, ma certo non è sarcastico. I contenuti della breve notizia sono molto chiari e non lasciano dubbi. Quanto ai Dalit, non sono sconosciuti ai lettori di MC; lei stesso ci ricorda l’ultima volta che ne abbiamo parlato in un articolo ben documentato sulla loro condizione. Lo stile delle notizie in quella rubrica è molto scarno ma non superficiale, e i titoli devono essere brevi.
Onestamente non pensiamo di essere stati ingiusti verso i Dalit né superficiali su un tema grave come quello della libertà religiosa cui dedichiamo da anni ampio spazio, né scorretti con i nostri lettori che proprio dalla nostra pubblicazione ricavano informazioni spesso ignorate dagli altri media. Certo, non siamo esenti da errori, ma le assicuriamo che cerchiamo di fare il nostro servizio di informazione con amore alla verità e profondo rispetto per le persone di cui scriviamo e per i nostri lettori.
Sorpresa e tristezza
Con sorpresa ho visto la pubblicità sul quotidiano «la Stampa» di martedì 16 maggio u.s. con la richiesta di sostenere le Vostre opere in varie parti del mondo. Purtroppo i brutti articoli apparsi su «la Repubblica» riguardanti le lotte intestine nel vostro istituto (Roma contro Torino) ed il mormorio negativo tra i cittadini non lasciano immaginare pensieri benevoli nei vostri confronti da sempre considerato dai piemontesi ente con un alto impegno verso i più deboli. Chiedo scusa ma è lo sfogo di una persona che da generazioni ha sentito parlare delle vostre attività meritorie e ne ammirava l’operato. Con ossequio.
Fiorella Comoglio 22/05/2017
Gentile Sig.ra Fiorella,
ho ricevuto la sua email piena di tristezza alle notizie apparse su «la Repubblica». Quegli articoli hanno fatto male anche a noi. Le garantisco che molti missionari hanno pianto di fronte a quelle notizie che, pur avendo un fondo di verità, vengono presentate in modo da infangare tutto l’istituto. Le posso comunque assicurare che non c’è alcuna lotta intestina tra i missionari di Roma e quelli di Torino, solo un faticoso cammino per gestire con trasparenza, onestà e responsabilità, un bene sul quale l’istituto ha investito allo scopo di sostenere le sue opere in missione e i suoi missionari anziani.
Gli errori (probabilmente anche in buona fede) di alcuni missionari, non intaccano l’impegno generoso per i più deboli di centinaia di missionari della Consolata. Come direttore della rivista e impegnato nella comunicazione da quaranta anni, e come missionario che ha passato 21 anni in Kenya, conosco bene il lavoro dei miei confratelli e so come la maggior parte di loro abbia veramente donato tutta la vita e la stia dando ogni giorno per testimoniare il Vangelo ed essere con i poveri e per i poveri. Vivendo ora in Casa madre a Torino, le assicuro che è per me una sofferenza grande vedere alcuni di loro tornare dalle missioni consumati, con una sola valigia (perché hanno dato tutto e lasciato poi tutto laggiù) e malati. Sono davvero testimoni viventi di una dedizione che nessuno scandalo può cancellare.
Vorrei, tramite la rivista e anche la piccola campagna che abbiamo fatto per il 5×1000, continuare a dar voce all’«erba che cresce in silenzio», come i molti miei confratelli che continuano a dare la loro vita per servire la Missione di Dio, senza farmi spaventare dal fragore dell’«albero che cade».
Brasile: Dove un indio
non vale una vacca /2
Nel Brasile degli scandali e dei politici corrotti, l’oligarchia dei proprietari terrieri ha assunto il potere e sta smantellando l’apparato giuridico che aveva riconosciuto i diritti dei popoli indigeni, a iniziare dal diritto alla terra. La vicenda che vede coinvolti i Guarani Kaiowá del Mato Grosso del Sud è soltanto uno dei tanti esempi possibili. Ne abbiamo parlato con il cacique Ládio Veron (Ava Taperendi), il cui padre venne assassinato nel 2003 dai sicari dei latifondisti.
Tra il 1915 e il 1928 nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud furono create 8 riserve indigene per un totale di 17.975 ettari. La maggiore (e più problematica) tra queste riserve è quella di Dourados, sorta nel 1917. Dourados è vasta circa 3.600 ettari, oggi occupati da una popolazione di due etnie (Guarani e Terena) per un totale di oltre 15.000 abitanti (1).
I numeri sono importanti, ma detti così non sono sufficienti per riuscire a comprendere la situazione. È utile allora fare una piccola e facile ricerca sul web. Cerchiamo, per esempio, le fazendas (aziende agricole) in vendita nel Mato Grosso del Sud, esteso quanto la Germania ma con nemmeno tre milioni di abitanti. Ebbene, su YouTube (2) ne possiamo trovare varie. Prendiamone tre a caso. Le loro estensioni sono di 22.410 ettari, di 28.000 ettari e di 41.000 ettari. Si possono vedere le grandi case dei proprietari (costruite nei pressi dei pochi alberi rimasti), i recinti con le vacche e i cavalli, gli immensi pascoli o le estensioni con le monoculture, le strade sterrate in terra rossa, i corsi d’acqua o i laghetti. La terza fazenda viene ceduta con tutta la mandria di 22.000 bovini.
Istruttivo è leggere i commenti di chi ha visto i video di queste fazendas in vendita. Uno dei visitatori virtuali chiede: «È con indigeni o senza? I senzaterra sono tutti una piaga» («é com índios o sem índios os sem terra todos são uma praga»).
Esproprio bianco
Lungi dal voler tentare un’analisi critica del diritto di proprietà, vogliamo mettere in evidenza alcuni fatti concreti. «A partire dal 1920, e più intensamente a partire dal 1960, ebbe inizio una colonizzazione sistematica ed effettiva dei territori guarani, innescando un processo di espropriazione metodica delle loro terre da parte dei coloni bianchi» (pib.socioambiental.org). Insomma, i proprietari originari delle terre erano gli indigeni e lo erano da secoli. Con la creazione delle riserve indigene da parte del «Servizio di protezione dell’indigeno» (Spi) nel Mato Grosso del Sud si diffuse il convincimento che «le fazendas occupate attualmente dai coloni e rivendicate dagli indigeni non siano mai appartenute ad essi, poiché l’idea dominante è che le terre degli indigeni siano le riserve» (XXII Simpósio nacional de história, 2003).
In un Brasile travolto dagli scandali, il Mato Grosso del Sud è un esempio lampante del progetto di criminalizzazione dei popoli indigeni e dei loro alleati messo in moto negli ultimi anni da latifondisti, potere politico dominante e molti media.
Oggi nel Mato Grosso del Sud, oltre alle riserve, ci sono 96 terre indigene (fonte Cimi, agosto 2016), quasi tutte teoriche. Nella realtà gli indigeni vivono confinati nei ghetti delle riserve o in fazzoletti di terra, se non addirittura ai margini delle strade. Stanchi di attendere di vedere attuati i propri diritti, molti gruppi hanno preso l’iniziativa da soli con la cosiddetta «retomada», il recupero, la riconquista delle loro terre.
Di fronte alla resistenza e alle iniziative indigene sono aumentati la violenza e l’odio nei loro confronti. Sono decine gli attacchi compiuti da squadre paramilitari al soldo dei latifondisti (con la complicità delle autorità). Secondo i dati del Consiglio indigenista missionario (Cimi), nel Mato Grosso del Sud sono stati 36 gli indigeni assassinati nel 2015 e 426 nel periodo tra il 2003 e il 2015. E dove non è arrivata la violenza diretta sono arrivati i suicidi: 45 nel solo 2015 e ben 752 tra il 2000 e il 2015.
L’offensiva anti-indigena del governo Temer
Il Consiglio indigenista missionario ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi lottare per i diritti indigeni e contro il sistema che li nega. L’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud ha istituito una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão Parlamentar de Inquérito, Cpi) per mettere sotto accusa il Cimi, inclusi i suoi primi rappresentanti, il presidente dom Roque Paloschi e il segretario esecutivo Cleber César Buzatto.
Nelle 222 pagine della relazione finale (Relatório final da Cpi do Cimi), presentata nel maggio 2016, le parole sono forti: «Causa indignazione, perplessità e repulsione il fatto che un’entità legata alla Chiesa cattolica abbia causato tanti danni» (pag. 194); ci sono indizi fortissimi sulla «partecipazione del Cimi nell’incitamento alla violenza e nell’invasione di proprietà private» da parte degli indigeni (pag. 205).
Latifondisti e politici non si sono fermati qui, ma hanno replicato la strategia alla Camera dei deputati federale creando una Commissione d’inchiesta sulla Funai (Fundação Nacional do Índio) e sull’Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária). Con essa si chiede l’incriminazione di decine di leader indigeni, antropologi e procuratori della Repubblica (questi ultimi successivamente esclusi) che difendono la demarcazione delle terre indigene.
L’offensiva anti-indigena del governo (golpista e corrotto) di Michel Temer pare inarrestabile. Lo scorso 9 maggio a capo della Funai è stato nominato, come ai tempi della dittatura, un generale dell’esercito, Franklimberg Ribeiro de Freitas. La Federazione dei popoli indigeni del Brasile (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil, Apib) ha giustamente parlato di un’inaccettabile militarizzazione dell’organo in vista dell’espansione delle frontiere agricole e dei progetti imprenditoriali sulle terre indigene. Queste ultime rischiano di essere ridimensionate o spazzate via se dovesse essere approvata la Proposta di emendamento costituzionale n. 215 (Proposta de Emenda à Constituição, Pec 215). Essa prevede di trasferire al Congresso nazionale la prerogativa di demarcare le terre indigene, trasformando un diritto originario in un mero oggetto di negoziazione.
Ládio Veron e la «retomada de Takuara»
Ládio Veron non vuole sorridere davanti alla fotocamera. «Non c’è niente da ridere» dice serio. Lo comprendiamo.
Cinquant’anni, cinque figli ed otto nipoti, maestro di scuola, Ládio Veron (Ava Taperendi, in lingua indigena) è cacique della comunità Guaranì Kaiowá di Takuara. La terra indigena Takuara, nel municipio di Juti, ha una superficie di 9.700 ettari. Essa coincide con alcune aziende agricole, in particolare con la fazenda Brasilia do Sul, dedita soprattutto alla monocoltura della soia (foriera di pesanti conseguenze sull’ambiente).
Tra l’11 e il 13 gennaio del 2003 il fazendeiro Jacinto Honório da Silva e suoi dipendenti assalirono l’accampamento indigeno. Alla fine arrivò anche un gruppo di sicari (pistoleiros) che attaccarono la comunità. Nella lotta che ne seguì rimase coinvolto il cacique Marcos Veron di 72 anni, che morì in ospedale per le ferite subite. Marcos era il padre di Ládio, che nella lotta per il diritto alla terra ha perso anche fratelli e parenti. «Perché dobbiamo morire per una terra che è nostra?», chiede.
Se i primi anni erano occupazioni (retomadas) di una terra reclamata, oggi Takuara ha superato il lungo e complesso processo di riconoscimento giuridico ed è a tutti gli effetti una terra di proprietà indigena. Eppure non è stata ancora restituita. Anzi, i giudici del Mato Grosso del Sud emettono continuamente ordini di sgombero. «La Funai – spiega Ládio – non ha la forza per procedere con la demarcazione delle nostre terre. Chiediamo un cambio. Chiediamo di avere in essa alcuni nostri rappresentanti. Abbiamo indigeni preparati per questo».
«A Takuara siamo circa 70 famiglie che occupano non più di 90 ettari di territorio», assicura Ládio. «Eppure dobbiamo sopportare che centinaia di camion carichi di soia passino per la nostra aldeia».
Una lotta, quella dei popoli indigeni, disperata e disperante che genera rabbia e impotenza. Ci affidiamo alle parole di un editoriale di Porantim, rivista del Cimi: «La terra è un bene comune, ereditato da tutti gli esseri che su di essa abitano. Il suo valore è incalcolabile e, proprio per questo, essa non dovrebbe essere ridotta a una merce ed essere commercializzata come un qualsiasi altro prodotto» (3).
Proprietà privata: sempre legale e legittima?
Il sentimento prevalente verso i popoli indigeni è ricordato dal missionario Egon Heck: «Rivelatrice è l’affermazione dell’ex governatore [del Mato Grosso del Sud] André Puccinelli (2007-2014): “È un crimine dare un palmo di terra produttiva agli indigeni”».
Sul sito della potente Federazione dei produttori agricoli e degli allevatori dello stato (Federação da Agricultura e Pecuária do Estado de Mato Grosso do Sul, Famasul), sospettata di armare milizie paramilitari, di indigeni non si parla se non per ricordare uno sgombero di terre da loro occupate (4).
È opinione dominante che l’agrobusiness (agronegócio) e lo sviluppo non possano fermarsi davanti alle rivendicazioni territoriali dei popoli indigeni e, men che meno, davanti alla cosmovisione indigena, considerata un insieme di concetti astratti se non inverosimili. Non importa se i diritti sono sanciti dalla Costituzione del 1988 e se l’agrobusiness arricchisce un’esigua minoranza e distrugge un bene comune quale l’ambiente naturale.
Nella presentazione dell’annuale rapporto «Violenza contro i popoli indigeni in Brasile» (Violência contra os povos indígenas no Brasil) (5), dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, ha scritto: «Denunciamo il potere giudiziario che, nei suoi giudizi, dà la priorità alla difesa della proprietà – non sempre legale, non sempre legittima – a discapito dei diritti originari dei popoli indigeni».
Paolo Moiola
Note al testo
(1) I dati sulle terre indigene sono visibili su questo sito: https://terrasindigenas.org.br. (2) La ricerca può essere fatta con questa richiesta: «fazendas para comprar no estado de Mato Grosso do Sul». (3) Editoriale di Porantim, gennaio-febbraio 2013, pag. 2. (4) Testuale: «a reintegração de posse de quatro fazendas ocupadas por índios guarani-kaiowá». Il sito della Federazione: famasul.com.br. (5) Conselho Indigenista Missionário – Cimi, Violência contra os povos indígenas no Brasil – Datos de 2015, pag. 11; il rapporto è scaricabile dal sito www.cimi.org.br.
01- Breve scheda storica
La terra indigena sono le riserve
È questo l’obiettivo dei governi brasiliani.
1610 – In una vasta regione comprendente Paraguay e porzioni di Bolivia, Brasile, Argentina e Uruguay, i gesuiti fondano le prime «riduzioni» (reducciones de indios) dove vengono accolte le locali popolazioni indigene.
1759 – 1767 – I gesuiti vengono espulsi prima dalle colonie portoghesi e poi da quelle spagnole; nel 1773 il loro ordine sarà soppresso da papa Clemente XIV; i Guaranì delle riduzioni vengono uccisi o ridotti in schiavitù.
1915 – 1928 – Il «Servizio di protezione degli indigeni» (Serviço de Proteção aos Índios, Spi) costituisce in Mato Grosso (nel 1977 divenuto Mato Grosso del Sud) 8 riserve indigene.
1920 – 1960 – A partire dal 1920 e ancora con più intensità dal 1960 inizia una sistematica colonizzazione dei territori guaranì da parte di coloni bianchi che si installano sulle loro terre distruggendo la foresta per far posto all’allevamento e all’agricoltura estensiva.
1946 – 1988 – Nel suo documento conclusivo (del 2014), la «Commissione nazionale della verità» conferma le gravi violazioni dei diritti dei popoli indigeni perpetrate nel periodo esaminato.
1967 – Durante la dittatura militare, lo Spi viene sostituito dalla «Fondazione nazionale dell’indio» (Fundação Nacional do Índio, Funai) che non cambierà le modalità d’azione.
1988 – Il Brasile adotta una nuova Costituzione nella quale vengono riconosciuti i diritti dei popoli indigeni.
2016, maggio – Viene resa pubblica la relazione finale della «Commissione parlamentare d’inchiesta» (Cpi) del Mato Grosso del Sud sull’operato del Consiglio indigenista missionario (Cimi). È un durissimo attacco all’operato del Cimi. La magistratura archivierà la relazione della Cpi nell’aprile del 2017.
2017, 9 maggio – Il governo nomina alla presidenza della Funai un generale dell’esercito Franklimberg Ribeiro de Freitas.
2017, 17 maggio – A Brasilia viene approvata la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) sulla Funai e Incra. Il relatore è il deputato Nilson Leitão, presidente del Fronte parlamentare degli imprenditori agricoli e degli allevatori (Frente parlamentar da agropecuária).
2017, 24 maggio – Impopolare, accusato di corruzione e abbandonato anche da Rede Globo, il presidente Temer rischia di essere esautorato.
(Pa.Mo.)
02 – Breve scheda etnografica
Le popolazioni dei Guaranì
Sono distribuite in cinque stati dell’America Meridionale.
Famiglia linguistica: tupi-guarani;
Dove sono: in Argentina (provincia di Misiones), in Bolivia (Chaco boliviano), in Uruguay, in Paraguay e in Brasile (Mato Grosso del Sud);
Quanti sono: in totale circa 90.000 (ma le cifre sono spesso incerte e variabili a seconda delle fonti);
Sottogruppi principali: Kaiowá (45.000, localizzati soprattutto nel Mato Grosso del Sud), Mbya (30.000, la maggior parte nel Paraguay) e Ñandeva (13.000);
Organizzazione: i Guaranì Kaiowá sono organizzati in comunità macrofamiliari (2-5 famiglie estese), riunite in un luogo denominato «tekoha», inteso come unico luogo – di terra, foresta, acqua, piante, animali – dove si può realizzare la propria condizione («teko») di Guaranì.
Film sui Guarani: «Mission», film del 1986, ambientato nel 1750, nella foresta sopra le Cascate dell’Iguazú al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay dove i missionari gesuiti avevano aperto alcune missioni (note come «riduzioni») tra gli indios guaranì; «La terra degli uomini rossi», film del 2008, ambientato in Mato Grosso del Sud e riguardante la lotta tra i Guaranì Kaiowá e i fazendeiros (latifondisti).
(Pa.Mo.)
03 – Breve scheda del Mato Grosso del Sud
Latifondisti al potere
In questo stato brasiliano comandano i latifondisti. A?Brasilia anche.
Superficie del Mato Grosso del Sud (MS): 357 mila chilometri quadrati (superficie Portogallo: 93 mila kmq);
Popolazione: 2,6 milioni (fonte Ibge);
Economia: allevamento bovino e agricoltura (soia, canna da zucchero, cotone, eucalipto);
Bovini in MS: 21 milioni e settecentomila (9 vacche per abitante); sono 215,2 milioni in Brasile (fonte Ibge, settembre 2016);
Popolazioni indigene in MS: 77 mila, di cui 43 mila Guaranì (fonte Ibge, 2010), seguiti dai Terena e – con poche centinaia di individui – dai Kadiwéu, dai Guató e dagli Ofaié ;
Riserve indigene in MS: 8 (istituite dallo scomparso Spi);
Terre indigene in MS: 96 (fonte Cimi, agosto 2016);
Indigeni assassinati in MS: 36 nel 2015 (fonte Cimi); 426 tra il 2003 e il 2015;
Indigeni suicidatisi in MS: 752 tra il 2000 e il 2015 (fonte Cimi);
Proprietari terrieri in MS: contro il Cimi (Consiglio indigenista missionario) con una Commissione parlamentare d’inchiesta (settembre 2015 – maggio 2016); accuse poi archiviate;
Proprietari terrieri a Brasilia: la «bancada ruralista», in alleanza con la «bancada evangelica», è schierata a favore dell’emendamento costituzionale – noto come «Pec 215» – che trasferirebbe dall’organo esecutivo a quello legislativo l’ultima parola sulle questioni relative alle terre indigene.
All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.
Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.
Armi e miliardi
Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.
Trump: Iran terrorista
Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.
Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».
Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).
Re al-Saud: l’Iran è il colpevole
Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».
Pecunia non olet
La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».
Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .
Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.
Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.
Sunniti contro sciiti
Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.
Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.
Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.
Il tornaconto dei leader arabi
Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.
La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.
Angela Lano
1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017
Arabia Saudita contro Qatar
Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.
Angela Lano
2 / Iran: le prime conseguenze
Tehran sotto attacco
Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.
«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».
A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».
Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.
Angela Lano
Islam 3: I motivi della deriva islamica
Il radicalismo islamico ha le sue ragioni. Quelle endogene: le correnti del rinnovamento non hanno mai trovato sbocchi. E quelle esogene: i grossolani errori dell’Occidente come l’appoggio incondizionato a Israele, la corrività con regimi reazionari, le ingerenze neocoloniali. Incontro con il professor Massimo Campanini, islamologo.
Prosegue la nostra inchiesta sul radicalismo islamico, o «islam politico», per cercare di capire quali sono i termini, gli attori e le dinamiche in gioco, sia a livello storico che attuale, che coinvolgono popoli e aree travalicando frontiere e culture. Per una miglior comprensione del complesso fenomeno è importante definire sia una terminologia appropriata sia il contesto ideologico e storico.
Ne abbiamo parlato con il prof. Massimo Campanini, uno dei maggiori studiosi e islamologi contemporanei del Vicino e Medio Oriente arabo, docente associato di Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e autore di numerosi e interessanti saggi sull’islam e il mondo arabo-islamico.
L’uso politico dell’islam
Prof. Campanini, fondamentalismo, integralismo, radicalismo, islam politico, islamismo: qual è il termine più corretto per definire l’uso politico dell’islam?
«La definizione di una terminologia precisa per definire un fenomeno sfuggente è naturalmente molto importante. Tutti quelli suggeriti sono nomi potenzialmente utili che catturano almeno un aspetto del fenomeno; ma ciò dimostra come tale fenomeno sia poliedrico e vario, e niente affatto monolitico, come perlopiù la stampa e i mass-media lo dipingono. Proprio per la complessità del fenomeno i termini elencati risultano comunque insoddisfacenti. Che l’islam nelle sue espressioni radicali sia fondamentalista è vero, ma è anche una verità ovvia: quale religione o ideologia non sono fondamentaliste? Un ebreo farebbe a meno di ricorrere alla Torah? O un cristiano ai Vangeli? O un comunista al Capitale di Marx? Dunque dire che l’islam è fondamentalista perché ricorre al Corano e alla sunna del Profeta è un’ovvietà che non spiega nulla. Oltre a questo, c’è da dire che la definizione di fondamentalismo è derivata dai cristiani radicali, soprattutto anglosassoni, per cui non è immediatamente applicabile a contesti storici e culturali diversi.
Il termine islam radicale è altrettanto corretto se si indicano le tendenze estremiste, magari di lotta armata, ma l’islamismo, cioè l’idea fondamentalista dell’islam, non è per ciò ipso facto radicale dal punto di vista politico, né automaticamente votato al jihad. Molte correnti che possono dirsi “islamiste” come i salafiti di al-Albani o Ibn Baz o l’organizzazione di origine palestinese di Nabhani sono a-politiche e/o quietiste. D’altro canto, islamismo in sé è troppo generico, poiché rappresenta un ombrello troppo ampio. A mio parere quindi, la locuzione migliore è quella di “islam politico” in quanto indica la volontà da parte degli islamisti riformatori di impegnarsi in politica mirando a ricostituire una società e uno stato islamici. Tuttavia, i suddetti salafiti quietisti non rientrano in questa prospettiva, per cui, per esempio, sono avversari dei Fratelli musulmani che partecipano all’agone elettorale o alle lotte sindacali. Insomma bisogna adattarsi a scelte terminologiche perlopiù soggettive, con la consapevolezza che nessun termine è davvero soddisfacente e onnicomprensivo».
Le correnti islamiche
Islam politico come «alternativa islamica»: è una lettura che decostruisce diversi luoghi comuni. Ce ne vuole parlare?
«La tesi che ho sostenuto in diversi libri tra cui, appunto, L’alternativa islamica è che l’islamismo riformista o riformismo islamista (le due locuzioni funzionano entrambe e sono speculari) hanno rappresentato per un breve periodo di tempo, diciamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, una tendenza potenzialmente costituente di un nuovo ordine politico. Mi riferisco, ovviamente, in primo luogo al Khomeinismo, prima che degenerasse in clericalismo e autocrazia, e a realtà di grande complessità teorica e organizzativa come Hezbollah, ma anche alla cosiddetta “Sinistra islamica”, sunnita, che si è espressa spesso in “teologia islamica della liberazione” (Hasan Hanafi) in paesi come l’Egitto o la Siria-Libano. Gli stessi Fratelli musulmani, riemersi dalle persecuzioni durissime dell’epoca del nasserismo, o quantomeno gruppi di azione politica e sociale che provenivano da quell’ambiente, come la cosiddetta Wasatiyya (“Via Mediana”) studiata soprattutto da Raymond Baker, hanno saputo esprimere per qualche tempo una vena di rinnovamento endogeno all’islam che richiamava quella di Muhammad ‘Abduh agli inizi del Novecento. Tutte queste tendenze sono poi state purtroppo neutralizzate sia dall’emergere di correnti jihadiste violente, sia dal loro stesso elitarismo, sia dall’indifferenza o ostilità di cui li ha circondate l’opinione pubblica occidentale che ha continuato a vedervi forze “terroristiche” e dunque non ne ha appoggiato lo sforzo modernizzante pur espresso nel quadro dell’islam. Un grave errore politico da parte dell’Europa».
Gli errori dell’Occidente
Quali sono, secondo lei, i contesti politici e culturali in cui si è sviluppato il radicalismo islamico?
«Il radicalismo islamico ha rappresentato la reazione esasperata a tre fattori: a) l’inasprirsi della crisi economica a partire dagli anni Settanta che ha pauperizzato le classi medio-basse e proletarie; b) il soffocamento della società civile da parte di regimi autocratici o francamente tirannici, sortiti dai processi di decolonizzazione, i quali, invece di condurre una funzione egemonica in favore delle popolazioni, si sono alleate alle lobby economiche; c) last but not least, l’infinita serie di errori della politica occidentale euro-americana in Medio Oriente, dall’incondizionato e pregiudiziale appoggio a Israele – a prescindere da qualsiasi legittimità delle richieste arabe -, al saccheggio delle risorse energetiche, dalla corrività con regimi reazionari come l’Arabia Saudita (o l’Egitto di Mubarak o la Tunisia di Ben ‘Ali), all’ingerenza neocoloniale, o neocrociata, nelle dinamiche geopolitiche della regione mediorientale. Più difficile dire se il richiamo ad aspetti come il jihad, costitutivi della tradizione politico teologica islamica siano stati il motore o non piuttosto l’effetto della strumentalizzazione della religione di cui si è imbevuto il messaggio terrorista ed estremista. Quest’ultimo ha certo trovato nell’ideologia giuridica classica del jihad un sostegno teorico, ma altrettanto certamente l’ideologia del jihad è stata interpretata in modo conveniente ai fini politici dei gruppi eversivi».
La Fratellanza musulmana
Quale ruolo ha avuto e ha tuttora la Fratellanza musulmana nelle dinamiche geopolitiche attuali e, in specifico, nei movimenti radicali?
«Dipende dai contesti. In Egitto, dopo la feroce repressione di al-Sisi tra il 2013 e il 2014, la Fratellanza musulmana è temporaneamente fuorigioco, ma certo starà lavorando sottacqua e probabilmente cercando di riorganizzarsi anche all’estero. In molti altri paesi arabi operano gruppi che si richiamano a una matrice comune alla Fratellanza musulmana transnazionale, ma che non sono più Fratellanza musulmana in senso stretto. Penso al partito Justice et Développement in Marocco, attualmente al governo, o ad Ennahda in Tunisia, che ha governato e che ora, pur non essendo più il partito di maggioranza, lavora ancora attivamente e proficuamente nel sociale e nel campo politico. Non credo sia possibile oggi divinare quale sarà il futuro di queste organizzazioni: stanno vivendo una fase di transizione e di trasformazione anche ideologica i cui esiti saranno tutti da verificare».
Al-Qa’ida e Daesh
Lei afferma che al-Qa‘ida e Daesh, in quanto deriva terroristica del radicalismo, hanno interrotto il processo di costruzione dell’«alternativa islamica». Quali sono gli scenari del prossimo futuro?
«Ridurre al-Qa‘ida e l’Isis a puri fenomeni terroristici, siano essi causati dall’irrazionalismo nichilista, come vuole Oliver Roy, o dalla radicalizzazione ideologica dell’islam, come vuole Gilles Kepel, è insufficiente: essi sono i prodotti delle circostanze che ho chiarito poco sopra, per cui, sconfitti loro, e lo saranno certamente prima o poi, riemergeranno altre organizzazioni estremiste. Per affrontare l’estremismo armato bisogna sanare le ferite che lo hanno provocato: dalla crisi economica all’autoritarismo violento dei regimi dei paesi islamici agli incredibili errori dell’Occidente. Ma non mi pare di vedere segni positivi in questa direzione. Le strategie sono sempre le stesse, almeno per ora».
Alcuni studiosi ritengono che già alla sua nascita l’islam si fosse manifestato come «anti-sistema» – se pensiamo al potere esercitato dal clan Quraish ai tempi del profeta Muhammad -, che poi la sua carica rivoluzionaria si sia persa dopo il periodo dei «califfi ben guidati» (VII?secolo d.C.), che successivamente sia stata ripresa dai kharijiti e poi dal pensiero radicale di Taymiyya e altri. Cosa ne pensa?
«Ali Shariati (sociologo iraniano, 1933-1977, ndr) affermava che l’islam è una religione per natura rivoluzionaria, e con lui i teologi della liberazione della alternativa islamica, come Hasan Hanafi. È proprio in tal senso che essi consideravano il profeta Muhammad o suo nipote Husayn come leader anti-sistema. Il periodo successivo alla fitna (dissenso, ndr), allorché la guerra civile tra alidi (i seguaci del califfo ‘Ali, ndr) e omayyadi (un potente clan meccano, ndr), ha frantumato la Comunità e “falsificato la coscienza islamica” (espressione di Nasr Abu Zayd) attraverso la strumentalizzazione politica della religione, ha in certo senso deviato, senza più possibilità di ritorno, almeno finora, il percorso storico ideologico dell’islam. Ibn Taymiyya (giurista e teologo, 1263-1328, ndr) ha proposto una sorta di rinnovamento dello stato sulla base della sharia, la legge religiosa, ma non può essere considerato il responsabile dell’esclusivismo che, nel corso dei secoli, ha spesso caratterizzato l’islam conservatore e tradizionalista. Era un pensatore intransigente, ma i qaidisti o gli estremisti dell’Isis che lo evocano utilizzano il pensiero di Ibn Taymiyya, enfatizzandone gli aspetti di rigore estremo, e senza cogliere la novità di una proposta di metodo prima ancora che di merito che era utile nel periodo (XIV secolo) successivo alla scomparsa del califfato».
Il fallimento delle «primavere arabe»
«Primavere arabe»: nate da uno slancio di cambiamento e ricerca di giustizia sociale e politica, si sono trasformate in conflitti permanenti o in instabilità. Cos’è, secondo lei, che non ha funzionato? Quale è stato il ruolo dell’islam o dei movimenti radicali nelle rivolte arabe?
«A mio parere le “primavere arabe” sono fallite per molti motivi: a) lo spontaneismo acefalo delle prime fasi delle rivolte che non si sono coagulate in proposte politiche effettive; b) l’incapacità dei partiti islamici che hanno gestito la fase centrale della transizione rivoluzionaria di esercitare “egemonia” in senso gramsciano, e dunque di essere veramente le guide intellettuali, morali e politiche delle masse in cerca di una direzione, c) il prevalere di forze centrifughe tribali (Libia, Yemen) o alimentate da attori esterni ambigui (Siria, dove l’Arabia Saudita e il Qatar hanno favorito l’affermarsi di gruppi radicali armati); d) il fatto di essere “scoppiate” in un contesto storico indebolito dalla crisi dei regimi così come dalle precedenti infiltrazioni qaidiste e dalle ingerenze interessate delle grandi potenze che spesso si sono tradotte in stallo invece che in dinamismo (le rivalità aspre tra Arabia Saudita e Iran, ma soprattutto tra Stati Uniti e Russia). D’altra parte, le primavere arabe hanno rappresentato un potenziale laboratorio politico per l’islamismo, ma i Fratelli musulmani sono stati ferocemente repressi; Ennahda in Tunisia ha negoziato una transizione democratica che l’ha assorbita in un quadro politico tradizionale; le tensioni tribali tra sunniti e sciiti in Yemen hanno in breve tempo neutralizzato gli effetti di riforma istituzionale della “rivoluzione”».
Oltre i gruppi radicali
Osservando gli sviluppi in corso in Libia e Siria viene da pensare che ci sia stata un’alleanza «tattica» tra agende occidentali e certi gruppi radicali islamici. Cosa ne pensa?
«La domanda, allo stato delle cose, mancando documentazione certa e certezze interpretative, può avere una risposta solo “dietrologica”. Mi limito perciò a dire che con tutta probabilità Gheddafi in Libia è caduto più per l’intervento diretto dell’Occidente che per la forza dei rivoltosi; mentre l’affermazione dell’Isis in Iraq e Siria deve essere stata “aiutata” se non addirittura “preorganizzata” da qualcuno che ha lavorato in incognito approfittando del marasma seguito alla sciagurata guerra di George Bush nel 2003: e i paesi occidentali, più, ovviamente, Israele su cui sempre si tace, sono i candidati naturali per ricoprire questo ruolo».
Il caso della Libia
Qual è stato il ruolo della Fratellanza musulmana e di altri movimenti dell’islamismo politico in Libia?
«Al momento della rivolta contro Gheddafi, apparentemente minimo. Quando Gheddafi è stato ucciso e la Libia è stata “liberata” è ovvio che le organizzazioni dell’islamismo politico abbiano trovato terreno fertile dove intervenire e consolidarsi, magari dietro il paravento di governi più o meno legittimi».
Angela Lano (terza puntata – continua)
I libri di Massimo Campanini
Storia del pensiero politico islamico, Mondadori / Le Monnier, 2017;
Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi, Mulino, 2017;
Storia del Medio Oriente, Il Mulino, 2014;
Le rivolte arabe e l’islam: la transizione incompiuta, Il Mulino, 2013;
L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, 2012;
Ideologia e politica nell’islam: fra utopia e prassi, Il Mulino, 2008;
I sunniti, Il Mulino 2008;
Arcipelago Islam, Laterza, 2007;
Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, 2006;
Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, 2005;
Storia dell’Egitto contemporaneo, Edizioni Lavoro, 2005;
Islam e politica, Il Mulino, 1999.
La Croazia: Una spiaggia non basta
Indipendente dal 1991, la Croazia racchiude molteplici identità, una ricchezza che spesso produce tensioni. Le cicatrici della storia ad esempio riemergono periodicamente sia all’interno del paese sia nei rapporti con gli ex fratelli jugoslavi, in primis con la Serbia. Ai problemi politici si sono aggiunti quelli economici e sociali. L’entrata nell’Unione europea e il boom del turismo non sono stati sufficienti a evitare anni di recessione economica e la fuga dei giovani dal paese.
Est o Ovest? Europa centrale, Balcani o Mediterraneo? La geografia e la storia della Croazia non sono d’aiuto quando si tratta di posizionare il paese all’interno di queste categorie concettuali. La giovane repubblica, indipendente dal 1991, ha infatti diverse anime, che si ritrovano nei suoi dialetti, nei suoi stili architettonici e persino nella sua gastronomia. Terra di isole adriatiche, montagne innevate e pianure danubiane, la Croazia trae dalla propria ricchezza culturale le sue multiple identità: romana, slava, veneziana, austro-ungarica, jugoslava, europea… Un patrimonio di influenze e di sfumature, da cui derivano però anche le tensioni del presente. Le interpretazioni del passato, le opinioni sulla religione o ancora i rapporti con i paesi confinanti, scatenano periodicamente dei dibattiti capaci di spaccare in due la società croata, producendo un costante senso di lacerazione, che nemmeno l’ingresso nell’Unione europea, nell’estate del 2013, è riuscito a placare.
Se la presidente guarda a Višegrad
«Vorrei che non si utilizzasse più l’espressione “Balcani occidentali” per indicare questa regione. Parliamo piuttosto di Sud Est europeo». Nel novembre del 2015, in occasione di un vertice multilaterale, la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovi? ha espresso così il suo punto di vista sulla questione geografica della Croazia e dei suoi vicini. Il termine «Balcani» veniva allora bandito dai discorsi ufficiali della capo di Stato, eletta ad inizio 2015 tra le fila del partito conservatore Hdz e decisa ad avvicinare il paese al cosiddetto gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Anche se la diplomazia internazionale ha in realtà mantenuto il vecchio vocabolario, per la Croazia, l’approccio di Grabar-Kitarovi? ha marcato un cambio di passo, confermato in quello stesso mese di novembre anche dal risultato delle elezioni legislative. L’Hdz, vincitore relativo dello scrutinio, è riuscito infatti a tornare al potere dopo una parentesi socialdemocratica (2011-2015) ed il governo che ne è risultato, guidato dal premier tecnico Tihomir Oreškovi?, ha riaperto in meno di un anno tutte le ferite proprie del tessuto sociale croato.
Le cicatrici della storia
L’esempio più significativo è quello di Zlatko Hasanbegovi?, uno storico accusato di revisionismo e negazionismo, ma nominato ministro della Cultura. Tra dichiarazioni sprezzanti e decisioni liberticide (ad esempio, la sospensione dei fondi pubblici ai media no-profit e al quotidiano della minoranza italiana «La Voce del Popolo»), Hasanbegovi? si è fatto notare anche per le sue osservazioni sul campo di concentramento di Jasenovac, il lager croato in cui morirono durante la Seconda guerra mondiale più di 83mila persone. «Tra le 20mila e le 40mila», è stata invece la stima del ministro, fatta proprio alla vigilia della cerimonia commemorativa nell’aprile 2016, boicottata allora dai rappresentanti delle vittime serbe ed ebree. Accadeva appena un anno fa, ma le radici del dibattito vanno cercate nel 1941, «l’anno che continua a tornare» come l’ha definito il celebre storico croato-bosniaco Slavko Goldstein. Nel 1941, lo scoppio della Guerra mondiale ha diviso il paese in due: tra ustascia e partigiani, i primi sostenitori dello Stato indipendente croato (Ndh), alleato della Germania nazista e dell’Italia fascista e guidato da Ante Paveli?; i secondi schierati con Josip Broz, detto Tito, diventato poi il leader della Jugoslavia socialista. E da allora, il 1941 «continua a tornare» come una maledizione.
Lo scontro sui diritti civili
La carriera ministeriale di Hasanbegovi?, convinto che la Croazia abbia «perso la Seconda guerra mondiale», è durata appena un anno. Nel giugno del 2016, il primo ministro Oreškovi? è stato sfiduciato, dopo che uno scandalo di corruzione aveva diviso i due partiti di maggioranza. Tuttavia, anche se si è trattato del «governo più breve della storia croata», come l’ha battezzato la stampa locale, diverse polarizzazioni proprie del paese sono state accentuate proprio in quel periodo. Oltre al caso Hasanbegovi?, che ha portato nel paese anche una missione del Consiglio d’Europa preoccupato per lo stato della libertà di espressione, un secondo terreno di scontro è stato quello della questione dell’aborto e dei diritti civili. Già nel 2013, ai tempi del governo socialdemocratico (Sdp), il fronte conservatore «Nel nome della famiglia» (U ime obitelji) era riuscito a rendere illegale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dopo aver organizzato un referendum costituzionale. L’esecutivo aveva risposto approvando le unioni civili anche per le coppie omosessuali, ma non era riuscito a chiudere il dibattito, in un paese che si professa cattolico quasi al 100%.
Durante il mandato di Oreškovi?, quindi, questo stesso movimento è tornato alla ribalta organizzando una «Marcia per la vita», con l’obiettivo di «proibire l’aborto in Croazia», come assicurava allora uno dei registi dell’evento, Vice John Batarelo, presidente dell’Ong «Vigilare». Al corteo, a cui presero parte migliaia di persone, sfilò in prima fila anche la moglie del premier, mentre a qualche metro di distanza si teneva una seconda manifestazione, voluta dai gruppi femministi e Lgbt della capitale e con obiettivi diametralmente opposti. Anche se è difficile che i militanti di «Nel nome della famiglia» arrivino a vietare l’interruzione di gravidanza, va detto che il tribunale di Zagabria, rispondendo ad una denuncia del 1991, ha dato al parlamento croato due anni di tempo (fino al 2019) per aggiornare la normativa in materia di aborto (che risale al 1978) in modo da renderla pienamente compatibile con l’ordinamento nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia. La riforma della normativa non mancherà dunque di riaccendere il dibattito.
Croazia-Serbia: una ruggine che non passa
Un’altra questione religiosa – e legata anch’essa all’anno 1941 – ci porta ad affrontare il capitolo dei rapporti con la Serbia. Il caso del cardinale croato Alojzije Stepinac provoca infatti degli scontri regolari tra le cancellerie di Belgrado e di Zagabria. In breve, Stepinac (1898-1960), che fu arcivescovo nella capitale croata durante la Seconda guerra mondiale, è accusato dalle autorità serbe di crimini di guerra e di collaborazionismo con il regime di Ante Paveli? e, proprio per questo, fu condannato a 16 anni di prigione nel 1946 dalla giustizia jugoslava. Ma per la Croazia, Stepinac fu in realtà una vittima del comunismo, come dimostra il fatto che papa Giovanni Paolo II lo abbia proclamato «beato» nel 1998 e che una commissione in Vaticano stia discutendo ora della sua eventuale santificazione. Lungi dall’essere aneddotica come potrebbe sembrare, questa vicenda funge da leitmotiv nelle relazioni bilaterali serbo-croate, intervallate dagli anniversari del conflitto e dalle frequenti dichiarazioni incendiarie.
Anche in questo caso, l’apice della tensione diplomatica tra Croazia e Serbia è stato raggiunto durante il mandato di Oreškovi?, quando il ministro degli Esteri di Zagabria era Miro Kova? – uno dei falchi dell’Hdz – ed il suo corrispettivo serbo era Ivica Da?i?, alla guida del Partito socialista (Sps) che fu di Slobodan Miloševi?. Nell’estate del 2016, Belgrado si è spinta fino a scrivere all’Unione europea per protestare contro «la riabilitazione dell’ideologia ustascia in Croazia», mentre a livello locale continuavano le provocazioni, almeno fino alla nuova tornata elettorale croata. La nuova vittoria dell’Hdz, epurato questa volta dal suo vecchio leader Tomislav Karamarko e guidato dal più moderato Andrej Plenkovi?, ha portato ad una rosa di ministri quasi completamente rinnovata. Lungi dall’aver estinto le fonti di conflitto all’interno della società, il «riaccentramento» dell’esecutivo croato ha comunque contribuito a limitare la retorica nazionalista nei confronti dei vicini.
La stanchezza dei giovani
In questo contesto pesantemente influenzato dal passato (dal 1941, prima ancora che dal 1991), che ne è delle giovani generazioni? Anche qui, si fa sentire la stessa divisione che attraversa la società nel suo insieme, ma con una novità. Se è vero che una parte della gioventù croata rimane sensibile ai discorsi che ruotano attorno alla retorica conservatrice, un’altra parte, stanca del dibattito politico nazionale e avvilita dalle magre prospettive economiche, sceglie sempre più spesso la via dell’emigrazione (a maggior ragione dopo il 2013, anno dell’ingresso del paese nell’Ue). Spinti da una disoccupazione giovanile che supera il 30% (dati fine 2016), i ventenni croati preferiscono traslocare in Irlanda, Germania o in altri paesi dell’Europa settentrionale. E non sono un’eccezione: secondo un sondaggio realizzato a febbraio 2017 dal portale MojPosao.hr, quattro cittadini su cinque sono pronti a lasciare il proprio paese pur di trovare un posto di lavoro. Una vera e propria emorragia, al punto che secondo alcuni osservatori la Croazia conterebbe oggi meno di 4 milioni di abitanti, contrariamente a quanto affermato dal censimento del 2011, che ne rilevava 4,3 milioni.
Instabilità
Colpita da sei anni di recessione (2009 – 2015) e prigioniera delle ricorrenti discussioni politiche e religiose, la Croazia fatica dunque a trovare quella serenità necessaria a costruire il suo tanto agognato futuro europeo. Il ritorno della crescita, sostenuta soprattutto dal turismo che nel 2016 ha portato nel paese 16 milioni di visitatori (rappresentando quasi un quinto del Pil, vedi pag. 28) e l’elezione di un governo più moderato (ma già in crisi a metà 2017) sembrano rappresentare le giuste condizioni per voltare pagina in Croazia. Ma gli sforzi di una parte della società croata per lasciarsi alle spalle i fantasmi del nazionalismo dovranno fare i conti con il contesto regionale, caratterizzato da una crescente instabilità nei Balcani. In bilico tra passato e futuro, Zagabria ha oggi l’urgenza di completare il processo di riconciliazione con la propria storia recente e con i suoi vicini. Solo su delle basi prive di retorica, il paese potrà finalmente abbracciare tutte le sue identità.
Giovanni Vale*
* Giornalista professionista, Giovanni Vale è collaboratore di diverse testate italiane e francesi. Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste, scrive perlopiù di Balcani per Il Piccolo, Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa e per Pagina99.
Migranti e «rotta balcanica»
Più Budapest che Bruxelles
La crisi dei migranti non ha risparmiato Zagabria. Che ha fatto le sue scelte.
La «rotta balcanica». Con quest’espressione, la stampa internazionale ha battezzato, nell’estate del 2015, il flusso di rifugiati che ha attraversato per mesi la Turchia, la Grecia e alcuni paesi dell’ex Jugoslavia, portando decine di migliaia di persone all’interno dello spazio comunitario. Siriani, iracheni o, ancora, afghani in fuga dai conflitti in Medio Oriente, hanno raggiunto in questo modo il territorio dell’Unione europea (e più precisamente lo spazio Schengen) nella speranza di ottenere una protezione umanitaria. Per la Croazia, questo flusso migratorio ha rappresentato una sfida logistica, prima ancora che politica. Il paese è stato coinvolto nella cosiddetta «rotta» a partire dal 15 settembre 2015, ovvero da quando il governo di Budapest ha ultimato il suo «muro», una barriera provvista di filo spinato e lunga più di 170 km con cui ha sigillato il confine serbo-ungherese. Da allora, la colonna di rifugiati che quotidianamente attraversava il Nord della Serbia in direzione settentrionale ha deviato verso ovest, entrando sul territorio croato.
Il governo di Zagabria, allora guidato dal premier socialdemocratico Zoran Milanovi?, ha dapprima deciso di far proseguire il flusso verso l’Ungheria, poi – dinanzi alla costruzione di una seconda barriera da parte di Budapest (questa volta al confine croato) – ha ripiegato sulla Slovenia. Data la geografia della Croazia, che pone la capitale lontana dalle pianure della Slavonia, interessate da questi eventi, si può dire che pochi cittadini croati abbiano realmente percepito la crisi migratoria del 2015, come è invece avvenuto nella vicina Serbia o ancor più in Grecia. Inoltre, similmente agli altri paesi della regione, soltanto un numero insignificante di rifugiati ha fatto domanda di asilo alle autorità croate, preferendo piuttosto proseguire verso la Germania e l’Europa settentrionale. Ciononostante, la questione migratoria ha avuto delle conseguenze politiche, prima nei rapporti con i vicini (tensioni con l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia), poi, dal punto di vista interno.
Le elezioni di fine 2015 hanno infatti portato ad un cambio di governo a Zagabria ed il nuovo esecutivo si è schierato su posizioni più filo ungheresi sul tema delle migrazioni. Come la presidente Grabar-Kitarovi? aveva manifestato il suo appoggio ai paesi del gruppo di Višegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia), così il premier Oreškovi? ha assicurato fin da subito di capire il bisogno di sicurezza di Budapest e Vienna. Nella primavera del 2016, gli stati della «rotta balcanica» (Austria compresa) hanno dunque deciso di contraddire apertamente la posizione di Bruxelles, decidendo autonomamente di sbarrare il passaggio ai profughi, prima permettendo l’accesso a soltanto tre nazionalità (siriani, afghani e iracheni), considerati a priori come legittimi beneficiari della protezione umanitaria, poi chiudendo definitivamente l’ingresso in Macedonia ed isolando così la Grecia. L’accordo turco-europeo ha poi permesso di includere anche Atene in una soluzione comune.
Gio.Va.
La Chiesa cattolica croata
Diffusa, forte e schierata
In Croazia nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica. Limitata e ostacolata all’epoca della Jugoslavia socialista, oggi la Chiesa croata è su posizioni conservatrici e nazionaliste.
A lungo controllata all’epoca della Jugoslavia socialista, la Chiesa cattolica croata si è schierata fin dall’indipendenza nel 1991 su posizioni molto conservatrici. Vicina all’«Unione democratica croata» (Hdz) – il principale partito di destra – la Chiesa svolge tuttora un ruolo di primo piano nel dibattito politico nazionale. Ferocemente anti-comunista e spesso apertamente nazionalista, la gerarchia ecclesiastica croata si esprime sia tramite il suo quotidiano, il «Glas Koncila», sia per mezzo dei suoi alti prelati, periodicamente autori di dichiarazioni forti e schierate.
Alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, ad esempio, il vescovo di Sisak Vlado Koši? ha invitato espressamente i suoi concittadini a votare per l’Hdz e non permettere un ritorno dei socialdemocratici al potere. L’anno prima, nel maggio del 2015, l’arcivescovo di Zagabria Josip Bozani? aveva invece celebrato una messa a Bleiburg in Austria, in occasione del 70° anniversario del massacro di migliaia di cittadini croati compiuto nel 1945 dai partigiani jugoslavi. Ogni anno, la commemorazione di questa vendetta degli uomini di Tito contro gli esponenti dello sconfitto «Stato indipendente di Croazia» (Ndh) raduna nella piccola cittadina dell’Austria meridionale migliaia di militanti croati di estrema destra ed alcuni dei suoi rappresentanti politici. La presenza di alti esponenti ecclesiastici è perciò vista come controversa, così come lo è la figura di Alojzije Stepinac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria che la Chiesa croata vorrebbe santo ma che la Serbia considera un criminale di guerra (vedi pezzo principale).
Dalle questioni legate al matrimonio e all’aborto fino alla battaglia contro le unioni omosessuali (contro cui la gerarchia cattolica croata si è battuta con successo nel 2013), gli interventi della Chiesa nel dibattito politico della Croazia sono dunque numerosi e costanti. Nel paese, nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica.
Giovanni Vale
Ex Jugoslavia
Ci eravamo tanto amati
Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con gli ex «fratelli» sono all’insegna del sospetto reciproco.
Il golfo di Pirano, la frontiera sul Danubio o ancora il ponte di Sabbioncello. Ecco tre dossier bilaterali che la Croazia discute oggi con i suoi vicini. Si tratta di questioni nate con la dissoluzione della Jugoslavia e con la necessità di dividere un patrimonio che prima era comune e che non sono ancora state risolte.
Il primo caso è quello che coinvolge Croazia e Slovenia, tuttora impegnate a tracciare una frontiera marittima nelle acque del golfo di Pirano, poco lontano da Trieste. È una controversia vecchia di 25 anni e che ha visto diverse evoluzioni, ma nessuna soluzione condivisa. Lubiana chiede un accesso indipendente alle acque internazionali e rivendica una sovranità più ampia sulla baia, incontrando però l’opposizione di Zagabria. Negli anni, i negoziati si sono susseguiti così come le proposte di nuove carte nautiche. Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, il diverbio è finito davanti ad una corte internazionale di arbitrato, ma nell’estate del 2015, quando il tribunale stava per esprimersi, una fuga di notizie tra i giudici e i rappresentanti sloveni ha convinto le autorità croate ad abbandonare il processo. Così, ad oltre un quarto di secolo dalla fine della Jugoslavia, i pescatori di entrambi i paesi non sanno ancora dove finiscono formalmente le acque del proprio stato ed iniziano quelle dei vicini.
Anche con la Serbia, una frontiera precisa rimane da tracciare. I paesi sono separati dal corso del Danubio, ma la Croazia fa appello a dei documenti catastali di epoca austroungarica e reclama alcuni ettari di terra che si trovano oggi oltre il fiume. Belgrado, inutile dirlo, si oppone ed ecco che la disputa – anche qui, vecchia di oltre 25 anni – ha permesso la “nascita” del Liberland, uno “stato” autoproclamatosi indipendente su un isolotto che nessuno dei due stati rivendica come proprio. E se la vicenda del confine tuttora da definire fa capolino solo raramente sulla stampa locale, è soltanto perché i motivi di tensione tra i due paesi non mancano: dalla tutela della rispettive minoranze al trattamento dei crimini di guerra, passando per la più recente (e spesso esplicita) corsa agli armamenti, le relazioni bilaterali serbo-croate sono già ben fornite.
Infine, con la Bosnia-Erzegovina, Zagabria discute due temi principali: le sorti dei croati residenti in Bosnia, che premono per la creazione di una «terza entità» federata nel paese, ed il modo in cui bypassare il corridoio di Neum, unico acceso al mare bosniaco ma causa dell’isolamento della contea di Dubrovnik dal resto della Croazia. Il primo argomento è decisamente molto spinoso, perché prevede una riforma dei trattati di Dayton del 1995 che equivarrebbe ad aprire il vaso di Pandora del delicato sistema istituzionale bosniaco. Più abbordabile, invece, il dossier di Neum. A questo proposito, due paesi hanno trovato un accordo per la costruzione di un ponte che collegherà la penisola di Sabbioncello alla terraferma dalmata e i lavori dovrebbero iniziare entro la fine del 2017.
Gio.Va.
Turismo e ambiente
Turisti: tanti, forse troppi
Fonte primaria dell’economia della Croazia, il turismo incontrollato comincia a produrre danni collaterali.
Sedici milioni di visitatori l’anno, con un contributo pari a quasi il 20% del Prodotto interno lordo (Pil). Il turismo rappresenta per la Croazia una priorità economica ed è un settore a dir poco strategico. Ogni anno, l’inizio dell’estate in Dalmazia, in Istria e sulle isole marca una delle ricorrenze annuali più importanti per il paese, che dipende in larga misura (forse eccessivamente) dai risultati della stagione turistica. E se nei fatti, la Croazia registra ogni anno dei nuovi record nel numero di arrivi o di pernottamenti, questo continuo boom comincia già a provocare i primi danni collaterali.
A Dubrovnik o al parco nazionale dei laghi di Plitvice, il numero dei turisti supera ormai la quota massima indicata dall’Unesco come parametro per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Si parla di 10mila persone al giorno in fila sui bastioni della vecchia Ragusa e di oltre 15mila all’interno del celebre parco croato: un flusso eccessivo per l’Unesco che ha già intimato alle autorità di Zagabria di rimediare alla situazione. Inoltre, altre conseguenze negative, anche se più difficilmente quantificabili, colpiscono le città della costa e le comunità che le abitano. Accade così che nel centro di Spalato ci sono sempre meno residenti locali, seguendo l’esempio di quanto già successo per le vie della vicina Traù (Trogir). Il successo della spiaggia di Zr?e sull’isola di Pago rappresenta anch’esso un’opportunità e una sfida per le autorità locali, impegnate ora a trovare un equilibrio tra il turismo di massa legato alle discoteca e la voglia di promuovere i propri siti storici e culturali.
Proprio per rimediare a questa strategia mono-settoriale che colpisce le coste croate, un movimento si è sviluppato negli ultimi anni in Dalmazia. Si tratta del «movimento delle isole» (Pokret Otoka), un’iniziativa lanciata da un gruppo di giovani abitanti (perlopiù donne) con l’obiettivo di immaginare e pianificare un futuro sostenibile per le mille isole croate. Nato a fine 2015, Pokret Otoka ha creato una rete per lo scambio di idee e buone pratiche e ha recentemente portato alla firma di una «Dichiarazione dell’isola intelligente» (Smart Island Declaration), presentata a fine marzo 2017 a Bruxelles.
Gio.Va.
Insegnaci a pregare 6. Dio ci prega
Nella puntata precedente abbiamo preso in esame, seppure velocemente, la preghiera sotto due profili. Dal punto di vista dell’uomo che ha il desiderio di Dio, come magistralmente dice Sant’Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – Ci hai creati per te e inquieto sta il nostro cuore finché non riposi in te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1), e dal punto di vista di Dio che con la stessa intensità e la stessa passione di un innamorato, nella perifrasi del Cantico dei Cantici, fatta dal Targùm, anela e desidera di «ascoltare la voce dell’Assemblea riunita». Abbiamo desunto da quel testo della tradizione ebraica la prospettiva della preghiera come bisogno di Dio di stare con noi. Ci eravamo lasciati con l’impegno di riprendere questo aspetto nello «Shemà’ Israel», superficialmente definita, come vedremo subito, la preghiera più importante di Israele.
«Shemà’ Israel»
Il testo completo si trova nel libro del Deuteronomio (vedi qui sotto) che riportiamo per esteso. In esso formalmente parla Mosè, ma il mandatario è Dio, in nome del quale, il grande profeta e servo, Mosè, riassume tutti gli interventi di Dio. Possiamo dire che è Dio a parlare a Israele per mezzo di Mosé. Le parole pronunciate da quest’ultimo sono «Parole di Dio»:
«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).
Deuteronomio
Nella Bibbia ebraica, il 5° libro si chiama «Devarìm – parole», plurale del sostantivo singolare «Davàr – parola/fatto». Il termine Deuteronomio è preso dalla Bibbia greca cosiddetta LXX, scritta per gli Ebrei di Alessandria di Egitto che non conoscevano più l’ebraico. Poiché il suo contenuto è legislativo, il libro ha ricevuto in lingua greca il titolo di «Seconda legge – Dèuteros nòmos». L’immagine della seconda legge fa riferimento a un testo ritrovato durante lavori di restauro del tempio, sotto il regno di Giosìa, il quale, motivato da questa scoperta, diede impulso a una grande riforma religiosa nell’anno 622 a.C. Si chiama «seconda» in riferimento alla «prima» che è e resta quella del Sinai. Il Deuteronomio riporta tre grandi discorsi di Mosè al popolo prima dell’ingresso nella terra promessa:
1° discorso (Dt 1,1-4,43): è il riassunto di tutti gli interventi di Dio in favore di Israele dall’Egitto alle soglie della terra promessa: premessa storica dell’alleanza.
2° discorso (Dt 4,44-26,19): è un’omelia, una riflessione sull’alleanza e, infatti, comprende il codice dell’alleanza rinnovata nel segno della «Seconda Legge». Seguono una serie di benedizioni e maledizioni con il rinnovo ufficiale degli impegni e la conclusione dell’Alleanza (27,1-28,68).
3° discorso (Dt 28,69-30,20): è una ripresa degli eventi accaduti e un invito pressante alla fedeltà al Signore della Storia e della terra. Seguono ultime disposizioni e la morte di Mosè (31,1-34,12).
Il testo finale, come lo possediamo oggi, è databile nei sec. V-IV a.C., ma contiene testi molto più antichi del tempo della riforma del re Giosìa del sec. VII a.C. (anno 622) e altri più antichi ancora. Si può quindi considerare questo libro come il frutto della riflessione di una «scuola» che, dopo l’esilio di Babilonia, ha rielaborato materiale antico unendolo alle riflessioni teologiche del momento attuale, richiamandosi allo spirito profetico e in modo particolare a Geremia.
Lo «Shemà’ Israel» si trova nell’ambito del 2° discorso che Mosè fa a nome di Dio. Appartiene quindi alla riflessione sull’Alleanza. Alle soglie della terra promessa, nelle «Parole» che Dio rivolge al popolo d’Israele per bocca del profeta Mosè, per sette volte si ripete l’espressione: «Shemà’ Israel – Ascolta, Israele (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1; 20,3; 27,9) che è quasi un legame letterario di tutti e tre i discorsi. È strano che in un testo legislativo si trovino parole come «amore – ahavàh», espressive di sentimenti di reciproco affetto. Eppure questo accade e ha il suo senso nel fatto che non può esistere alcuna legge che possa avere forza obbligante se la si teme e non la si ama in quanto segno e strumento di una relazione vitale. La legge esige amore e non schiavitù.
Comunemente, con l’incipit «Shemà’ Israel» – come solitamente si dice – si indica la preghiera ufficiale che ogni pio israelita deve recitare due volte al giorno. In realtà lo «Shemà’ Israel» non è una preghiera di Israele a Dio, ma la richiesta da parte di Dio di una professione di fede, di una dichiarazione di amore esclusivo come pegno per il futuro. Nemmeno questo però è sufficiente, perché se guardiamo in profondità, scopriamo che l’atto di fede più esclusivo del popolo d’Israele è una invocazione di Dio al suo popolo perché presti attenzione alle parole che egli pronuncia attraverso il suo profeta e non defletta dalla sua fede nell’unicità di Dio.
Amare e pregare sono sinonimi
Nello «Shemà’ Israel», è Dio che s’inginocchia davanti a Israele e lo supplica di «ascoltarlo». In altre parole, è Dio che prega il suo popolo, quasi avesse paura di perderlo. Inaudito! L’ingresso nella terra promessa coincide con la preghiera di Dio al popolo, non il contrario: Dio supplica il suo popolo di non abbandonarlo, perché egli non può essere Dio senza il suo popolo Israele, come lo sposo non può essere sposo senza la sposa, come il padre non può essere padre senza il figlio. Ogni volta, pertanto, che ascoltiamo o leggiamo o preghiamo con queste parole, dobbiamo avere coscienza di vedere Dio inginocchiato davanti a noi che ci supplica di ascoltare il suo «Davàr», la sua «parola/fatto» che per noi cristiani, testimone Giovanni evangelista, è il Lògos-sarx, Gesù di Nàzaret in cui Parola e carne, divinità e fragilità diventano un corpo solo, una unità sponsale (cf Gv 1,14).
In questa supplica di Dio al suo popolo, egli esige l’esclusività perché per natura l’amore è esclusivo: «Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore – Yhwh ’elohènu Yhwh ’echad». Come un innamorato o innamorata che prima di innamorarsi ha la possibilità di scegliere tra tutte le donne e tutti gli uomini, ma una volta che s’innamora esclude tutte e tutti tranne una o uno, così anche Dio supplica Israele di sceglierlo come «unico» e di restargli fedele. Non solo, in un testo giuridico che stabilisce norme per ogni aspetto della vita, si stagliano parole d’amore che sono tra i vertici della letteratura e della spiritualità di tutti i tempi: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). In ebraico si usa il verbo «’ahavàh – amare» che abbiamo già esaminato (Il Tallìt di Dio, MC 6/2017, p. 32), affermando che numericamente ha un valore di «13», cioè la metà di «Yhwh» che vale invece «26». A suo tempo abbiamo detto anche che Dio è un amore al quadrato e solo mettendo insieme ciascuno il proprio pezzo d’amore con i frammenti di amore degli altri si può raggiungere la pienezza di Dio che «è Amore – Agàp?» (1Gv 4,8). La Bibbia LXX, infatti, nel brano in questione, traduce «’ahavàh – amare» col il verbo «agapà? – io amo senza pretendere in cambio nulla» che nella Scrittura è un verbo riservato quasi esclusivamente a Dio.
Cuore, anima e beni materiali
«Tutto il cuore» riguarda la totalità della persona perché il cuore, per i semiti, è la sede dell’intelligenza e della coscienza, il profondo dove si forma e abita l’identità. Ancora di più. In ebraico la parola «cuore» si dice in due modi: «leb» e «lebàb» (pronuncia: levav): il primo con una «b» e il secondo con due «b». Il testo dello «Shemà’ Israel» riporta la versione con «due b: lebàb». I rabbini si domandano perché questa differenza e danno una risposta sorprendente. Essi insegnano che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore» (Dt 4,5). La Mishnàh, Berakòt – Benedizioni 9,5, infatti così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, con le due tendenze: il bene e il male». Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede perché immaginano un puritanesimo che non esiste e Dio stesso ne è consapevole fino a farne un comando d’amore.
«Tutta l’anima» si riferisce alla capacità di relazione sia in senso orizzontale (con gli altri diversi da sé) sia in senso verticale (con l’Altro che è il fondamento della relazione con sé e con gli altri). In altre parole si tratta della vita in tutta la sua espressione umana che si esprime e si consuma nella fecondità del rapporto con gli altri che sono sempre, per chi crede, la parte migliore perché sacramenti della presenza di Dio.
«Con tutte le forze» ha un significato preciso e significa «con tutti i tuoi averi» per evitare che s’illuda di chiudersi dentro uno spiritualismo di comodo, come avverte San Giacomo (cfr. Gc 2,2) che a sua volta richiama il Vangelo di Luca e la requisitoria di Gesù contro i ricchi (cfr. Lc 6,24-26). È facile amare Dio con i sentimenti e senza alcun impegno di vita, ma se occorre mettere in gioco il portafogli e i beni materiali, allora la questione si fa seria e tocca l’etica dell’economia, l’etica della politica, l’etica del guadagno, l’etica della tassazione, l’etica della condivisione, l’etica della distribuzione secondo giustizia dei beni della terra, che sono di Dio ma affidati a noi per custodirli e condividerli.
Queste tre condizioni e stati di essere, cuore, anima e beni materiali devono stare radicati nell’io (nel cuore) perché la preghiera non sia un atteggiamento evanescente e sulfureo, un mero obbligo materiale come «recitare» Lodi, Vespro e il resto o «dire» Messa, tutto logicamente in fretta e furia perché «maiora praemunt – cose più importanti urgono». Dio prega il suo popolo di «ascoltare», che non significa stare a sentire, ma immergersi nella persona che parla e diventare la parola che dice. Oggi, troppo spesso, la superficialità e la fretta fanno perdere anche la dimensione della buona educazione, cui non facciamo più caso.
Quando si riceve una persona per un colloquio bisognerebbe essere totalmente alle sue dipendenze e «ascoltare» con cuore, anima e beni materiali: disponibilità senza riserve. Troppo spesso, invece, capita, durante un colloquio, che uno risponda al cellulare o guardi l’orologio o si estranei rispondendo a un sms o consultando il web. È un costume tanto diffuso che non ci rendiamo più conto che in tal modo mettiamo il valore della persona sotto i piedi. Nessuno pensa che quello potrebbe essere l’ultimo colloquio della sua vita e che potrebbe presentarsi a Dio adducendo come scusa che «stavo rispondendo al telefono». Siamo diventati schiavi del cellulare e non ce ne accorgiamo nemmeno. Pregare è «ascoltare» Dio che prega e poiché Dio è relazione non può farlo da solo, ma ha necessità di pregare in compagnia. Pregare è perdere tempo senza chiedere nulla in cambio e dire all’altro quanto sia importante per me e anche porlo al centro della propria attenzione, del proprio cuore, della propria anima e dei beni materiali. Ascoltare gli altri è pregare vivendo.
«Voce di silenzio sottile»
Per il Targùm pregare è rispondere all’anelito di Dio di vedere il volto del suo figlio/figlia. Pregare è non solo regalare il proprio tempo a Dio per permettergli di contemplare l’assemblea orante, ma illuminarsi lo sguardo per vedere la vita e gli eventi e le persone con gli occhi di Dio. Sì, pregare è esercitarsi a somigliare a Dio, imparando da lui come si agisce nella storia, come si accolgono le persone, come si progetta il futuro, come si legge il presente e come si cammina con gli altri nei propri tempi che sono sempre «tempi di Dio». Nessun tempo può essere privilegiato, perché «io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,28) e se lui è con noi sempre, giorno dopo giorno, abbiamo l’obbligo di «stare con lui» per imparare come lui sta con noi e fondere in un unico modo i due versanti fino a diventare uno perché uno è il Signore nostro.
Per vedere Dio, è sufficiente lasciarsi contemplare dall’Invisibile mentre si prega. «Ascoltare» non significa dire parole e formule, ma essere «silenzio», cassa di risonanza che fa rimbombare la Parola «sottile» di Dio, che, sebbene Parola creatrice, è sempre un «silenzio sottile», flebile, gracile, un soffio appena sussurrato che deve essere custodito. È l’esperienza di Elia che non vide Dio nelle manifestazioni rumorose del vento, del terremoto e del fuoco, ma nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Due ossimori potenti: «voce-silenzio» e «silenzio-sottile». Veramente Dio è un grande umorista che sa cogliere con brio il senso e il nesso delle cose. Se la parola non si fa silenzio non può mai divenire Parola; se il silenzio che è già pieno senza necessità di nulla non diventa ancora più sottile, cioè più profondo, affilato come spada (cfr. Eb 12,4), perde il contatto con la Parola: Parola e silenzio mantengono la propria identità se scompaiono l’uno nell’altra. Quando diciamo di pregare, anche molto, e che nonostante ciò Dio non ci ascolta, ammettiamo solo che teniamo separati Parola e silenzio, presenza e assenza.
L’anelito di Mosè e quello del Cantico dove Dio smania per vedere il volto della sposa orante, si prolunga anche nel NT, nei Greci giunti a Gerusalemme come cervi assetati alla sorgente. Essi rivolgono a Filippo e ad Andrea il loro anelito di desiderio: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Il Signore risponde rinviandoli alla morte in Croce: per vedere Dio bisogna salire il Calvario e sostare ai piedi della Croce per contemplare l’uomo crocefisso che incarna il volto dell’Invisibile. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12,23-24). La Croce esprime una doppia prospettiva: dal basso, dove stanno il discepolo e la madre che guardano il volto di Dio crocifisso, e dall’alto dove il Dio morente guarda l’uomo e la donna, novelli Àdam ed Eva (cf Gv 19,25-27), segno sacramentale dell’intera umanità immersa nella visione del Dio invisibile che i cieli dei cieli non possono contenere (2Cr 2,5). È la croce il punto di congiunzione tra la morte e la risurrezione.
Pregare è solo perdersi in un afflato d’amore in cui si confondono e si fondono insieme due desideri fino a diventare uno solo, fino a sperimentare una sola vita. L’Eucaristia è tutta qui: lo spazio della visione sperimentata. L’Assemblea si raduna non per adempiere un precetto, pena il peccato, ma per permettere a Dio di contemplarla nello stesso momento in cui si pone davanti a Dio per vederne la Gloria, toccarne il lembo del mantello e mangiare il «Lògos della vita» (1Gv 1,1)
Paolo Farinella (6 – continua)
Zimbabwe: Mugabe, 93 anni, pronto a ricandidarsi nel 2018
Il più longevo dei governanti africani ha portato il suo paese sull’orlo del baratro. Un tempo granaio d’Africa, lo Zimbabwe soffre oggi continue crisi alimentari. Ma Mugabe, come sostiene sua moglie, «sarebbe rieletto anche da morto». Intanto si prepara, con difficoltà, la sua successione.
Robert Mugabe ha compiuto 93 anni. È il più anziano leader africano ed è in carica dal 1980. Ma, nonostante l’età, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Si ricandiderà alla presidenza nel 2018. E certamente sarà rieletto. Perché, come dice sua moglie Grace: «Robert verrebbe rieletto anche se fosse morto».
In 37 anni di potere pressoché assoluto, Mugabe ha creato un apparato di consenso fortissimo che, come diceva Benito Mussolini, sa usare «il bastone e la carota».
Le mani sulle istituzioni
«È molto abile nel giocare al “divide et impera” – spiega un missionario che da anni opera in Zimbabwe e che, per motivi di sicurezza, vuole rimanere anonimo -. Nella mia ingenuità, nel 1980, quando finì il governo razzista di Ian Smith, pensavo che fosse positivo che Mugabe non avesse una propria corrente nel suo partito, lo Zanu Pf (Zimbabwe african national union). La sorpresa è stata grande quando ci siamo resi conto che lui amava governare mettendo uno contro l’altro sia all’interno del suo partito sia a livello di paese».
Ma il suo non è solo un gioco politico. È qualcosa di più. È in grado di mantenersi al potere attraverso la forza del ricatto. Promuove alle cariche più importanti le persone che sa di poter tenere in pugno. Si racconta che un politico sia stato nominato ministro dopo aver ucciso l’amante di sua moglie. Si narra anche che abbia nominato governatore di una provincia un membro del suo partito che era stato fermato con feticci che utilizzava nelle messe nere. Mugabe conosceva i loro reati e sapeva anche che avrebbe potuto tranquillamente ricattare i due politici se non avessero eseguito pedissequamente i suoi ordini.
D’altra parte, il presidente zimbabweano ha una forte presa su tutto l’apparato statale: polizia, forze armate, servizi segreti, magistrati. La maggior parte dei giudici proviene dalle file del partito di governo. Non tutti, ma se un caso approda di fronte al giudice «sbagliato», il regime è in grado di allungare i tempi delle indagini e dei processi in modo tale che non si giunga mai a un verdetto. È il caso delle cause intentate dall’opposizione per 26 seggi vinti dallo Zanu Pf nelle elezioni del 2002. I giudici avrebbero dovuto esprimersi sulle violenze e sulle intimidazioni delle milizie del partito di governo, ma 15 anni dopo non è stata emessa alcuna sentenza.
La moglie Grace
Da tempo, ormai, a fianco del presidente è comparsa sua moglie Grace. Mugabe l’ha sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie (Sally Hayfron). Il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, ma senza aspettare che Grace avesse divorziato dal primo marito Stanley Goreraza, un pilota militare zimbabweano. Fin da subito, Grace si è rivelata una donna ambiziosa. Come segretaria personale del presidente, lo ha spinto a prendere decisioni al limite del ridicolo. Come quando alla signoraè stato riconosciuto il dottorato in Sociologia due mesi dopo l’iscrizione all’università. L’influenza del marito ha certamente contato più delle ore passate sui libri. Ma, ciò che è più grave, ne ha influenzato e ne influenza le decisioni politiche. Dando al regime quell’impronta radicale che ha assunto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano inserito la signora Mugabe nella lista delle personalità zimbabweane soggette a sanzioni per il loro ruolo assunto nel regime.
Grace Mugabe, che ha 52 anni, però non si ferma. Il suo obiettivo è prendere il posto del marito alla presidenza. Fino ad alcuni anni fa, la candidatura sembrava non avere rivali. Poi, lentamente, i gerarchi dello Zanu-Pf hanno iniziato a mettersi di traverso ostacolando con tutti i mezzi possibili la sua ascesa. Lo stesso Mugabe ha ammesso che all’interno dello Zanu-Pf c’è chi la detesta e fa di tutto per sbarrarle la strada. Tutto ciò fa presagire le tensioni che potranno esserci in Zimbabwe dopo la morte del presidente.
Secondo la studiosa di questioni africane, Teresa Nogueira Pinto, intepellata dal quotidiano francese «Le Monde», si prospettano tre scenari possibili per la successione: l’ascesa del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il quale potrebbe aprire a riforme e, quindi, a una transizione morbida; la vittoria di Grace, che porterebbe a gravi tensioni all’interno del partito e quindi un’instabilità continua; l’implosione dello Zanu-Pf che significherebbe guerra civile, caos e violenze.
Opposizione in catene
L’opposizione non ha vita facile in Zimbabwe. La principale formazione che lotta contro lo strapotere di Mugabe è il Movement for Democratic Change (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, per anni Segretario generale dello Zimbabwe Congress of Trades Unions. È un partito di matrice socialdemocratica nato non nelle aree rurali, ma nelle principali città e, in particolare, nella capitale Harare. L’Mdc si è candidato nelle elezioni del 2000, ma solo nel 2008 è riuscito a portare una consistente pattuglia di deputati in parlamento. Lo stesso Mugabe, in una dichiarazione che gli è sfuggita, ha ammesso che Tsvangirai avrebbe il 73% dei consensi in un’elezione presidenziale trasparente e che si svolgesse secondo le regole democratiche.
Ma Tsvangirai non è l’unico oppositore a dar fastidio a Mugabe. Negli ultimi mesi è emersa la figura del pastore battista Evan Mawarire. Il 19 aprile 2016 il religioso ha pubblicato su Facebook un video nel quale, in prima persona e con una bandiera zimbabweana al collo, chiede che il Governo avvii una serie di riforme politiche ed economiche. Quel video è diventato virale e il movimento #ThisFlag, cresciuto a livello nazionale, ha iniziato a promuovere scioperi tra i più partecipati negli ultimi anni in Zimbabwe. Ovviamente, il regime gli si è rivoltato contro. Mawarire, dopo essere stato criticato apertamente dallo stesso Mugabe, è stato arrestato in luglio per incitamento alla violenza pubblica, ma poi è stato rilasciato. Ha deciso così di rifugiarsi negli Stati Uniti, anche per fuggire alle minacce di morte alla moglie e ai figli. Quando il primo febbraio ha deciso di rientrare in patria, ha trovato alla frontiera la polizia che lo ha arrestato di nuovo con l’accusa di voler rovesciare il governo, reato per il quale è prevista una pena di vent’anni di carcere.
La protesta ha fatto altre vittime oltre a Mawarire. La polizia ha incarcerato gli attivisti Linda Masarira, Acie Lumumba, Denford Ngadziore, il giornalista Whatomore Makokoba, l’ex leader studentesco Promise Mkwananzi, il sindacalista Stan Zvorwadza e il pastore Philip Mugadza.
Cristiani divisi
Le Chiese cristiane non hanno posizioni comuni e sono spaccate al loro interno. Alcune parti della Chiesa cattolica hanno provato a opporsi a Mugabe. Monsignor Pius Aleck Mvundla Ncube, arcivescovo di Bulawayo (la seconda città del paese), per anni è stato uno dei principali oppositori di Mugabe. Le sue invettive colpivano duro il regime. Ha organizzato diverse manifestazioni di protesta e in lui molti vedevano un possibile leader dell’opposizione politica. Uno scandalo sessuale però l’ha travolto e indotto a uscire di scena. Un giornale controllato dal governo ha pubblicato nel 2007 alcune foto che ritraevano un uomo nudo insieme a tre donne. Le immagini erano sfocate, ma il quotidiano affermava che quell’uomo fosse proprio mons. Ncube. Papa Benedetto XVI gli ha così chiesto di rassegnare le dimissioni. Cosa che lui ha fatto l’11 settembre 2007 per poi sparire dalla ribalta mediatica e dalla scena politica zimbabweana.
«Alcune frange della Chiesa cattolica – spiega un altro missionario, anche lui sotto richiesta di anonimato – continuano però a denunciare le ingiustizie del regime. E lo fanno con molta più forza di quanto facessero sotto il regime bianco di Ian Smith. Questo è un segnale positivo. Sarebbe però utile che tutti i cristiani fossero uniti, mentre così non è».
La Chiesa anglicana, molto forte nel paese, ha resistito a un tentativo del presidente Mugabe di prenderne il controllo. Alcuni anni fa, Norbert Kunonga, un religioso fedelissimo di Mugabe, ha provato, istigato dal regime, a creare una Provincia anglicana indipendente in Zimbabwe. Ma è stato sconfessato dalla Comunione anglicana e la maggior parte dei fedeli si sono rifiutati di seguirlo.
«Le Chiese cristiane indipendenti – continua il missionario -, supportano apertamente Mugabe soprattutto quando il presidente si scaglia contro gli omosessuali e invita le donne a “rimanere al proprio posto”, cioè a casa. Queste uscite di Mugabe gli garantiscono un forte supporto. Le Chiese pentecostali invece si proclamano apolitiche e non si interessano in alcun modo della lotta per il potere, promuovendo il successo in campo economico».
Quel che resta dell’economia
L’economia è al collasso. Il regime segregazionista di Ian Smith, deprecabile e condannabile sotto il profilo politico e sociale, aveva però lasciato in eredità al paese un’economia funzionante. L’agricoltura era organizzata in modo industriale e riusciva a produrre un surplus che veniva esportato garantendo un’ottima fonte di valuta pregiata. Lo Zimbabwe poi aveva un buon tessuto industriale che creava profitti e occupazione. Le risorse non erano ben distribuite, ma una buona politica economica avrebbe potuto portare una equa redistribuzione dei redditi a vantaggio di tutta la società.
Il primo colpo a questo sistema è stato dato dall’accettazione da parte di Mugabe delle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale. Queste, negli anni, hanno portato a un progressivo impoverimento industriale. «Oggi le statistiche ufficiali – continua il missionario – parlano di un’industria che funziona al 30% delle sue reali potenzialità. In realtà, non esiste più un’industria zimbabweana. Per comprenderlo è sufficiente fare un giro nelle periferie di Harare e di Bulawayo».
Un secondo e mortale colpo all’economia è stato dato dalla riforma agraria del 2000. Fin dai primi giorni dell’indipendenza, Mugabe aveva parlato della necessità di una redistribuzione ai coltivatori neri delle terre in mano ai latifondisti bianchi. Una politica che non era avversata di principio dai grandi farmer, ma che stentava a decollare. La maggior parte delle terre migliori, alla fine degli anni Novanta, era ancora in mano ai bianchi che, però, solo in parte erano gli eredi dei coloni britannici. Mugabe, cogliendo l’occasione del mancato supporto dei bianchi a un suo progetto di riforma costituzionale (che prevedeva la nomina a presidente a vita dello stesso Mugabe), nel 2000 ha varato una riforma agraria che ha espropriato le terre dei bianchi assegnandole però non ai contadini neri, ma ai fedelissimi del regime (in maggioranza incapaci di gestire una grande tenuta). L’economia è così crollata.
Oggi lo Zimbabwe è un paese che deve importare derrate agricole. Per placare l’inflazione, la valuta locale è stata ritirata e sostituita dal dollaro statunitense. Il 70% della forza lavoro è disoccupata. Ma forse Mugabe si occuperà di questa crisi nel prossimo mandato.
Enrico Casale
Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»
C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.
«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».
La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.
L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».
Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.
Flussi tra montagna e città
Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».
I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».
«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».
Servizi addio
Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.
Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».
Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.
Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».
Migranti in quota
A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.
«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.
In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».
«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».
Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».
Rancore o accoglienza?
Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.
«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».
Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.
«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».
Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.
«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».
Turismo «dolce»
Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.
Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.
Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.
Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».
Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.
Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.
È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.
I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.
Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».
Vado a vivere in montagna
Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.
«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.
Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.
«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.
Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.
Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.
Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.
Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».