Lumache e camaleonti
Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.
Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.
«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.
Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?
Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.
E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.
Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.
Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».
Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».
Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?