Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.
Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.
Zigzagando per il centro
Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.
Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».
Nel cuore della gente
Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?
Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?
Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.
I missionari e l’Asia
Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.
Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.
A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.
Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.