Guatemala: La pace è una chimera


In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.

Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).

Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.

In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.

Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.

Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.

Dopo la guerra, nessuna pace

Claudia, due parole per auto presentarti.

«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».

Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?

«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».

La nascita di Udefegua

Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente? 

«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».

In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?

«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».

Sul corpo delle donne

Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.

«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».

Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico

Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?

«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».

In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?

«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».

Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?

«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».

La condizione indigena

Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.

«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».

Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?

«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».

L’avanzata evangelica

Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?

«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».

Il Guatemala cambierà

Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?

«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».

Paolo Moiola