Islam 3: I motivi della deriva islamica
Il radicalismo islamico ha le sue ragioni. Quelle endogene: le correnti del rinnovamento non hanno mai trovato sbocchi. E quelle esogene: i grossolani errori dell’Occidente come l’appoggio incondizionato a Israele, la corrività con regimi reazionari, le ingerenze neocoloniali. Incontro con il professor Massimo Campanini, islamologo.
Prosegue la nostra inchiesta sul radicalismo islamico, o «islam politico», per cercare di capire quali sono i termini, gli attori e le dinamiche in gioco, sia a livello storico che attuale, che coinvolgono popoli e aree travalicando frontiere e culture. Per una miglior comprensione del complesso fenomeno è importante definire sia una terminologia appropriata sia il contesto ideologico e storico.
Ne abbiamo parlato con il prof. Massimo Campanini, uno dei maggiori studiosi e islamologi contemporanei del Vicino e Medio Oriente arabo, docente associato di Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e autore di numerosi e interessanti saggi sull’islam e il mondo arabo-islamico.
L’uso politico dell’islam
Prof. Campanini, fondamentalismo, integralismo, radicalismo, islam politico, islamismo: qual è il termine più corretto per definire l’uso politico dell’islam?
«La definizione di una terminologia precisa per definire un fenomeno sfuggente è naturalmente molto importante. Tutti quelli suggeriti sono nomi potenzialmente utili che catturano almeno un aspetto del fenomeno; ma ciò dimostra come tale fenomeno sia poliedrico e vario, e niente affatto monolitico, come perlopiù la stampa e i mass-media lo dipingono. Proprio per la complessità del fenomeno i termini elencati risultano comunque insoddisfacenti. Che l’islam nelle sue espressioni radicali sia fondamentalista è vero, ma è anche una verità ovvia: quale religione o ideologia non sono fondamentaliste? Un ebreo farebbe a meno di ricorrere alla Torah? O un cristiano ai Vangeli? O un comunista al Capitale di Marx? Dunque dire che l’islam è fondamentalista perché ricorre al Corano e alla sunna del Profeta è un’ovvietà che non spiega nulla. Oltre a questo, c’è da dire che la definizione di fondamentalismo è derivata dai cristiani radicali, soprattutto anglosassoni, per cui non è immediatamente applicabile a contesti storici e culturali diversi.
Il termine islam radicale è altrettanto corretto se si indicano le tendenze estremiste, magari di lotta armata, ma l’islamismo, cioè l’idea fondamentalista dell’islam, non è per ciò ipso facto radicale dal punto di vista politico, né automaticamente votato al jihad. Molte correnti che possono dirsi “islamiste” come i salafiti di al-Albani o Ibn Baz o l’organizzazione di origine palestinese di Nabhani sono a-politiche e/o quietiste. D’altro canto, islamismo in sé è troppo generico, poiché rappresenta un ombrello troppo ampio. A mio parere quindi, la locuzione migliore è quella di “islam politico” in quanto indica la volontà da parte degli islamisti riformatori di impegnarsi in politica mirando a ricostituire una società e uno stato islamici. Tuttavia, i suddetti salafiti quietisti non rientrano in questa prospettiva, per cui, per esempio, sono avversari dei Fratelli musulmani che partecipano all’agone elettorale o alle lotte sindacali. Insomma bisogna adattarsi a scelte terminologiche perlopiù soggettive, con la consapevolezza che nessun termine è davvero soddisfacente e onnicomprensivo».
Le correnti islamiche
Islam politico come «alternativa islamica»: è una lettura che decostruisce diversi luoghi comuni. Ce ne vuole parlare?
«La tesi che ho sostenuto in diversi libri tra cui, appunto, L’alternativa islamica è che l’islamismo riformista o riformismo islamista (le due locuzioni funzionano entrambe e sono speculari) hanno rappresentato per un breve periodo di tempo, diciamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, una tendenza potenzialmente costituente di un nuovo ordine politico. Mi riferisco, ovviamente, in primo luogo al Khomeinismo, prima che degenerasse in clericalismo e autocrazia, e a realtà di grande complessità teorica e organizzativa come Hezbollah, ma anche alla cosiddetta “Sinistra islamica”, sunnita, che si è espressa spesso in “teologia islamica della liberazione” (Hasan Hanafi) in paesi come l’Egitto o la Siria-Libano. Gli stessi Fratelli musulmani, riemersi dalle persecuzioni durissime dell’epoca del nasserismo, o quantomeno gruppi di azione politica e sociale che provenivano da quell’ambiente, come la cosiddetta Wasatiyya (“Via Mediana”) studiata soprattutto da Raymond Baker, hanno saputo esprimere per qualche tempo una vena di rinnovamento endogeno all’islam che richiamava quella di Muhammad ‘Abduh agli inizi del Novecento. Tutte queste tendenze sono poi state purtroppo neutralizzate sia dall’emergere di correnti jihadiste violente, sia dal loro stesso elitarismo, sia dall’indifferenza o ostilità di cui li ha circondate l’opinione pubblica occidentale che ha continuato a vedervi forze “terroristiche” e dunque non ne ha appoggiato lo sforzo modernizzante pur espresso nel quadro dell’islam. Un grave errore politico da parte dell’Europa».
Gli errori dell’Occidente
Quali sono, secondo lei, i contesti politici e culturali in cui si è sviluppato il radicalismo islamico?
«Il radicalismo islamico ha rappresentato la reazione esasperata a tre fattori: a) l’inasprirsi della crisi economica a partire dagli anni Settanta che ha pauperizzato le classi medio-basse e proletarie; b) il soffocamento della società civile da parte di regimi autocratici o francamente tirannici, sortiti dai processi di decolonizzazione, i quali, invece di condurre una funzione egemonica in favore delle popolazioni, si sono alleate alle lobby economiche; c) last but not least, l’infinita serie di errori della politica occidentale euro-americana in Medio Oriente, dall’incondizionato e pregiudiziale appoggio a Israele – a prescindere da qualsiasi legittimità delle richieste arabe -, al saccheggio delle risorse energetiche, dalla corrività con regimi reazionari come l’Arabia Saudita (o l’Egitto di Mubarak o la Tunisia di Ben ‘Ali), all’ingerenza neocoloniale, o neocrociata, nelle dinamiche geopolitiche della regione mediorientale. Più difficile dire se il richiamo ad aspetti come il jihad, costitutivi della tradizione politico teologica islamica siano stati il motore o non piuttosto l’effetto della strumentalizzazione della religione di cui si è imbevuto il messaggio terrorista ed estremista. Quest’ultimo ha certo trovato nell’ideologia giuridica classica del jihad un sostegno teorico, ma altrettanto certamente l’ideologia del jihad è stata interpretata in modo conveniente ai fini politici dei gruppi eversivi».
La Fratellanza musulmana
Quale ruolo ha avuto e ha tuttora la Fratellanza musulmana nelle dinamiche geopolitiche attuali e, in specifico, nei movimenti radicali?
«Dipende dai contesti. In Egitto, dopo la feroce repressione di al-Sisi tra il 2013 e il 2014, la Fratellanza musulmana è temporaneamente fuorigioco, ma certo starà lavorando sottacqua e probabilmente cercando di riorganizzarsi anche all’estero. In molti altri paesi arabi operano gruppi che si richiamano a una matrice comune alla Fratellanza musulmana transnazionale, ma che non sono più Fratellanza musulmana in senso stretto. Penso al partito Justice et Développement in Marocco, attualmente al governo, o ad Ennahda in Tunisia, che ha governato e che ora, pur non essendo più il partito di maggioranza, lavora ancora attivamente e proficuamente nel sociale e nel campo politico. Non credo sia possibile oggi divinare quale sarà il futuro di queste organizzazioni: stanno vivendo una fase di transizione e di trasformazione anche ideologica i cui esiti saranno tutti da verificare».
Al-Qa’ida e Daesh
Lei afferma che al-Qa‘ida e Daesh, in quanto deriva terroristica del radicalismo, hanno interrotto il processo di costruzione dell’«alternativa islamica». Quali sono gli scenari del prossimo futuro?
«Ridurre al-Qa‘ida e l’Isis a puri fenomeni terroristici, siano essi causati dall’irrazionalismo nichilista, come vuole Oliver Roy, o dalla radicalizzazione ideologica dell’islam, come vuole Gilles Kepel, è insufficiente: essi sono i prodotti delle circostanze che ho chiarito poco sopra, per cui, sconfitti loro, e lo saranno certamente prima o poi, riemergeranno altre organizzazioni estremiste. Per affrontare l’estremismo armato bisogna sanare le ferite che lo hanno provocato: dalla crisi economica all’autoritarismo violento dei regimi dei paesi islamici agli incredibili errori dell’Occidente. Ma non mi pare di vedere segni positivi in questa direzione. Le strategie sono sempre le stesse, almeno per ora».
Alcuni studiosi ritengono che già alla sua nascita l’islam si fosse manifestato come «anti-sistema» – se pensiamo al potere esercitato dal clan Quraish ai tempi del profeta Muhammad -, che poi la sua carica rivoluzionaria si sia persa dopo il periodo dei «califfi ben guidati» (VII?secolo d.C.), che successivamente sia stata ripresa dai kharijiti e poi dal pensiero radicale di Taymiyya e altri. Cosa ne pensa?
«Ali Shariati (sociologo iraniano, 1933-1977, ndr) affermava che l’islam è una religione per natura rivoluzionaria, e con lui i teologi della liberazione della alternativa islamica, come Hasan Hanafi. È proprio in tal senso che essi consideravano il profeta Muhammad o suo nipote Husayn come leader anti-sistema. Il periodo successivo alla fitna (dissenso, ndr), allorché la guerra civile tra alidi (i seguaci del califfo ‘Ali, ndr) e omayyadi (un potente clan meccano, ndr), ha frantumato la Comunità e “falsificato la coscienza islamica” (espressione di Nasr Abu Zayd) attraverso la strumentalizzazione politica della religione, ha in certo senso deviato, senza più possibilità di ritorno, almeno finora, il percorso storico ideologico dell’islam. Ibn Taymiyya (giurista e teologo, 1263-1328, ndr) ha proposto una sorta di rinnovamento dello stato sulla base della sharia, la legge religiosa, ma non può essere considerato il responsabile dell’esclusivismo che, nel corso dei secoli, ha spesso caratterizzato l’islam conservatore e tradizionalista. Era un pensatore intransigente, ma i qaidisti o gli estremisti dell’Isis che lo evocano utilizzano il pensiero di Ibn Taymiyya, enfatizzandone gli aspetti di rigore estremo, e senza cogliere la novità di una proposta di metodo prima ancora che di merito che era utile nel periodo (XIV secolo) successivo alla scomparsa del califfato».
Il fallimento delle «primavere arabe»
«Primavere arabe»: nate da uno slancio di cambiamento e ricerca di giustizia sociale e politica, si sono trasformate in conflitti permanenti o in instabilità. Cos’è, secondo lei, che non ha funzionato? Quale è stato il ruolo dell’islam o dei movimenti radicali nelle rivolte arabe?
«A mio parere le “primavere arabe” sono fallite per molti motivi: a) lo spontaneismo acefalo delle prime fasi delle rivolte che non si sono coagulate in proposte politiche effettive; b) l’incapacità dei partiti islamici che hanno gestito la fase centrale della transizione rivoluzionaria di esercitare “egemonia” in senso gramsciano, e dunque di essere veramente le guide intellettuali, morali e politiche delle masse in cerca di una direzione, c) il prevalere di forze centrifughe tribali (Libia, Yemen) o alimentate da attori esterni ambigui (Siria, dove l’Arabia Saudita e il Qatar hanno favorito l’affermarsi di gruppi radicali armati); d) il fatto di essere “scoppiate” in un contesto storico indebolito dalla crisi dei regimi così come dalle precedenti infiltrazioni qaidiste e dalle ingerenze interessate delle grandi potenze che spesso si sono tradotte in stallo invece che in dinamismo (le rivalità aspre tra Arabia Saudita e Iran, ma soprattutto tra Stati Uniti e Russia). D’altra parte, le primavere arabe hanno rappresentato un potenziale laboratorio politico per l’islamismo, ma i Fratelli musulmani sono stati ferocemente repressi; Ennahda in Tunisia ha negoziato una transizione democratica che l’ha assorbita in un quadro politico tradizionale; le tensioni tribali tra sunniti e sciiti in Yemen hanno in breve tempo neutralizzato gli effetti di riforma istituzionale della “rivoluzione”».
Oltre i gruppi radicali
Osservando gli sviluppi in corso in Libia e Siria viene da pensare che ci sia stata un’alleanza «tattica» tra agende occidentali e certi gruppi radicali islamici. Cosa ne pensa?
«La domanda, allo stato delle cose, mancando documentazione certa e certezze interpretative, può avere una risposta solo “dietrologica”. Mi limito perciò a dire che con tutta probabilità Gheddafi in Libia è caduto più per l’intervento diretto dell’Occidente che per la forza dei rivoltosi; mentre l’affermazione dell’Isis in Iraq e Siria deve essere stata “aiutata” se non addirittura “preorganizzata” da qualcuno che ha lavorato in incognito approfittando del marasma seguito alla sciagurata guerra di George Bush nel 2003: e i paesi occidentali, più, ovviamente, Israele su cui sempre si tace, sono i candidati naturali per ricoprire questo ruolo».
Il caso della Libia
Qual è stato il ruolo della Fratellanza musulmana e di altri movimenti dell’islamismo politico in Libia?
«Al momento della rivolta contro Gheddafi, apparentemente minimo. Quando Gheddafi è stato ucciso e la Libia è stata “liberata” è ovvio che le organizzazioni dell’islamismo politico abbiano trovato terreno fertile dove intervenire e consolidarsi, magari dietro il paravento di governi più o meno legittimi».
Angela Lano
(terza puntata – continua)
I libri di Massimo Campanini
- Storia del pensiero politico islamico, Mondadori / Le Monnier, 2017;
- Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi, Mulino, 2017;
- Storia del Medio Oriente, Il Mulino, 2014;
- Le rivolte arabe e l’islam: la transizione incompiuta, Il Mulino, 2013;
- L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, 2012;
- Ideologia e politica nell’islam: fra utopia e prassi, Il Mulino, 2008;
- I sunniti, Il Mulino 2008;
- Arcipelago Islam, Laterza, 2007;
- Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, 2006;
- Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, 2005;
- Storia dell’Egitto contemporaneo, Edizioni Lavoro, 2005;
- Islam e politica, Il Mulino, 1999.