Interrogativi

Gigi Anataloni

Scrivo in un giorno particolare, l’8 marzo, quando si dedicano fiumi di parole alla «donna». Parole dovute, parole sincere e anche (troppe) parole d’occasione e d’opportunità. Confesso di avere almeno due interrogativi in proposito. Uno: quando diciamo «donne», a che donne pensiamo? Riusciamo a includere anche le donne rom che rovistano tra gli scarti dei supermercati, le schiave-prostitute sulle nostre strade o nei più discreti centri di benessere, le migranti sfruttate e abusate durante il calvario per venire da noi e poi rinchiuse in centri di raccolta o addirittura campi di prigionia della nostra Europa? Due: fa piacere vedere così tante iniziative in favore della donna, ma mi piacerebbe vederne qualcuna anche per quell’altra parte dell’umanità che è l’uomo per aiutarlo a cambiare testa e cuore nel suo modo di relazionarsi con la donna.

Ho conosciuto in Kenya una giovane donna africana di successo, lavora con una multinazionale, ha un ottimo salario e un grosso cruccio: non riesce a trovare uno che la voglia sposare perché «è troppo su» e un uomo con un salario più basso del suo si sentirebbe inferiore a lei.

È davvero possibile migliorare la condizione della donna senza offrire anche all’uomo gli strumenti per cambiare la sua mentalità, senza aiutarlo a trovare una nuova identità sociale e culturale che lo faccia sentire realizzato e felice? Il problema non è far diventare le donne uguali agli uomini, ma creare le condizioni perché nella diversità e complementarietà, uomini e donne vivano insieme con pari dignità, rispetto e opportunità. Non sono così sicuro, per esempio, che le donne soldato siano davvero una conquista.

Un altro interrogativo: sono i morti tutti uguali? L’infelice Dj che si suicida in Svizzera finisce sulla bocca di tutti, con molti pronti a usare il suo dramma per i propri interessi. Una persona qualunque, cronicamente depressa, che si butta da un balcone del suo palazzo o da un ponte, scompare invece nel silenzio e nel pudore delle lacrime dei suoi cari, impotenti di fronte alla sua malattia o disagio. Che una persona si tolga la vita non è una conquista di civiltà, ma una sconfitta, indice di come la nostra società non sia sempre capace di comunicare speranza e di sostenere i più deboli e fragili. E la soluzione non mi pare stia nel promuovere l’eutanasia, ma nel dare senso alla vita, difenderla, promuoverla, renderla vivibile e dignitosa per tutti. La questione delicata dell’eutanasia o del suicidio assistito è, forse, il segnale d’allarme di una cultura che ha perso la speranza nel futuro, vive l’immediato e si consegna alla morte. Un segnale che le statistiche rese note recentemente sulla denatalità e invecchiamento sembrano confermare: 86 mila italiani in meno nel 2016; quasi 100mila aborti; età media del primo parto quasi 32 anni; aumento degli ultra 65enni… Non è forse una società, la nostra, che rischia di perdere la gioia di vivere? Magari ci si diverte anche, ma senza trovare gioia e alcuni tipi di divertimento sembrano utili solo a chiudere gli occhi davanti a un futuro che spaventa e che sa di morte.

E parlando del peso mediatico e politico di alcune morti, i morti dell’Africa sono uguali a quelli di Parigi, Berlino o … Rigopiano? Quante sono le vittime di Boko Haram in Nigeria? Quante quelle della guerra fratricida per il petrolio in Sud Sudan? E quelle dell’ennesima siccità in Kenya, Etiopia, Somalia? Quanti scheletri segnano la pista che dall’Africa Subsahariana portano al Mediterraneo?

Guardavo pochi giorni fa la lista del «martirologio di Beni-Lubero», che è costata la vita a padre Vincent Machozi massacrato il 20 marzo 2016 nel Nord del Kivu, RD Congo. Contiene i nomi e le foto (terribili a dir poco) di oltre 1.000 uomini, donne e bambini uccisi negli ultimi anni da bande armate e anche dall’esercito regolare, che lottano per il controllo dell’estrazione del coltan e altri minerali. Vittime scomparse in un silenzio utile a farci dimenticare che siamo complici involontari di quegli assassinii, visto che il coltan è un «minerale raro costituito da columbite e tantalite, utilizzato per la costruzione di conduttori elettrici e nell’industria bellica, spaziale e delle comunicazioni», fondamentale per i cellulari e i computer ormai onnipresenti nella nostra vita.

Un pensiero positivo per concludere. Una sera ho guardato quasi per caso e con curiosità un pezzo di una serie Tv girata nel bellissimo scenario delle Dolomiti. C’erano due donne in dialogo. Una raccontava di aver scelto di licenziarsi per stare col figlio che stava per nascere, un figlio che sarebbe morto presto a causa di una patologia incurabile. «Perché non hai abortito?», ha chiesto l’altra. «Perché anche un solo attimo di amore vale tutto», ha risposto.

Vale tutto! Come il «bicchiere d’acqua dato al più piccolo» o gli insignificanti spiccioli della vedova nel tintinnante tesoro del tempio. Forse davvero è tempo di meno parole e più piccoli fatti di amore, nel quotidiano, nelle relazioni di ogni giorno per ridirci che vale la spesa vivere, che l’amare «vale tutto» ed è più forte della morte e della disperazione.

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Gigi Anataloni
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