La guerra in Sud Sudan non si è fermata. Anzi, è diventata più cruenta e caotica. Con il moltiplicarsi dei gruppi guerriglieri e lo strapotere dell’esercito «regolare». Milioni sono le persone in fuga dalla propria terra. Anche a causa della fame che uccide. Il governo lancia un dialogo, reputato da molti di facciata. I responsabili di tre chiese chiedono aiuto al papa.
È il 28 ottobre 2016 quando tre capi religiosi del Sud Sudan giungono in Vaticano per incontrare papa Francesco. Sono monsignor Paulino Lukudu Loro, vescovo di Juba, il reverendo Daniel Deng Bul Yak, vescovo anglicano e il reverendo Peter Gai, moderatore della chiesa presbiteriana. Il papa li ha convocati qualche giorno prima, preoccupato dell’inasprirsi del conflitto nel paese. Nel luglio 2016, il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace si era recato in Sud Sudan per verificare la situazione.
Il paese più giovane dell’Africa (e del mondo), indipendente dal luglio 2011, è scosso da una guerra civile che sta assumendo connotati disastrosi (si veda MC agosto-settembre 2016).
Una guerra tra fratelli
Dal dicembre 2013 l’esercito governativo del presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, fronteggia i ribelli dell’ex vicepresidente (lo è stato fino al luglio 2016) Riek Machar, di etnia Nuer. La situazione sul terreno è andata complicandosi e la guerra ha assunto connotazioni etniche. Delle 64 etnie presenti nel Sud Sudan, la quasi totalità si è schierata contro i Dinka. «Stanno nascendo nuovi gruppi guerriglieri – conferma padre Daniele Moschetti, fino a dicembre scorso superiore dei missionari Comboniani nel paese -. Poche settimane fa è nato un gruppo ribelle legato all’etnia Bari e comandato da Thomas Cyrillo». Giovanissimo, Cyrillo, vice capo dell’esercito regolare, ha disertato ed è subito stato accusato di corruzione. Poco dopo ha annunciato la nascita del suo gruppo guerrigliero. Altri gruppi, come quello intorno alle etnie Zande, Shilluk, stanno nascendo.
«L’esercito regolare invade le terre ancestrali dei vari popoli. Le donne e i bambini scappano, i giovani si organizzano per difenderle. In questo senso la guerra è etnica». Ma a loro volta i nuovi gruppi si macchiano di crimini efferati, perché devono sostentarsi, spostarsi. Per cui saccheggiano e usano ogni forma di violenza contro la popolazione civile (si veda box).
«Così oggi abbiamo oltre un milione e mezzo di sud sudanesi fuggiti all’estero, in Ciad, Etiopia, Kenya, Uganda. Altrettanti, su una popolazione totale di 12,5 milioni, sono sfollati interni, ovvero fuggiti dalle loro terre. Circa 300.000 sono in campi profughi nelle varie città sud sudanesi», continua padre Moschetti. E le uccisioni sono sempre più a sfondo etnico: la gente viene divisa per etnia e quindi massacrata per il solo fatto di appartenere a un dato gruppo.
Le Chiese unite per la pace
In questo contesto le chiese sono unite in una iniziativa ecumenica, sotto il South Sudan Council of Churches, e lavorano per il dialogo e la pace con programmi comuni e singole iniziative.
Lo scorso 26 febbraio papa Francesco, in visita alla parrocchia anglicana All Saints di Roma per le celebrazioni dei 200 anni della stessa, ha confermato di voler fare un viaggio nel paese. E, soprattutto, di volerlo fare insieme a Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e capo della chiesa anglicana. Questo per dare un segnale forte.
Nonostante le numerose indiscrezioni di smentite, nel momento in cui scriviamo il Vaticano conferma questa possibilità. «Potrebbe svolgersi a ottobre – dice speranzoso padre Moschetti – dopo il viaggio in Colombia di settembre, probabilmente una visita lampo, una mezza giornata, ma sarebbe molto importante». E continua: «Però se penso ai mesi che ci separano da ottobre, con un conflitto che si sta allargando a macchia d’olio e può portare davvero a un’ecatombe, potrebbe addirittura essere tardi».
Dialogo «governativo»
Nel frattempo il governo di Salva Kiir ha lanciato il «suo» dialogo. Se ne parlava a dicembre ed è stato ufficializzato il 10 marzo scorso. Sono previsti incontri, conferenze. «Ma lui invita chi vuole. Non è stata un’operazione consultativa, ma nominativa. Il governo non si è consultato, ha invitato alcune personalità sud sudanesi che reputa rappresentative della società». Padre Daniele è scettico su questa iniziativa, dalla quale alcuni importanti esponenti si sono già defilati per evitare ogni strumentalizzazione. «Ad esempio monsignor Paride Thaban vescovo emerito di Torit, ha 81 anni e fa molto per la pace, ma ha preferito star fuori da questo dialogo organizzato dalle istituzioni».
Il dialogo sarebbe un paravento per il governo dietro cui nascondersi dalla comunità internazionale, Usa e Gran Bretagna in testa, che vorrebbero una stabilizzazione del paese. «Dovrebbe portare a far rispettare gli accordi del luglio 2015 di cui i governativi non hanno mai tenuto conto». L’accordo non piaceva, soprattutto ai cosiddetti «Dinka helders», personaggi influenti che stanno dietro o intorno al presidente. Uno di loro è il generale Paul Malong, potente capo dell’esercito, dinka ma di un clan diverso da quello di Kiir.
Machar fuori gioco?
Gli scontri sono iniziati a Juba e si sono estesi in diversi stati, a cominciare da quelli in cui c’è petrolio, che sono anche quelli a maggioranza nuer: Unity, Jonglei e Upper Nile. Ma è Unity il più colpito per morti e devastazione. È lo stato di cui è originario Riek Machar, l’altro signore della guerra.
Ma dove si trova oggi Machar? Fuggito nella foresta con 700 uomini dopo lo scoppio di violenti scontri a Juba, seguiti alla firma dell’accordo nell’estate 2015 e all’insediamento del governo provvisorio (aprile 2016), riparato in Congo, malato è stato poi curato a Khartum, capitale del Sudan. Ristabilito, ha fatto un appello a tutti i sud sudanesi di imbracciare le armi contro l’esercito governativo dei Dinka. «È in quell’occasione che abbiamo visto un cambiamento brusco della comunità internazionale rispetto all’appoggio a Machar, perché la sua chiamata alla guerra non è piaciuta». Andato in Sudafrica (dove peraltro ha delle proprietà) per farsi curare, ha tentato di organizzare un ritorno sul campo, ma è stato bloccato ad Addis Abeba (Etiopia). «Lontano dal terreno non riesce a comandare le truppe, ed ecco che stanno venendo fuori nuovi gruppi e nuovi leader militari, come Cyrillo, appunto».
Morire di fame
Il paese è in ginocchio anche per la fame. Una fame causata dalla carestia, ma soprattutto dalla guerra, dalla fuga della popolazione, dall’impossibilità di coltivare. «Oggi nell’Unity State si muore di stenti e di fame. Sono bambini, donne e vecchi che muoiono per primi. Gli altri sono nelle milizie o sono scappati. Il papa è cosciente della situazione, per cui vuole intervenire. Anche le Nazioni Unite non riescono a soddisfare tutte le esigenze. Il governo non lascia creare i corridoi umanitari per portare il cibo. E la gente ha iniziato a morire».
Il Sud Sudan è anche al collasso dal punto di vista economico. La moneta ha visto una svalutazione dell’850% nel 2016. «La banca centrale deve farsi prestare la valuta dalle banche commerciali ugandesi e keniane, perché non ha riserve e paga gli interessi.
Molti stranieri dei paesi confinanti dell’Africa dell’Est (Uganda, Kenya, Etiopia, ecc.), che mandavano avanti attività di tipo economico se ne sono andati. Tutto si è paralizzato».
Alleanze e risorse
I pozzi di petrolio rimasti attivi sono pochi. La strategia dei ribelli era di impedire le estrazioni per bloccare l’economia e i finanziamenti al governo. Nonostante questo, però, l’esercito di Kiir ha armi nuove come gli elicotteri da combattimento con i quali bombarda. È appoggiato da Russia, Ukraina, Israele. La Cina compra il petrolio. I ribelli sono molto meno armati, ma riescono comunque ad ottenere dei successi sul terreno. «Bisogna capire chi sponsorizza i ribelli. Gli interessi in campo sono molti: acqua (il Nilo), minerali, foreste. E poi il transito del petrolio, che porta soldi e prestigio. Attualmente gli oleodotti vanno tutti verso Nord, verso il Sudan, ma il Kenya sta costruendo un porto a Lamu, che sostituirà quello di Mombasa e vorrebbe farci arrivare un oleodotto dal Sud Sudan dal Jonglei, passando per Isiolo. Anche l’Etiopia vorrebbe che il petrolio sud sudanese passasse sul suo territorio, per andare al porto di Gibuti. Sono progetti enormi, del valore di diversi miliardi di dollari. L’Uganda invece è da sempre alleata di Salva Kiir». Così i capi guerriglieri fanno accordi con i governi interessati e ottengono armi in cambio di promesse di vantaggi futuri. Padre Daniele ha visto le varie fasi della storia del Sud Sudan. Oggi ha poche speranze.
«Non si vedono grandi sbocchi. Speravamo che questa nuova iniziativa del governo fosse sincera. Siamo all’assurdo: miseria, fame, insicurezza generale, fuga dal paese. Tutti segni negativi.
Un’iniziativa positiva darebbe una speranza alla gente. Il governo ha fallito e non vuole ammetterlo. Anche i ribelli saccheggiano, rubano, stuprano. Nel paese si ha paura dei propri giovani, un abbrutimento di chi dovrebbe proteggere i cittadini ed è diventato fautore di violenze continue. Ora la speranza è rappresentata solo dalle chiese. Spero davvero che papa Francesco vada in Sud Sudan il prima possibile».
Marco Bello
Testimonianza di un operatore umanitario
Il mio consiglio? Andatevene!
Le statistiche snocciolano freddi numeri. Mentre caldi ragazzi soldato devastano il proprio paese. La gente viene uccisa in base all’etnia. Gli occhi delle donne sfollate sono svuotati dalla fame e da ciò che hanno visto. E alcuni (pochi)?leader diventano ricchissimi. Racconto di un cooperante dal Sud Sudan.
Juba. «La sicurezza alimentare in Sudan del Sud continua a deteriorarsi con 4,9 milioni di persone (circa il 42% della popolazione) a rischio di grave fame prima dell’estate, e una prospettiva di crescita fino a 5,5 milioni di persone a luglio 2017, nel pieno della stagione delle piogge. Si afferma che la portata di questa insicurezza alimentare sia senza precedenti» (Ipc – Integrated Food Security Phase Classification in South Sudan gennaio – luglio 2017). Questo indica il bisogno, anzi il dovere, di intervenire subito, attraverso aiuti umanitari, sia in termini di distribuzioni di sementi e attrezzi agricoli – prima che inizi la stagione delle piogge (aprile-maggio) per riuscire ad avere un raccolto in un paio di mesi -, sia, e soprattutto, di distribuzione di cibo, cosa che non è assolutamente sostenibile e, probabilmente, fattibile, se consideriamo quante emergenze umanitarie ci sono nel mondo in questo momento.
Gli sfollati interni sono 1,89 milioni, più di 1 milione e mezzo i rifugiati nei paesi confinanti, e non solo a causa del conflitto cominciato nel dicembre 2013, ma anche per la mancanza di cibo. Possiamo però cominciare a contare anche chi ritorna dai campi rifugiati in Kenya (Kakuma) e da quelli ugandesi, visto che le condizioni di accesso al cibo lì non sono migliori, come pure all’educazione e alla salute.
Sono 7,5 milioni le persone che necessitano di assistenza e protezione umanitaria, su una popolazione stimata in 12 milioni, quindi più della metà (dati Ocha febbraio 2017 e Unhcr febbraio 2017).
Numeri freddi
Numeri, solo numeri, che potrebbero non dire molto, e in effetti come possiamo figurarci di quanta gente si sta parlando? Restano cifre e appelli, in attesa che qualcuno mobiliti qualcosa per rispondere a questa ennesima emergenza. Tutto questo è il risultato di più di tre anni di conflitto, di cui probabilmente nessuno sa la ragione, perché forse la conosce solo chi sta al potere. Motivi che non sono certo quelli di migliorare le condizioni della gente, fosse anche solo della propria etnia. Ormai chi va al governo ci sta giusto il tempo necessario per mettere da parte qualche soldo e prepararsi un rifugio all’estero, lontano da questo paese in cui più nessuno vuole vivere (nemmeno gli operatori umanitari). Ormai è un gioco noto.
I leader
Mentre i leader non si sa più chi siano, visto che ogni giorno nasce una nuova fazione etnica e politica, e, cosa ancora più grave, che ormai non hanno più il controllo delle forze armate, si moltiplicano i gruppi armati senza uniforme e senza bandiera. Nessuno sa più chi è colui che ha di fronte.
A questa gente ormai triste, spenta, senza speranze, con le case bruciate, distrutte, saccheggiate, chi ci pensa? Ma questi gruppi non sono stanchi di combattere inutilmente? Sì, perché fanno la guerra contro qualcuno che si sta arricchendo di denaro e di potere, mentre la gente continua a non avere nessuna prospettiva di miglioramento.
Le donne sanno solo che ogni giorno, dal momento in cui si alzano al momento in cui andranno a dormire, dovranno andare alla ricerca di cibo da dare ai propri figli e di acqua. Le case bruciate rimangono così per mesi, nonostante il materiale per la ricostruzione delle abitazioni sia disponibile localmente, perché per tutto il giorno le persone sono nella foresta a cercare cibo. Il wild food, ossia piccoli frutti degli alberi, è ciò che mangiano una volta al giorno, nient’altro. Per avere l’acqua occorre salire la montagna dove c’è la sorgente e rimanerci tutta la notte per riempire un secchio da 20 litri, perché scende goccia a goccia. E poi non è consigliato per le donne camminare ore a cercare cibo e materiale da costruzione, visto che i dintorni rigurgitano di gruppi armati informali e il rischio di violenza è altamente diffuso.
Alla domanda «qual è il maggiore problema?», è dura sentirsi dire «la mancanza di cibo», «la fame». Come è dura vedere gli occhi spenti e le espressioni vuote di ragazze adolescenti che non hanno nemmeno energia e forza per capire quello che dici, per rispondere.
Quale futuro?
La frequenza scolastica ormai è bassa, sia perché le mense sono senza cibo, sia perché le famiglie non hanno soldi per pagare la scuola. A questo si somma l’esodo dal paese, dei bambini e degli insegnanti, a causa di insicurezza e fame. Tra i molti sfollati interni sono tante le famiglie nelle quali i figli sono separati dai genitori. La gente del villaggio si occuperà dei minori non accompagnati, ma quale impatto psicosociale avrà il conflitto su questi bambini e su un’intera generazione (se non due generazioni)? Un conflitto che non vede una fine, mentre ogni giorno si apre o si riaccende un focolaio di scontri. E non si sa più tra quali parti. I gruppi contrapposti non sono più due, ma decine o centinaia. E forse l’etnia è la variabile che c’entra di meno. Oltrettutto gli operatori umanitari sono ormai un bersaglio comune, sia staff locale, sia internazionale, come pure le loro abitazioni e uffici, continuamente saccheggiati.
Crimini contro l’umanità
Esiste un sistema giuridico internazionale e un sistema penale internazionale, e ancora crediamo nella loro efficacia. Ormai è noto a tutti che qui le diverse fazioni si stanno macchiando di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È visibile il genocidio, come denunciato dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, rimasto inascoltato. Quando si avvicinano a un’auto e chiedono se all’interno c’è gente della tale etnia per uccidere e bruciare solo quelli e far passare gli altri, cos’è? Perché non si possono fermare, attraverso azioni legali, coloro che stanno commettendo quotidianamente questi crimini?
Non si intravede nessuna svolta, si contano invece centinaia di persone lasciare ogni giorno la propria casa, per cercare rifugio in un paese confinante o un villaggio più pacifico all’interno del Sud Sudan, dove però si diventa facilmente vittime della fame, ormai diffusa anche nelle regioni che producevano per l’agricoltura interna, come le tre regioni del Sud. Lo scorso luglio, poi, il conflitto si è esteso pure a quelle zone. L’insicurezza diffusa ha progressivamente impedito l’accesso alla terra, la mancanza di sementi e attrezzi agricoli (spesso saccheggiati o abbandonati perché le famiglie sono state costrette a scappare) e la siccità, che ha colpito l’area lo scorso anno bruciando i raccolti, hanno fatto il resto. Se qualcuno mi chiedesse cosa consiglio, direi «andatevene», lasciate al più presto questo paese dove i politici fanno i loro giochi di potere e di denaro, mentre la gente resta loro sottomessa, perché, secondo la loro cultura, si abbassa la testa e si annuisce di fronte all’autorità.
Antonio La Torre*
* Nome di fantasia di un cooperante che vive e lavora in Sud Sudan ormai da mesi e preferisce mantenere l’anonimato.