A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.
Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.
Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.
Le tensioni esistenti
Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.
Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.
Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.
Dal ping pong al Wto (1971-2001)
Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.
Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.
Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.
Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.
La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.
Mercato sì, comunismo anche
La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.
Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.
I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.
Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali.
La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.
Stile Trump: la pistola sul tavolo
Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.
Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?
Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».
La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti
Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.
La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.
Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.
Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.
La variabile Trump
Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.
Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)