Con un profondo senso di fierezza la piccola e vivace comunità cattolica giapponese (ma si può dire dell’intera opinione pubblica della nazione del Sol Levante) ha vissuto lo scorso 7 febbraio nel palazzetto dello sport di Osaka la beatificazione di Giusto Takayama, primo samurai cristiano ad assurgere alla gloria degli altari. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui.
Innanzitutto, come devo chiamarti?
Chiamami Justus (Giusto), il nome che mi onoro di portare dal battesimo e che ha caratterizzato tutta la mia esistenza.
Raccontaci in breve la tua vita, origine, casato, stato sociale…
Sono nato con il nome Hikogoro Shigetomo tra il 1552 e il 1553 nel castello di Takayama, nei pressi di Nara, figlio di Takayama Zusho divenuto poi signore del castello di Sawa. Takayama è il nome di famiglia che deriva dal territorio di nostra proprietà feudale. Il mio casato era parte della classe dei nobili, ovvero dei daimy?, signori di un castello e delle relative proprietà. Essi occupavano un posto importante nella scala sociale del Giappone di quel tempo. Venivano subito dopo gli shogun (signori di più territori ai cui i diversi daimy? erano fedeli alleati mettendo a loro disposizione un esercito e combattenti professionisti: i samurai). Il Giappone non era ancora uno stato unificato e i diversi shogun erano spesso in guerra tra loro per allargare le loro aree di influenza
Come avvenne la tua conversione al cristianesimo?
Mio padre nel 1563 era stato incaricato dal suo shogun di giudicare un missionario gesuita, padre Gaspar Videla, che stava annunciando il Vangelo proprio a Kyoto, la futura città imperiale. Ascoltandolo, rimase così impressionato che volle diventare cristiano, si fece battezzare e prese il nome di Dario. Non solo, mio padre convinse anche altri due giudici che divennero cristiani e, una volta tornato al suo castello accompagnato da un catechista, fece istruire e battezzare molti dei suoi soldati, sua moglie e i suoi figli, tra cui c’ero io, il primogenito. Era verso la fine del 1563 e avevo circa dodici anni. Da quel momento mio padre divenne un protettore dei cristiani.
Ma subito dopo scegliesti la vita militare.
Per me, figlio ed erede di un importante daimy?, era una vocazione naturale quella di diventare un samurai, un guerriero sempre pronto a difendere la famiglia, la legalità e il suo signore, lo shogun.
Hai partecipato a guerre e duelli? C’è qualche avvenimento che ricordi in modo particolare?
I daimy? erano spesso in conflitto tra loro. Sì, ho partecipato a guerre e combattimenti, distinguendomi per il mio valore. L’episodio che ha segnato la mia vita è stato il duello con il figlio di un amico di mio padre nel 1571. Avevo vent’anni. Dopo la morte di suo padre era venuto a contrasto col mio e, secondo la tradizione, dovetti accettare di battermi a duello per risolvere la questione. Fui ferito gravemente, ma uccisi il mio avversario. Nel periodo che seguì questo triste evento, approfittai della forzata convalescenza per riflettere a fondo sulla mia vita, e come fu per sant’Ignazio di Loyola così fu per me. Mi convinsi che pur rimanendo un samurai dovevo mettere la mia abilità nel maneggiare le armi al servizio dei più deboli, degli orfani e delle vedove.
È vero che giungesti anche alla conclusione che non dovevi più usare la forza per risolvere i conflitti?
Nel 1573 la mia famiglia ricevette un nuovo feudo e ne divenni il daimy?, perché mio padre era ormai troppo vecchio. Due anni dopo presi Giusta, una cristiana, in moglie ed ebbi tre figli (due morti ancora bambini) e una figlia. Una famiglia è una buona ragione per vivere in pace. Ma in quei tempi non era facile stare fuori dalle guerre.
Nel 1578 un daimy? nostro vicino si era ribellato al nostro shogun e si era accampato davanti al nostro castello, prendendo in ostaggio mia sorella e mio figlio e minacciando i cristiani. Feci allora un gesto impensabile per uno del mio rango: rinunciai ai miei diritti feudali e mi presentai disarmato nel campo del nostro nemico invitandolo a trovare un’intesa di pace invece di far scorrere inutilmente del sangue e gettare nel lutto e nello sconforto molte famiglie. Presentandomi disarmato all’avversario, rinunciai a ciò che ero e alle mie capacità guerriere, affidandomi completamente a Dio.
In questo modo mettevi in gioco la tua reputazione di samurai e il tuo onore.
È vero, ma cominciavo a dare testimonianza del Vangelo fra la mia gente, lasciando intravedere come fosse possibile vivere fino in fondo il messaggio di amore e di pace che Cristo era venuto a portare nel mondo e che dopo più di millecinquecento anni era finalmente approdato anche nella mia terra.
La questione fu risolta senza spargimento di sangue e il mio shogun mi riconfermò la sua fiducia e il feudo, permettendomi così di continuare a sostenere la nostra comunità cristiana.
Per questo cominciasti anche a impegnarti perché la fede cristiana attecchisse nel tuo paese in forma stabile.
Avevo la piena fiducia del mio shogun di cui ero diventato uno dei generali più importanti. Feci costruire una chiesa nella stessa città imperiale di Kyoto e un seminario ad Azuchi, sul lago Biwa, per la formazione di missionari e catechisti giapponesi. La maggioranza dei seminaristi provenivano dalle famiglie del mio feudo. Tra loro mi piace ricordare Paolo Miki e i suoi compagni che in seguito subirono il martirio nel 1597 (canonizzati poi nel 1862).
La tipica cerimonia giapponese del tè dove si rafforzano le relazioni fra i partecipanti e si approfondiscono i legami di amicizia fu da te utilizzata per fare evangelizzazione.
Per noi bere il tè non è un atto superficiale. È una cerimonia che con il suo rituale ha un fascino intrinseco che aiuta ad approfondire i legami di amicizia e di fraternità. Sulla dimensione orizzontale delle relazioni fra esseri umani, io inserii la dimensione verticale che aiutava a elevarsi a Dio e a vivere in amicizia e comunione in Lui.
Si può dire che l’attività che svolgesti come catechista e missionario fra la tua gente fu molto positiva per la fede cattolica in Giappone?
Grazie agli sforzi che mettemmo in atto in quegli anni, furono battezzate alcune migliaia di persone. La mia posizione di favore con lo shogun, continuata anche nel primo periodo di Toyotomi Hideyoshi, andato al potere nel 1583, aumentava la mia influenza tra i nobili, diversi dei quali accettarono di diventare cristiani. Ma Toyotomi, divenuto sempre più potente fino a riuscire a unificare tutto il Giappone sotto la sua autorità, cominciò a temere i cristiani e nel 1587 emise un editto che ne proibiva la religione nel paese e conteneva l’ordine di espulsione dei missionari stranieri e l’esilio per i catechisti nativi.
È vero che ti fu richiesto di abbandonare la fede cattolica?
Sì certo, ma contrariamente a quanto fecero altri nobili, preferii rinunciare al mio feudo e subire l’esilio piuttosto che abiurare. Dopo un periodo difficile di mendicità, trovai rifugio con la mia famiglia presso un amico nell’isola di Shodoshima. Toyotomi venne a saperlo e mi fece incarcerare. Furono tempi duri, ma nel 1592 volle riconciliarsi con me in una cerimonia pubblica. Non mi fu restituito il mio feudo, ma ero libero di muovermi e ne approfittai per continuare a sostenere le comunità cristiane sparse in varie parti del Giappone.
I governanti del Giappone vedendo la nuova fede conquistare sempre nuovi fedeli diventarono più ostili verso i cristiani e inasprirono la persecuzione.
Nel 1597 ci fu una nuova recrudescenza della persecuzione. A Nagasaki furono martirizzati in 26. Morto improvvisamente Toyotomi, il successore fu peggio di lui. La persecuzione verso i cristiani fu capillare e intensa. Si voleva sradicare quello che loro chiamavano «la mala pianta» o «la religione perversa». Imprigionare, condannare a morte o esiliare i cristiani era diventato un dovere patrio per chi era al potere in Giappone in quel tempo.
Il 14 febbraio del 1614, Justus Takayama e i suoi famigliari furono catturati e trasferiti a Nagasaki in attesa di essere giustiziati insieme ai missionari che erano stati radunati là. Dopo mesi di carcere, l’8 novembre 1614, Justus e 300 dei suoi compagni furono condannati all’esilio e caricati su una giunca diretta a Manila, nelle Filippine. L’espulsione e la lenta navigazione sulla nave carica all’inverosimile fecero ulteriormente progredire Justus nella fede. Proprio per tutte le sofferenze e le difficoltà patite, l’ultimo anno della sua vita fu decisivo per trasformarlo in un «vero martire», come lo venerano i cristiani giapponesi. Durante il periodo in carcere egli aveva nutrito la speranza di condividere la sorte dei martiri di Nagasaki. Era certo che sarebbe stato ucciso e aveva aspettato la fine con grande serenità. La navigazione verso le Filippine e l’esilio a Manila furono il tempo in cui Dio gli fece capire la differenza tra il desiderio attivo del martirio e l’essere esposto passivamente a condizioni che solo lentamente conducono alla morte. Justus comprese che Dio gli chiedeva l’offerta della vita, nella forma del «martirio prolungato» dell’esilio. Pur accolto con tutti gli onori dagli Spagnoli, sfinito dalla prigionia e dalla lunga navigazione morì a Manila il 3 febbraio 1615, quaranta giorni dopo il suo arrivo nelle Filippine.
La Chiesa lo ha elevato alla gloria degli altari riconoscendolo Beato e Martire il 7 febbraio 2017. Ho avuto la gioia di essere presente a quell’avvenimento di grazia con una piccola delegazione della chiesa di Novara.
Don Mario Bandera
La Chiesa in Giappone fa risplendere la luce della fede
La storia della Chiesa in Giappone inizia il 15 agosto 1551 quando san Francesco Saverio insieme ad altri due gesuiti mise piede nel paese. Immediatamente ne diede notizia a sant’Ignazio di Loiola con numerose lettere che iniziarono a far conoscere al continente europeo la complessa realtà del grande paese del Sol Levante. Per alcuni anni i missionari cattolici non furono più di quattro o cinque, il loro campo di apostolato abbastanza limitato, per cui i risultati furono piuttosto scarsi. Nel 1563 si ebbe un primo risultato importante della loro azione missionaria quando a Kyoto alcuni personaggi influenti della società giapponese di quel tempo (tra i quali il padre del samurai Giusto Takayama) si fecero battezzare diventando così il primo nucleo della nascente comunità cattolica del Giappone. Nello stesso anno si ebbe la conversione al cristianesimo di Omura Sumitada, signore del territorio di Kyushu, che portò al battesimo di gran parte dei suoi sudditi. Da quel momento iniziò un periodo intenso di conversioni in cui molti giapponesi chiedevano il battesimo e di entrare a far parte della Chiesa Cattolica.
In quegli anni il generale Hideyoshi portò a compimento l’unificazione del grande arcipelago giapponese composto da più di trecento isole, in un primo momento si mostrò ben disposto verso i missionari (che nel frattempo erano diventati una trentina tra gesuiti e francescani) ma cambiò idea subito dopo, quando una nave spagnola fece naufragio sulle coste del Giappone e il comandante del galeone alle autorità nipponiche intervenute al salvataggio, disse che il Re di Spagna quando voleva annettersi un territorio mandava avanti i missionari a preparare il terreno. Questa frase vera o falsa che fosse, mandò su tutte le furie Hideyoshi che diede ordine di distruggere le chiese, espellere i missionari stranieri e catturare e mettere a morte tutti i cristiani giapponesi ovunque essi fossero. Col passare degli anni le cose migliorarono, basti pensare che nel 1601 la città di Nagasaki contava circa quarantamila abitanti quasi tutti cattolici, ed era divenuta sede episcopale con il gesuita Luigi Cerqueira nominato primo vescovo residenziale del Giappone. Nel frattempo i cristiani avevano raggiunto il bel traguardo di trecentomila battezzati, si erano costruiti diversi collegi e due seminari che dopo pochi anni “sfornarono” i primi sette sacerdoti autoctoni. Ma su questa stupefacente primavera missionaria, si abbatté subito dopo una violenta persecuzione che segnò in modo indelebile la nascente comunità cristiana, venne infatti emesso un editto che proscriveva la religione cristiana da tutto il territorio nipponico; si misero in atto forme violenti e spettacolari di condanne a morte come le crocifissioni lungo le strade di maggior comunicazione. Di fronte a questa inaudita violenza tutti rimanevano meravigliata dalla forza d’animo e dal coraggio con cui i cristiani andavano incontro alla morte. Nel 1623 il Giappone si chiuse completamente al commercio estero isolandosi dal mondo, nessun straniero poteva vivere sul suolo giapponese e tutti i tentativi diplomatici che le potenze europee misero in atto per superare questa situazione andarono a vuoto. Questa situazione durò alcuni secoli fino al 1854 quando l’ammiraglio statunitense Perry, latore di una lettera del presidente degli Stati Uniti per le autorità giapponesi in cui si chiedeva di ampliare i commerci fra i due paesi, forzò il blocco ed approdò sul suolo giapponese. L’iniziativa ebbe successo e si stabilì che nel porto di Nagasaki potessero attraccare navi provenienti da ogni parte del mondo, riservando anche uno spazio per una “cittadella” aperta ai marinai delle diverse nazionalità. Su questo terreno venne edificata una piccola chiesa per il servizio spirituale ai marittimi cristiani, per questa incombenza pastorale venne incaricato il sacerdote francese Jean de la Petit, il quale fu protagonista e testimone di un avvenimento che ha del miracoloso. Infatti, un pomeriggio mentre era in chiesa a pregare venne raggiunto da un gruppo di giapponesi che gli posero tre domande: “Sei sposato? Il tuo capo è a Roma? La Mamma dov’è?”. Al che padre Jean, rispose: sono un prete cattolico per cui devo obbedienza ai miei superiori, primo fra tutti al Papa di Roma, non sono sposato e additando la statua della Madonna che gli era arrivata dalla Francia poche settimane prima disse loro: “ecco Maria, la mamma di Gesù”. In quel momento accadde qualcosa di inaspettato, i visitatori si inginocchiarono e dissero: “il nostro cuore batte come il tuo!”. Padre Jean li abbracciò ad uno ad uno, rendendosi conto che aveva di fronte il resto del piccolo gregge che aveva tramandato la fede cattolica di generazione in generazione, vivendo nelle catacombe per quasi duecentocinquant’anni senza l’assistenza di nessun sacerdote, sostenuti con la Grazia di un unico sacramento, il battesimo!
Oggi il Giappone che conta circa 125 milioni di abitanti, quasi tutti Shintornisti, va fiero della storia della sua Chiesa, costellata di tanti martiri e che pur nell’esiguità del numero attuale: i cristiani sono circa l’uno per cento della popolazione, ovvero un milione e duecentomila e di questi quanti si dichiarano cattolici sono circa ottocentomila persone. L’immagine evangelica del lievito nella pasta non può essere più calzante, l’essere in comunione con questa chiesa che ha tanto sofferto, dovrebbe rendere la nostra chiesa orgogliosa di questa cooperazione. (m.b.)