Egitto: I Copti


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Questo è il terzo dossier che dedichiamo alle minoranze dimenticate ed oppresse. Il primo ha parlato degli Yazidi dell’Iraq (marzo 2017), il secondo dei Rohingya del Myanmar (aprile 2017).

 


Introduzione:
Nonostante tutto

I copti sono i discendenti degli antichi egizi. Attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo si convertirono al cristianesimo. Sei secoli dopo in Egitto arrivarono gli arabi e l’islam. Tra invasori e conversioni, la comunità copta si ritrovò minoranza. Oggi i copti sono 10-13 milioni su una popolazione egiziana complessiva di 90. Non hanno mai avuto un’esistenza facile: violenze e attentati contro di loro sono da sempre una costante. In questi anni, in particolare, prima la Fratellanza musulmana, poi l’Isis, ne hanno fatto l’obiettivo preferito.

In Egitto la shari’a è stata ufficialmente introdotta nell’ordinamento con un emendamento costituzionale del 1980, durante la presidenza di Sadat. Da allora sono cambiati i presidenti, ma l’articolo 2 della Costituzione recita sempre: «I principi della shari’a islamica sono la fonte principale della legge». Un macigno sulla testa di chiunque non sia musulmano.

Per ora pare impossibile prevedere un cambio: la shari’a, intollerabile in qualsiasi paese che abbia la democrazia e la laicità come pilastri della propria esistenza, rimarrà a decidere della vita e della libertà delle persone. Shari’a, Fratellanza musulmana, Isis, tutto sembra congiurare contro i copti. Eppure resistono. Nonostante tutto.

 Paolo Moiola


La Chiesa copta ortodossa:
Tra persecuzioni e inattese fioriture

Nata all’ombra delle piramidi attorno al 40 dopo Cristo in seguito alla predicazione dell’evangelista Marco, la Chiesa copta ha una lunga storia di persecuzioni e sofferenze, soprattutto in Egitto, paese islamico. Eppure, con 15 milioni di fedeli sparsi nel mondo, questa Chiesa è fiorente, viva e dinamica oltre ogni aspettativa.

Gli ultimi attentati e la recentissima storica visita in Egitto di papa Francesco hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le vicende di una Chiesa antica che sconta secoli di discriminazioni e persecuzioni: la Chiesa copta ortodossa. Nata all’ombra delle piramidi dalla predicazione dell’evangelista Marco, rappresenta uno dei più grandi paradossi della Storia. Pur portando, infatti, tutto il peso di una eredità storica antica quanto il cristianesimo appare al contempo viva e dinamica come fosse nel fior fiore della gioventù. «Lo straordinario rinascimento della Chiesa copta ortodossa degli ultimi decenni – scriveva il coptologo tedesco Otto Meinardus – è uno dei grandi eventi storici della cristianità a livello mondiale. Mentre in altre parti del mondo, gli storici diagnosticano una certa stagnazione della testimonianza cristiana, i figli e le figlie dei faraoni sono pieni di un entusiasmo inaudito per il Regno di Dio e per l’evangelizzazione». Una Chiesa in piena fioritura, dunque, la più seguita nei territori dominati dall’islam, che dalla metà del secolo scorso ha scavalcato i suoi confini naturali. La migrazione dei copti, infatti, ha raggiunto praticamente ogni parte del globo. Nelle principali città italiane è ormai possibile conoscere da vicino questa realtà grazie a una comunità coesa e dinamica, capace di convivere e di integrarsi a livello sociale e lavorativo, che offre una testimonianza cristiana sempre discreta ma intensa. È guidata da un metropolita e da un vescovo ed è servita da numerose parrocchie. In Italia si parla, dunque, anche copto.

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Tawadros II, il papa dei copti

Una fioritura, quella dei copti, avvenuta a prezzo di grandi sacrifici. Le cronache degli ultimi anni ci raccontano di cristiani egiziani cacciati dalle loro terre, che vedono le loro chiese distrutte, le loro case date alle fiamme. La stampa mondiale racconta di uomini e di donne pacifici trucidati dalla furia fondamentalista. Come dimenticare i martiri copti di Sirte, in Libia, che, nel 2015, fino al momento di essere sgozzati per la propria fede, non hanno smesso di invocare sui propri nemici il nome di colui «che ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (Gal 2,20), Gesù? La storia non è stata di certo clemente con questa Chiesa orientale. Si può dire che – tranne brevi periodi – i cristiani egiziani hanno vissuto grandi sofferenze. Recentemente un monaco del deserto egiziano, un abba, mi ha mostrato un’antica icona in cui era dipinta una croce fiorita. Poi mi ha consegnato una massima che sintetizza la storia di questa comunità: «Solo dall’albero della Croce nascono i fiori!». È tenendo bene in mente il paradosso della Croce che dobbiamo leggere il miracolo di questa Chiesa che fiorisce e cresce mentre, temprata nella fede, viene irrorata dal sangue dei suoi martiri. Non diceva già Tertulliano che «il sangue dei martiri è seme di cristiani»?

Malgrado i media parlino molto spesso delle tragedie dei copti, si fa sempre più urgente la necessità di conoscersi di più. Dopo secoli di estraniamento, è necessario incontrarsi faccia a faccia, ascoltarsi, comprendere le ragioni dell’altro. Basti pensare che non è scontato sapere che in queste terre è nata e si è sviluppata la scuola teologica probabilmente più importante del cristianesimo antico, quella di Alessandria, che ha conosciuto personaggi del calibro di Origene e Clemente. Qui il monachesimo ha mosso i suoi primi passi grazie all’ispirazione dei grandi padri del deserto Antonio, Macario, Pacomio per poi irradiarsi in tutto il Mediterraneo. Qui si prega ancora secondo una delle liturgie più antiche al mondo, quella alessandrina. La Chiesa copta è anche l’unica Chiesa che, insieme a quella romana, chiama il proprio patriarca «papa». L’attuale papa si chiama Tawadros II, un vero «dono di Dio» (questo significa il suo nome) alla Chiesa universale.

Monofisita? Il peso di un’etichetta eretica

Tra i cliché duri a morire c’è quello legato al monofisismo. Spesso si sente purtroppo ancora parlare di «chiesa monofisita». Questa etichetta, affibbiata per secoli ai copti, li ha di fatto bollati come eretici associandoli all’eresia di Eutiche (378-456), monaco di Costantinopoli, anatematizzato al Concilio ecumenico di Calcedonia (451), che paragonava l’umanità di Cristo a una goccia di vino in un oceano di acqua (divinità). Sarebbe quanto meno sorprendente che la Chiesa che ha generato un sant’Atanasio (ca. 296-373), campione del primo concilio ecumenico di Nicea (325) e autore di un’opera intitolata «L’incarnazione del Verbo», abbia potuto in pochi decenni deviare verso un’eresia che nega un mistero cristiano così fondamentale. I copti credono, invece, profondamente sia alla divinità che all’umanità di Gesù e quando parlano di ‘una natura’ riprendono un’espressione usata da Cirillo di Alessandria (ca. 375-444), dottore della Chiesa universale: «Una sola natura del Verbo di Dio incarnato» (mía phýsis, in greco). In Cristo esiste una sola natura composita, al contempo divina e umana, senza confusione (umanità e divinità, seppur unite, sono rimaste distinte) e senza cambiamento (Dio è rimasto Dio pur diventando uomo). Questa formula intende esprimere il mistero dell’unità insita nella persona del «Dio fattosi carne», dell’Emmanuele, mistero che è continuamente cantato dalla spiritualità copta. Data la taccia che è stata attribuita al termine «monofisismo» nel corso della storia, è bene non chiamare mai la Chiesa copta «chiesa monofisita» (da evitare anche l’infelice neologismo «miafisita»), anche perché la Chiesa egiziana non si autodefinisce mai così ma si chiama, semplicemente, «ortodossa». La famiglia ecclesiale della Chiesa copta ortodossa (detta «precalcedonese» o degli «ortodossi orientali») comprende anche la Chiesa siro-occidentale, l’etiopica, l’eritrea, la malankarese e l’armena e conta circa 85 milioni di fedeli.

Copto ovvero cristiano d’Egitto

Cosa significa «copto»? Semplicemente «egiziano». Il termine inizia a comparire in epoca islamica ma la sua origine è più antica ed è connessa a uno dei nomi sacri della città di Menfi, capitale dell’antico regno (dal 2700 a.C. al 2200 a.C.) che si trova a pochi chilometri dall’attuale Cairo: Hikaptah, cioè «la dimora del Ka (principio vitale per la religione egizia) di Ptah». Da questo nome derivò il nome greco Aigyptos da cui Egitto. La parola storpiata in arabo, «qibti», indicava quindi solamente un’origine etnica: «egiziano». Ma fu presto confuso con «cristiano» perché la maggioranza degli egiziani all’epoca dell’invasione islamica del VII secolo era cristiana. Oggi il termine indica un dato religioso ed etnico insieme e cioè «cristiano d’Egitto». Inoltre con «copto» si designano anche la lingua, l’arte e la civiltà dell’Egitto tra la fine dell’epoca tolemaica e l’islamizzazione del paese, cioè dal 30 a.C. fino al VII sec. all’incirca. Non è un caso che, profondamente egiziani e radicati nella cultura del proprio territorio, i copti si considerino discendenti degli antichi egizi e depositari della loro cultura.

Egitto, terra biblica

In principio, dunque, è l’Egitto. Terra misteriosa, ben presente nella storia della salvezza, è da sempre legata alle sorti del popolo di Israele. «Egitto» appare nella traduzione Cei ben 594 volte. Molti dei personaggi dell’Antico Testamento li troviamo di qui. Terra di rifugio per Abramo, Isacco e Giacobbe; terra di schiavitù per Giuseppe e Mosè. Proprio Mosè, prima di diventare capo e simbolo del popolo di Israele, si forma alla scuola della civiltà egizia tanto da venire descritto dalla Scrittura come «istruito in tutta la sapienza degli Egiziani» (At 7,22). Il popolo ebraico, liberato dalla schiavitù egizia in maniera miracolosa, mentre è nel deserto, si lamenta con Mosè di non poter più mangiare i succosi cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio d’Egitto (cf. Nm 11,5).

Ma l’Egitto non è stato solo il teatro di una storia «non sua». Al contrario, è stato esso stesso oggetto di molte profezie bibliche. Basta citarne soltanto una che i copti hanno sempre letto come profezia dell’evangelizzazione del paese. Si trova in Isaia 19, il cosiddetto «oracolo sull’Egitto»:

«Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto […]. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno […]. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità».

Quell’Egitto che aveva tenuto come schiavi gli ebrei, divenuto simbolo del male per eccellenza, diventerà «benedetto», diventerà «suo popolo».

Marco arriva ad Alessandria

Stando a Eusebio di Cesarea, pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, verso gli anni 40, san Marco Evangelista va ad annunciare la buona novella ad Alessandria. È in un’Alessandria cosmopolita e multireligiosa che giunge l’apostolo Marco che proveniva da Roma. Centro dell’Oriente ellenistico, Alessandria è testimone di un’intensa attività culturale. Qui esiste un’importante comunità ebraica che è stata protagonista della prima traduzione dell’Antico Testamento in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, realizzata tra il III e il I sec. a.C.. Qui Filone, ebreo di Alessandria, nel tentativo di conciliare ellenismo e giudaismo, sviluppa un’esegesi della Bibbia che preferisce, all’interpretazione letterale, una allegorica che influenzerà molto il Didaskaleion, la prima «università» teologica cristiana, nata ad Alessandria verso la fine del II secolo d.C..

In realtà, i copti ritengono che il primo ad evangelizzare l’Egitto non sia san Marco (che pure considerano il «fondatore» della propria Chiesa) ma Gesù stesso. Bisogna risalire ad almeno una quarantina di anni prima quando la Sacra Famiglia scappa in Egitto per sottrarsi all’ira di Erode. Anche qui, una profezia veterotestamentaria sull’Egitto diceva: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). Diversi testi apocrifi, tra cui il Vangelo arabo dell’infanzia (ca. V sec.), e numerose tradizioni copte, riferiscono i dettagli del soggiorno di Gesù, Maria e Giuseppe che fu ricco di eventi miracolosi e portò molti a credere in Cristo. Ancora oggi esistono delle chiese fondate sui luoghi delle tappe più importanti di questo passaggio. L’Egitto è quindi l’unica terra, oltre a quella di Palestina, ad essere stata calpestata dal Verbo incarnato.

Dall’imperatore Diocleziano alla spaccatura di Calcedonia

I copti chiamano affettuosamente la loro chiesa Umm al-shuhada’, la «Madre dei martiri». Iniziate nel III secolo, le discriminazioni nei confronti dei cristiani copti non si sono praticamente mai arrestate. Con l’arrivo di Diocleziano nel 284 la Chiesa egiziana vive una drammatica persecuzione che miete un gran numero di martiri. Quest’epoca terribile ha avuto un tale effetto che la Chiesa copta fa cominciare il suo calendario il 29 agosto (calendario giuliano) 284, data d’inizio dell’impero di Diocleziano. Il 2017 corrisponde al 1733 del calendario copto. La persecuzione, arrestatasi nel 313 con l’editto di Milano che decreta la libertà religiosa per i cristiani dell’impero romano, riprenderà in altre forme poco più tardi. Inizia l’epoca d’oro di questa Chiesa, IV e V secolo, stroncata dal disastro del 451. Al Concilio di Calcedonia si consuma una delle più dolorose spaccature all’interno dell’ecumene cristiana. Incomprensioni sulla natura di Cristo, mescolate a ragioni di tipo geoecclesiale, portano la Chiesa egiziana a essere estromessa dalla comunione con le altre Chiese. Il risultato è una nuova era di persecuzioni a opera dell’establishment ecclesiale appoggiato dall’imperatore, fino al momento all’avvento dell’islam nel VII secolo.

Il Grande Imam di al-Azhar, Sheikh Ahmed Mohamed al-Tayeb, e Popa Tawadros II di Alessandria.
/ AFP PHOTO / Khaled DESOUKI AND KHALED DESOUKI

Vivere da cristiani in un paese islamico

Isolando i copti dagli altri cristiani, l’islam certifica definitivamente la definizione di «Chiesa di martiri». I nuovi dominatori islamici, infatti, fanno di tutto per favorire la conversione alla loro religione dei cristiani egiziani, spesso con metodi per nulla pacifici.

Considerati cittadini di seconda categoria, i cristiani devono aspettare un millennio, l’epoca moderna, per reclamare e ottenere alcuni diritti civili. Per esempio, è solo nel 1855 che i copti vengono esentati dal pagare la jizya, una pesante tassa pro-capite imposta dallo stato islamico ai non musulmani. Ma il movimento islamico radicale, che si rafforza in Egitto soprattutto a partire dagli anni Settanta, rimette nuovamente in discussione i diritti acquisiti nel XIX e XX secolo e i copti, con l’imposizione di una costituzione che fa della shari‘a la sua fonte legislativa, subiscono un’ondata di persecuzioni che continua a tutt’oggi in un paese profondamente islamizzato.

La visita di papa Francesco, molto amato dai cristiani egiziani, è giunta a infondere coraggio e speranza non solo ai copti ma a tutti gli abitanti di questa terra sofferente che, sequestrata dal fanatismo, cerca con fatica un po’ di pace, condizioni di vita migliori e, soprattutto, maggiore tolleranza. Oggi come ieri, la Chiesa di Alessandria continua a donare ai suoi vicini musulmani e al mondo una delle testimonianze cristiane più fedeli: dall’albero della Croce non possono che nascere fiori di riconciliazione e di pace.

Markos el Makari

Cronaca degli ultimi attacchi:
Egiziani (eppure stranieri in patria)

Dallo stato egiziano ai Fratelli musulmani fino all’Isis. Ai copti non sono mai mancati i nemici, come dimostra la lunga sequela di fatti di sangue. Oggi sostengono il presidente al-Sisi. Più per questioni di sopravvivenza che per reale convinzione.

Un patrimonio culturale immenso, un ruolo cruciale nella storia del cristianesimo, una pietra miliare della spiritualità. Ma non è per nessuna di queste ragioni che oggi i copti sono così in voga.

L’11 dicembre 2016 un attentatore suicida entra nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e, non conoscendo bene l’anatomia di una chiesa copta (o forse perché la conosce fin troppo bene), si dirige nella navata nord, quella delle donne, e lì, dalle ultime file, si fa esplodere.

Al-Sisi non ha dubbi: l’autore dell’atroce atto sarebbe stato il giovane ventiduenne Mahmoud Shafiq Mohammed Mustafa, carico con 12 kg di tritolo. L’esplosione è fortissima, i morti sono 29, quasi tutte donne e bambine. La chiesa si trova nel complesso della cattedrale di San Marco, a pochi passi da Sua santità papa Tawadros II che rivendica: «Non è un disastro soltanto per la Chiesa, ma per tutta la Nazione». Pochi mesi dopo – nella domenica delle Palme – l’Isis colpisce di nuovo e in maniera devastante: in due attentati rimangono uccise 47 persone.

Tensioni quotidiane

La persecuzione dei copti in Egitto è un fenomeno peculiare e con forti componenti sociali dal carattere strisciante (difficile per un copto, ad esempio, diventare dirigente di una struttura pubblica).

I copti vivono nello strettissimo ghetto che si trova fra il potere militare e la teocrazia underground degli integralisti islamici. Fra l’incudine e il martello, impossibilitati ad avere una vita sociale aperta: amori, contenziosi o anche liti condominiali con la restante popolazione di fede islamica, ma solo cordialità di facciata, timidi e diffidenti rapporti di lavoro.

Un esempio è quello della settantenne di al-Minya che, nel maggio 2016, è stata denudata e portata in processione per le strade del villaggio perché accusata di avere una liaison sentimentale con un uomo musulmano sposato. E questo per non parlare degli esiti di vicende amorose analoghe, ma a parti invertite. Si tratta di un vissuto che però viene meno nel momento in cui attraversiamo il confine del benessere. È molto difficile, infatti, che gli egiziani dei ceti più alti vivano conflitti di questo genere.

Un altro caso simbolo è quello di Nag Hammadi, cittadina a 80 km da Luxor. Il primo dell’ultima serie di attacchi «natalizi» che si sono verificati in questi ultimi anni. È la vigilia di Natale, la notte fra 6 e 7 gennaio 2010, terminata la messa i fedeli si scambiano gli auguri in un clima a dir poco infuocato. Pochi giorni prima, il vescovo Kyrillos aveva già allertato le forze dell’ordine, che gli avevano consigliato di far anticipare la messa di mezzanotte di un’ora. Ma non basta a evitare il massacro. Uomini armati attraversano il cortile della chiesa in macchina sparando sui fedeli. Muoiono in nove, otto cristiani e un musulmano.

Nei giorni successivi viene fuori il movente (per altro già ben noto ai locali): una spedizione punitiva nei confronti della comunità per vendicare una ragazzina dodicenne vittima di abusi sessuali da parte di un copto. Non è né la prima né l’ultima volta che a pagare le spese degli errori e dei crimini (ma anche dei passi falsi e delle passioni) di un solo uomo, sia tutta la comunità dei fedeli.

Il caso di Nag Hammadi è uno dei primissimi ad avere un’ampia copertura mediatica, godendo anche di una diffusione virale sui social network.

Tutto ciò consente agli attivisti di organizzarsi in manifestazioni al Cairo contro l’assordante silenzio delle autorità egiziane. A ben due settimane (oggi impensabile) dall’evento, l’allora presidente Hosni Mubarak si esprimerà condannando per la prima volta il massacro, non senza una cospicua campagna di arresti nei confronti degli attivisti.

“I Cristiani sono Egiziani” è scritto nel cartello di questo manifestante copto durante una manifestazione al Cairo nell’agosto 2016. (Mohamed El Raai / Anadolu Agency)

Sospetto, diffidenza, deferenza

È per tutti questi meccanismi sociali, che agli occhi dei comuni musulmani – quelli che noi definiremmo «moderati» – la popolazione dei copti è un po’ come se facesse vita a sé, sempre pronta a rimarcare il fatto di essere cristiana. A molti musulmani viene quindi da pensare: «Ma perché non si comportano normalmente? Come mai sono così chiusi?». E da qui a «Nascondono forse qualcosa?», il passo non è breve, di più. L’alone di mistero che circonda i copti non è quindi fonte di ammirazione, curiosità o fascino per gli egiziani, ma soltanto di sospetto e diffidenza ulteriore.

Lo stato, d’altro canto, non è mai stato un amico. E questo concetto è ben chiaro a molti copti, nonostante le accoglienze messianiche che hanno sempre riservato ad ogni visita di sua maestà al-Sisi.

Un occhio psicoanalitico sarebbe in grado di rivelare come i copti quasi si compiacciano della propria servilità dimostrata nei confronti del potere militare. Se a livello internazionale c’era da dimostrare che i diritti umani erano rispettati, i militari tiravano in mezzo la pacifica convivenza di cui godono i copti all’interno del paese; se serviva ridimensionare i copti per calmare i bollenti spiriti degli islamisti, venivano ridimensionati; e se serviva mobilitarli in massa per andare a «votare», venivano mobilitati tranquillamente. Il tutto con il soddisfatto consenso dei cristiani d’Egitto, come se questi si sentissero in qualche modo importanti. Una sorta di «sindrome di Stoccolma», ma anche un attaccamento fortissimo alla patria. La storia degli ultimi anni è quanto mai emblematica di tutto questo meccanismo.

Da un attentato all’altro

Siamo nel 2011. Un anno dopo il massacro di Nag Hammadi, più o meno lo stesso periodo dell’anno. È l’inizio dei rivolgimenti per tutta una serie di governi del Nord Africa e del Medio?Oriente sulla cui stabilità ci saremmo giocati tutto: è l’inizio delle cosiddette «Primavere arabe».

Chiesa dei Santi, Alessandria d’Egitto, notte di Capodanno: i fedeli sono tutti in chiesa per celebrare l’arrivo del 2011. Moriranno in ventitré. Si tratta di un attentato preso ad esempio per i successivi, quello del dicembre 2016 e quello della domenica delle Palme 2017. Un attentato suicida che arriva in un paese in fortissima crisi sociale, e c’è chi comincia a insinuare che ci possa essere anche la mano del governo… Sì, è l’inizio della fine.

Muhammad Hosni Mubarak cadrà qualche settimana più tardi in seguito a una rivoluzione popolare dalla portata faraonica.

Nessuno può dire esattamente quale sia stato il movente dell’attentato di Capodanno. Ma c’è uno scandalo (apparentemente davvero irrilevante) che, da qualche tempo, è sulla bocca di tutti: lo strano caso «Camelia Shehata e Wafaa Costantine». È la storia di due donne cristiane che, nel loro tentativo di convertirsi all’islam, sarebbero state rapite da membri del clero copto e tenute prigioniere in un monastero.

Non sapremo mai la verità, ma quello che sappiamo è che su internet sono stati diffusi dei video di queste due donne (velate con velo integrale) che si dichiaravano musulmane, libere e convinte.

Lo ricordiamo per un motivo ben preciso: questo «scandalo» sarà anche il movente che lo Stato islamico citerà nel video ufficiale della decapitazione dei ventuno giovani copti martiri rapiti in Libia nel 2015. Cinque anni dopo.

Le responsabilità della strage di Alessandria rimangono tutt’oggi poco chiare, anche dopo la rivoluzione. Ma esistono indagini molto nebulose che porterebbero addirittura al nome dello stesso ex ministro degli interni Habib Al-Adly, in carica al tempo dei fatti.

Quello di Alessandria è uno dei primissimi attentati ad avere una ripercussione anche in Europa. In particolare, nel 2011 tutte le comunità copte in Italia celebreranno la vigilia di Natale sotto la protezione degli uomini della Digos. Dalla più piccola e sperduta parrocchia, alla più grande cattedrale.

Foto del 2010 del leader supremo dei Fratelli Musulmani Mohammed Badie. (AP Photo/Amr Nabil)

Gli attacchi dei Fratelli musulmani

Caduto Hosni Mubarak, i copti pensano che sia arrivato il momento per chiedere a gran voce la parità dei diritti. In particolare, il dibattito pubblico si sta concentrando sull’abolizione dell’articolo della Costituzione che prevede che la principale fonte per la legislazione sia la shari’a islamica, ma anche sulla semplificazione della procedura di ottenimento dei permessi per la costruzione di nuovi luoghi di culto cristiani.

L’illusione svanisce subito. Nell’ottobre 2011, in seguito alla demolizione dell’ennesima chiesa, i copti decidono di scendere in piazza a Maspero, sede della Tv di stato egiziana, per manifestare ancora una volta contro l’assordante silenzio dei media. È un vero massacro: ventotto morti letteralmente schiacciati dai blindati dell’esercito, mentre la cronista della Tv pubblica invita tutti gli «onorevoli cittadini» a proteggere i militari dalla violenza dei copti. All’esercito si aggiungono quindi gruppi di salafiti armati, tutti contro i copti.

Oggi la Chiesa copta ha ufficialmente «perdonato» ai militari questo massacro in nome dell’unità nazionale. Ed è stato proprio in nome dell’unità nazionale che papa Tawadros II ha sostenuto in primissima persona l’ascesa di al-Sisi, e la caduta di Morsi, il primo presidente egiziano democraticamente eletto, che però aveva il difetto di appartenere ai Fratelli musulmani. Una storia davvero tumultuosa che culmina in un golpe e violenze generalizzate.

Agosto 2013: un attacco su vasta scala da parte degli attivisti della Fratellanza prende di mira – immediatamente dopo l’annuncio del golpe – decine di chiese in tutto l’Egitto. Vengono colpiti anche siti archeologici, manoscritti antichi, icone, reliquie… Tutto bruciato.

I militari rispondono con una strage. A Rabi’a muoiono fra i seicento e gli ottocento (ancora non si sa con esattezza) attivisti dei Fratelli musulmani, e l’organizzazione viene ufficialmente definita come «terroristica». Mohammed Morsi è tutt’ora in carcere e sotto processo per accuse gravissime.

Costretti a sostenere al-Sisi

È su questo scenario che si è affacciato papa Francesco, il 28 e 29 aprile scorsi, nella sua prima visita ufficiale in Egitto. Fra la memoria di Giulio Regeni e il bene dei copti e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, costretti a sostenere gli uomini forti per potersi garantire un’esistenza accettabile. Ma – lo abbiamo visto con gli attentati della domenica delle Palme – non scevra da pericoli mortali.

Andrea Boutros

Il presidente dell’Egitto, Abdul Fattah al-Sisi a Washington, D.C. in aprile 2017 (DOD photo by U.S. Army Sgt. Amber I. Smith).


Incontro con esponenti della comunità copta:
Al-Sisi (meglio degli altri)

Per gli oltre dieci milioni di egiziani di fede cristiana è difficile e rischioso vivere in un paese dove «tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

«Con al-Sisi è cambiato tutto o, forse, non è cambiato nulla». Girgis è perplesso. Lui, cristiano, non riesce a sintetizzare la situazione in cui vive attualmente la Chiesa copta ortodossa in Egitto. «Certo – riprende – se guardiamo alla storia della nostra comunità, qualcosa di diverso c’è. Ed è un qualcosa di positivo. Se guardiamo alla cronaca, che parla di attentati, morti e feriti, non possiamo essere così ottimisti».

Da Mubarak a Morsi

Non si può comprendere l’attuale situazione se non si fa un passo indietro. I copti sono gli eredi degli antichi egizi che si convertirono al cristianesimo, a partire dal primo secolo, grazie alla predicazione di San Marco. La loro Chiesa è quindi antichissima e fino al VII secolo è stata maggioritaria in Egitto. Con l’arrivo degli arabi e dell’islam, per i copti è iniziata una difficile convivenza, fatta di periodi di relativa libertà alternati ad anni di dure repressioni.

La situazione non è migliorata con l’indipendenza dell’Egitto. Sotto i governi di Anwar Sadat e Hosni Mubarak, la Chiesa ha vissuto un periodo particolarmente difficile. «Ai tempi di Mubarak – osserva Awad, giornalista egiziano di fede cristiana -, la state security (un dipartimento speciale della polizia di stato, ndr) dominava la scena politica e religiosa. Per i copti era difficile, se non impossibile, costruire o anche ristrutturare una Chiesa perché era necessario il nullaosta della state security, che non lo rilasciava facilmente. La polizia arrestava i musulmani che si convertivano. Agenti erano coinvolti nei rapimenti di ragazze copte, organizzati per convertirle (andando contro la legge che prevedeva e prevede che qualsiasi conversione possa avvenire solo dopo i 18 anni). I musulmani che attaccavano le chiese rimanevano impuntiti».

Queste violenze contro la minoranza copta erano legate alla politica interna del raiss. Per rimanere al potere, Mubarak aveva bisogno del sostegno anche delle frange islamiche più estremiste. «Il presidente – osserva Girgis – lasciava quindi che i copti subissero le angherie e le discriminazioni più palesi. Sono stati anni molto duri».

La speranza di un cambiamento è arrivata nel 2011 con la caduta del regime. Musulmani e cristiani sono scesi in piazza insieme per invocare la caduta del raiss. «La parte migliore del mondo musulmano e di quello cristiano – ricorda Awad – lottava per un cambiamento reale della società egiziana. Volevano un paese in cui le componenti religiose convivessero senza dissidi, insieme come cittadini di un unico paese, l’Egitto. Ma è arrivata subito la doccia fredda». La strage nel quartiere Maspero, in cui nel 2011 la polizia ha represso con la violenza una manifestazione di cristiani (facendo 26 vittime tra i copti), e il governo della Fratellanza musulmana, guidato dal presidente Mohammed Morsi, hanno subito rimesso in un angolo la comunità cristiana. «Il progetto di riforma costituzionale promosso dalla Fratellanza musulmana – spiega Youssef, ingegnere egiziano di fede cristiana – era inaccettabile per la nostra comunità. Se fosse stato approvato ci avrebbe riportato indietro di secoli. I cristiani sarebbero diventati cittadini di serie B. Ma, va sottolineato, discriminava anche i laici e i musulmani che non si riconoscevano nella visione totalizzante dell’Islam della Fratellanza musulmana. È per questo motivo che la maggioranza degli egiziani è scesa in strada e ha iniziato a contestare Morsi, obbligandolo alle dimissioni».

Il fondamentalismo islamico e al-Sisi

Non è un caso che, quando Abdel Fattah al-Sisi è arrivato al potere nel 2013, è comparso in televisione con al fianco sia Tawadros II, papa dei copti, sia Ahmad Muhammad Ahmad al Tayyib, imam della moschea-università di al-Azhar (massima autorità dell’Islam sunnita). In al-Sisi, militare e musulmano devoto, i copti hanno subito visto un politico in grado di proteggere la comunità cristiana. «Al Sisi – osserva Girgis – ha certamente cambiato in meglio la situazione dei cristiani. Ha varato leggi, decreti e regolamenti per favorire la costruzione di chiese, luoghi di incontro, ecc. Ma, intendiamoci, la libertà religiosa non si impone per decreto. Costruire una chiesa è ancora oggi difficile, professarsi copto anche. Questo perché la società egiziana è fortemente permeata da una visione fondamentalista dell’islam. Tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

Non è un caso che, solo nel primo anno di governo di al-Sisi, 85 chiese siano state attaccate, bruciate o demolite. L’11 dicembre 2016 un attentato alla cattedrale del Cairo ha fatto 25 morti. Il 9 aprile scorso due attentati, il primo davanti chiesa di Mar Girgis a Tanta e il secondo davanti alla chiesa di San Marco ad Alessandria, hanno provocato 45 vittime. «Ciò dimostra – osserva Awad – che la violenza nei nostri confronti non è sparita. E che, nonostante al-Sisi abbia promesso maggiori controlli e maggiore protezione, noi siamo ancora in balia dei fondamentalisti».

Al-Sisi però non sta lavorando solo sul piano della sicurezza. Sta facendo pressioni affinché gli studiosi dell’Islam recuperino la tradizione pluralista e dialogante della fede musulmana. «Il lavoro sul piano culturale – continua Awad – è fondamentale. Bisogna scardinare dalla società egiziana la visione wahabita dell’islam, che è a noi estranea (proviene dall’Arabia Saudita) ed è portatrice di intolleranza e violenza. Siamo coscienti che il cammino da percorrere per raggiungere una piena libertà religiosa è ancora lungo e la strada è tortuosa. Se non ci incamminiamo su questo sentiero culturale e teologico, però, difficilmente le cose potranno cambiare».

Le scelte di papa Tawadros II

AFP PHOTO/KHALED DESOUKI

La stessa Chiesa copta ortodossa sta cambiando pelle. Negli ultimi anni ha vissuto una profonda trasformazione in parte legata alla figura di papa Tawadros II e in parte alla progressiva secolarizzazione dei fedeli.

Tawadros II ha incarnato per i copti quella rivoluzione che Francesco ha rappresentato per i cattolici. «Il nuovo papa – osserva Girgis – ha portato una ventata di novità. Ha introdotto, in un ambiente un po’ ingessato, un modo informale di porsi. Non si è mai visto un patriarca di Alessandria che ama farsi i selfie con i giovani, che si fa abbracciare, che ha un modo spontaneo di parlare. Il fatto che tra lui e papa Francesco si sia instaurata una solida amicizia non è dovuto solo a una vicinanza teologico-dottrinale, ma anche a uno stile aperto, semplice, cordiale che esprime la serenità e la gioia della fede cristiana. Anche il suo modo di vivere è frugale, essenziale, senza sfarzo».

La vera novità però non è nello stile, ma nel suo modo di lavorare. «Shenouda III, il vecchio papa copto, era un accentratore – continua Girigis -. Non discuto se fosse o meno giusto il suo approccio. Tawadros ha instaurato un sistema diverso. Ama lavorare in gruppo, coinvolgere i collaboratori nel processo decisionale. In Europa, per esempio, ha riorganizzato la Chiesa copta e spesso viene in visita per parlare e confrontarsi con i vescovi che operano nel continente».

Per Tawadros, poi, assume un’importanza fondamentale la dimensione ecumenica. Con i cattolici il rapporto è ottimo, anche per quella sintonia personale con Francesco di cui abbiamo parlato. Ma dal 4 novembre 2012, giorno in cui è stato eletto dal sinodo, Tawadros ha iniziato a tessere rapporti sempre più stretti con le differenti Chiese ortodosse e, in particolare, con quella russa, quella greca e quella ecumenica di Costantinopoli. «Quelle ortodosse – spiega Girgis – sono Chiese “sorelle”, con le quali storicamente abbiamo rapporti. Ma con il nuovo papa queste relazioni sono diventate molto più strette. Tawadros ha avviato un confronto serrato con le Chiese protestanti. Lui crede nella fratellanza con i riformati, anche se una parte dei copti, i più tradizionalisti, hanno fatto numerose resistenze perché vedono i protestanti come i nemici dell’ortodossia».

Il clero e i fedeli

La Chiesa copta, però, sta subendo una profonda trasformazione nei suoi stessi fedeli. Da sempre i copti sono legati alla loro gerarchia (vescovi, monaci, sacerdoti). «È un legame solido, a volte fin troppo – sottolinea Youssef -. In passato, per i credenti, il clero era tutto. Dal clero dipendevano per qualsiasi cosa: chiedevano aiuti materiali, consigli e ascolto nei momenti difficili, direttive in campo politico ed economico. Oggi questo “totale affidamento” sta venendo meno. I copti partecipano ancora in massa alle funzioni religiose, ma molti di essi stanno tagliando il cordone ombelicale con la gerarchia. Soprattutto i giovani non ascoltano più le direttive ecclesiastiche in campo politico ed economico. Si muovono da soli, rivendicando il loro essere cittadini egiziani che lavorano nella società per farla crescere. Si ispirano ai valori cristiani, ma senza legami vincolanti con la chiesa. Stanno seguendo un processo di laicizzazione non dissimile a quello che è avvenuto in molti paesi europei».

Enrico Casale


Scheda 1:
Matta el Meskin

Personaggio dallo straordinario carisma umano e spirituale, padre Matta el Meskin (1919-2006), al secolo Yusuf Iskandar, rappresenta una delle più luminose figure spirituali dei cristiani d’Egitto. È stato il fautore di una importante rinascita spirituale, monastica e culturale, all’interno della Chiesa copta ortodossa.

Farmacista in carriera, Yusuf, si avventura in un viaggio dello spirito che lo porterà in tre monasteri e a una lunga esperienza di vita eremitica. Monaco dal 1948, dal 1969 al 2006 è stato padre spirituale del monastero di San Macario nel deserto di Scete (Wadi el-Natrun). Alla sua morte nel 2006 questo monastero era diventato un piccolo Eden e il numero di monaci che lo abitavano era centotrenta. Oggi il monastero è guidato da un suo discepolo, il vescovo anba* Epiphanius.

L’anelito di questo monaco copto è stato sempre quello di vivere radicalmente il Vangelo. È a partire da ciò che Matta el Meskin ha creato attorno a sé una vera e propria scuola di spiritualità del deserto. Il Signore gli ha donato uno straordinario carisma, quello di parlare con la forza del linguaggio e della spiritualità degli antichi padri del deserto agli uomini contemporanei di ogni latitudine. Prova ne è il fatto che le sue opere sono state tradotte in ben sedici lingue. Il cuore della spiritualità meskiniana è la «grazia» dello Spirito Santo, l’ineffabile azione d’amore di Dio, che in Cristo ha realizzato la riconciliazione tra terra e Cielo. Essa è sempre più grande e più generosa della nostra miseria e pochezza ed è capace sempre di «trasformarci in quella medesima immagine, di gloria in gloria (cf. 2Cor 3,18)». L’azione dell’uomo è primariamente sinergia con lo Spirito Santo.

Instancabile sostenitore dell’unità dei cristiani, abuna* Matta è autore di un centinaio di scritti. La sua opera più conosciuta è certamente La vita di preghiera ortodossa tradotta in italiano con il titolo di L’esperienza di Dio nella preghiera (Qiqajon). È da qui che traiamo alcune parole sulla preghiera incessante.

«La preghiera – scrive Matta el Meskin – è quell’atto essenziale nel quale Dio stesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, opera in noi il cambiamento, il rinnovamento e la crescita dell’anima. Né il benessere, né la pace interiore, né l’impressione di essere esauditi, né nessun altro buon sentimento possono eguagliare l’azione segreta dello Spirito Santo sull’anima e renderla degna della vita eterna. La preghiera è apertura all’energia attiva di Dio, forza invisibile, forza intangibile. Secondo la promessa di Cristo (Gv 6,37) l’uomo non può ritirarsi dalla presenza di Dio senza ottenere un cambiamento essenziale, un rinnovamento che non apparirà come improvvisa esplosione, bensì come costruzione minuziosa e lenta, quasi impercettibile.

Colui che persevera davanti a Dio e persiste nel confidare in lui per mezzo della preghiera, riceverà molto più di quanto sperava e molto più di quanto avrebbe meritato. Colui che vive nella preghiera accumula un immenso tesoro di fiducia in Dio. La forza e la certezza di questo sentimento superano l’ordine del visibile e del tangibile, poiché l’anima, in tutto il proprio essere, si impregna profondamente di Dio e l’uomo percepisce la presenza di Dio con grande certezza, tanto da sentirsi più grande e più forte di quanto non sia. Acquisisce allora la convinzione di un’altra esistenza, superiore alla sua vita temporale, pur non ignorando la propria debolezza, né dimenticando i propri limiti.

Dal momento in cui l’anima comincia a elevarsi nel mondo delle «luce vera» (Gv 1,9) che è in lei, comincia a porsi in armonia con Dio attraverso la preghiera continua fino a eliminare ogni divisione, ogni dubbio, ogni inquietudine, allora la Verità dirige il suo movimento e tutti i suoi sentimenti e il fuoco dell’amore divino fonde le sue esperienze passate e presenti, sopprimendo le parzialità e i timori dell’io, gli errori dell’egoismo e i suoi sospetti, cosicché in fondo all’anima non resta altro che la pienezza della sovranità dello Spirito e l’estrema felicità di sottomettersi alla sua volontà».

Markos el Makari

* «Anba» e «abuna» significano «padre». Il primo è usato per papi, vescovi e santi; il secondo per monaci e preti.

  • AA.VV., Matta el Meskin: un padre del deserto contemporaneo, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2017.

Scheda 2:
Anche nel calcio

Tutti gli egiziani amano e seguono il calcio, specie quando a giocare è la leggendaria Nazionale dei Faraoni. Hassan Shehata (nato nel 1949) è stato uno dei Ct più amati in assoluto, capace di portare l’Egitto sulla vetta d’Africa per ben tre volte consecutive, un vero record.

Il mister ha sempre puntato sul gruppo, ma ha sempre avuto una caratteristica controversa che ha spesso suscitato polemiche (in primis fra i musulmani). Il suo criterio principe – diceva – per la selezione dei convocati era la pietas: va benissimo la tecnica, la qualità e la forza, ma se non sei un buon musulmano non farai mai parte del gruppo. Inutile dire che i copti sono esclusi a priori (un fenomeno che si sta sempre più allargando alle basi del calcio egiziano, con una progressiva esclusione delle giovani promesse cristiane dai principali club), così come i calciatori musulmani più laici.

È l’esempio di re Mido (Abdelamid Hossam Ahmed Hussein, nato nel 1983), personaggio al confine fra Bobo Vieri e Mario Balotelli, sia per temperamento che per i molteplici vizi, in eterno conflitto con Hassan Shehata, fino all’esonero definitivo dalla Nazionale.

È una tendenza relativamente nuova, ma degna di nota. Non esiste copto che non conosca Hany Ramzy (nella foto), uno dei più forti difensori dell’Egitto di sempre, classe 1969 e idolo per tutti gli egiziani. Calciatore di fede cristiana, oggi allenatore. All’epoca, nessun problema. Oggi non è più così, e a tante giovani promesse viene chiesto di convertirsi all’Islam, conditio sine qua non per fare carriera nel mondo del pallone.

Andrea Boutros

Scheda 3:
La diaspora copta

La crisi economica persistente (che si è accentuata notevolmente dopo le Primavere arabe) e le discriminazioni subite in patria hanno portato molti copti a emigrare. La maggior parte si è trasferita in Nord America o in Australia. Molti, però, sono arrivati in Europa. In Italia, sono circa 45mila: 25mila nella diocesi di Milano e 15mila in quella di Roma. «Questo dato – osserva Girgis – si riferisce alle persone che frequentano la comunità religiosa. Credo quindi che sia sottostimato, probabilmente sono molti di più».

I copti sono molto bene integrati nel tessuto sociale italiano. Sono professionisti, dirigenti, impiegati, artigiani, commercianti. Molti giovani studiano nelle nostre università e, una volta laureati, entrano con facilità nel nostro sistema produttivo. «D’altra parte – continua Girgis – nulla impedisce ai copti di integrarsi. Non ci sono ostacoli evidenti alla loro integrazione: né la fede, né la cultura».

Dal 2013, in Parlamento siede un deputato di origine egiziana e di fede copta ortodossa. È Girgis Giorgio Sorial (nella foto), bresciano, appartenente al Movimento 5 Stelle. I suoi genitori si sono rifugiati in Italia perché in patria erano stati perseguitati da musulmani radicali.

«Dialogo con i musulmani? – conclude Youssef -. No, in Italia non c’è una relazione istituzionale con i musulmani. Molte famiglie egiziane cristiane e musulmane si frequentano, ma sono relazioni a livello personale. Il professor Farouq Wael Eissa dell’Università Cattolica di Milano ha dato vita a un gruppo di lavoro con ragazzi islamici e copti. Organizzano alcune iniziative insieme. È questa la strada giusta. Credo che per favorire l’integrazione non serva costruire moschee o chiese, ma luoghi di incontro dove sia possibile fare insieme attività culturali o sportive».

Enrico Casale

Scheda 4:
La Chiesa copta cattolica

Esiste anche una Chiesa copta cattolica, il patriarcato cattolico di Alessandria, eretto nel 1824, ristabilito nel 1895 e governato da un patriarca. Comprende 6 diocesi con circa 200.000 fedeli. L’attuale patriarca è Abramo Isacco Sidrak (nella foto). Il 28 e 29 aprile si è incontrato con papa Francesco nella due giorni del pontefice in Egitto.

Scheda 5:
Cronologia essenziale 2010-2017.
Una comunità sotto attacco

2010, 7 gennaio – La notte del Natale copto, a Nag’ Hammadi (vicino a Luxor), fedeli copti vengono attaccati da un gruppo di musulmani: 7 morti.

2011, 1 gennaio – Attentato alla chiesa copta dei Due Santi ad Alessandria: 23 morti e 97 feriti.

2011, 11 febbraio – Caduta di Hosni Mubarak. Era presidente dall’ottobre del 1981.

2011, 9 ottobre – Al Cairo, nella via Maspero, davanti al palazzo della radio e della televisione di stato, reparti dell’esercito egiziano uccidono 28 persone che partecipavano a una marcia di protesta dei cristiani copti.

2012, 18 novembre – Elezione di papa Tawadros II, 118° patriarca di Alessandria.

2013, 3 luglio – Un golpe militare guidato dal generale al-Sisi destituisce il presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani (organizzazione islamista fondata nel 1928). Morsi era stato eletto nel giugno 2012. Il magistrato Mansur viene nominato presidente ad interim.

2013, 23 settembre – Al-Sisi dichiara fuorilegge i Fratelli musulmani.

2014, 8 giugno – Dopo la transizione di Mansur, viene eletto presidente il generale al-Sisi.

2015, 12 febbraio – A inizio gennaio l’Isis sequestra 21 copti che vengono uccisi un mese dopo in Libia. I terroristi islamici mettono in rete il video della decapitazione (foto a sinistra).

2016, 11 dicembre – Un attacco suicida uccide 25 persone nella chiesa copto ortodossa di San Pietro e Paolo al Cairo.

2017, febbraio – Nella penisola del Sinai jihadisti egiziani legati all’Isis attaccano ripetutamente le comunità copte.

2017, 9 aprile – Nella domenica della Palme due attentati dell’Isis contro chiese copte – a Tanta (delta del Nilo) e ad Alessandria – provocano 45 morti e 126 feriti. Il presidente al-Sisi decreta tre mesi di stato d’emergenza.

2017, 28-29 aprile – Viaggio di papa Francesco in Egitto. Incontri con il patriarca Tawadros II, il presidente al-Sisi e il grande imam al-Tayeb.

2017, 26 maggio – Un autobus che trasportava i fedeli copti è stato assalito da un commando di dieci uomini a Menyah, a 250 Km a sud dal Cairo. Bloccato il mezzo e saliti a bordo, hanno aperto il fuoco sui passeggeri. Almeno 28 i morti.

Paolo Moiola

PS:?oggi esiste un portale web – http://eshhad.timep.org/database -, aggiornato in tempo reale, che riporta ogni singolo atto di violenza a significato settario e persecutorio contro i copti in Egitto. Con tanto di data, luogo, vittime, feriti, danni a proprietà, negozi o abitazioni. Un rapido sguardo fornisce un’idea della portata del fenomeno.


Gli autori di questo dossier

  • Markos el Makari – Nato in Italia, bilingue italiano e arabo, attualmente è monaco novizio del monastero di San Macario il Grande a Wadi el-Natrun (l’antica Scetes) e del monastero di Bose (Biella).
  • Andrea Boutros – È nato a Genova da genitori egiziani nel 1993. Laureando in Medicina e Chirurgia, ha collaborato come giornalista per Il Secolo XIX e yallaitalia.it trattando la tematica migratoria e le problematiche sociali riguardanti le seconde generazioni. Parla italiano e arabo. È un membro attivo della comunità copta di Genova.
  • Enrico Casale – Giornalista freelance, si occupa di Africa. Laureato in Scienze politiche presso l’Università cattolica di Milano. È stato redattore del mensile Popoli. Attualmente collabora con Missioni Consolata, Africa, Combonifem, Nigrizia, Radio Vaticana e per le pubblicazioni dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano.
  • Paolo Moiola – giornalista redazione MC, ha curato il tutto.

 

 




Mali: il conflitto nel paese saheliano cambia velocità


In Mali si vive una guerra a «bassa intensità» dal 2012. L’avanzata dei gruppi fondamentalisti islamici è bloccata dall’intervento militare francese. L’Onu registra una delle missioni con maggiori perdite umane della sua storia. Gli accordi di pace firmati nel 2015 sono «parziali» e la loro applicazione è complessa. E da alcuni mesi il conflitto sta assumendo pericolose connotazioni etniche. Mentre il Daesh «apre» ufficialmente nel Sahara.

Bamako. Il traffico della capitale del Mali è simile a quello di molte grandi città saheliane. Le auto
si bloccano in lunghe file ai semafori, mentre le moto passano in ogni possibile breccia. Qui il grande fiume Niger da un lato e la collina di Kouluba dall’altro strozzano il centro città, costringendolo a svilupparsi nel senso della lunghezza. Dall’altra parte del fiume, i quartieri dormitorio. Si passa tramite tre ponti, chiamati comunemente primo, secondo e terzo ponte: i colli di bottiglia naturali di questa città che vede la sua popolazione riversarsi sul lato sinistro al mattino e tornare sul lato destro alla sera. Anche i frequenti controlli della polizia creano rallentamenti. Verificano la circolazione di armi, ma normalmente è sufficiente aprire il vano del cruscotto per soddisfare il frettoloso poliziotto.

Tutto tranquillo, dunque, in una grande città che pulsa con i suoi oltre due milioni di abitanti e temperature che ad aprile raggiungono i 47 gradi.

Ma non c’è più la serenità di un tempo. Gli abitanti di Bamako si ricordano quel 20 novembre 2015 in cui un commando di jihadisti si è materializzato dal nulla e ha preso in ostaggio clienti e lavoratori dell’Hotel Radisson Blu. L’attacco ha lasciato sul terreno 22 vittime innocenti. Quel giorno la città si è ricordata di essere la capitale di un paese in guerra, peggio, un paese diviso.

AFP PHOTO / SOULEIMAN AG ANARA

Intesa nazionale?

Il 2 aprile scorso si è conclusa, proprio a Bamako, la Conferenza d’intesa nazionale, nome pomposo per un incontro di cinque giorni di alcuni tra i protagonisti del conflitto maliano. «Non è servita a nulla», ci dice un osservatore straniero. In effetti mancavano due leader jihadisti fondamentali: Iyad Ag Ghali, storico capo tuareg fondamentalista del Nord e Amadou Koufa, peulh, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, nel centro del paese. Neppure l’opposizione politica era presente, in quanto ha boicottato la conferenza, mentre molti altri gruppi non sono stati soddisfatti del risultato. La Conferenza fa parte della difficile applicazione degli accordi di pace di Algeri firmati tra maggio e giugno 2015. Intanto nel paese si è registrato un preoccupante salto di qualità del conflitto, già a partire dalla metà dell’anno scorso.

Ma per capire cosa succede in Mali occorre fare un passo indietro.

Da democrazia a caos

Negli anni 2000, il Mali era un esempio di democrazia e alternanza al governo per tutta l’Africa dell’Ovest. Il presidente Amadou Toumani Touré (Att) aveva tuttavia trascurato il Nord, una regione di oltre 800.000 km quadrati (quasi tre volte l’Italia), in gran parte desertica, che si incunea tra Mauritania, Algeria e Niger. Regione tradizionalmente tuareg e araba, chiamata da questi popoli Azawad. Qui i movimenti indipendentisti tuareg esistono da tempo, e storicamente sono sfociati in periodiche ribellioni, l’ultima delle quali si era conclusa nel 2006.

Ma in quegli anni si è assistito ad altri fenomeni, come l’arrivo di predicatori mediorientali, che hanno iniziato a diffondere il wahabismo, l’ideologia islamista promossa dall’Arabia Saudita. Al tempo stesso i gruppi integralisti salafiti algerini, gli ex Gia (Gruppi islamici armati) che avevano insanguinato l’Algeria negli anni ’90, hanno iniziato a stabilirsi sul suolo maliano. Nel deserto le frontiere non esistono e i due paesi confinano per oltre 1.000 km. Il potere centrale di Bamako è lontanissimo da queste terre, sia fisicamente che culturalmente. Così sono cresciuti i movimenti radicali islamisti che a inizio 2012 hanno dichiarato guerra allo stato centrale. Sono molti e diversificati. Ci sono i tuareg laici, i tuareg fondamentalisti, i gruppi jihadisti salafiti di origine algerina (si veda MC settembre 2006, MC dicembre 2010). Nel 2007 i salafiti hano aderito ad Al Qaeda internazionale fondando Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Nel marzo 2012 Att ha subito anche un goffo colpo di stato da parte di una frangia dell’esercito, fatto che ha indebolito ulteriormente lo stato centrale maliano. Dopo un periodo di transizione si sono svolte le elezioni in cui è stato eletto Ibrahim Boubakar Keita (Ibk) nell’agosto del 2013.

AFP PHOTO / PASCAL GUYOT

La guerra si estende

La galassia di gruppi armati nel Nord del Mali è in rapido cambiamento. Si alternano coalizioni e scontri tra gli stessi, piattaforme, coordinamenti, in una geometria di alleanze estremamente variabile. Ma quando nel gennaio 2013 l’esercito regolare maliano era allo sbando e il fronte ribelle, islamisti di Aqmi compresi, puntava su Bamako, è intervenuta la Francia, ex potenza coloniale, inviando le sue forze militari d’élite, con l’operazione denominata Serval, respingendo i combattenti. Questi sono tornati nelle loro roccaforti nel deserto del Nord. Una missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali, Minusma, ha preso il via nell’aprile dello stesso anno. Ne fanno parte 13.000 uomini di 26 nazionalità, tra cui quelle dei confinanti Burkina Faso e Niger. È diventata una delle missioni dell’Onu con più morti tra i caschi blu di tutti i tempi. Importante è la partecipazione del contingente tedesco, forte di un migliaio di militari, oltre a otto elicotteri, blindati e droni e due arei per trasporto truppe basati a Niamey, Niger. Anche l’Europa ha in Mali un suo contingente, l’Europen Union trainig force (Eutf), con l’obiettivo di formare e riorganizzare le Forze armate maliane. Ha un effettivo di circa 600 uomini di 20 paesi.

Il primo agosto 2014 l’operazione Barkhane ha sostituito Serval. Barkhane, sempre francese, copre cinque stati (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), e ha comando a Ndjamena capitale del Ciad.

La pace finta che scontenta

In questo contesto estremamente complesso e frammentato si è arrivati alla firma della pace tra maggio e giugno 2015. Accordo quanto mai parziale, perché coinvolge solo alcune sigle. In particolare la Cma (Coalizione dei movimenti dell’Azawad), di cui fa la parte del leone il Movimento per la liberazione dell’Azawad (Mnla). Ha firmato anche la Plateforme, ribelli detti «filo governativi» attive a Menaka, ad Est . L’accordo prevede la smobilitazione dei combattenti; la creazione del Moc (Meccanismo operativo di coordinamento), ovvero pattuglie miste governo – ex ribelli firmatari conto i jihadisti; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord (gli amministratori sono tutti fuggiti a causa della guerra) con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, con l’obiettivo di una definizione politica dell’Azawad. Ridefinizione che però non è arrivata, scontentando le parti tuareg.

Il conflitto cambia livello

«A partire da metà 2016 abbiamo visto un cambio di velocità nel conflitto», ci dice la nostra fonte che chiede l’anonimato, «undici gruppi sono usciti dalle coalizioni firmatarie, in dissenso con l’accordo, ritornando nella lotta armata». «Un altro elemento fondamentale è l’estensione del conflitto nel centro del paese, la regione di Mopti. Questa zona è sempre stata legata al governo, molto più del Nord, ma adesso lo stato sembra averne perso il controllo». In effetti «si è partiti con la guerra a Nord, ma andando di questo passo non si può escludere che tra qualche tempo il conflitto interesserà anche il Sud, quindi tutto il paese», rivela un’altra fonte locale.

Un osservatore maliano basato a Gao ci conferma: «La crisi sta prendendo un’altra dimensione, molto più preoccupante. Prima si trattava di gruppi armati ribelli che combattevano contro lo stato centrale, adesso sta diventando un conflitto con caratteristiche comunitarie, ovvero comunità etniche diverse che si affrontano».

La nostra fonte si riferisce agli scontri tra diverse comunità che avvengono nel Nord, ad esempio a Gao, tra Tuareg, Arabi e Songo. «A causa dell’applicazione dell’accordo di pace, è frequente che un gruppo si senta leso o emarginato e quindi entri in conflitto con gli altri per far valere i suoi diritti». È il caso di gruppi Songo di Gao, che si sentono discriminati dai gruppi Tuareg che hanno partecipato al negoziato. O ancora, l’applicazione delle pattuglie miste ha visto l’entrata in città di combattenti armati che prima erano considerati nemici e tenuti alla larga, e questo «ha suscitato percezioni diverse nella popolazione e creato tensioni». «Bisogna anche dire che tutti questi gruppi etnici hanno dei movimenti di supporto all’estero che li sobillano soprattutto grazie all’uso dei social network».

AFP PHOTO / SOULEIMAN AG ANARA

Il contagio si diffonde

Altra questione importante dell’ultimo anno è l’estensione del conflitto alla regione centrale del paese. Qui i gruppi ribelli sono a base etnica peulh, popolazioni di allevatori nomadi che vivono in tutto il Sahel. In questa zona il predicatore radicalizzato Amadou Koufa (o Hamadou Kouffa) ha costituito il gruppo armato jihadista Fronte di Liberazione di Macina (Flm, dal nome di un antico regno di questa zona), ora noto come Ansar Dine in Macina. Koufa è stato a lungo legato al tuareg fondamentalista Iyad Ag Ghali, fondatore di Ansar Dine e di Aqmi e ora basato nell’area di Kidal, nel Nord. Dal Flm si è generato anche il primo gruppo fondamentalista tutto burkinabè, sempre a base etnica peulh, del leader e predicatore Ibrahim Mallam Dicko, che opera nel Nord del Burkina e a cavallo tra i due paesi (provincia del Lorum in Burkina e quella di Douentza in Mali).

Anche nel centro si assiste a un’aggravante a sfondo etnico. I militari dell’esercito regolare, le Fama (Forze armate maliane), mandano a fare i lavori sporchi i Dozo, cacciatori di etnia bambara (maggioritaria nel Sud del paese). Questi, sono tradizionalmente nemici degli allevatori peulh e, coperti dal clima di impunità, hanno cominciato ad ammazzare civili di quell’etnia senza farsi troppe domande. Inoltre è stato osservato che la Fama e la polizia arrestano quasi esclusivamente Peulh e mai Bambara. Il conflitto comunitario sta quindi andando verso uno scontro tra milizie organizzate a base etnica.

«La gente nel centro non è coinvolta nell’accordo di pace, che interessava solo i gruppi del Nord, per cui non beneficia dei dividendi della pace (come le indennità pagate alla smobilitazione, ndr). E si sentono ora abbandonati dal governo di Bamako». Tutti questi elementi stanno dando una deriva etnica al conflitto.

«Assistiamo a un cambiamento nella società maliana. Il tessuto sociale si sta strappando. Si è passati dal multiculturalismo alla contrapposizione etnico-culturale. Ad esempio sono saltati i meccanismi sociali di risoluzione dei conflitti. E questo è gravissimo», commenta la nostra fonte.

«Inoltre l’occupazione di queste zone da parte dei jihadisti è inquietante, ed è aggravata dal fatto che il governo non la riconosce per non dover ammettere un suo fallimento».

Anche l’Isis nel Sahel

Un ulteriore elemento di preoccupazione è la comparsa ufficiale, sempre nell’estate 2016, del Daesh nel Sahel. Si tratta del Mujao che proclama la propria affiliazione e si fa chiamare Stato Islamico nel Grande Sahara. Con a capo Adnane Abou Walid Al-Saharwi, sarebbe per ora ad Est, nella zona di Menaka. «Il Daesh si sta ormai installando nella regione, e questo vuol dire che vedremo dei grossi cambiamenti nei prossimi 12-18 mesi».

Intanto nel Sud e a Bamako si acuisce la crisi sociale, oltre al crescente malcontento verso il governo e la presenza dei militari stranieri della Minusma. Dal 9 marzo scorso tutto il settore sanitario è in sciopero, e questo – per un paese come il Mali – vuole dire un aumento dei decessi tra i pazienti. Ultimamente anche gli operatori del settore educazione hanno iniziato a scioperare. Le rivendicazioni sono di tipo salariale, ma le manifestazioni e l’astensione dal lavoro paralizzano questi settori. Il presidente Ibk si è affrettato a modificare il governo, nominando il quarto primo ministro dall’inizio del suo mandato. Aboulaye Idrissa Maiga ha costituito il suo governo l’11 aprile. Simile al precedente: ha cambiato i ministri di Salute ed Educazione nel tentativo di calmare le piazze. Anche il dicastero della Difesa, occupato proprio da Maiga nel precedente governo è stato cambiato.

Nel 2018 ci saranno le elezioni ed è facile che Ibk siariconfermato. Non ci sono infatti oppositori in grado di vincere e anche il rischio di colpo di stato pare limitato, vista la militarizzazione del paese.

Un tuareg che occupa una posizione importante in una Ong condivide la sua preoccupazione: «I problemi del Mali stanno prendendo dimensioni sempre più serie. L’aggravarsi dei conflitti etnici, i gruppi islamisti che hanno più terreno. La situazione è fuori da ogni controllo ed è difficile essere ottimisti per il futuro del Mali».

Marco Bello


Incontro con l’abbé Timothée Diallo,
responsabile dei media cattolici

Occorre un cambiamento di mentalità

I cattolici in Mali sono una minoranza. Ma sono ben integrati e la collaborazione con gli islamici è grande. A tutti i livelli, a partire dalle scuole. Solo così si può creare una cultura di dialogo e porre un freno all’avanzata del radicalismo.

BAMAKO. L’abbé Timothée Diallo è parroco della Cattedrale di Bamako da 15 anni. Giornalista, ha studiato alla scuola di comunicazione sociale dei salesiani a Roma. È attualmente il responsabile dei media cattolici della Conferenza episcopale del Mali. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio, nel centro di Bamako.

Abbé Timothée, chi sono oggi i cattolici in Mali?

«Come cristiani stimiamo di essere il 5% e noi cattolici siamo distribuiti in sei diocesi. Negli ultimi tempi i battesimi sono aumentati. Le etnie che hanno maggiormente abbracciato il cattolicesimo sono i Bobo, nella diocesi di San. Però quasi tutte le etnie vedono la presenza di cristiani: Bambara, Peulh, Soninka, Sonrai, ecc.

I missionari sono arrivati in Mali nel 1888 dal Senegal, la prima missione è stata Tuba, nella diocesi di Kayes. Erano degli spiritani (i padri dello Spirito Santo, ndr), perché i missionari d’Africa hanno tentato per ben due volte di arrivare in Mali dall’Algeria, ma in entrambi i casi i convogli furono massacrati prima di arrivare a Timbuctu. Gli spiritani lasciarono la missione ai padri Bianchi che portarono avanti l’evangelizzazione in Mali».

Quali sono le maggiori difficoltà che state vivendo come minoranza?

«Siamo una minoranza, ma abbiamo la fortuna di avere molti matrimoni misti, tra cristiani e musulmani. Negli ultimi anni in certi ambienti è diventato difficile esprimere la propria fede cristiana. Conosco delle famiglie che non accettano più di accogliere un cristiano e dargli da bere o da mangiare (accoglienza che nel Sahel e nel deserto è sempre stata sacra verso chiunque, ndr). Ma nella maggioranza dei casi c’è buona coabitazione, si celebrano insieme le feste, musulmane come quelle cristiane. Per esempio io sono sempre invitato da famiglie musulmane per la Tabaski o la fine del Ramadam.

Nel campo dell’educazione abbiamo scuole cristiane dappertutto nel paese. Qu i in cattedrale la nostra scuola ha 800 allievi e solo il 5% sono cattolici, gli altri sono mu sul mani . Ci sono i movimenti di azione cattolica in Mali, come la Gioc, gioventù operaia cattolica, qui la chiamiamo “credente”, Comunità di studenti credenti e poi Gli amici di Kizito, per i bambini fino a 12 anni. In questi movimenti ci sono anche molti musulmani. Questo ci permette di dialogare e comprenderci tra di noi. Preghiamo insieme, ognuno si esprime secondo la sua religione. I genitori musulmani fanno frequentare ai figli la scuola cattolica perché pensano che dia una buona educazione. E poi li mandano anche a i movimenti cattolici.

Non abbiamo per nulla un approccio volto alla conversione, ma piuttosto a dialogo e coabitazione per la pace e il benessere della persona umana. È qu e sto c he fa l a nostra fortuna in Mali . Qu an do certi leader religiosi hanno reclamato che il Mali diventasse uno stato islamico, sono proprio i musulmani che si sono opposti, preservando la laicità».

Ma ci sono dei segni di radicalizzazione nella società?

«Ci sono molte più donne con il velo e sono state costruite molte moschee, tutte uguali, sorte come funghi e finanziate da paesi arabi. Questo per mostrare che il paese è islamico. Ma è un a questi one di facciata perché non sono frequentate. In una zona che conosco, la maggioranza delle persone segue culti tradizionali e ci sono anche molti più cristiani. Soprattutto nelle grandi città sentiamo la presenza dell’islam con molte moschee, m a non è così nelle campagne».

C’è ancora una chi es a missionaria in Mali?

«Ci sono ancor a dei padri bianchi, nella arcidiocesi di Bamako, abbiamo 11 parrocchie di c ui 2 son o tenute dai padri Bianchi, una dai A Salesiani. Ci sono i fratelli del Sacro Cuore, in tre diocesi. Anche i Salesiani. C’è ancora molto lavoro di evangelizzazione da fare in Mali, ci sono molte zone che non sono state toccate, dove i missionari non sono mai andati. Io penso che se si creassero altre parrocchie ci sarebbero molte più conversioni. È il personale che manca, abbiamo ancora bisogno di missionari».

A livello istituzionale come collaborate con le altre confessioni?

«Le chiese protestanti ed evangeliche sono riunite in gruppo che ha un proprio presidente. Quelle che non fanno parte di questo gruppo sono considerate sette. I musulmani hanno l’Alto consiglio islamico, con un suo presidente. Poi ci siamo noi cattolici con l’arcivescovo. Di fronte ai problemi del paese – come ad esempio gli attuali scioperi degli insegnanti e dei lavoratori sanitari – ci riuniamo e riflettiamo, per proporre una via d’uscita alla crisi. Stessa cosa quando ci sono delle elezioni, cerchiamo di promuovere la pace, per esempio incontrando i candidati. Cerchiamo di lavorare anche sulla riconciliazione nazionale. A livello ufficiale la Chiesa cattolica lavora molto per la pace. Quando ci sono le elezioni, vengono diffuse lettere pastorali indirizzate ai cristiani e a tutti i maliani di buona volontà. C’è anche la Caritas che talvolta fa l’osservazione delle elezioni».

Quali sono i problemi attuali del Mali?

«Attualmente ci sono molti problemi nel paese. In particolare lo stato non ha autorità, questo è il problema principale, non arriva a imporsi ormai dal 2012. Come arrivare a uno stato più forte? E a una riconciliazione? Ci sono gli attentati, la guerra e i massacri intercomunitari, sempre di più. Occorre finire con tutto questo. Il tessuto sociale sta andando in rovina. Penso che l’occupazione del Nord abbia giocato molto, poi ogni etnia o comunità vuole imporsi. Assistiamo alla continua formazione di nuovi gruppi ribelli. Anche su base etnica. Tutto questo è causato dalla mancanza di autorità dello stato.

Il Nord è stato abbandonato, ma anche a Bamako si sente la mancanza dello stato, e i politici non riescono a migliorare la situazione. Invece di vedere il bene del paese, ognuno vede i suoi interessi personali. Occorre che i maliani prendano coscienza di questo, altrimenti la situazione non cambierà. I problemi tra Bambara e Peulh, nel centro del paese sono tradizionali, tra allevatori e agricoltori, ma adesso hanno assunto un’altra dimensione, una vera guerra».

Il 7 marzo è stata rapita suor Gloria Cecilia Narvaez Argoti, missionaria colombiana.

«Il rapimento di suor Gloria, a Karangasso nei pressi di Sikasso, nel Sud del paese preoccupa tutte le comunità religiose. Ci chiediamo perché è stata rapita. È perché è una religiosa cattolica o perché chi l’ha rapita cerca soldi? Non ci sono state richieste di riscatto, rivendicazioni. Suor Gloria, delle francescane di Maria Immacolata, era in Mali già da una decina di anni».

Abbé Timothée, come vede la soluzione della crisi in Mali?

«Occorre cambiare mentalità. Prendere coscienza. È la menzogna che ci ha messi in questi problemi, il fatto che la gente non dica la verità. Non c’è la coscienza che occorre proteggere il bene comune. Solo con questo il Mali potrà cambiare. La chiesa lavora per questo ma c’è molto da fare e occorre molto tempo. I politici, i lavoratori, a tutti i livelli, tutti gli strati sociali, dalla testa ai piedi».

Marco Bello




Siria 2017:

Sulla pelle dei siriani 2


La guerra siriana è entrata nel suo settimo anno. Una guerra che ha devastato e smembrato un paese laico dove la convivenza era la norma. Terroristi, mercenari e paesi stranieri hanno cacciato i siriani che si sono riversati nei paesi confinanti e in Europa. In questa intervista, molto diversa dalle verità propagandate, mons. Haddad, siriano della Chiesa melchita, difende il presidente Assad e accusa la Turchia e l’Arabia Saudita. Intanto Trump…

«Come a Damasco, anche fuori della capitale le strade sono belle, asfaltate e poco trafficate. Viaggiando verso Aleppo si vedono campi coltivati a ortaggi, verdura e frutta di vari tipi. […] Maaloula, villaggio cristiano di antichissime origini, è uno splendore con le case abbarbicate alla roccia e il monastero di Santa Tecla conservato come un gioiello. […] Aleppo è una bella, ricca e intraprendente città commerciale. Lo si vede e lo si annusa. Ad esempio, nel suo suq, uno dei più grandi mercati coperti dell’intero Medio Oriente. Ad Aleppo chiese e moschee sono vicine e nulla contraddice quella tolleranza religiosa che pare essere un connotato acquisito di questo paese. […]».

Queste righe risalgono al lontano giugno 1993, scritte durante il mio primo e unico viaggio in Siria. Tanti anni sono trascorsi e il paese di allora è scomparso sotto i colpi di quasi sette anni di una guerra – forse civile o forse soltanto importata -, fatta sulla pelle dei siriani tra cui si contano 320 mila morti, 6 milioni di sfollati interni e 5 milioni di profughi (dati delle Nazioni Unite). Una guerra che nessuno sembra in grado di fermare.

Per parlare di questo abbiamo incontrato mons. Mtanious Haddad, archimandrita della Chiesa melchita (chiesa cattolica di rito bizantino e lingua araba), a tre anni di distanza dalla prima intervista (MC, 12/2013). Nel frattempo la guerra siriana si è incancrenita e la speranza di tornare alla Siria di un tempo si è assottigliata, anche se mons. Haddad – nativo di Yabroud (Damasco), per anni in Libano e Terrasanta – rimane fiducioso, forse in virtù del suo ruolo più che per reale convinzione. Quando lui parla della sua «amata Siria» lo fa con grande partecipazione, quasi senza prendere il respiro e agitando le mani. Non ha vie di mezzo, mons. Haddad: parla chiaro e senza giri di parole, pur scusandosi – di tanto in tanto – per il fatto di dire una verità scomoda. Fastidiosa perché diversa e spesso opposta da quanto viene normalmente raccontato.

«Siriani, non lasciate la vostra terra»

Mons. Haddad, sono trascorsi tre anni dal nostro primo incontro. Da allora com’è cambiata la situazione nella sua Siria, entrata ormai nel settimo anno di guerra?

«È sempre la mia amata Siria. Mi auguro che il settimo anno non arrivi. Vorrei dare un messaggio di speranza: torneremo a vivere in Siria. Purtroppo, questi ultimi anni sono stati duri e difficili. La povertà è cresciuta. L’emigrazione dei siriani, sia musulmani che cristiani, è aumentata. Sia verso la Turchia che il Libano e l’Europa e l’America. I nostri 5 patriarchi d’Antiochia (Chiesa ortodossa siriaca, Chiesa greco-ortodossa, Chiesa cattolica sira, Chiesa cattolica maronita, Chiesa cattolica greco-melchita, ndr) hanno detto (8 giugno 2015, ndr): “Non lasciate la vostra terra”. Ma non è facile».

In queste condizioni, in cosa lei riesce a intravvedere una speranza?

«Nell’arrivo della Russia. Non solo per l’esercito, ma anche per il suo ruolo di pacificazione. La base militare russa di Hmeimim (nel nord est della Siria vicino a Ltakya, ndr) è diventata un centro di riconciliazione tra siriani».

Il presidente Assad e i media

Qual è il suo pensiero rispetto al presidente Assad? 

«Vorrei dare un saluto a questo signore che rimane sempre il presidente legittimamente eletto. E finora ha lottato per conservare e difendere l’unità del suo paese e dei siriani. Dobbiamo rispettare questo presidente che non agisce per sé, né per la sua appartenenza religiosa. Non lo abbiamo mai sentito parlare a nome dell’islam. Lui parla a nome della Siria. E questo gli fa onore».

Eppure non passa giorno senza che i media non accusino Assad di ogni nefandezza, compreso l’uso di armi chimiche. Come lo spiega?

«Mi spiace vedere il comportamento dei mass media europei. La sera io ascolto Al Arabiya (emittente degli Emirati Arabi con sede a Dubai, ndr) e Al Jazeera (emittente del Qatar con sede a Doha, ndr). Poi, al mattino seguente, mi accorgo che i mass media traducono quello che hanno detto le due emittenti arabe. Da sei anni viene ripetuto lo stesso concetto: che Assad è un dittatore, definizione ripresa da Obama e dalla Clinton. E l’Europa di seguito: “Assad ha perso la sua legittimità”, “Assad deve andarsene”. Assad invece deve finire il suo legittimo mandato. L’Europa non vuole ammettere che un presidente è garantito dal suo popolo e lui è il garante del popolo».

Putin ed Erdogan

Lei ritiene positivo l’intervento della Russia di Putin in Siria?

«Sì, lo vedo come portatore di pace. Abbiamo visto che la loro presenza è importante. Prima a livello militare: hanno distrutto migliaia di obiettivi di Isis-Daesh e migliaia e migliaia di cisterne che portavano fuori dai confini il petrolio siriano. In tanti traevano profitti dalla guerra in Siria. L’arrivo di Putin ha dato fastidio all’Europa e all’America (che già da tempo hanno decretato l’embargo contro la Russia).

Questo paese è arrivato con la sua forza militare per dire “basta”: basta al furto del petrolio siriano, basta all’arrivo nel paese di migliaia di terroristi attraverso la Turchia.

Allo stesso tempo i russi hanno portato tonnellate di cibo e medicine. E hanno perso due medici in un ospedale da campo messo su per dare cure mediche al popolo siriano, senza differenze tra musulmani o cristiani (fatto accaduto il 5 dicembre 2016 a causa di un bombardamento sull’ospedale mobile civile appena montato, ndr).

In tante zone dove lo stato siriano e l’esercito sono tornati, i cittadini sono tornati a vivere insieme».

Passiamo a Erdogan, il presidente-dittatore della Turchia. Qual è il suo ruolo nel conflitto siriano?

«Mi spiace dire la verità. Dall’inizio Erdogan ha tradito la causa siriana. Ci sono 910 chilometri di frontiera in comune tra la Siria e la Turchia e lui le ha aperte per far entrare migliaia di uomini per combattere, perché “Assad deve partire, Assad non rappresenta il suo popolo”. Ma chi lo rappresenta? Lui incolpa Assad di essere un dittatore. In arabo si dice “Medico abbi cura di te stesso” (proverbio, molto famoso nell’antichità, in ambiente greco, giudaico e arabo, è usato di solito in riferimento a chi dà consigli agli altri e poi non corregge i propri errori, ndr). Erdogan non ha mai voluto il bene della Siria e soprattutto oggi è tornato al suo sogno preferito: quell’impero ottomano che portò al paese guerra, fame e vittime. Non crediate voi europei che aver dato 6 miliardi delle vostre tasse (e dalle vostre tasche) per far parcheggiare i siriani nei campi della Turchia (accordo del marzo 2016, vedere scheda cronologica) sia stato un buon affare».

È stato un accordo sbagliato?

«Avete sbagliato. Avete aiutato un dittatore, che mira ad avere benefici personali e a far parte della Comunità europea. Come vivono i siriani nei campi della Turchia? Vivono nella miseria. I nostri bimbi sono o sfruttati nel lavoro nero o uccisi per il traffico d’organi umani tra la Turchia e Israele e da qui per il resto del mondo. Sono i fatti che lo raccontano. Mi spiace dire queste cose, ma in Turchia non si può parlare di ospitalità».

E quella della Germania è ospitalità? 

«La Germania aveva bisogno di manodopera tecnica e i siriani sono veramente intelligenti e hanno voglia di lavorare. Certo, con questi 700-800 mila profughi in Europa sono arrivati anche i terroristi, che però non sono siriani».

Erdogan parla molto di terrorismo.

«Ma la Turchia non può certamente essere un garante della pace. Non può esserlo, perché è stata garante dei terroristi, perché ha fatto nascere la gran parte dei terroristi». 

L’ex presidente Usa Barack Obama era molto critico verso Assad.

«Obama diceva che Assad aveva perso la sua legittimità. Oggi Obama è andato per la sua strada e il nostro presidente continua a essere il legittimo presidente.

Non dovevano immischiarsi negli affari dei paesi altrui. Chi ha dato ad Obama la procura divina per dire Assad può rimanere o Assad deve andare? Doveva guardare al suo paese e lasciare gli altri fare la propria storia. Non è che l’America o l’Arabia Saudita possano darci la democrazia secondo il modello americano o saudita».

Raqqa, eletta a capitale dello?Stato islamico, è in Siria. L’Isis è ancora forte o sta perdendo terreno come si dice?

«Secondo la mia visione sta perdendo terreno. Però va a fasi. Quando la Turchia è un po’ coerente o sotto pressione dell’America e chiude le frontiere e non arrivano più terroristi, allora l’Isis perde.

Finora non ho visto l’Europa fare molto contro l’Isis, che riceve armi e terroristi tramite la Turchia. Finché questo accade, esso può rinascere o crescere. Tutti i terroristi che hanno rifiutato di fare la pace con lo stato siriano, dovrebbero tornare al loro paese».

Papa Benedetto e le armi

Si arriva sempre alle armi: a chi le fa, a chi le vende, a chi le compra…

«Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Libano (14-16 settembre 2012, ndr), aveva detto: “Io vorrei mandare un messaggio di pace per la Siria con tre parole: chiudere le tasche che pagano il prezzo delle armi, chiudere le fabbriche che fanno le armi e chiudere le frontiere da dove passano le armi”.

Se tutto questo avvenisse, i siriani non avrebbero bisogno di più di sei mesi per riunirsi tra loro e terminare con il conflitto».

Un conflitto nel quale i gruppi combattenti sembrano moltiplicarsi.

«Questi gruppi sono fluidi e anche in concorrenza tra loro. Dipende della zona dove operano. Dove sono un po’ indeboliti, si raggruppano di nuovo. Dove sono in concorrenza per il territorio, allora si fanno la guerra tra loro. Abbiamo visto anche molti cambiamenti dei loro nomi. Ad es al-Nusra oggi Hayat Tahrir al-Sham. È vero: sono tantissimi gruppi che non si arriva neppure a nominarli perché, da un giorno all’altro, cambiano nome e terreno d’azione. Vorrei non sentire più né nomi né gruppi perché la Siria ha bisogno della pace».

Arabia Saudita: soldi e sharia

Tutti questi gruppi di miliziani che combattono in Siria perché lo fanno?

«Ah, è una bella domanda questa! La gran parte sono stranieri. Combattono per avere soldi e basta. Alcuni sono arrivati in nome dell’islam per uccidere e portare la democrazia musulmana, cioè la sharia, alla Siria. La loro vocazione musulmana li spinge a porre fine alla convivenza siriana, alla democrazia siriana.

Un saudita viene a combattere perché non può sopportare i siriani, il loro modo di vivere, il loro modo di stare insieme. Non può vedere la chiesa vicina alla moschea, o il prete camminare in strada con suo fratello imam o sheik. Costoro vogliono distruggere il modello siriano in nome dell’islam, in nome del Corano. Per loro ogni cristiano è un eretico da combattere e da uccidere. Alcuni sono venuti con questa missione. E poi avranno 72 vergini in cielo, no? Detto questo, la gran parte dei combattenti sono venuti per soldi. Vanno con chi li paga di più».

A proposito di combattenti e di dollari, che ruolo hanno l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar, paesi sunniti?

«Questo è un punto importante, perché lì ci sono le tasche. Arabia Saudita, Qatar, Kuwait hanno tantissimi soldi e non sanno che farne. Non hanno pensato che potevano costruire un ospedale in ogni villaggio della Siria, della Turchia o del loro stesso paese. Se un giorno finirà il loro petrolio, che faranno questi paesi? Da sempre non vogliono né la convivenza né la presenza dei cristiani. Dicono che a Vienna c’è il più grande centro di dialogo interreligioso d’Europa (il Kaiciid, inaugurato nel novembre 2012 e finanziato dall’Arabia Saudita, www.kaiciid.org, ndr). Ma in Arabia Saudita c’è una chiesa?».

Mi pare che non sia consentito.

«L’anno scorso, il 15 agosto, hanno preso una ventina di cristiani che pregavano la Madonna, peraltro citata e rispettata nel Corano. Erano andati per pregare in una stanza senza croce e senza canti, ma forse un vicino li ha traditi. Sono arrivati gli uomini dello stato saudita e le persone sono state espulse. Allora mi chiedo: è questo il modello di convivenza che loro vorrebbero esportare in Siria?

In Siria cristiani e musulmani frequentano la stessa università, cosa che i sauditi non possono accettare. Come non possono accettare questo presidente che viene da una piccola famiglia musulmana alawita (Assad, ndr) e che loro vogliono mandare a casa per porre fine alla convivenza e instaurare la sharia anche in Siria.

In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa, mentre in America, ad esempio, ci sono 3.500 moschee. In Europa si accolgono molti musulmani in nome dei diritti dell’uomo. Sono d’accordo, ma dov’è la reciprocità? Io dico: chiedete per noi almeno una chiesa in Arabia Saudita, chiedete per noi i diritti come cittadini in paesi che non accettano neppure un cristiano.

A La Mecca, il loro luogo sacro, c’è una strada per i credenti e una strada per gli eretici. Se facciamo un paragone, a San Pietro, a Roma, non c’è nulla di simile. Il dialogo interreligioso deve essere fatto sulla base dell’eguaglianza: stessi diritti e stessi doveri. Nei paesi dove vige la sharia non è così».

Lei sembra molto critico verso l’Arabia Saudita.

«Finora l’Arabia Saudita da sola ha pagato 200 miliardi per distruggere le infrastrutture in Siria. Dove sono andati questi soldi? A chi fa la guerra in Siria e una gran parte in America per pagare le armi. Gli Stati Uniti hanno incassato miliardi e miliardi dall’Arabia Saudita. A prezzo del sangue siriano innocente, sia cristiano che musulmano».

I cristiani travolti dalla guerra

A proposito di cristiani, qual è la condizione di coloro che sono rimasti nella Siria in guerra?

«Nella mia amata Siria la comunità cristiana fa parte della comunità siriana. Come altri siriani anche i cristiani, avendo avuto le proprie case distrutte, hanno dovuto sfollare andando in altre zone del paese. Invece di lasciare la Siria per rifugiarsi in Libano, in Giordania o, in maniera inferiore, in Turchia hanno preferito una migrazione interna. I terroristi mettono al primo posto i cristiani, a meno che essi non accettino di convertirsi all’islam. Questo è il prezzo pagato da chi è rimasto.

Se voi europei volete aiutare i cristiani della Siria, dovreste aiutare i siriani a vivere con dignità a casa loro, ricostruendo gli ospedali, le scuole, le infrastrutture. Ma soprattutto dovreste aiutare a ricostruire la convivenza nel paese».

Aleppo caduta, Aleppo liberata

Quando la visitai Aleppo era una ricca città commerciale. Oggi è assurta a simbolo della devastazione della guerra.

«La tragedia della Siria è Aleppo. Aleppo che era nel mirino della Turchia. Dall’inizio della guerra i turchi sono venuti a smontare le fabbriche tessili della città. Quello che non hanno potuto smontare e portare in Turchia lo hanno distrutto. 

Quando è stato detto “Aleppo è caduta”, noi siriani abbiamo detto con gioia “Aleppo è stata liberata”. Questa è la differenza tra chi vuole bene e chi vuole male alla Siria.

Aleppo era una città viva, commerciale, tanto da essere la capitale economica del paese. Hanno voluto ucciderla, distruggerla. Alla fine l’esercito siriano – anche con l’aiuto, come abbiamo detto, dei nostri amici russi e libanesi – ha riconquistato Aleppo. Mi auguro che anche le altre città saranno liberate e torneranno in seno allo stato siriano».

I kurdi e la Siria

I kurdi sono in prima linea nella guerra contro l’Isis.  

«Da sempre i kurdi fanno parte della Siria e si sentono cittadini siriani. Nel parlamento ci sono rappresentanti kurdi, nell’esercito ci sono kurdi che fanno il servizio di leva e anche la guerra. Alcuni giocano la carta dell’indipendenza, ma la gran parte dei kurdi si sente siriana».

Tornare a una Siria unita

Mons. Haddad, se dovesse fare un appello per il suo paese, cosa direbbe?

«Di aiutare i siriani a tornare nel loro paese. Tornare a stare insieme e a ricostruire la Siria come era: un punto d’incontro tra religioni, culture ed etnie e un ponte tra Occidente e Oriente. Questa è la Siria. Noi siriani vogliamo tornare ad essere un popolo unito in una Siria unita».


Così parlava mons. Haddad prima che la devastante guerra siriana conoscesse i drammatici eventi di aprile. Se sull’attacco alla Siria è comprensibile (ma non giustificabile) il plauso di Israele, Turchia e Arabia Saudita, paesi nemici, ridicoli e imbarazzanti sono stati gli elogi al decisionismo di Trump fatti dalla gran parte dei media e dei politici occidentali.

Indirettamente lo ha fatto capire anche il vescovo siriano Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, che all’agenzia Fides ha dichiarato: «Una cosa che sconcerta, davanti all’attacco militare Usa in territorio siriano, è la rapidità con cui è stato deciso e realizzato, senza che prima fossero state condotte indagini adeguate sulla tragica vicenda della strage con le armi chimiche avvenuta nella provincia di Idlib».

Sul presunto attacco chimico il vescovo siriano Antornine Audo, presidente di Caritas Siria, ha aggiunto: «Non riesco proprio a immaginare che il governo siriano sia così sprovveduto e ignorante da poter fare degli ‘errori’ così madornali».

Sulla stessa linea critica è stato l’arcivescovo siriano Jacques Behnan Hindo: «(L’attacco Usa) era già predisposto, per questo non hanno voluto prendere in nessuna considerazione le richieste di indagini più approfondite sulle responsabilità (del fatto) avvenuto nella provincia di Idlib». Che Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, sia il vendicatore dei siriani oppressi da Assad è un’affermazione che forse neppure i suoi più accesi sostenitori potrebbero portare avanti. Il presidente dal tweet compulsivo aveva molti motivi (in primis interni) per l’attacco missilistico del 7 aprile, ma certamente non quelli umanitari. L’uomo lo ha anche pubblicamente ammesso durante l’annuncio televisivo: l’intervento era necessario per la sicurezza degli Stati Uniti («vital national security interest»). È altrettanto certo che l’intervento Usa non ha salvato un solo bambino siriano dalla guerra. Anzi, rafforzando il terrorismo jihadista (che stava perdendo davanti all’offensiva di Assad e alleati), ha giocato sulla pelle di tutti i siriani che ancora vivono e resistono nel loro paese. Costoro ancora una volta pagheranno il prezzo di decisioni e interessi estranei alla Siria. E anche a noi occidentali verrà presentato il conto.

Paolo Moiola

La videointervista è qui: https://youtu.be/spzNh_W_Cn8

Scheda 1
Cronologia: dagli ottomani ai missili di Trump

Siria, un paese in frantumi. Damasco, Aleppo, Kobane, Palmira, Homs, Raqqa, Idlib da città a fronti di battaglia. Eppure la pace – sostengono politici e media – sarebbe a portata di mano senza Assad al potere. Peccato che, nel recente passato, operazioni simili abbiano prodotto disastri.

  • 1516 – 1918 – L’Impero ottomano domina su Siria e Libano, parti della regione denominata «Grande Siria».
  • 1916, 16 maggio – Trattato (segreto) di Sykes-Picot: Gran Bretagna e Francia si spartiscono il Medio Oriente.
  • 1919 – 1946 – Dopo la fine della prima guerra mondiale e il trattato di Versailles, la Francia ottiene il protettorato su Siria e Libano.
  • 1940 – 1947 – Nasce e si sviluppa il partito Ba’th (Baath). Uno dei fondatori è il cristiano Michel Aflaq.
  • 1946 – Indipendenza della Siria.
  • 1963 – Il partito Ba’th va al potere.
  • 1967 – Dopo la «guerra dei sei giorni», Israele si annette unilateralmente il territorio siriano delle Alture del Golan, da cui non si è mai ritirato.
  • 1971 (febbraio) – 2000 (giugno) – Diventa presidente della Siria Hafiz al-Assad, alawita del partito Ba’th.
  • 1973, marzo – Viene varata la prima Costituzione siriana.
  • 2000, luglio – Diventa presidente Bashar al-Assad, di professione medico, figlio di Hafiz.
  • 2011, marzo – Manifestazioni di protesta sulla scia delle cosiddette «primavere arabe». Inizia il conflitto.
  • 2012, 27 febbraio – Il referendum popolare approva la nuova Costituzione siriana: non c’è più il partito unico (art. 8) e sono posti limiti alla carica presidenziale (art. 88).
  • 2012, luglio – Iniziano i combattimenti a Damasco e soprattutto ad Aleppo.
  • 2013, agosto – Si diffonde la notizia dell’uso di gas nervino a Damasco. Le forze ribelli accusano il governo, che nega qualsiasi coinvolgimento. Nessuna notizia certa, neppure sul numero delle vittime.
  • 2014, gennaio – Lo Stato islamico (Daesh) conquista Raqqa, nel Nord del paese, e ne fa la propria capitale.
  • 2014, maggio – Le forze di Assad riconquistano Homs, terza città del paese.
  • 2014, 3 giugno – Assad e il partito Ba’th vincono nettamente le elezioni presidenziali. Dall’estero si contesta duramente il risultato.
  • 2015, giugno – Lo Stato islamico perde Kobane, città a maggioranza kurda alla frontiera con la Turchia. La liberazione è opera delle forze kurde riunite nel Ypg, l’esercito della regione (autonoma de facto) di Rojava, il Kurdistan siriano.
  • 2015, settembre – La Russia di Putin inizia raid aerei a sostegno del governo di Damasco.
  • 2016, 17 marzo – Viene firmato un accordo tra Unione europea e Turchia sulla questione dei migranti. Erdogan avrà fino a 6 miliardi di euro entro il 2018 per la gestione dei campi profughi.
  • 2016, settembre – novembre – La Germania di Angela Merkel apre le porte ai profughi siriani, salvo poi richiuderle visto l’altissimo numero di richieste di asilo e le proteste delle organizzazioni di estrema destra.
  • 2016, dicembre – Le truppe di Damasco riconquistano Aleppo Est, da anni in mano ai ribelli. La città, patrimonio dell’Unesco, è un cumulo di macerie.
  • 2017, marzo – L’esercito siriano riconquista Palmira, sito archeologico di fama mondiale messo a ferro e fuoco dai miliziani dello Stato islamico. La città è passata più volte da uno all’altro dei contendenti.
  • 2017, 4 aprile – Viene diffusa la notizia di un attacco chimico a Khan Sahykhun (provincia di Idlib). Si contano oltre 70 morti. Immediatamente la responsabilità è attribuita all’aviazione di Assad (un’azione illogica vista la sua posizione di forza). Damasco e Mosca danno una versione opposta: è stato colpito un deposito in cui i ribelli avevano stivato delle bombe chimiche.
  • 2017, 6 aprile – Due navi da guerra statunitensi di stanza nel Mediterraneo lanciano 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Shayrat, nei pressi di Homs. Vengono distrutti aerei, piste e postazioni di rifornimento. Ci sono 15 morti. Applausi da Israele e Arabia Saudita e dai «ribelli» (terroristi, compresi). Consensi da Hollande, Merkel e Gentiloni. Dure critiche da parte di Russia e Iran.
  • 2017, 15 aprile – Un pick up imbottito di esplosivo viene fatto saltare in aria accanto a un convoglio di autobus e ambulanze adibiti al trasferimento verso Aleppo della popolazione sciita, soprattutto donne, anziani e bambini. Rimangono uccise 126 persone, tra cui oltre 60 bambini. L’attentato è opera di una delle milizie sunnite anti-Assad. Al contrario dei fatti di Idlil, nessuno sdegno internazionale, nessuna protesta ufficiale alle Nazioni Unite, nessuna prima pagina.
  • 2017, 16 aprile – In Turchia, dopo un referendum costituzionale falsato dai brogli, il presidente Erdogan amplifica il proprio potere. Applausi di Trump e (timide) proteste internazionali. Lui risponde parlando di «crociati», la stessa terminologia usata dai terroristi dell’Isis.
  • 2017, 25 aprile – Aerei turchi colpiscono avamposti kurdi nell’Iraq settentrionale e in Siria, vicino alla città di al-Malikiya. Erdogan è disposto a tutto pur di impedire la nascita di uno stato kurdo indipendente.
  • 2017, 3-5 maggio – Ad Astana in Kazakhstan riprendono i colloqui di pace tra governo siriano e gruppi ribelli con la mediazione di Russia, Iran e Turchia. Si stabilisce la costituzione di 4 zone cuscinetto.
  • 2017, 16 maggio – A Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite, riprendono i colloqui di pace (V sessione), ma l’attenzione e le speranze sono riposte in Astana.

Pa.Mo.

L’arcivescovo maronite Joseph Tobji di Aleppo nelal cattedrale maronita bombardata nella Citta Vecchia.

 

Scheda 2
Dietro la guerra. Chi arma diavoli e terroristi

Come in tutte le guerre anche in quella siriana c’è chi fa enormi affari con le armi. Ma va detto sottovoce.

«Non vedo Assad come il diavolo – ha detto mons. Joseph Tobji, arcivescovo cattolico maronita di Aleppo in un’audizione alla Commissione esteri del Senato (4 ottobre 2016) -. In Siria prima stavamo bene, era un mosaico vivibile, con un Islam moderato e aperto. Adesso viviamo in compagnia della morte. […] Qualcuno ci accusa di essere venduti al governo, ma perché mi devono imporre l’idea che Assad sia il diavolo? I ribelli sono seguiti convintamente da pochissime persone. I terroristi hanno buoni rapporti con i turchi. Ho visto terroristi dell’Isis parlare amichevolmente con militari turchi. In più ci sono gli stranieri wahabiti sauditi che strumentalizzano l’Islam per scatenare la guerra».

Dopo gli eventi di aprile, la sporchissima guerra siriana è tornata ancora una volta in prima pagina. Peccato che poche volte si ricordi che questa è una guerra alimentata dal gigantesco e profittevole mercato delle armi sul quale tutte le potenze mondiali sono attori protagonisti nelle vesti di produttori e venditori.

Stando ai dati dell’istituto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute – www.sipri.org), gli Stati Uniti continuano a guidare – con ampio margine – la classifica mondiale dei paesi esportatori di sistemi d’arma. Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania rappresentano il 74 per cento del volume delle esportazioni. Tra i maggiori compratori va segnalato il quarto posto dell’Arabia Saudita (con il 10% del Pil speso in armi nel 2016), attore occulto nella guerra in Siria e palese in quella (peraltro da tutti ignorata) in Yemen.

In tempi di fortissima competizione internazionale, crisi economica e occupazionale e ora anche di dilagante terrorismo è chiaro (ma non giustificato) che la produzione e la vendita di armi non vengano messe in discussione, pur se eticamente immorali. Quello che è insopportabile è l’ipocrisia e la retorica messe in campo dalle élite politiche e da molti media.

Tra i produttori ed esportatori di armi c’è anche l’Italia, ben piazzata. Stando ai dati di Sipri, l’italiana Finmeccanica-Leonardo (il cui azionista principale è lo stato) è il nono produttore mondiale. A livello di paese, l’Italia è l’ottavo maggiore esportatore.

Il problema sta proprio in questo: che una buona parte delle armi vengono vendute a paesi in guerra, palese o a bassa intensità che sia. Gli stessi paesi che poi producono milioni di profughi che andranno a spingere sulle frontiere europee e occidentali in generale.

In un mercato così florido e poco trasparente per i gruppi terroristici è quasi uno scherzo procurarsi armi (Si vedano le ricerche di Conflict Armament Research, associazione finanziata dall’Unione europea). Soltanto un esempio per intenderci. Nel sito archeologico di Palmira, i miliziani islamici del Daesh hanno seminato migliaia di mine antiuomo (di cui un tempo anche l’Italia era grande e rispettata produttrice).

La giustificazione più immediata per il businness delle armi non è cambiata nel tempo perché regge sempre: «Se non le vendiamo noi, le venderà qualcun altro». Giusto, no?

Paolo Moiola




India: Water grabbing sul tetto del mondo


Gli stati himalayani sono determinati a sfruttare tutto il loro enorme potenziale idrico. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private. E le dighe, con il loro devastante impatto ambientale e sociale, si moltiplicano.

Enormi riserve idriche, ghiacciai, fiumi d’acqua abbondante e limpida, scarsa popolazione e poca industria: una ricetta perfetta per alimentare il nuovo grande gioco dell’Asia sulle risorse idriche. Cina e India si contendono uno dei beni più preziosi su quello che viene chiamato il «tetto del mondo», le montagne himalayane. Qui si concentrano le riserve di acqua dolce più vaste del globo terrestre e vi sgorgano i fiumi più importanti dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, l’Indo e il Gange. Fiumi le cui acque, flora e fauna sono minacciate da inquinamento industriale, pesca sregolata, deforestazione e dalla costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto dighe per la produzione di energia.

Il governo indiano e cinese si sfidano nello sfruttamento non solo delle acque del proprio territorio, ma anche di quelle dei paesi confinanti come il Nepal e il Bhutan. Un vero water grabbing (accaparramento idrico) fatto a colpi di trattati internazionali.

Da un lato ci sono i rappresentanti dei governi, dall’altro grandi imprese private o pubbliche costruttrici di infrastrutture idriche. Il tutto con la supervisione e il beneplacito delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali per lo «sviluppo», tra queste ultime la Banca Mondiale e la Banca Asiatica per lo Sviluppo.

Il ritorno di Banca Mondiale

Le priorità della finanza internazionale sembrano cambiate, dunque, dagli anni ’90, quando la Banca Mondiale aveva dimostrato interesse per le istanze dei diritti ambientali. Nel 1991, infatti, era stata la stessa Banca Mondiale a commissionare una valutazione sulla diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, ascoltando le proteste locali e la solidarietà internazionale.

L’ex membro del congresso Usa e alto funzionario dell’Onu, Bradford Morse, insieme all’avvocato canadese per i diritti umani Thomas Berger, viaggiarono nell’area per valutare l’impatto della diga sugli abitanti locali.

Il rapporto scritto dai due, noto come Morse Report, pubblicato nel 19921, rivolse pesanti critiche alla diga, promossa nel nome dello sviluppo e della riduzione della povertà. Puntò il dito sui maltrattamenti delle comunità indigene e sul fatto che i benefici economici attesi erano stati solo momentanei e non avevano favorito le comunità locali, mentre gli impatti ambientali e la frammentazione sociale cadevano sulle spalle dei soggetti più vulnerabili. Anche gli aiuti stanziati per «compensare» le famiglie danneggiate dalla diga erano risultati essere solo palliativi e avevano creato dipendenza economica tra coloro che prima potevano contare sulla propria terra e beni comuni gestiti dalla collettività.

In nome della sostenibilità

Il Rapporto Morse era stato il risultato di una lunga lotta da parte di movimenti sociali, in primis il Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Salvezza della Narmada), e aveva portato la Banca Mondiale a ritirarsi dagli investimenti sulle grandi dighe.

Ora però il colosso finanziario fa finta di aver dimenticato e torna sui suoi passi. Nel 2013 ha rilanciato il water grab delle grandi dighe durante il «Fragility Forum» tenutosi a Washington, dichiarando che «l’idroelettrico a grande scala rappresenta una soluzione [al cambio climatico e alla povertà] per l’Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico». Nelle parole di Rachel Kyte, la vicepresidente della Banca per lo sviluppo sostenibile e influente voce dell’istituzione, «la scelta degli anni ’90 fu un errore»2.

I paesi «fragili» da soccorrere, in cui consolidare le economie garantendo generose infrastrutture, questa volta in nome della sostenibilità, sono tanti. Fra questi l’India, che gode di fondi diretti della Banca Mondiale e della sua branca asiatica, la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Adb).

Il governo indiano appoggia pienamente il piano e non vede di buon occhio obiezioni in merito.

Per lo studioso indiano Ramachanda Guha, la lobby pro-idroelettrico ha avuto successo nell’eliminare le voci contrarie, inclusi gli studi ambientali scientifici esistenti, pur di non mettere a rischio lucrosi progetti3.

Sfruttare il più possibile

Gli stati himalayani, soprattutto Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim e Arunachal, sono determinati a sfruttare tutto il potenziale individuato. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa idrica, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private grosse e piccole.

Per la geomorfologia delle strette valli himalayane, sono pochi i progetti che prevedono grandi laghi artificiali. Tuttavia, i cosiddetti progetti Run-of-River, cioè impianti a pompaggio o ad accumulazione, comportano lo scavo di numerose gallerie per le derivazioni d’acqua. Per scavarle, si ricorre, soprattutto nelle ore notturne, alla dinamite, e si sono registrati smottamenti sismici, innumerevoli crepe nelle case, prosciugamento di fonti d’acqua e importanti perdite nell’agricolura (soprattutto alberi da frutta) dovute alle polveri che si accumulano sulla terra e sulle foglie.

I nuovi progetti spesso non hanno un solido studio di fattibilità alle spalle. Secondo una fonte governativa, mentre una volta in Himachal Pradesh l’individuazione di un sito per un progetto idroelettrico prevedeva una visita in loco per considerare diverse variabili, ora si avvale della tecnologia remote sensing, attraverso satelliti e applicazioni cartografiche, per individuare i salti d’acqua. Molto spesso poi i permessi vengono concessi senza una visita sul luogo, che può essere ad esempio una vallata lontana e dalle strade non facilmente percorribili.

Il caso delle inondazioni dell’Uttarakhand

Per la fatalità della storia, nello stesso anno in cui la Banca Mondiale annunciava il suo ritorno nel grande giro d’affari delle dighe, una pesante pioggia di più giorni cadde sulla regione occidentale dell’Himalaya. Nello stato dell’Uttarakhand causò violente inondazioni e smottamenti del terreno. Fu il disastro «ambientale» più grave nel paese dopo lo tsunami del 2004. Era giugno, piena stagione turistica per i numerosi siti di pellegrinaggio hindu presenti nella zona. Ci volle molto tempo al governo per fare una stima delle vittime, che si aggira poco sotto le 6.000 e di cui si sono trovati pochissimi corpi.

Gli esperti climatologi ammisero che l’entità delle piogge era fuori dalla media stagionale, ma affermarono che il colpevole non si poteva cercare nel meterno. «Avete sentito alcuni arrivare a dire che è stato un omicidio. Ma io lo chiamo ecocidio», affermò Devinder Sharma del Forum for Biotechnology and Food Security alla Cnn. «La copertura forestale è stata ridotta terribilmente [per fare spazio a strade, linee di trasmissione e altre infrastrutture per le dighe], c’è una considerevole attività mineraria nella regione [soprattutto di estrazione di sabbie per cemento], e le strade sono costruite senza un piano ragionato. In più, i grandi progetti idroelettrici in varie fasi di costruzione sono nell’ordine delle centinaia, con i loro tunnel che sfregiano le montagne».

Vimal Bhai dell’organizzazione Matu Jan Sanghatan denunciò la situazione intorno alla diga di Tehri, la più alta di tutta la regione. Mentre ai tempi il governo e l’impresa pubblica che la gestisce, la Thdc, ne difendeva l’utilità per controllare inondazioni improvvise, ora si trovano con una infrastruttura danneggiata che rappresenta un rischio per la popolazione. In più, nei mesi immediatamente successivi al disastro, Thdc non volle diminuire l’altezza dell’acqua del lago e anzi chiese il permesso per aumentarne il livello e generare così maggiore elettricità.

L’urgenza di rivedere l’intera politica energetica

Dopo il disastro, la Corte Suprema dette immediatamente l’indicazione al Ministero dell’Ambiente di istituire una commissione d’inchiesta. Il documento finale dell’Expert Body (Eb) diretto dal Dr. Ravi Chopra e pubblicato nell’aprile successivo riconobbe la relazione diretta tra l’instabilità del terreno, le alluvioni e i progetti idroelettrici, e dichiarò chiaramente l’urgenza assoluta di fermare almeno 23 progetti e di rivedere profondamente l’intera politica energetica nella regione.

Il collettivo India Climate Justice ribadì che le cause erano state molteplici: eccessiva deforestazione che aveva creato instabilità del terreno e non permetteva l’assorbimento dell’acqua, turismo di montagna e traffico su strada sregolati, estrazione di sabbie dai letti dei fiumi, costruzioni inadatte senza regolari permessi e studi di hotel e altri edifici4.

Un concetto non condiviso e selvaggio di «sviluppo» per questa regione porta dunque inevitabilmente a politiche irresponsabili e complici. Il collettivo riaffermò che «questa tragedia è un crimine, perché i nostri legislatori e amministratori sono parte della grande ingiustizia climatica su scala globale, che minaccia, sfolla e uccide coloro che si trovano più impoveriti e marginalizzati».

La sconcertante perseveranza

Dopo la grande commozione e dolore provocati dalla tragedia, ciò che sconcerta è la perseveranza nelle stesse politiche energetiche e di gestione del territorio. E che non si limitano all’Uttarakhand.

Il vicino stato dell’Himachal Pradesh ha fatto dell’idroelettrico il fiore all’occhiello della sua promozione come green state, con una economia verde e con esclusiva produzione di energia rinnovabile. Tuttavia, anche qui si parla di centinaia di progetti in fase di pianificazione o costruzione, tra cui la più grande diga privata del paese, la Karchham Wangtoo5 dalla capacità installata di 1.200 Mw e di proprietà del colosso indiano Jindal Group.

Il vice chancellor dell’Università dell’Himachal Pradesh, prof. A. D. N. Bajpai ha messo in allerta per il rischio enorme a cui è esposto l’intero distretto del Kinnaur nel malaugurato caso di un terremoto nella regione, che è per altro dichiarata ad alto rischio sismico6.

Energia che non serve

Questo scenario risulta ancora più difficile da comprendere se si consultano i dati ufficiali, come ricordano organizzazioni quali Sandrp e il Manthan Centre. L’elettricità prodotta da queste grandi dighe non trova facilmente un acquirente, per il prezzo troppo alto o per l’eccessiva offerta, a seconda della stagione7.

Gli abitanti locali, soprattutto in Kinnaur, hanno lanciato lo slogan di una «no-go zone» per l’idroelettrico e difendono orgogliosamente la loro economia basata sull’agricoltura e sulla produzione di frutta. Si organizzano in comitati di supporto e in più occasioni le loro domande si sono unite a quelle dei lavoratori del cantiere, quando hanno incrociato le braccia per le condizioni di lavoro e l’insicurezza nell’escavazione dei tunnel, già costata la vita a un numero non registrato di lavoratori.

Nonostante in molti casi gli sforzi della resistenza non siano stati sufficienti, hanno alimentato una sempre maggiore coscienza della necessità di un cambio non solo nella tecnologia dei progetti. Poco a poco si diffonde una domanda più di fondo: per cosa viene usata questa energia e chi ne risulta beneficiato? Quali sono le altre tecnologie che si potrebbero utilizzare? Su quale scala? Quali sono le infrastrutture di cui davvero la gente locale ha bisogno, in un’ottica di decentralizzazione?

Anche se le risposte e le proposte alternative sembrano ancora lontane, spesso è proprio all’interno della resistenza che si schiudono le prime sementi di qualcosa di diverso, e la presa di coscienza ne è il primo fertilizzante.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

  • 1- Bradford Morse & Thomas R. Berger, Sardar Sarovar – Report of the Independent Review, reperibile in formato pdf nel sito ielrc.org.
  • 2- Howard Schneider, World Bank turns to hydropower to square development with climate change, «The Washington Post», 08-05-2013.
  • 3- Ramachandra Guha: Expediency trumps expertise, «The Gulf Today», 13-07-13.
  • 4- La dichiarazione si può leggere in Climate justice statement on the Uttarakhand catastrophe, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 25-06-2013.
  • 5- Il progetto Karchham-Wangtoo è la più grande infrastruttura idroelettrica dell’India in mano privata, del Jindal Group. Il gruppo austriaco Andritz ha partecipato con alcune componenti. Al momento 800 abitanti della zona hanno avviato un’azione legale per ottenere le compensazioni pattuite che non vengono rispettate.
  • 6- Rakhee Thakur, Mega projects endangering Himachal Pradesh, «The Times of India», 07-11-2015.
  • 7- Per informazioni più dettagliate: Ankur Paliwal, Drowned in power, «Down To Earth», downtoearth.org.in, 15-04-2014; e Hydropower in Himachal: Do we even know the costs?, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 04-10-2014.




Zambujal: C’era una volta il campo degli ulivi


Zambujal, il «campo degli ulivi», non è più campagna ma un’anonima periferia urbana abitata da immigrati, rom e famiglie scappate dalle ex colonie portoghesi. Qui sono presenti i missionari e le missionarie della Consolata.

A Zambujal, un bairro dentro l’area metropolitana della città di Lisbona, circa 15mila persone vivono per la gran parte in casermoni di quattro o cinque piani tutti uguali con finestre piccole e strette. Gran parte delle finestre dei primi piani è chiusa da pesanti grate. Le inferriate sono presenti anche all’interno dei palazzi nei quali quasi tutte le porte degli appartamenti sono protette da cancelli con catene e lucchetti. Le ampie strade lastricate, molte chiuse al traffico, che separano i caseggiati sono vuote.

Il nome Zambujal viene da una parola araba che significa campo di olivi, ma qui è difficile trovare qualcosa che richiami il verde o l’aria accogliente di un uliveto. Si incontra solo qualche fila di alberi appena piantati che lottano per sopravvivere.

Vivere insieme alla gente che si serve

Tre missionari della Consolata, padre José Matías, padre Albino Brás, entrambi portoghesi, e il diacono Geoffrey Menya, kenyano, risiedono e lavorano nel quartiere. I tre non vivono in una casa religiosa o in una canonica, ma hanno affittato un appartamento al terzo piano di uno di quei tanti anonimi palazzoni di cemento. «Abbiamo fatto la scelta di vivere non solo in mezzo alla gente, ma anche come la gente», dice padre Matías (che non si fa chiamare José per non essere confuso con i tanti altri che portano il suo stesso nome). «In questo modo stiamo mettendo in pratica la missione ad gentes che abbiamo scelto quando siamo diventati missionari».

Padre Matías è stato uno dei primi a venire a Zambujal, già nel 2003, quando dalla casa dei missionari a Cacem, a una decina di minuti di macchina da qui, ha cominciato a visitare le famiglie del quartiere e celebrare la messa dove poteva al piano terra di qualcuno dei grandi edifici residenziali dell’area. «Ma il fatto che non vivessimo qui, rendeva difficile avere contatti profondi e duraturi con la gente», ricorda padre Matías.

Quando lui è stato trasferito in Spagna, i suoi confratelli hanno continuato a collaborare con la parrocchia di Zambujal, fino al 2012, anno in cui hanno deciso di prendere una residenza permanente nel quartiere per iniziare una presenza regolare in collaborazione con le suore della Consolata. Padre Albino Brás, con un confratello e un seminarista del Kenya, ha così iniziato la nuova avventura.

Padre Matías, lasciata la Spagna, è tornato in Portogallo all’inizio del 2016. «Il lavoro qui è molto impegnativo. I bisogni umani e spirituali della gente sono tantissimi», sottolinea il missionario che un tempo è stato in Mozambico, «e, anche se qualche volta è davvero dura, non c’è alternativa alla scelta di vivere insieme alla gente che si serve».

È quello che pensano anche le missionarie della Consolata, suor Severa Riva e Ivaní de Morais che hanno preso un appartamento non molto distante da quello dei missionari condividendo lo stesso spirito.

Il multiculturalismo di Zambujal

Nonostante il loro impegno, i missionari riescono ad avere contatti regolari solo con una piccola parte della popolazione di Zambujal. È una realtà molto difficile, resa ancora più complicata dalle divisioni etniche del quartiere. Gli abitanti sono, infatti, divisi in tre grandi gruppi, con innumerevoli sottogruppi. Ci sono i portoghesi nativi del posto, poi gli immigrati che parlano portoghese e provengono dalle ex colonie (soprattutto da Capo Verde) e infine i Rom. Ognuno dei gruppi tende a non mescolarsi con gli altri e fare vita a sé. Normalmente la convivenza, pur difficile, è pacifica, ma ogni tanto si carica di tensione e violenza. I pesanti cancelli davanti alle porte di ingresso degli appartamenti, ne sono un segno.

Virtualmente tutti gli appartamenti di Zambujal ricadono sotto la categoria del social housing (come le nostre case popolari, ndr). Infatti furono costruiti dal governo negli anni ’60 e ’70 per accogliere i molti portoghesi che scappavano dalle ex colonie man mano che queste recuperavano l’indipendenza, non senza guerre e violenze, abbandonando i loro possedimenti oltremare. Il processo di decolonizzazione dei territori oltremare – da Capo Verde all’Angola al Mozambico in Africa, da Timor Est a Goa a Macao in Asia – causò un grande afflusso nel paese di ex coloni portoghesi e di immigranti di ogni gruppo etnico.

Quello portoghese è stato il più longevo tra gli imperi coloniali europei e uno dei più estesi, cominciato con la conquista di Ceuta in Marocco nel 1415, e continuato con la conquista e colonizzazione di parte dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. Il processo di decolonizzazione, partito dal 1822, con la perdita del Brasile, proseguito negli anni ’60 e ’70 del Novecento con l’indipendenza delle colonie africane, si è concluso all’inizio del nuovo millennio, con il trasferimento di Macao alla Cina nel 1999 e la concessione della sovranità a Timor Est nel 2002. Più di cinquanta stati possono oggi rintracciare le loro origini nell’impero portoghese.

Per molti portoghesi che sono stati obbligati a lasciare le antiche colonie, il Portogallo era in realtà una terra straniera. La gran parte di loro, come i loro padri e i loro nonni, erano nati e cresciuti nei territori d’oltremare. Pur parlando portoghese erano degli stranieri e per molti di loro l’integrazione nella società nazionale è stata molto difficile. Al numero di questi forestieri si è poi aggiunta la grande quantità di migranti provenienti da quelle stesse ex colonie. I due gruppi vengono spesso uniti sotto l’unica definizione di Palops (gente proveniente da Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa): proprio per loro il governo ha costruito quartieri come Zambujal.

Le iniziative di aggregazione

Scendiamo con i padri Albino e Matías le sei rampe di scale che portano dal loro piccolo appartamento al marciapiede sulla strada principale del quartiere. Giriamo a sinistra e, dopo pochi passi, attraversiamo un’ampia porta di ferro e vetri. Entriamo nel Centro de Consolação e Vida. Da qui partono tutte le attività dei missionari. Una vivacissima ed energica suor Ivaní ci fa da guida.

Oltrepassato l’ampio corridoio che fa da ingresso, nel quale si apre una stanzetta che serve da ufficio di accoglienza e sala d’attesa, entriamo nel laboratorio di taglio e cucito. Un gruppo di donne intente ai loro lavori ci accoglie: c’è chi taglia la stoffa, chi cuce, chi ricama, il tutto sotto lo sguardo attento di Elisa Cruz, una laica missionaria della Consolata. Stanno confezionando borse di vario tipo, tutte fatte a mano, dall’A alla Z. Ne esaminiamo alcune, la qualità è eccellente. La suora apre allora un grande armadio e abbiamo modo di apprezzare la bellezza e il disegno originalissimo dei tessuti creati e lavorati da quelle donne. Elisa ci spiega che tutta la loro produzione è su commissione e, quindi, tutto è già venduto ancor prima di essere fatto. Pagate le spese, il guadagno va tutto a sostenere il centro e le sue attività.

Dietro il laboratorio ci sono due piccole aule che servono per corsi di alfabetizzazione e scuola serale per gli adulti. Una piccola cappella con una porta che dà direttamente sulla strada è il cuore del Centro di Consolazione e Vita. Lì ci si ritrova per la messa e per la preghiera personale o a piccoli gruppi. Naturalmente non manca l’angolo cucina, necessario per quando si organizzano piccole feste, anche se la maggior parte del cibo viene portata già pronta da casa.

Il Caza (Centro artístico do Zambujal) è il punto d’orgoglio e di gioia di tutti coloro che sono coinvolti nel centro. Quando i locali non sono usati per la scuola o per il laboratorio, si trasformano in un vivaio di creatività: musica, arte, cinema, danza, yoga e tante altre attività.

Alla base di tutto c’è, sempre presente, l’obiettivo dello sviluppo umano e spirituale delle persone, gli interventi sociali, l’opera di dialogo e incontro tra i vari gruppi, l’attenzione all’ambiente, la catechesi e preparazione ai sacramenti, l’evangelizzazione. «Le vie del Signore sono infinite», dice sorridendo padre Albino. «Abbiamo fatto molti progressi con i diversi gruppi che vivono in zona, soprattutto con i Capoverdiani. Rimane però il grande problema dei Rom, che tendono a isolarsi e non interagiscono molto con gli altri. A volte arrivano al punto di escludere dalla loro comunità chi tra loro frequenta il centro. Ma noi continuiamo con i tentativi di coinvolgerli».

Usciamo dal Caza e ci dirigiamo alla palestra, un’altra delle iniziative di aggregazione dei missionari. Ci accoglie Luis, un giovane capoverdiano, che si presta subito a farci da guida. È una palestra perfettamente funzionante come potreste trovare ovunque. I macchinari non sono proprio all’ultimo grido, ma funziona tutto perfettamente. Tutti gli attrezzi sono stati regalati da altre palestre quando hanno rinnovato il loro equipaggiamento. Attraverso quest’attività i missionari raggiungono tre obiettivi: offrono un servizio molto pratico soprattutto ai giovani, creano un centro di aggregazione e di incontro dove persone di diverse provenienze possono interagire tra loro e allo stesso tempo incontrare i missionari, e, attraverso la quota di iscrizione (degli oltre duecento membri) si autofinanziano e pagano il personale addetto.

Il bel colore dell’olivo

Tornando verso l’appartamento dei missionari, c’imbattiamo in un gruppo che esce da un caffè che fa anche da drogheria, dove puoi comprare di tutto a tutte le ore. Alcuni di quegli uomini riconoscono padre Matías e il diacono Geoffrey. Non possiamo non fermarci. C’è una gran voglia di chiacchierare. Un anziano ci fa vedere un sacchetto pieno di caracóis (lumache) che ha appena raccolto in un prato, con la moglie ci farà una bella zuppa. Dal bar una voce di donna ci chiama. Dobbiamo proprio entrare. La signora Clara, nativa dell’arcipelago Madeira, ci accoglie con un grande sorriso e grande cordialità, sprizzando giovialità da tutti i pori. Ci offre un espresso, a spese della casa. Vicino a noi un uomo beve un bicchiere di vino, aperitivo prima della cena.

Il quartiere può sembrare squallido e triste, ma per un momento la gente di Zambujal dimentica i suoi problemi. Il cemento non sembra più così impenetrabile e i piccoli alberi che fiancheggiano la strada potrebbero anche crescere grandi e forti e riprendersi un po’ il bel colore dell’olivo.

Domenic Cusmano*

* Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni dalla rivista «Consolata Missionaries» (n. 1, 2017), pubblicata in inglese e francese dai missionari della Consolata in Canada e negli Stati Uniti.




I perdenti 25. Dietrich Bonhoeffer


Dietrich Bonhoeffer nacque il 4 febbraio 1906 a Breslau (Breslavia), nella regione della Slesia, allora territorio tedesco (dopo la II Guerra mondiale la città sarebbe ritornata a far parte della Polonia con il nome di Wroc?aw, dopo quattro secoli di dominio austriaco, prussiano e nazista). Il padre Karl era un professore di Neurologia e Psichiatria, la madre Paula, cristiana fervente, dedicava molta cura e molto tempo all’educazione dei suoi otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Quando Dietrich aveva sei anni, la famiglia Bonhoeffer si trasferì a Berlino. I suoi genitori frequentavano la Chiesa luterana, ma con un’impostazione sostanzialmente laica e positivista. Il giovane Dietrich, invece, si avvicinava alla religione con animo pieno di inquietudine e di ricerca. Per cercare una risposta alle sue aspirazioni personali e spirituali, dopo il liceo decise di intraprendere gli studi teologici. Una scelta che avrebbe inciso profondamente nella sua vita.

Caro Dietrich, all’inizio della nostra chiacchierata, puoi dirci come maturò in te, dopo le scuole superiori, la scelta di iscriverti alla Facoltà di teologia?

Per rispondere alla tua domanda è necessario fare un passo indietro: avevo sedici anni quando, la mattina del 21 giugno 1921, mentre ero a scuola nel ginnasio di Grunewald, mi giunse l’eco degli spari che, a poca distanza dall’istituto, uccisero Walter Rathenau, ministro degli Esteri, davanti alla porta di casa. Fu allora che iniziò il mio turbamento: cominciai a domandarmi quale futuro potesse avere una Germania che assassinava i suoi figli migliori e quale risposta potessi dare io.

In famiglia come accolsero la tua decisione?

La mia vocazione allo stato religioso fu accolta in casa con una certa sorpresa, considerata più come una scelta curiosa che come una risposta a una vocazione. Secondo i miei genitori lo studio della teologia era una strada che non portava da nessuna parte, non offrendo sbocchi occupazionali né tantomeno lavorativi.

Tu però non la vedevi così…

No, anzi, durante i miei studi nelle Facoltà teologiche prima a Tubinga e poi a Berlino, maturai delle profonde convinzioni che avrebbero avuto una forte incidenza sulle mie scelte politiche successive.

L’ambiente universitario quindi influenzò e fece maturare la tua lettura della realtà del tuo tempo…

Fui molto colpito dalla teologia dialettica e dal pensiero del teologo protestante svizzero Karl Barth. Leggendo e approfondendo i suoi scritti, aumentai di molto il mio bagaglio teologico. Terminai i miei studi laureandomi nel 1930 con una tesi sulla Chiesa, dal titolo «Sanctorum communio», diventando allo stesso tempo pastore luterano e ottenendo a soli 24 anni l’abilitazione per la docenza universitaria.

Quale fu il tuo primo incarico accademico?

Dal 1931 al 1933, insegnai all’Università di Berlino, dove mi sforzai di coinvolgere gli studenti in un approccio innovativo alla teologia, teso a sensibilizzare le coscienze, in modo particolare sulla situazione politica della Germania di allora.

Nel tuo programma accademico avevi qualcosa di specifico da offrire ai tuoi studenti?

La mia fissazione come insegnante di teologia era la Chiesa, intesa come concreta comunità di uomini, che, in quanto tale, ha il dovere di calarsi nella realtà e combatterne le distorsioni, per realizzare una società giusta e fraterna, estranea a ogni tipo di odio e di violenza.

In quegli anni anche la tua famiglia faceva scelte in disaccordo con l’ideologia nazista che però guadagnava consensi sempre più ampi in tutta la Germania…

La mia opposizione sempre più forte al nazismo nasceva proprio dall’ambiente familiare. Basti pensare ai contatti che avevo con Gerhard Leibholz, il giovane di origine ebrea sposato con mia sorella gemella Sabine. Essi, nel 1933, lasciarono la Germania a seguito delle prime leggi razziali emanate dalla dittatura di Hitler, rifugiandosi negli Stati Uniti.

Questo ti aiutò a prendere coscienza della depravazione presente nell’ideologia nazionalsocialista e cominciasti a reagire di conseguenza…

Compresi la grande aberrazione dell’antisemitismo e presi posizione pubblicamente contro la «clausola ariana» che era stata inserita negli statuti della Chiesa protestante, imposti dal regime nazista. Scesi in campo in prima persona per denunciare l’allucinante deriva del potere politico in Germania.

Che scelte facesti allora per contrapporti all’ideologia nazista?

Mi schierai con la cosiddetta «Chiesa confessante», cioè quella parte della Comunità evangelica protestante che aveva imboccato la via della resistenza al regime, e cominciai a organizzare seminari e corsi di studio per far conoscere la situazione in cui ci trovavamo. In più mi misi all’opera per stabilire contatti con l’estero, affinché fosse sostenuta la resistenza tedesca.

Immagino che il regime nazista non restò a guardare ciò che facevi…

I miei interventi pubblici furono lentamente ma inesorabilmente ostracizzati, in particolare quando, partecipando a una trasmissione radiofonica, accusai pubblicamente Hitler di essere «un seduttore». Immediatamente fu interrotto il programma e chiusa l’emittente radiofonica. L’interferenza del regime nella mia vita, col tempo, diventò sempre più capillare e invasiva, finché nel 1936 mi venne proibito di insegnare e, in seguito, di predicare e di scrivere.

Non ti restava molto spazio per svolgere le tue attività…

Alla fine del ’33 mi trasferii a Londra per fare il pastore e per svegliare le coscienze nei confronti del rischio che correva l’Europa di fronte al nazismo. Nel ’35 tornai in patria, ma le mie amicizie con gli ebrei e il mio impegno nelle file dell’opposizione erano noti a tutti. Fu quello il periodo in cui iniziarono i vari provvedimenti contro di me.

Nell’estate del 1939 riparai negli Stati Uniti, ma vi restai solo poche settimane prima di tornare nuovamente in Germania. L’amore per il mio popolo e la mia coscienza mi impedivano di stare a guardare mentre il mio paese precipitava nell’orrore e nella guerra ormai imminente.

Tornasti nonostante i pericoli che sapevi di correre. Puoi dirci che successe al tuo rientro?

Una volta rientrato in Germania, mi unii al gruppo di resistenza sorto attorno all’ammiraglio Wilhelm Canaris, impegnato a cercare una via d’uscita che evitasse il disastro totale della nazione tedesca, ma il 5 aprile 1943 fui arrestato dalla Gestapo. Iniziava così il mio calvario in varie prigioni del Reich.

Incarcerato, trovasti ugualmente il modo di scrivere lettere e appunti che, dopo la guerra, sarebbero stati pubblicati in un libro dal titolo «Resistenza e resa», un raro esempio di coerente adesione ai principi di libertà, patria, democrazia, pace, dialogo, ascolto dell’altro…

Nelle pagine scritte in prigione, tracciai alcune linee guida del mio pensiero teologico, cercando di illustrare la necessità di approfondire il mistero di Dio e il mistero dell’uomo, sforzandomi di mostrare come una vita con Dio e per Dio, con gli uomini e per gli uomini, sia il più alto valore della fede cristiana.

Scritti rivelatori di una vicenda umana e cristiana esemplare…

Io credevo fermamente nei valori della comunità, come necessaria risposta religiosa all’esistenza, come luogo del rispetto reciproco, e in quelli dell’interiorità che nessuna tirannia – men che meno quella nazista – può violare. E tutto ciò lo gridai con forza al mondo intero.

In tutti questi avvenimenti, oltre all’appoggio della tua famiglia, ne avevi un altro che ti stava particolarmente a cuore…

Quattro mesi prima del mio arresto, nel gennaio 1943, mi fidanzai con Maria von Wedemeyer, una giovane diciottenne tedesca che amai teneramente, ma che non potei sposare.

Dopo un breve passaggio nel campo di concentramento di Buchenwald, Dietrich Bonhoeffer fu trasferito nel lager di Flossenbürg presso Monaco. Là, dopo un processo farsa, fu condannato a morte e impiccato il 9 aprile 1945, a 39 anni, insieme all’ammiraglio Canaris, per espresso ordine di Hitler. Nei mesi che precedettero il crollo finale del nazismo, e che seguirono il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, anche altri suoi familiari furono uccisi, quali dissidenti del regime: suo fratello Klaus Bonhoeffer, i mariti delle due sorelle Christine e Ursula, Hans von Dohnanyi e Rudiger Schleicher, con loro Ernst von Harnack, parente e frequentatore del circolo musicale in cui il gruppo clandestinamente si riuniva. Dal 1998, la sua statua è collocata in una nicchia della facciata dell’abbazia di Westminster, in Inghilterra: tiene in mano una Bibbia, ed è in compagnia, fra gli altri, di Martin Luther King, del vescovo Oscar Romero, di san Massimiliano Kolbe, in un ecumenismo del martirio, più eloquente di qualsiasi solenne dichiarazione.

Don Mario Bandera

 




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




Allamano: L’impronta di Maria


Scriveva uno dei biografi dell’Allamano, nostro Fondatore: «Se alla morte si fosse aperto il suo cuore, vi si sarebbero trovate incise due parole, Consolata e Missioni», i suoi grandi amori, come i due polmoni che diedero il respiro all’intera sua esistenza. Dando inizio a due famiglie missionarie, il Fondatore volle che fossero plasmate dall’impronta di Colei che lui chiamava, con affetto filiale, la «cara» Consolata e di cui si definiva il segretario, «il tesoriere». Non è possibile, allora, parlare dell’Allamano, capirne la spiritualità, stupirsi della sua intensa attività, senza tenere conto della Madonna che per lui era semplicemente… la Consolata. Parlando un giorno ai suoi missionari, gli scappò di dire: «Che volete… È una devozione che va al cuore. Se dovessi fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione».

La Consolata fu dunque per lui una presenza dolce e materna che l’accompagnò in tutti i momenti della sua vita: mentre si preparava a diventare sacerdote e perse la sua amatissima mamma; negli anni in cui fu rettore del più famoso santuario di Torino; ma soprattutto quando, aprendo la sua chiesa locale alla Missione in Africa, diede ai suoi figli e figlie, come obiettivo di vita quello di diffondere «la gloria di Maria alle genti», questa donna eccezionale, diventata per l’occasione anche «fondatrice»: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto questo titolo, la nostra Madre e non siamo noi i suoi figli? Sì, nostra Madre tenerissima, che ci ama come la pupilla dei suoi occhi, che ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni… La vera Fondatrice è la Madonna!».

La Consolata, da lui amata, invocata e annunciata, oltre che modello di vita consacrata per la Missione, diventò così Consolatrice, la Madonna missionaria che, con lo slancio dei discepoli missionari, donne e uomini di Vangelo, cammina sui sentieri dei continenti, visita le case dei poveri, entra nel cuore dei popoli come segno di speranza e di consolazione.

E fu con il suo nome sulle labbra e nel cuore che i missionari aprirono nel Kikuyu (Kenya) il primo campo di apostolato dell’Istituto; fu alla Consolata che dedicarono la prima stazione di Tusu a cui si aggiunsero tutte le altre e che il Fondatore volle fossero dedicate alla Madonna.

Con questa «impronta mariana», voluta e vissuta dal loro Fondatore, anche oggi i missionari e le missionarie della Consolata non si stancano di annunciare Gesù, figlio di Maria e vera consolazione del mondo.

Giacomo Mazzotti

Festa del Beato Allamano 2016, novizie MdC da Capri e studenti IMC da Castenuovo attorno alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

 




Cento anni di Consolazione


Cento anni fa i primi missionari della Consolata, guidati da padre Gaudenzio Barlassina, arrivarono in Etiopia mimetizzati da commercianti di macchine da cucire. Si realizzò così il sogno del beato Giuseppe Allamano che aveva fondato i suoi missionari proprio per quel paese. Ma, oltre alla vecchia «Singer», nel cuore portavano un bene più prezioso: la consolazione di Maria Consolata (in apertura: onorata da bambini orfani, in una foto d’epoca evidentemente organizzata per ringraziare i benefattori).

La consolazione era vissuta e praticata nella semplicità di vita quotidiana e si traduceva anche nell’attenzione affettuosa ai più piccoli, come mostrano le due foto qui di seguito che parlano da sole.

 

Arrivati in Etiopia, i primi missionari e missionarie della Consolata si adattarono alla vita del posto, diventando presto, suore comprese, esperti cavallerizzi, visto che il cavallo o il mulo era il mezzo più semplice e diffuso per muoversi su un terreno montuoso e privo di strade.

A conclusione della lunga e faticosa giornata, alla luce della lucerna a petrolio, nella quiete della notte restava il tempo per compilare il diario, scrivere alla famiglia, approfondire la lingua locale…