Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




Guardandosi in cagnesco


Mentre questi articolo era in stampa, a partire dl 10 luglio la situazione è precipitata nel Sud Sudan e gli scontri tra Dinka e Nuer si sono riesplosi con grande violenza a partire da Juba, dove ci sarebbe dovuto essere un incontro di pace.


È durata due anni e mezzo. La guerra civile sud sudanese ha fatto vedere i delitti più efferati. Due milioni e mezzo di sfollati, decine di migliaia di vittime civili. L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. L’Onu parla di crimini contro l’umanità. Ma il mondo non lo sa neppure. Ora c’è una pace instabile, con tutti i problemi ancora sul tavolo.

Riek Machar, il capo dei ribelli, è tornato a Juba. È il 26 aprile 2016. Dopo due settimane spese a Gambella in Etiopia per definire quali armamenti poteva portare con sé (missili terra-aria, anticarro, stringer, etc.), ha finalmente avuto l’ok delle autorità etiopi e poi dal presidente del Sud Sudan, il suo acerrimo nemico Salva Kiir Mayardit, per atterrare nella capitale. Fuori città c’è l’esercito regolare Spla (Sudan people liberation army) schierato in caso di necessità. «C’era un grande fermento in quei giorni. Io ero sul terreno e tutti stavano attaccati alla radio, perché non funzionavano i telefoni, ma solo radio e internet» ci racconta Angela Osti, da alcuni mesi nel paese come cornordinatrice di un progetto di emergenza per una Ong italiana. «Lo staff locale era agitato. Poi finalmente Machar arriva, ed è festa. Salva Kiir lo chiama fratello. Ma, pochi giorni dopo, tutti sono delusi dai nomi del governo transitorio di unità nazionale: sono gli stessi di due anni e mezzo prima, quando è scoppiata la guerra civile. La pace l’aspettavano tutti: “adesso che arriva la pace, sarà diverso…”, dicevano».

Sono passati due anni e nove mesi da quando è scoppiato il cruento conflitto interno al Sud Sudan, il nuovo stato africano, nato appena il 9 luglio del 2011.

«È la guerra più atroce che questi popoli abbiano mai vissuto. Non è stato così neppure nei decenni di guerre contro gli arabi del Nord. C’è stato un combattimento acerrimo tra due etnie che si sono massacrate a vicenda». Chi parla è Daniele Moschetti, superiore regionale dei missionari Comboniani in Sud Sudan.

Ma per capire come si è arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro.

Un paese giovane

Il Sud Sudan, è il 54° stato africano. Ha una superficie di 619.745 chilometri quadrati (due volte l’Italia) per 11,5 milioni di abitanti. Confina con Etiopia, Kenya, Uganda, Congo Rd, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Sudan dal quale si è staccato.

Paese con infrastrutture quasi inesistenti, ha una zona più umida e produttiva a livello agricolo ad Ovest, un’area paludosa nel centro Sud ed arido nell’Est.

È uno dei paesi più poveri del mondo ma rigurgita di acqua e di petrolio.

Le guerre del Sudan

Prima dell’indipendenza dal Sudan si contano due guerre tra i popoli del Sud, neri e cristiani o animisti, e il Nord, arabo e musulmano. Il Sud ha le risorse, come la terra coltivabile, l’acqua, e soprattutto il petrolio (l’80% dei giacimenti si concentrano qui). Le multinazionali iniziano a sfruttare il greggio sudanese intorno agli anni ’70.

Tra il 1956 (anno dell’indipendenza da Egitto e Gran Bretagna) e il 1972, si colloca la prima guerra civile sudanese, con connotazione più religiosa.

Nel 1983 scoppia la seconda guerra: il Sud, chiede l’indipedenza dal Nord, che non vuole mollare le risorse. Tra i vari eserciti del Sud che combattono contro l’esercito sudanese si distingue il Sudan people liberation army (Spla), comandato dal carismatico John Garang dell’etnia dinka, maggioritaria.

Con gli accordi di pace del 2005 viene sancita una grande autonomia del Sud, e si prevede un referendum per la secessione. John Garang diventa vicepresidente del Sudan. «Il sogno di Garang – racconta Moschetti – non era la divisione del Sudan e quindi l’indipendenza del Sud, ma il cosiddetto New Sudan», un paese unito e in pace. Ma non tutti la pensano come lui, sia dentro l’Spla, sia all’estero. Fondamentale è infatti la posizione del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, che ha sempre appoggiato la secessione del Sud e contrastato il Nord di Omar al-Bashir. Museveni rappresenta gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area. Mentre l’Uganda sosteneva l’Spla contro al-Bashir, questi finanziava il Lord resistence army (Lra, vedi MC giugno 2012) di Joseph Kony contro Museveni.

Dopo 5 mesi di vicepresidenza, l’elicottero che trasporta Garang e la sua guardia ristretta da Kampala, Uganda, verso il Sudan precipita misteriosamente. Il mezzo era stato fornito dallo stesso presidente ugandese.

Si registra qualche tafferuglio a Karthum (capitale del Sudan) e a Juba (capitale del Sud), poi tutto è messo a tacere, e molto rapidamente Salva Kiir, vice di Garang, anche lui dinka, prende il suo posto. Curiosamente Kiir è proprio di quel gruppo nel Spla che spingeva per la secessione del Sud Sudan. Non è un leader carismatico come Garang, ma ha alle sue spalle Museveni e soprattutto l’amministrazione Usa, con George W. Bush prima e Barak Obama poi, che ha investito miliardi di dollari in questa operazione.

Così dall’accordo del 2005 si arriva al referendum (vedi MC marzo 2011) a gennaio 2011, con il quale il 98,8% dei votanti chiede la secessione dal Nord.

Storie di etnie e di potere

C’è un passaggio importante da analizzare per capire la crisi Sud sudanese degli ultimi anni.

«Il Nord non ha mai voluto mollare il Sud, perché voleva dire un collasso economico per Karthum, che di fatti c’è stato dopo il 2011», ricorda Moschetti. Ma esiste un altro piano di scontro tutto interno al Sud. Qui sono presenti 64 etnie o tribù, delle quali i popoli maggioritari sono Dinka (quattro milioni) e Nuer (un milione di persone), gli altri contano centinaia di migliaia di individui, come ad esempio i Bari. «Questi due popoli, cugini tra loro, sono entrambi allevatori nomadi, e hanno milioni di vacche. Occorre sapere che nella cultura pastorale la vendetta è un valore fondamentale».

Le frizioni tra Nuer e Dinka erano già state uno dei problemi grossi, durante la seconda guerra col Nord. Tra ’91 e il ’97 Nuer e Dinka, all’interno dello stesso Spla, si erano scontrati, per un contrasto tra i generali Riek Machar (nuer) e Salva Kiir (dinka). I Nuer avevano compiuto un massacro di Dinka a Bor, nel 1991 e per sette anni i due popoli sono stati divisi. Machar si era alleato con il Nord ed era sostenuto con armi di al-Bashir, al quale faceva molto comodo poter controllare la situazione. E questo ha innescato una voglia di vendetta del popolo dinka. Con la mediazione statunitense, il Spla si è ricomposto e si è arrivati all’accordo con il Nord del 2005. Ma le braci sono rimaste accese.

Indipendenza

«Si arriva al 2011 e all’indipendenza. La grossa difficoltà per Machar è stata accettare che il presidente eletto fosse ancora Salva Kiir, e lui fosse rimesso ancora, solo, vicepresidente. C’erano difficoltà e divisioni, anche perché sono due personaggi completamente diversi. Kiir è militare, generale, l’altro invece, pur essendo militare, ha studiato a Londra.

Sono andati avanti per due anni insieme, con grandi difficoltà, poi nel 2013 il gruppo dinka ha preso sempre più il potere e occupato tutte le posizioni nel governo e nel paese. A luglio ha scaricato Riek Machar, e ha mandato via tutti i ministri, sostituendoli con gente del proprio gruppo, per di più non preparata. Il 30 novembre ha smantellato l’ufficio politico del partito unico Splm (Sudan people liberation mouvement)». Intanto, ricorda sempre Moschetti, «si stavano preparando delle manifestazioni di diversi gruppi contro i Dinka. Il governo ha chiesto un dialogo e indetto tre giorni d’incontri: 13-15 dicembre 2013. Alla sera del 15, una domenica, abbiamo iniziato a sentire i primi spari a Juba. Non si erano messi d’accordo».

Scatta così una corsa al massacro dei Nuer a opera dei Dinka. Kiir cerca di giustificare goffamente la violenta repressione accusando Machar di tentativo di colpo di stato. I Nuer, attaccati, reagiscono. Il Spla si divide e nasce il Spla-io, ovvero «in opposition», quello dei Nuer. Inizialmente gli scontri sono a Juba, poi si estendono ovunque sia presente popolazione nuer. Dalle caserme, dove i militari nuer vengono uccisi, ai massacri della popolazione, compiuti sia da militari che da miliziani dinka. Gli stati più colpiti sono quelli a maggioranza nuer, che sono anche quelli a maggior concentrazione di pozzi petroliferi del Sud Sudan: Unity, Upper Nile e Jonglei.

Secondo Moschetti: «In parte si tratta della vendetta del massacro compiuto 22 anni prima ai danni dei Dinka. Ma probabilmente è anche uno dei modi con cui l’élite dinka aveva pensato di far fuori Machar, senza però riuscirci. Lui è scappato, e il governo ha poi accusato le Nazioni Unite di aver agevolato la sua fuga, il che è un po’ assurdo».

La guerra più atroce

La guerra civile Sud-Sud, durata due anni e mezzo è stata particolarmente violenta. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani, cornordinata da David Marshall, nel marzo 2016 ha pubblicato un rapporto sulle violazioni. Parla esplicitamente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in particolare dalle forze regolari del Spla e dalle milizie in appoggio: «Fino dal 2013 tutte le parti in conflitto hanno perpetrato attacchi conto civili, stupri e altri crimini, arresti e detenzioni arbitrarie, rapimenti e privazioni di libertà, sparizioni forzate, e attacchi al personale Onu e loro strutture. Oltre due milioni di Sud sudanesi sono sfollati interni, quasi mezzo milione nei paesi confinanti, e decine di migliaia uccisi.

«L’ampiezza e il tipo di violenza sessuale – principalmente realizzata dal Spla governativo e milizie a esso collegate – è descritto con bruciante, devastante dettaglio, come l’attitudine alla macellazione di civili e distruzione di proprietà e mezzi di sussistenza», dice l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’a Al Hussein. «Tuttavia la quantità di stupri e stupri di gruppo descritti dal rapporto sono solo una foto della realtà totale. Questa è una delle più orrende situazioni di violazione dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio della violenza sessuale come strumento di terrore e arma di guerra, ma è stato praticamente assente dall’attenzione internazionale».

Le violazioni continuano per tutto il 2015, anche dopo la firma dell’accordo, e insanguinano in particolare gli stati Unity e Upper Nile, a maggioranza nuer e anche i Wester e Central Equatoria.

Il rapporto Onu descrive inoltre come «civili sospettati di appoggiare l’opposizione, inclusi bambini e disabilli, fossero uccisi, bruciati vivi, soffocati nei container sotto il sole, fucilati, impiccati agli alberi o tagliati a pezzi con il machete». Sempre secondo il rapporto «lo stupro è stato parte di una strategia per terrorizzare e punire i civili». L’Onu riconosce che anche le forze dell’opposizione hanno commesso atrocità, ma a un livello inferiore. Nelle 102 pagine del rapporto si legge che 10.533 civili sono stati uccisi solo nel 2015, fino a novembre, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro nel periodo tra aprile e settembre 2015 e solo nello Stato del Unity.

Museveni appoggia ancora una volta Kiir, inviando pure truppe ugandesi, che saranno di stanza a Bor (capoluogo del Jonglei), per impedire l’avanzata verso Sud del Spla-io, ovvero i Nuer nel Nord Jonglei.

Pressioni inteazionali

Dopo una decina di firme per la pace, sempre disattese, nell’agosto 2015 arriva quella buona. E si organizza il rientro di Machar, che avverrà solo ad aprile dell’anno successivo. Nel frattempo gli scontri continuano. Pochi giorni dopo l’arrivo di Machar a Juba si forma il governo transitorio di unità nazionale.

«Il nuovo governo è esattamente uguale a quello precedente al luglio 2013, quando il vice presidente Machar fu defenestrato dal presidente Kiir». Conferma Samuele Tognetti, rappresentate dell’Ong Comitato Collaborazione Medica, che vive nel paese dal 2013. «Sotto pressione dei grandi donatori inteazionali, in particolare Nazioni Unite, Usaid e Ukaid (le ultime due sono le cornoperazioni governative di Usa e Regno Unito), il presidente è stato costretto a scendere a patti con il rivale. Ha mantenuto anche l’altro vice, quello nominato dopo la cacciata di Machar, il generale James Wani Iggia di etnia bari». Non si tratta quindi di un negoziato, con una mediazione, in cui le parti si sono messe d’accordo, ma di una situazione artificiale nella quale i problemi restano irrisolti. «Al momento non cambia niente. Non vediamo alcun miglioramento generale delle condizioni del Sud Sudan dopo l’insediamento del nuovo governo, avvenuto pochi giorni dopo il ritorno di Machar a Juba» continua Tognetti. «L’economia invece di migliorare peggiora, il dollaro è scambiato contro il pound Sud sudanese 1 a 40. Nel 2013 era 1 a 4. Permangono i campi profughi, anche qui a Juba, e soprattutto negli stati nei quali la guerra è stata più cruenta, ovvero Unity e Upper Nile.

Oltre lo smantellamento dei campi, occorrerebbe poi far ripartire i pozzi petroliferi, fermi a causa della guerra, per rilanciare l’economia e far entrare valuta pregiata, in modo che il cambio e l’inflazione comincino a stabilizzarsi o a diminuire. Ma non sta avvenendo niente e non c’è un programma».

«Le Nazioni Unite vorrebbero chiudere tutti i campi di sfollati entro dicembre» ci dice Angela Osti, che lavora proprio con le vittime del conflitto «ma i ritorni devono essere spontanei e la gente deve tornare nelle zone di origine in sicurezza e in condizioni tali per cui non si crei un’altra crisi umanitaria. Tra gli altri c’è il campo di Bentiu, il più grande con circa 105.000 persone, in una zona di pozzi petroliferi, contesa tra Dinka e Nuer. Nei campi poi scoppiano scene di guerriglia tra le etnie e le strutture sono distrutte e date alle fiamme».

Chi comanda il Sud Sudan

I Dinka, pur non essendo la maggioranza assoluta, sono circa il 35% dei Sud sudanesi, di fatto controllano tutti i posti chiave, e non solo dell’amministrazione. «Noi lavoriamo molto con alcuni ministeri – continua il cornoperante – e possiamo constatare che sono quasi tutti Dinka». Conferma Moschetti: «Le zone petrolifere sono Nuer, ma quelli che ne approfittano sono Dinka. Anche alcune altre etnie, ma loro hanno mangiato miliardi di dollari, senza sviluppare il paese».

«Osserviamo molto nepotismo, clanismo. Gli altri gruppi accusano oggi i Dinka di mettere le proprie persone a tutti i livelli. È anche vero che sono la maggioranza. Poi c’è un’alta corruzione, dovuta ai soldi derivati dal petrolio. Fino al 2011, tutti i proventi dell’estrazione andavano a Karthum, anche se nel Sud c’era un governo semi autonomo, mentre i soldi per far funzionare le cose arrivavano dal Nord. Gli oleodotti vanno tutti dal Sud al Nord, a Port Sudan, dove il petrolio viene imbarcato. E il Sud Sudan deve pagare un dazio fisso a barile, indipendente dal prezzo del greggio sul mercato. Sia i generali del Spla, sia i pezzi grossi del governo hanno ingrossato i propri conti in banca in giro per il mondo, non certamente a Juba».

Nel 2018 sono previste le prossime elezioni presidenziali. Ma «non si possono vivere due anni con una tensione così» ci dice Tognetti. «A livello politico è un rapporto di forza tra due fronti: oggi non si vede una volontà di dialogo tra i due, altrimenti ci sarebbero delle politiche per migliorare le condizioni di questa nazione. Il dialogo deve essere frutto di buona politica che oggi è assente. È una fase molto incerta. Dove si va a finire? Di sicuro la città è militarizzata in modo massiccio, se si accende un cerino nel posto sbagliato, succede un pandemonio».

Ricorda Daniele Moschetti: «Diventa sempre più difficile resistere per la gente. Si mangia una volta al giorno, i salari sono rimasti gli stessi, ma è aumentato tutto, cibo compreso. In un paese che è uno dei più poveri al mondo. Dopo la Siria, il Sud Sudan è il peggiore».

Marco Bello




Nepal terremoto dimenticato


La notizia del devastante sisma che ha colpito il paese nel 2015 è passata veloce. Alle difficoltà orografiche si è sommata l’incapacità del nuovo governo a far fronte alla ricostruzione. I grossi finanziamenti si sono bloccati nella burocrazia. Mentre piccole associazioni continuano a lavorare con e per la gente.

È trascorso più di un anno dal terremoto in Nepal, uno dei paesi più poveri del continente asiatico. Era il 25 aprile 2015 quando la terra ha tremato nella zona tra Kathmandu e Pokhara. Il sisma, di magnitudo 7,9 della scala Richter, è stato seguito da numerose scosse si assestamento. Il governo nepalese, dopo due giorni, ha dichiarato lo stato di emergenza. Il 12 maggio 2015, neanche un mese dopo la prima scossa, la stessa regione è stata soggetta a un altro forte movimento tellurico, di magnitudo 7,4 della scala Richter. Il bilancio totale è di quasi 9.000 persone decedute (difficile stabilie l’esatto numero in una nazione dove vi sono tante case costruite in remote zone di montagna), mentre altre migliaia (16mila secondo i dati delle Nazioni Unite) sono rimaste ferite o costrette a spostarsi dal proprio villaggio. Più di 600mila abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate. Una catastrofe sia per le perdite umane, sia per la distruzione di siti importanti a livello storico, archeologico e religioso, come lo stupa (monumento buddista) Swayambhunath, considerato il più antico al mondo. Bisogna tornare al 1934 per registrare l’ultimo tra i peggiori terremoti avvenuti nella regione nepalese: all’epoca morirono 8.500 persone.

Di fronte all’ecatombe del 2015 numerose Ong di tutto il mondo si sono attivate per portare aiuti economici e soccorsi tangibili alla popolazione, malgrado le iniziali difficoltà logistiche e le complessità burocratiche. Le prime forme di assistenza si sono concentrate nel fornire alle persone sfollate beni di prima necessità (acqua, cibo, coperte), teloni, ripari per dormire e per proteggersi dalle intemperie. La solidarietà internazionale si è mossa con celerità, manifestando una forte compartecipazione al dramma: privati cittadini hanno elargito importanti donazioni. Tante organizzazioni hanno raccolto fondi per la ricostruzione e svariate nazioni hanno inviato al governo nepalese ingenti aiuti finanziari. A oltre un anno di distanza da questa catastrofe facciamo il punto della situazione.

Una ricostruzione difficile

Migliaia di case, scuole, ospedali, templi e monumenti storici aspettano ancora di essere riedificati. Le difficoltà dipendono soprattutto da fattori burocratici, dalla corruzione e dall’incapacità gestionale del nuovo governo nepalese, installatosi solo nello scorso mese di ottobre. L’inefficienza è stata dimostrata, dapprima, nella gestione dei blocchi in vari punti della frontiera tra India e Nepal, poi con la mancata attuazione dell’Autorità nazionale per la ricostruzione. «È dal dicembre 2015 che si discute di questa proposta, ma sembra sia svanita dall’agenda politica» spiega Patrizia Broggi, vicepresidente di Eco-Himal, associazione di volontariato Onlus (www.ecohimal.org) impegnata nella conservazione delle aree himalayane attraverso la cooperazione con le popolazioni che vi abitano.

«Il governo nepalese – precisa Patrizia – aveva annunciato che avrebbe dato dei fondi a chi aveva perso tutto a causa del sisma. Per questo si era parlato dell’apertura di un ufficio ad hoc per le relative procedure e per la distribuzione del denaro. In realtà, dell’ufficio o dell’Autorità nazionale per la ricostruzione non se ne sa nulla. Sulle prime, sembrava che la problematica principale fosse l’accesso ai fondi messi a disposizione. I richiedenti avrebbero dovuto compilare determinati moduli, ma la maggior parte delle persone che hanno diritto a un sostegno sono analfabete. Per ovviare a questo ostacolo, all’inizio, come Onlus, avevamo pensato di intervenire attraverso un nostro referente locale, che avremmo pagato proprio per assistere alcune famiglie bisognose nella compilazione dei moduli. Oltre alle procedure molto nebulose per ottenere i fondi, in seguito si era ventilata una clausola secondo cui per ottenere un sostegno finanziario sarebbe stato necessario avere un conto corrente bancario, il che è assurdo in un paese come il Nepal. E lo è ancora di più considerate le condizioni socio economiche in cui si trovano le persone colpite dal terremoto».

Fondi bloccati?

Questo è, in effetti, il paradosso di una tragedia che avrebbe potuto essere gestita diversamente. Il Nepal ha ricevuto, grazie alla solidarietà internazionale, più di quattro miliardi di dollari per la ricostruzione, ma la maggior parte di questo denaro è fermo in qualche ufficio del palazzo governativo nepalese.

Gli aiuti sono stati distribuiti con il contagocce e secondo criteri discriminatori. Infatti, come ha evidenziato Amnesty Inteational, gli interventi post terremoto non hanno raggiunto gruppi emarginati a livello sociale ed etnico: l’appartenenza di classe, di casta (un aspetto discriminante che deriva dalla forte influenza culturale esercitata dall’India sul Nepal) e il credo religioso risultano elementi discriminanti per ottenere o meno i sussidi. Sono state proprio queste forme di discriminazione, in particolare a danno delle minoranze madhese e tharu che vivono nella regione meridionale di Terai, a spingere l’India ad attuare un blocco parziale alla frontiera con il Nepal.

Appena insediatosi, il nuovo governo nepalese, con a capo Khadga Prasad Sharma Oli, ha infatti varato una Costituzione che non tiene conto dei diritti e delle peculiarità delle minoranze etniche presenti sul territorio nepalese. La diatriba politico-diplomatica tra India e Nepal, durata dall’ottobre 2015 sino a febbraio 2016, ha aggravato le condizioni in cui versano i terremotati. Nel mese di novembre, il governo nepalese – proprio per affrontare l’emergenza dovuta alla mancanza di carburante – aveva disposto la vendita delle riserve di legna come combustibile. Ciò aveva creato lunghissime code, poiché migliaia di persone ne necessitavano per poter cucinare. Solo agli inizi del 2016 India e Nepal hanno trovato un accordo, culminato in un’intesa che rafforza le relazioni economiche e culturali tra i due paesi.

Piccoli progetti, grande aiuto

Eco-Himal – ci racconta ancora Patrizia Broggi – proprio come altre organizzazioni di piccole e medie dimensioni, riesce a lavorare e a realizzare progetti perché opera direttamente sul territorio, avendo referenti locali fidati e preparati. Sono loro che permettono alle Ong di intervenire concretamente a favore della popolazione.

«Noi di Eco-Himal – precisa Patrizia – una volta raccolti i fondi, li mandiamo ai nostri collaboratori in Nepal. Tra questi ci sono Ghana Shyam Paudel e Narayan Kumar Shrestha. Narayan è nato a Salleri, nel distretto del Solu-Khumbu e con lui ormai collaboriamo da anni, anche perché lavora spesso in Italia, nei rifugi di montagna, nella zona dell’Ossola, in provincia di Verbania».

Grazie a questi intermediari locali, Eco-Himal sta portando avanti progetti concreti nel Nepal post terremoto. «Abbiamo innanzitutto contribuito alla ricostruzione del monastero femminile di Deboche nella valle dell’Everest, che è stato quasi totalmente distrutto. Quando sono stata in Nepal nel novembre 2015 avevo visto che gli operai locali lo stavano già ricostruendo. Questo grazie anche naturalmente alla collaborazione di altre organizzazioni inteazionali che operano sul territorio. Adesso, come Eco-Himal, stiamo indirizzando i nostri progetti d’aiuto nella zona di Salleri, nel Nepal centro-orientale. Per esempio, abbiamo mandato fondi per la costruzione di una strada che permette l’accesso a un piccolo ospedale. Si tratta di una struttura sanitaria che è diventata molto importante dopo il sisma, poiché permette alle persone del posto di accedere a cure immediate. La strada risulta fondamentale per raggiungere l’ospedale.

Poi, sempre nell’area di Salleri, precisamente a Gaidu, stiamo lavorando alla ricostruzione della scuola primaria Ramilo Joati, uno dei sette edifici scolastici della zona completamente crollati. Gli studenti, in tutto 150, oggi fanno lezione all’interno di grandi tende con enormi difficoltà. I problemi non sono solo logistici e pratici, ma anche, soprattutto, psicologici. Molti bambini sono rimasti traumatizzati dal sisma. Quindi, in questo caso, e come in altre situazioni, è indispensabile continuare in parallelo un lavoro di supporto psicologico».

Eco-Himal sta inoltre portando avanti un progetto per sostenere un piccolo orfanotrofio, con sede a Kathmandu, dove sono stati accolti nove bambini, di età compresa fra i 6 e i 10 anni. I bambini ospitati hanno perso il padre o la madre, e sono stati abbandonati. Sono stati avviati anche programmi di adozione a distanza: «Con 500 euro all’anno – ci dice Patrizia – si contribuisce a pagare i libri, i vestitini e la tassa scolastica, quindi l’istruzione di bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare a leggere e scrivere».

Non solo stranieri

Molto attiva nella regione del Timal è l’organizzazione nepalese Sahakarya Ra Bikas (connessa al Nepal Center for Cooperation and Development, Ccd, ccdnepal.org), diretta da Salam Singh Tamang, a cui sono collegate diverse Ong italiane, tra cui Libri contro fucili e 12 dicembre.

Collabora con Sahakarya Ra Bikas anche Enrico Crespi, da oltre un decennio impegnato in Asia nell’implementazione di vari progetti educativi, sanitari e di sviluppo comunitario. Enrico ha lavorato, oltre che in Tibet, Cambogia, Sikkim e Mozambico, anche in Nepal, dove per 13 anni ha visto l’alternarsi di monarchie e governi, il tutto inframmezzato dalla guerriglia maoista. Conosce bene la situazione nepalese ed è per questo che sostiene il progetto «Take care 1 Village Nepal», attivato da un network di Ong proprio per fornire sostegni per la ricostruzione. In particolare, la zona interessata dagli aiuti è chiamata Timal, nel distretto di Kavre. Il progetto è gestito dagli stessi abitanti dei villaggi coinvolti, ovvero Bolde Pediche, Thulo Prasel, Narayansthan, Meche, Chapakori. In quest’area sono crollate 1.519 case, per questo le Ong coinvolte nel progetto hanno individuato le famiglie più disagiate da sostenere e da aiutare. Nel marzo 2016 l’organizzazione Sahakarya Ra Bikas aveva consegnato i fondi per la ricostruzione di due scuole, una con sede a Mukpa (Meche), l’altra ubicata nel villaggio di Dhulkhu.

Emergenza in montagna

Tra i maggiori problemi, oltre alla realizzazione di ripari adeguati e stabili, soprattutto per affrontare le stagioni monsoniche, vi è quello della difficile reperibilità di acqua potabile nella zona del Langtang, duramente colpita dal sisma. In quest’area, situata a Nord di Kathmandu, famosa per le sue vette, è stato istituito, nel 1971, il primo parco nazionale in Nepal. Nel Langtang durante e dopo il terremoto ci sono state moltissime frane, che hanno chiuso le sorgenti. Ciò ha creato enormi problemi legati alla disponibilità di acqua potabile.

In altre regioni, come nel distretto del Solukhumbu frequentato da tanti appassionati di trekking, le maggiori difficoltà sono state risolte. Un problema molto delicato riguarda tutte le aree remote di montagna, non ancora raggiunte da nessuna Ong. Molte persone che abitano in case isolate, dopo il sisma, non hanno ricevuto alcun aiuto e lentamente stanno abbandonando i luoghi nativi e i loro campi coltivati a orzo e ad altri cereali, per raggiungere i centri urbani più vicini. Non avendo la possibilità di ricostruirsi la casa, perché non hanno avuto alcun sostegno, nemmeno da parte del governo nepalese, tanti contadini di montagna cercano altre soluzioni spostandosi dalle loro valli ancestrali.

Un fenomeno, già presente in Nepal prima del terremoto (come in tante altre zone di montagna nel mondo), si è negli ultimi mesi intensificato, producendo un duplice effetto: da un lato, l’aumento delle persone urbanizzate e un affollamento nei campi di tende degli sfollati; dall’altro, lo spopolamento delle aree montane, che può provocare gravi conseguenze a medio e lungo termine. È in queste aree remote che il governo nepalese dovrebbe intervenire, anche per il tramite di progetti specifici, magari concordati e implementati con Ong locali e inteazionali.

Silvia C. Turrin


Ricordiamo che in Nepal sono presenti da anni i missionari Salesiani, Gesuiti e Camilliani, sia italiani che indiani. Tutti sono molto attivi nella ricostruzione con particolare attenzione a ospedali, scuole e case per orfani (ndr).




Storia del Giubileo 10. Reliquie e corruzione


Nella puntata precedente abbiamo descritto come l’istituto del giubileo da evento eccezionale, pensato a cadenza secolare da Bonifacio VIII, fosse diventato una tradizione elastica che ogni papa decideva di cadenzare secondo la sua personale esigenza o visione teologica.

La giostra dei Papi

Dopo la morte di Bonifacio IX (1404) e il breve ma turbolento pontificato di Innocenzo VII (Cosimo de’ Migliorati), durato appena due anni (1404-06), fu eletto papa di Roma Gregorio XII (Angelo Correr, 1335-1417). Per risolvere lo scisma che era fonte di confusione (basti pensare che Santa Caterina da Siena era fedele a Roma, mentre San Vincenzo Ferrer riconosceva il papa di Avignone), molti cardinali sia fedeli a Roma, sia fedeli ad Avignone, si riunirono a Pisa nel 1409, deposero il papa Gregorio XII e l’antipapa Benedetto XIII con l’accusa di scisma ed elessero un nuovo papa che assunse il nome di Alessandro V (Pietro Filargo, 1339-1410), che, come prima mossa papale, promise un nuovo giubileo per l’anno 1413, ma non visse abbastanza per realizzarlo.

Morto Alessandro, elessero Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa, 1370-1419) che a tutti gli effetti fu considerato antipapa, perché eletto essendo ancora vivo il papa legittimo, Gregorio XII, che era stato deposto in modo illegittimo. Si creò una situazione paradossale: i papi eletti da quella che passò alla storia come «l’obbedienza di Pisa», invece di risolvere lo scisma, lo aggravarono così tanto da sprofondare la Chiesa per sei anni dalla padella della sventurata «dualità» alla brace della «maledetta triplicità». Non più due, ma tre papi si contendevano la successione di Pietro. Gregorio XII rinunciò al pontificato nel 1415, sperando che anche l’antipapa Benedetto XIII di Avignone facesse lo stesso, ma questi si rifiutò, anzi sul letto di morte costrinse i pochi cardinali a eleggere il successore, Clemente VIII. Questi accortosi di essere diventato ormai ridicolo, rassegnò le dimissioni, riconoscendo il papa di Roma. Nel frattempo non un conclave, ma direttamente il concilio di Costanza, nel 1417 all’unanimità scelse Martino V (Oddone Colonna 1368-1431), il quale toò a Roma e in omaggio alla norma della memoria dei 33 anni di Cristo, indisse il giubileo per l’anno 1423.

Giubilei della redenzione ballerini.
Il giubileo di Martino V sarà l’ultimo della serie dei «33 anni», perché Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455, nato a Sarzana, Genova), il suo secondo successore, riportò l’anno santo alla scadenza del cinquantesimo anno, abolendo quella dei 33 anni. Il giubileo di Martino V sarà così l’ultimo della serie della «redenzione», fino al 1933, quando un nuovo anno santo sarà indetto da Pio XI (Achille Ratti, 1857-1939) per celebrare la ricorrenza centenaria della redenzione; questo evento, con la stessa motivazione, si ripeterà ancora una volta, nel 1983, anno giubilare indetto da Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a, 1920-2005) in omaggio al 1950° anniversario della redenzione di Cristo.

Curiosità e dimissioni.
Dopo l’antipapa Giovanni XXIII, per cinque secoli, nessun nuovo papa assunse quel nome, come se fosse un nome maledetto. Fu il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che, eletto papa (28 ottobre 1958), da fine storico, non si lasciò impressionare, ma decise di assumere il nome di Giovanni XXIII, ponendo fine definitivamente alla discussione sugli antipapi. Eletto come papa di transizione per fare decantare il lungo e ingombrante pontificato di Pio XII, Roncalli smentì le attese di tutti e, volando alto sulle ali dello Spirito, diede inizio al concilio Vaticano II che cambiò il volto e il cuore della Chiesa.
Nella serie dei papi, Gregorio XII (Angelo Correr), fu il settimo papa ad avere rinunciato o ad essere stato costretto a rinunciare. Prima di lui rinunciarono Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI e, ultimo e più famoso tra tutti, Celestino V, predecessore di Bonifacio VIII. Dopo di lui, si ebbe solo la linea ufficiale e legittima dei papi di Roma e occorrerà aspettare 598 anni per vedere un papa rassegnare le dimissioni, questa volta non costretto da altri, ma liberamente per sua scelta, come fece Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger.

Clero alla berlina

Il giubileo del 1423, il primo di una chiesa riunita dopo lo scisma, porta un flusso straordinario di pellegrini a Roma da fare dire ai cronisti dell’epoca che Roma viene invasa «da sterco, sporcizia e pidocchi», conditi da una forte speculazione, se è vero che il papa emana un editto con cui vieta di far pagare più di 25 fiorini per la pigione nel quartiere di Parione «in occasione del giubileo oppure di un concilio celebrato a Roma o in occasione dell’arrivo dell’imperatore». In questo giubileo per la prima volta si apre «una porta santa» al Laterano (per la cronaca questa porta non è mai stata identificata), come varco apposito per il passaggio dei pellegrini. Finito l’anno santo, esso viene murato con dentro un bricco d’oro (a futura memoria).

La mancata riforma della Chiesa, voluta dal concilio di Costanza e non riuscita, specialmente quella attinente il clero che aveva una vita morale indecente, oltre alla sporcizia e ai pidocchi, alimentò un sentimento anticlericale e uno scollamento profondo tra popolo e clero. Della decadenza del clero si occupò anche la letteratura: le «Trecento novelle» di Franco Sacchetti (+ 1400ca.) portano al parossismo l’immoralità del clero e del mondo religioso. In forma più contenuta, questa feroce satira era stata iniziata una cinquantina di anni prima da Boccaccio con il «Decameron».

Se per i pellegrini del popolo, per lo più sentimentali e analfabeti, i giubilei erano l’occasione per fare incetta d’indulgenze allo scopo di evitare l’inferno dopo la morte, per il clero e le istituzioni, essi erano anche un grande fattore economico perché portavano a Roma un grande flusso di denaro e si sa bene che dove c’è la carogna i corvi abbondano. Il popolo di Dio, in ogni tempo, sarà pure ignorante, ma ha fiuto e giudica quello che vede e valuta comportamenti e atteggiamenti, e quasi sempre non sbaglia. Facendo le debite proporzioni, si può applicare qui il principio teologico tanto caro a Papa Francesco: «L’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina» (Antonio Spadaro, S.I., a cura di, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, n. 3918 [15 settembre 2013], 459). Il popolo dei giubilei, è un popolo caricato dai preti con mille paure, ma anche un popolo semplice, di una elementare religiosità, capace di distinguere il messaggio dagli strumenti inadeguati.

Una testimonianza agghiacciante.
«L’umanista Poggio Bracciolini, inorridito delle devianze morali del clero romano, scrisse al cardinale Giuliano Cesarini (+1444) che lo esortava a prendere gli ordini sacri: “Non voglio divenire sacerdote, non voglio benefici; ne vidi già moltissimi, che ritenevo uomini buoni… divenire, dopo aver assunto il sacerdozio, avari, non più dediti alla virtù, ma all’inerzia, all’ozio, al piacere. Timoroso che qualcosa del genere accada anche a me, ho deciso di concludere lontano dal vostro ordine ciò che mi rimane di vita terrena; vedo chiaro infatti, dalla tonsura dei sacerdoti che non sono solo i capelli a venir loro rasi ma anche la coscienza e la virtù”. Poggio Bracciolini era un intellettuale laico» (Mezzadri, 79).

Reliquie a gogò e fanatismo

Papa Martino V favorì il culto delle reliquie che fece esporre in tutte le chiese come mezzo per alimentare il desiderio del popolo per una chiesa più spirituale, scavalcando così il clero che, forse, lo stesso papa considerava un impedimento e quasi mettendosi direttamente in contatto con la chiesa dei semplici. Questo processo di spiritualizzazione culminò nel 1430, sette anni dopo il giubileo, quando la pietà popolare trovò una grande spinta nella traslazione a Roma delle reliquie di santa Monica, madre di sant’Agostino, durante la quale il papa tenne un sermone commovente. Purtroppo però, quando il desiderio di purificazione è abbandonato solo alla pietà popolare, è inevitabile che si creino mostri e si dia inizio a un irrigidimento moralistico che porta anche i santi a commettere delitti in nome della purezza della religione. Chiuso il giubileo della redenzione, che avrebbe dovuto imporre pensieri di misericordia e di perdono, sorse un movimento spontaneo assetato di «segni» visibili come armi per combattere il male che deve essere estirpato alla radice, senza più la logica della parabola del grano e della zizzania che mette a fuoco la pazienza come intrinseca caratteristica di Dio (cf Mt 13,24-30). Per istigazione di san Beardino prese vita e struttura «il rogo delle vanità» sulla piazza del Campidoglio, dove non si esitò nemmeno a bruciare viva una certa Finicella, accusata di essere strega:

«In quell’anno [1424] frate Beardino (di Siena, ch’era un buon frate) fece ardere tavolieri, canti, brevi, sorti, capelli che fucavano le donne, et fu fatto uno talamo di legname in Campituoglio, et tutte queste cose ce foro appiccate, et fu a 21 di iuglio.
Et dopo fu arsa Finicella strega, a di 8 del ditto mese di iuglio, perché essa diabolicamente occise de molte criature et affattucchiava di molte persone, et tutta Roma ce andò a vedere. Et fece frate Beardino in Roma de molte paci, et de molti abbracciamenti; et benchè ce fusse stato homicidio… et fece fare altre opere buone, sicchè da tutti era tenuto per sant’uomo». (Istituto storico Italiano, Fonti per la storia d’Italia, a cura di  Oreste Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, Forzani e C. tipografi del Senato, Roma 1890).

Il papa mecenate

Dopo Martino V, papa della potente famiglia Colonna, venne eletto il veneziano Eugenio IV (Gabriele Condulmer, 1383-1447) che fu costretto a fuggire a Firenze, perché scacciato dai romani aizzati dalla famiglia Colonna. Dopo di lui salì al soglio pontificio Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455) che fu il vero primo papa mecenate, immerso, corpo e anima, nei nuovi tempi, diventando egli stesso non solo un protagonista, ma addirittura promotore di quell’umanesimo che Martino V di fatto detestava. Con il suo temperamento condiscendente e mai pungente, seppe guadagnarsi la stima e la simpatia di tutte le nazioni europee che gli riconobbero un’autorità morale e politica che prima di lui nessun papa ebbe in così alto grado.

Di fatto, il pontificato di Niccolò V risultò il collo d’imbuto del passaggio definitivo nel «nuovo mondo», chiudendo per sempre il Medio Evo ed entrando nel Rinascimento. Come ogni periodo di transizione, questo passaggio fu attraversato da una serie di problemi gravi e profondi come la corruzione, l’ipocrisia elevata a sistema di governo. Il clero ignorante e avaro, era inadatto alla propria missione, con una simonia diffusa in modo nauseante oltre ogni misura. Pullulavano eresie in ogni dove, come espressione di libertà e occasione d’inganno; era anche un modo per affermare la propria indipendenza non solo dal clero, ma anche dal concetto stesso di società teocratica che si dissolveva di fronte all’ideale «homo novus» che tutti sentivano e percepivano sia psicologicamente sia culturalmente e chi ne pagava le spese inevitabili fu il senso religioso che apparve come ostacolo al nuovo perché rappresentativo del vecchio.

Signori, le corti…

Le alte gerarchie come i cardinali si circondavano di corti personali pullulanti di letterati, filosofi, pittori in cerca di protettori paganti, ma anche come portatori dello spirito del nuovo mondo che era già iniziato. Nel 1449 il papa emanò una bolla con cui indisse per il Natale dello stesso anno l’inizio del giubileo del 1450. Si mise in moto un vero cantiere in tutta Roma per abbellire palazzi, chiese e ristrutturare quartieri, dando impulso a un entusiasmo collettivo contagioso. L’afflusso di pellegrini fu immenso, da ogni parte d’Europa e anche di fuori, convenivano a Roma pellegrini e ciascuno cantava e pregava nella propria lingua, dando l’impressione plastica di rivivere la Pentecoste narrata nel libro degli Atti al capitolo 2. Questa folla era ansiosa di partecipare all’apertura della porta santa di quello che fu definito «l’anno d’oro», anche perché in tutto il mondo cristiano Niccolò V era l’unico papa riconosciuto universalmente e non solo perché era rimasto senza più antipapi (l’ultimo fu Felice V, morto nel 1449), ma perché la sua autorevolezza morale era di dominio pubblico.

Poiché la folla era tanta da non potere essere gestita, il Papa concesse che la reliquia del Volto Santo della Veronica fosse esposta ogni domenica, le teste dei santi apostoli Pietro e Paolo, ogni sabato e, per permettere ai pellegrini di andarsene prima da Roma, perché veniva a mancare il pane, ridusse a soli tre giorni le visite alle chiese giubilari così che, lucrata l’indulgenza plenaria, molti potessero ripartire, avendo soddisfatte le esigenze del giubileo e alleggerendo i problemi di Roma.

Era inevitabile che nelle condizioni igieniche impossibili e senza controllo, scoppiasse la peste che fece molte vittime, anche tra i parenti del papa, il quale, terrorizzato, scappò da Roma per stabilirsi a Fabriano. Riferisce Vespasiano da Bisticci, un umanista e bibliofilo fiorentino, che «La corte di Roma è miseramente sparita e dispersa… Cardinali, vescovi, abati, monaci, ogni sesso, niuno eccettuato, tutti fuggono da Roma come Apostoli da nostro Signore durante la sua passione» (Mezzadri, 94-95).

Il successivo giubileo si celebrò nel 1475 perché il veneziano Pietro Barbo eletto papa col nome di Paolo II (1417-1471) portò la cadenza giubilare a venticinque anni, senza poterlo nemmeno inaugurare: a causa di una scorpacciata di meloni morì di apoplessia e il giubileo restò solo annunciato. Gli succedette il Francesco della Rovere, francescano dell’ordine dei Minori, che assunse il nome di Sisto IV (1414-1484) che determinò una svolta nella vita del papato e nella geografia della città di Roma, divenuta un cantiere a cielo aperto che ne trasformerà definitivamente la struttura e l’impianto.

Paolo Farinella, prete
(10, continua)

 

 




Il paradiso non può attendere


Il meccanismo dell’elusione fiscale spesso non è illegale. Ma si basa su manipolazioni, società di comodo e corruzione. E soprattutto colpisce gli onesti e priva le casse pubbliche di denaro necessario a pagare i servizi essenziali per tutti.

Neppure la donna più potente del mondo sa come risolvere il problema, per questo ha chiesto aiuto a una Ong, così alla vigilia della conferenza internazionale contro la corruzione, che si è svolta a Londra lo scorso maggio, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ha convocato Winny Byanyima, africana, presidente di Oxfam Inteational, per discutere del più grave e inestricabile nodo del sistema economico mondiale: i paradisi fiscali.

Si calcola che individui e imprese nascondano nei territori off shore qualcosa come 7.600 miliardi di dollari, che, secondo uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, provengono per 2.600 miliardi dall’Europa, 1.200 dagli Stati Uniti, 300 dal Canada, 200 dalla Russia, 1.300 dall’Asia, 800 dai paesi del Golfo, 700 dall’America Latina e 500 dall’Africa. Denaro che sfugge, più o meno legalmente, alle imposizioni fiscali degli stati, ricchezza rubata alla collettività dei paesi, dove i profitti e i redditi sono creati anche grazie alle infrastrutture e ai servizi pagati dai cittadini onesti.

Basterebbe il 5 % di una tale somma per sfamare gli affamati, garantire un’istruzione a tutti i bambini del mondo, curare tutti i malati, assicurare un reddito alle donne, depurare suolo e acque inquinati, fornire energia anche ai luoghi più sperduti, insomma attuare quell’agenda per lo sviluppo che le Nazioni Unite invocano dall’inizio del Millennio.

Sono soprattutto le grandi imprese, consigliate da studi legali ricompensati profumatamente, che eludono il fisco attraverso varie pratiche: dichiarazioni dei redditi manipolate, creazione di società di comodo, adozione del trasfer pricing. Politiche queste, di trasferimento dei prezzi tra filiali e consociate con sede in paesi diversi, come le vendite di prodotti a prezzi inferiori nei paradisi fiscali e la successiva esportazione verso i paesi di destinazione a prezzi maggiorati.

In molti casi si ricorre alla corruzione dei funzionari pubblici e si comprano informazioni da politici compiacenti. Racconta il quotidiano The Guardian che l’impresa britannica Heritage Oli&Gas Ltd, che ha sostenuto la campagna elettorale di David Cameron, avvisata che l’Uganda stava per incrementare il prelievo fiscale sui profitti petroliferi si è precipitata a ridomiciliare la società nelle isole Mauritius, un paradiso fiscale che non ha sottoscritto con il governo ugandese l’accordo sulla doppia imposizione; con questa mossa astuta ha evitato di pagare 400 milioni di dollari in più, una cifra che corrisponde a quello che il governo dell’Uganda spende annualmente per la sanità.

Non siamo rimasti particolarmente scioccati dalla vicenda dei Panama Papers. Le informazioni diffuse dall’Inteational Consortium of Investigative Joualists, ribadiscono semplicemente che ci sono tanti furbi, più o meno famosi, nel mondo della politica, delle banche, delle imprese, dello sport e dello spettacolo che, per non pagare le tasse, trasferiscono i loro beni in paesi dal fisco inesistente o molto malleabile. Molti dei casi scoperti non sono illegali (è questo forse il vero scandalo), ciononostante l’elusione fiscale è davvero deleteria: colpisce i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese e priva le casse pubbliche del denaro per pagare i servizi essenziali. La fuga dei capitali inoltre è particolarmente odiosa quando colpisce i paesi poveri: nei Panama Papers troviamo anche il nome di Aliko Fangote che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco dell’intera Africa, grazie alle sue innumerevoli attività produttive e commerciali che lucrano sulle preziose materie prime africane. Da oltre trent’anni, da quando era al potere il presidente americano Ronald Reagan, ostile a qualsiasi regolamentazione, l’Ocse sta studiando il modo per arginare il fenomeno dei paradisi fiscali e ha redatto liste nere e grigie che comprendono oggi 38 paesi distribuiti nei vari continenti. Ne fanno parte piccole isole come Tonga e le Cayman, ma anche stati come il Delaware (Usa), che ha meno di 1 milione di abitanti ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società.

La Commissione europea ha cercato di introdurre dei meccanismi di trasparenza per impedire l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Lo scorso 12 aprile ha definito che solo le corporations con un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (rimangono escluse l’80% delle imprese) devono presentare una rendicontazione finanziaria paese per paese, e solo all’interno dei confini della Ue, in altre parole non saranno obbligate a raccontare nulla sui profitti maturati nei paesi extracomunitari.




La malattia non ha colore


L’assistenza medica ai migranti è un atto dovuto. Facilitare l’accesso al Servizio sanitario nazionale a chi rimane è la soluzione migliore. Tra l’altro, questa è anche la strada economicamente più conveniente.

La prima parte di questa nostra inchiesta (MC maggio 2016, pp. 60-63) terminava con una domanda: gli immigrati rappresentano un pericolo sanitario per noi? Per dare una risposta è necessario esaminare le caratteristiche di coloro che arrivano nel nostro paese, le loro condizioni di vita e di lavoro, la loro possibilità di accesso al nostro sistema sanitario.

All’arrivo in Italia

Considerando solo coloro che giungono in Italia dal Mediterraneo, in primis occorre conoscere quale sia la situazione sanitaria dei migranti quando vengono portati a bordo delle navi italiane che effettuano i salvataggi in mare. Al loro arrivo i migranti presentano soprattutto patologie legate al viaggio: infezioni respiratorie, ipotermia, ustioni, traumi, lesioni da decubito dovute alla impossibilità di movimento sui barconi, peggiorate da agenti chimici quali acqua salmastra o gasolio. Sovente ci sono patologie indotte o aggravate dalle condizioni di trasporto: tra queste le più pericolose sono quelle dovute a disidratazione, che provoca talora gravi casi d’insufficienza renale. Capita che approdino donne in stato di gravidanza o subito dopo avere partorito. Spesso si tratta  di donne vittime di stupri avvenuti nei lunghi periodi di detenzione in Libia, quindi con gravidanze forzate.

Tra le patologie più frequentemente riscontrate allo sbarco vi sono quelle dermatologiche come scabbia, foruncolosi, impetigine e quelle del sistema respiratorio, in particolare infezioni delle prime vie aeree, bronchiti e sindromi influenzali. I pochi casi di tubercolosi vengono individuati a bordo delle navi militari, che sono attrezzate con aree di isolamento, terapia intensiva e medici a bordo. Grazie alla stretta collaborazione tra ministero della Salute e Croce rossa italiana è possibile effettuare operazioni complesse per evacuare in sicurezza le persone che hanno necessità di cure immediate. Ad ogni sbarco sale a bordo personale sanitario e personale Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del ministero della Salute), che verificano le condizioni dei migranti prima che scendano a terra. Nel caso in cui ci sia un sospetto di malattia infettiva, il paziente viene isolato a bordo e vengono attivate immediatamente le procedure necessarie per diagnosticare il caso. Sulle nostre coste, la Croce rossa italiana assiste sistematicamente i migranti in arrivo dal 2011.

Nei Centri di prima accoglienza

Le condizioni dei migranti nei Centri di prima accoglienza presentano purtroppo notevoli criticità. Non esistono ancora collaudate procedure di rapida evacuazione dei richiedenti asilo altrove, in modo da offrire loro condizioni igieniche migliori. Secondo Medici senza frontiere (Msf), l’assistenza sanitaria in questi centri non è a carico del ministero della Salute, ma è gestita da enti privati. Senza un coordinamento efficace si verificano carenze che influiscono direttamente sulla salute dei pazienti, messa a rischio dalle condizioni di sovraffollamento e di promiscuità. Inoltre tra i migranti presenti nei Centri di prima accoglienza, ve ne sono molti che, avendo subito torture e altri traumi, presentano specifici quadri clinici psichiatrici come disturbo post-traumatico da stress, crisi d’ansia, depressione, disturbi di concentrazione e di memoria, tendenze suicide, per cui è indispensabile anche l’assistenza di tipo psichiatrico.

Migranti stabilizzati

Per quanto riguarda la salute degli immigrati presenti da tempo sul nostro territorio (o di altra nazione europea), bisogna considerare diversi fattori: quelli legati alle caratteristiche socioeconomiche dell’ambiente di vita e di lavoro, quelli individuali come lo stile di vita e gli eventuali comportamenti a rischio e infine la storia migratoria dei singoli individui (paese di origine, paese ospite, motivazione della migrazione, età all’arrivo, durata della permanenza nel paese ospite).

I problemi sanitari degli immigrati sono di tre tipi: di importazione, cioè quelli legati alle malattie endemiche nel paese di provenienza o alle caratteristiche genetiche (come la tubercolosi, alcuni tumori di origine infettiva e l’anemia mediterranea); di sradicamento, presenti soprattutto tra gli immigrati recenti e in particolare tra quelli forzati a causa di guerre e di persecuzioni e che coinvolgono in particolare la sfera psichica e mentale; quelli connessi con i fenomeni di acculturazione e di possibile emarginazione sociale.

Il processo di acculturazione comporta un adattamento degli immigrati agli stili di vita del paese ospite, che può però avere un effetto negativo sui comportamenti a rischio per la salute (fumo, alcolismo, tossicodipendenza, alimentazione scorretta). Peraltro esso porta alla conoscenza dei servizi sanitari di assistenza primaria e diagnosi precoce e ne favorisce l’accesso. L’acquisizione di comportamenti insalubri, quando avviene, si verifica in tempi più o meno rapidi, a seconda della storia migratoria (età all’arrivo, essendo più probabile tra i più giovani, cultura d’origine, livello d’istruzione individuale). Ci sono poi tutti gli svantaggi degli ambienti di vita e di lavoro, con tutte le forme di rischio per la salute tipiche delle fasce socio-economiche più svantaggiate anche tra la popolazione ospite (precarietà abitativa, sovraffollamento, scarsa sicurezza nei luoghi di lavoro, alimentazione carente, disagio psicologico, difficoltà di accesso ai servizi socio-sanitari). Gran parte delle disuguaglianze di salute degli immigrati è legata alle loro condizioni socio-economiche, al livello d’istruzione e alla loro distribuzione per area di residenza.

Secondo le indagini svolte dall’Istat ogni 5 anni e in particolare quella pubblicata nel 2014, lo stato di salute percepito dai cittadini stranieri è di livello inferiore per quelli che risiedono nel Mezzogiorno, rispetto a quelli che vivono al Nord o in Centro Italia. Questo vale soprattutto per quanto riguarda lo stato mentale degli stranieri residenti nel Sud, che presentano punteggi medi inferiori a quelli riportati dal resto della popolazione straniera.

Per chi ha conseguito solo la licenza elementare, le condizioni di benessere fisico, mentale e psicologico generalmente presentano valori inferiori alla media, specialmente per i meno giovani.

Inoltre possono incidere negativamente sulla salute degli immigrati i fenomeni di discriminazione razziale, le barriere linguistiche e culturali e i vincoli giuridici, in particolare per le persone provenienti dai paesi in via di sviluppo e per quelle prive di regolare permesso di soggiorno.

Migranti economici

Generalmente coloro che emigrano volontariamente (i migranti economici), scelgono di farlo essendo in buona salute, pertanto risultano mediamente più sani dei loro coetanei che non emigrano e di quelli della popolazione ospite. Si parla di effetto migrante sano, che non interessa invece i migranti forzati e i ricongiungimenti familiari. Dopo un po’ di tempo dall’arrivo, i migranti economici tendono a perdere il loro vantaggio in salute, per via dell’acquisizione di comportamenti a rischio e delle condizioni di vita e di lavoro, fino a giungere all’effetto «migrante esausto». Si osserva inoltre che spesso gli immigrati in cattivo stato di salute decidono di tornare nel loro paese d’origine per ragioni affettive o perché lì trovano un maggiore supporto familiare e sociale necessario a gestire la malattia che nel paese ospite.

Servizi sanitari e barriere

Nei primi tempi, i migranti presentano solitamente un quadro caratterizzato da eventuali malattie di importazione (che però hanno un peso ridotto sul carico complessivo di malattia) e soprattutto da problemi di salute tipici dei giovani adulti, in particolare quelli legati all’area materno-infantile per le donne e a quella traumatologica per gli uomini. Con l’invecchiamento compaiono invece tutti i problemi di morbosità cronica correlati al disagio sociale. In Italia le popolazioni con storie migratorie meno recenti, come quelle del Nord Africa, potrebbero cominciare a presentare patologie di tipo cronico, mentre i migranti dai paesi slavi, arrivati dopo, presentano ancora la prima categoria di problemi di salute.

Le potenziali barriere all’utilizzo dei servizi sanitari da parte degli immigrati sono numerose e classificabili in tre gruppi: i fattori individuali, come cultura e credenze d’origine, il livello d’istruzione, lo stato socio-economico, il sostegno sociale e familiare; le barriere rappresentate dalle caratteristiche logistiche e organizzative della specifica struttura sanitaria, a cui l’immigrato dovrebbe rivolgersi; le barriere di sistema, legate all’organizzazione e alle modalità dell’intera offerta sanitaria del paese ospite.

Il Parlamento europeo, con le risoluzioni 2010/2089 dell’8 febbraio 2011 e 2010/2276 del 9 marzo 2011, ha ribadito che gli immigrati devono essere compresi tra i gruppi a rischio di disuguaglianze sanitarie e ha invitato gli stati membri a mettere in atto interventi volti a ridurre al minimo il rischio di disparità nell’accesso alle cure, indipendentemente dal fatto che si tratti di persone regolarmente presenti o meno.

Una questione di codici

Secondo la Legge 40/1998, art. 33, in Italia è previsto l’accesso all’assistenza anche agli stranieri irregolari, a fronte di una compartecipazione alla spesa sanitaria (ticket) uguale a quella dei cittadini italiani. Tutte le persone presenti sul territorio italiano hanno infatti diritto alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, e ai programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva, con specifico riguardo a tutela della gravidanza e della mateenità, alla salute del minore, alle vaccinazioni, alla profilassi internazionale e alla profilassi, diagnosi e cura delle malattie infettive. In particolare è previsto che gli extra-comunitari senza regolare permesso di soggiorno possano richiedere uno specifico codice sanitario (codice Stp, «Straniero temporaneamente presente»), che non prevede segnalazione alle autorità giudiziarie e sostituisce l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale (Ssn). I cittadini comunitari non iscrivibili al Ssn perché privi dei necessari requisiti di residenza e di reddito, presenti sul nostro territorio da almeno tre mesi in maniera continuativa sono invece assistibili mediante il codice Eni («Europeo non iscrivibile»).

Purtroppo l’attuazione della normativa vigente risente di una forte variabilità territoriale, che ha portato la Conferenza stato-regioni ad approvare nel 2011 il documento «Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle regioni e province autonome italiane» per uniformare le modalità di offerta di assistenza.

Poiché le prestazioni rivolte a Stp o Eni avvengono dietro pagamento di un ticket (tranne quelle di primo livello, urgenze, gravidanza, patologie esenti, ecc.), gli immigrati in gravi difficoltà economiche spesso rinunciano all’assistenza o si rivolgono a reti di assistenza parallela, presso il qualificato terzo settore, oppure, con rischi maggiori ed esiti incerti, presso la propria comunità. Per ovviare a ciò, il cittadino con codice Stp privo di risorse economiche può chiedere, a seguito di una sua dichiarazione, il codice X01, che vale solo per la specifica prestazione effettuata e va emesso di volta in volta.

Rinunce e difficoltà

Nonostante il divieto di segnalazione della condizione di irregolarità del paziente alle autorità competenti (salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, come per i cittadini italiani), molti immigrati (circa 1/3 degli intervistati in un’indagine condotta in vari paesi europei tra cui l’Italia) riferiscono di avere comunque timore di denuncia e di rinunciare perciò all’assistenza. Cinque su mille intervistati hanno riferito di avere rinunciato al ricovero ospedaliero, pur avendone avuto bisogno, perché impossibilitati a farlo, con una incidenza doppia nel Mezzogiorno.

Inoltre le difficoltà linguistiche possono costituire un grosso ostacolo all’accesso al servizio sanitario per gli immigrati. Il 13,8% di loro ha infatti dichiarato di avere difficoltà nello spiegare al medico i sintomi della propria malattia, il 14,9% a capire ciò che il medico dice.

Il 12,9% ha riferito di avere avuto difficoltà nello svolgimento delle pratiche burocratiche necessarie per accedere alle prestazioni mediche. Il 16% degli stranieri dichiara di avere difficoltà ad effettuare visite ed esami medici per incompatibilità con gli orari di lavoro.

Per quanto riguarda gli atteggiamenti discriminatori, che possono condizionare l’accesso alle cure, il 2,7% degli stranieri ha dichiarato di avere subito discriminazioni in quanto tali, quando ha usufruito di prestazioni sanitarie.

Secondo i dati degli oncologi, gli immigrati che muoiono di tumore sono il 20% in più degli italiani con la stessa patologia tumorale, al punto che per favorire l’accesso alla diagnosi precoce è stata attivata la prima campagna di sensibilizzazione delle persone immigrate denominata «La lotta al cancro non ha colore», promossa da Aiom («Associazione italiana oncologia medica») e Fondazione Insieme contro il cancro. Secondo una ricerca della Caritas, il 36% delle immigrate non si è mai sottoposta a un Pap-test per il tumore della cervice uterina, il 54% delle cinesi non sa cosa sia una mammografia e la metà delle donne ucraine, filippine e latino-americane lamenta difficoltà nell’accesso al Servizio sanitario nazionale.

Le difficoltà di accesso alle cure sono ancora maggiori per i detenuti stranieri, che costituiscono oltre un terzo della popolazione detenuta in Italia, spesso a causa di un difficile rapporto di fiducia con gli operatori sanitari del carcere e per scarsa informazione circa i propri diritti.

Recentemente l’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato un report Cost of exclusion from healthcare: The case of migrants in an irregular situation («Costo dell’esclusione dal servizio sanitario: il caso degli immigrati irregolari»), uno studio condotto in Grecia, Germania e Svezia, che mostra come aprire le cure sanitarie anche agli irregolari consenta un risparmio fino al 16% rispetto alla cura di ictus e infarti e fino al 69% rispetto alla cura di bambini nati sottopeso. Se l’accesso alla medicina preventiva fosse uguale per tutti, ciò comporterebbe accessi ridotti al pronto soccorso (es. la Lombardia dà accesso alle cure agli immigrati solo attraverso il pronto soccorso) e costi minori di gestione di una patologia conclamata e più complessa da trattare. Molti pazienti del Nord Africa scoprono di essere affetti da diabete solo al pronto soccorso, quando i sintomi sono gravi, mentre basterebbe un semplice esame del sangue preventivo periodico.

La risposta

Alla luce di quanto visto finora possiamo rispondere alla domanda, da cui eravamo partiti, sulla possibilità che gli immigrati rappresentino un rischio per la nostra salute.

Ebbene, poiché molti immigrati tendono a vivere in comunità chiuse, già solo per questo raramente sono causa di epidemie nella popolazione autoctona. Le minoranze etniche non costituiscono un rischio rilevante per le comunità che le ospitano, in termini epidemiologici, ma eventualmente per i piccoli gruppi con cui hanno contatti regolari. È chiaro che la facilitazione del loro accesso al Servizio sanitario nazionale da un lato riduce notevolmente il rischio di diffusione delle malattie tra di loro e nella popolazione ospite e dall’altro riduce i costi sanitari della nazione d’accoglienza.

Rosanna Novara Topino
(seconda parte – fine)

 




Un altro modo di dire mondo


La Banca Mondiale ha deciso di non utilizzare più l’espressione «paesi in via di sviluppo» ed è probabile che le altre istituzioni inteazionali si allineeranno alla sua decisione. Ma che significato e quali conseguenze ha questa scelta? Da «Terzo Mondo» a «paesi a basso reddito», la forma e la sostanza delle parole che usiamo per descrivere il mondo.

Non c’è più il Terzo Mondo di una volta. E nemmeno i paesi in via di sviluppo, a quanto pare. Nell’edizione 2016 degli Indicatori di sviluppo – una delle pubblicazioni di riferimento per chiunque lavori nel settore e non solo – la Banca Mondiale ha deciso di dismettere l’espressione developing countries (paesi in via di sviluppo, appunto). «Sulla spinta dell’agenda universale degli Obiettivi di sviluppo sostenibile», si legge nel documento, «questa edizione introduce un cambiamento nel modo di presentare gli aggregati globali e regionali. Salvo ove specificato, non c’è più una differenza fra paesi in via di sviluppo (definiti nelle precedenti edizioni come paesi a basso e a medio reddito) e paesi sviluppati (ad alto reddito). I raggruppamenti regionali sono basati sull’area geografica […] e il cambiamento ha due conseguenze: che c’è un nuovo aggregato per il Nord America e che l’Unione europea è inclusa negli aggregati per Europa e Asia centrale».

Già da anni l’espressione «in via di sviluppo» si accompagnava nei rapporti della Banca Mondiale alla precisazione che il suo utilizzo era una questione di brevità, non significava che tutte le economie così denominate sperimentassero uno sviluppo analogo e non faceva in alcun modo riferimento a una soglia di sviluppo preferibile o finale, unica e uguale per tutti, che alcuni stati del mondo avevano raggiunto e superato e altri no.

Le premesse di questo cambiamento erano emerse in un articolo firmato da Tariq Khokhar e Umar Serajuddin, rispettivamente data analist e economista statistico della Banca, pubblicato sul blog istituzionale della World Bank nel dicembre del 2015: «L’essere umano ha una naturale tendenza a fare delle categorie – scrivevano – ma la classificazione è un’arte, non una scienza esatta». I due funzionari citavano Hans Rosling, medico, statistico e accademico svedese, che in una conferenza del giugno 2015 aveva detto: «Ho un nuovo nome per il mondo in via di sviluppo: io lo chiamo “il mondo”. È il posto dove vivono sei su sette miliardi di persone, perciò il mondo in via di sviluppo è la stragrande maggioranza».

I limiti della categoria, insistevano i due autori, emergono chiaramente quando si guarda ad esempio ai tassi di mortalità infantile e di fecondità, considerati come indicativi del benessere complessivo di un paese. Negli anni Sessanta questi due indicatori ebbero un ruolo importante nel definire le due grandi categorie: i paesi sviluppati erano quelli dove il tasso di fecondità e quello di mortalità infantile erano più bassi mentre i paesi in via di sviluppo, presentavano i valori più elevati. Oggi, con l’eccezione di pochi paesi, mortalità infantile e fecondità sono diminuite ovunque.

Lo stesso vale per le classificazioni basate sul reddito o sulla soglia di povertà estrema, fissata a 1,90 dollari al giorno: che senso ha, si chiedono i due funzionari della Banca Mondiale, che il Malawi e il Messico si trovino nella stessa categoria quando il primo ha un reddito nazionale lordo pro capite di 250 dollari e il secondo di 9.860? O considerando che a vivere con meno di un dollaro e novanta centesimi al giorno sia in Malawi il settanta per cento della popolazione e in Messico meno del tre per cento?

Gli antenati: c’era una volta il Terzo Mondo

«Terzo Mondo» è un’espressione coniata dall’economista francese Alfred Sauvy in un articolo dell’agosto 1952 quando, sulla rivista L’Observateur, scriveva: «Parliamo spesso dei due mondi protagonisti, della loro guerra possibile, della loro coesistenza, dimenticando troppo sovente che ne esiste un terzo, il più importante, il primo in ordine cronologico. È l’insieme di quelli che chiamiamo, con lo stile delle Nazioni Unite, i paesi sottosviluppati».

Per «due mondi» si intendeva da una parte il gruppo di paesi e loro satelliti del blocco capitalista occidentale e dall’altra quelli del blocco comunista sovietico. Nei fatti, però, l’espressione «Terzo Mondo» finì per sottintendere e avallare soprattutto l’idea che una buona parte del pianeta fosse poco più di uno sfondo per la contrapposizione Usa-Urss; inoltre, dal momento che i paesi di questo gruppo erano per la maggioranza poveri, «Terzo Mondo» divenne sinonimo di povertà prima che di non-allineamento alle due superpotenze. Nel 2003, in un’intervista a L’Express, l’autore stesso sottolineava il malinteso: «Per noi», spiegava l’economista francese, «non si trattava di definire un terzo insieme di nazioni […]; era piuttosto un riferimento al Terzo Stato dell’Ancien Régime, a quella parte della società che si rifiutava di “essere niente”, come recitava il pamphlet dell’abate Sieyès. La nozione designa dunque la rivendicazione delle nazioni terze che vogliono entrare nella storia». Questa idea, proseguiva Sauvy, aveva però conosciuto una lunga eclissi e sembrava essere in ripresa con l’emergere, fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, di paesi come l’India, il Brasile e il Sudafrica e del loro rivendicare una identità peculiare rispetto all’Occidente.

Nord e Sud del mondo

Altre definizioni, poi, si sono alternate negli anni: la dizione «Nord e Sud del mondo», a guerra fredda finita, riprendeva la linea Brandt – dal nome del cancelliere tedesco Willy Brandt, presidente della commissione che nel 1980 produsse un noto rapporto sullo sviluppo internazionale – e intendeva fotografare la nuova linea di confine. Questa non correva più lungo la cortina di ferro separando l’occidente dal blocco sovietico dell’Urss e dell’Europa orientale, bensì lungo la linea che scindeva i paesi industrializzati del Nord America, dell’Europa occidentale, dell’ex Unione Sovietica, del Giappone e di altri paesi dell’Estremo Oriente – si stavano nel frattempo affermando anche le cosiddette Tigri Asiatiche – dall’America Latina, dall’Africa e dal Medio Oriente. Altre suddivisioni, frequentate per la verità più dagli accademici e filtrate solo di rado fino alle pagine dei giornali e nei dibattiti pubblici, erano quelle legate alle teorie della dipendenza che parlavano di centro ricco e periferia sottosviluppata e attribuivano al primo un ruolo di sfruttamento della seconda.

Di questo bouquet di espressioni, «in via di sviluppo» è stata la più longeva anche perché metteva d’accordo più persone o, se non altro, ne scontentava meno. Il suo richiamare il movimento («in via di») risultava incoraggiante per tutti, sviluppandi e loro tutori, e teneva a bada i critici perché era comunque meglio di «sotto-sviluppato»; infine – dettaglio fondamentale – piaceva ai media, sempre avidi di termini agili (in inglese «in via di sviluppo» diventa developing: un solo, pratico aggettivo).

Sviluppo in crisi

Ma poi, e molto prima che la Banca Mondiale decidesse il cambio di lessico, ad andare in crisi è stato lo sviluppo stesso, attaccato da ogni lato da dati e fenomeni che lo negano, o almeno ne stravolgono la fisionomia per come l’abbiamo conosciuta finora.

L’aiuto pubblico allo sviluppo è pari a un terzo delle rimesse dei migranti; il Brasile, l’India, la Cina, il Sudafrica da paesi assistiti sono diventati potenze regionali; a detta di analisti come la zambiana Dambisa Moyo, i mille miliardi di dollari in aiuti riversati sulla sola Africa in cinquant’anni hanno in larga parte mancato l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli africani e sono spesso finiti divorati da corruzione, spese di gestione e burocrazia kafkiana dei governi nazionali e delle istituzioni inteazionali.

E mentre, almeno in alcuni ambienti, ci si stava chiedendo se l’Occidente era poi davvero un modello di sviluppo, è arrivata la crisi finanziaria del 2008 a mostrare che il primo mondo, quello sviluppato, è molto più fragile e vulnerabile di quanto esso stesso pensasse di essere e ha al proprio interno sacche di povertà, emarginazione e degrado identiche a quelle dei paesi in via di sviluppo.

È in questo contesto che va collocata la decisione della Banca Mondiale di rivedere il lessico. I primi a riprendere la notizia sono stati paesi come l’India e il Messico, che la nuova classificazione «promuove» a paesi non più in via di sviluppo per il semplice fatto di non definire più nessuno stato come tale.

Che cosa cambia in concreto?

A dare retta a Charles Kenny, ricercatore presso il Centre for Global Development di Washington, alla variazione lessicale non si accompagna per ora un equivalente cambiamento della sostanza. Quello della Banca, avverte, è un piccolo passo e per di più traballante.

  • Innanzitutto, la suddivisione fra sviluppati e in via di sviluppo è ancora presente, eccome, nella versione on line – che sarà probabilmente la più consultata – del rapporto citato invece come spartiacque con il vecchio linguaggio.
  • Inoltre, aggiunge Kenny, la Banca continua nei fatti a decidere a chi concedere quali prestiti, dividendo i paesi del mondo in gruppi sulla base del reddito, li chiami o meno «in via di sviluppo».

Ed è esattamente questo il problema: servirebbe, piuttosto, una scala progressiva per cui ogni paese riceve l’aiuto di cui ha bisogno e nel contempo si impegna a dare il proprio contributo per risolvere i problemi globali. A maggior ricchezza maggior responsabilità e minor assistenza, insomma, non una rigida e binaria divisione fra stati «aiutanti» e «aiutati» a seconda che si trovino di qua o di là da una soglia di reddito.

Sana ironia

In attesa che si superi davvero la dicotomia e si conii eventualmente una nuova espressione, qualcuno sottolinea – con ironia – la necessità di un complessivo ripensamento del linguaggio dello sviluppo. L’organizzazione no-profit australiana WhyDev, ad esempio, indica «nove frasi dello sviluppo che odiamo (e i suggerimenti per un nuovo lessico)» [1].

Il capacity building? «Spesso è un eufemismo per dire che si stipano trenta persone in una stanza per un po’ di giorni e si cerca di ucciderle a forza di powerpoint, cartelloni e lavori di gruppo». L’espressione «in via di sviluppo»? «È semplicistico. Significa mettere i paesi del mondo in una scala da meno a più sviluppati, e lo scopo ultimo sarebbe quello di essere il più vicino possibile al nostro estremo della scala e il più lontano possibile dall’altro. E fidatevi, essere più vicini al nostro estremo significa somigliare ai Kardashian [famiglia statunitense di origini armene composta da imprenditori, attrici, modelle costantemente sulle riviste scandalistiche per i loro eccessi e lussi]. Nessuno può voler questo».

Il Development Research Institute dell’Università di New York è ancora più sarcastico nel suo dizionario dell’aiuto (AidSpeak Dictionary) [2]. La vera definizione di «sensibilizzare»? «Dire alle persone quello che devono fare». Gli «Obiettivi delle Nazioni Unite»? «Inventarsi soluzioni per problemi che non capiamo, pagando con soldi che non abbiamo». E che cosa intende davvero un professionista dello sviluppo quando dice di essere un esperto? «Beh, che ho letto un libro sul tema durante il volo».

Chiara Giovetti

[1] Weh Yeoh, Brendan Rigby and Allison Smith, 9 development phrases we hate (and suggestions for a new lexicon), in whydev.org, 13/09/2012.

[2] The AidSpeak Dictionary, in wp.nyu.edu, 19/09/2011.




Dal cielo bene sulla terra


Per il beato Giuseppe Allamano «la missionaria in modo particolare deve avere un cuore largo, grande e generoso, aperto, magnanimo per ogni miseria umana, pieno di amore per Dio» (Conferenze alle Suore 143-144).

E ai missionari raccomandava di essere «Missionari della bontà», di agire con tenerezza, pazienza, umiltà, mansuetudine, affabilità «senza asprezze, con bel garbo, carità e massima dolcezza».

A metà agosto celebriamo l’Assunzione di Maria al cielo, solennità che ricorda come Maria è presso il Figlio e prega per noi come a Cana. Teresa di Gesù Bambino scrisse: «Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra». La festa della Assunzione di Maria ci raccomanda di farlo fin d’ora. Così ha fatto il beato Padre Fondatore. «Trattava i convittori come un buon padre, interessandosi delle loro condizioni economiche, e riducendo la già tenue retta di pensione… E in casi pietosi sovveniva le loro famiglie» (F. Perlo). «Si interessava anche delle minime richieste; ascoltava le difficoltà; era tutto per l’individuo con cui trattava». E poi «rispondeva, dava il consiglio, la direzione, ma con un fare così paterno e persuasivo che si usciva dal colloquio con la convinzione di essere stati compresi, e che la via tracciata era proprio quella da seguire» (G. Cappella). Stesso atteggiamento si ritrova nel suo rapporto con i missionari. «Si preoccupava delle minime necessità materiali e spirituali di ognuno. Si interessava grandemente dei parenti dei membri dell’Istituto, specialmente delle loro mamme. E quando avvertiva qualche necessità, senza essee pregato, sovveniva con larga generosità» (G. Barlassina). Attuava così quello che raccomandava alla giovane superiora, sr. Margherita De Maria, sul suo comportamento con le suore: «Abbi grande pazienza, incoraggiando, consolando, sempre correggendo mateamente… Fa coraggio a tutte… Raccomanda sempre grande carità, longanimità…».

Pazientare, compatire, richiamare con dolcezza, curare il contatto personale, proporre ideali per essere all’altezza della propria missione, è il segreto della sua pateità. E raccomandava ai missionari: «Nelle difficoltà pensami vicino e comportati come pensi che ti avrei suggerito di fare». Questo ha un riflesso anche nell’attività missionaria. Quella del missionario è una spiritualità di presenza, rapporti personali, attenzione all’altro. I primi missionari nel Kenya lo calarono nelle loro decisioni pastorali, che prevedevano la visita ai villaggi per conoscere e contattare le persone, prestare attenzione alle loro necessità e sofferenze, portando aiuto e consolazione. È lo spirito ribadito dall’Allamano, che raccomandava: «Spandete il profumo dell’amore, facendo felici le persone».

Gottardo Pasqualetti




Eleazar Ben Yair eroe masada


Masada è il nome di uno sperone roccioso al cui culmine c’è un ampio pianoro che si innalza a quasi 400 metri sul livello della costa Sud Ovest del Mar Morto nello scenario arido e selvaggio tipico di quella zona. Masada, nei secoli prima di Cristo, era utilizzata come una roccaforte difensiva, ma fu Erode il Grande a fae una fortezza militare di prim’ordine. La sua superficie pianeggiante, ampia una decina di ettari, fu munita lungo tutto il suo perimetro di una doppia cinta di mura e a intervalli regolari furono ricavati circa un centinaio di depositi che, oltre ad arsenale e magazzini per ogni evenienza, servivano anche da abitazione per gli occupanti del luogo.Furono costruiti anche una sinagoga, grandi ripostigli, laboratori e numerose cistee per la raccolta dell’acqua piovana. In questa località che aveva tutti i presupposti per resistere ad un lungo assedio, si consumò nell’anno 74 la tragedia finale delle guerre giudaiche; di questo fatto parliamo con il comandante della fortezza di Masada, Eleazar Ben Yair.

Il racconto della tragedia di Masada ci è giunto attraverso gli scritti dello storico giudaico Giuseppe Flavio, un ebreo che simpatizzava per i romani fino a diventare lo scrivano della famiglia Flavia. Egli descrive il dramma che coinvolse Masada 5 o 6 anni dopo i fatti narrati. Anche se la sua narrazione è un po’ troppo di parte, c’è da dire che i fatti che espone corrispondono abbastanza a ciò che successe realmente.

Per far capire bene l’intera vicenda, puoi narrare come si svolsero i fatti?

Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70, un gruppo di giudei, appartenenti in particolare alle due sette più bellicose, quella dei «Sicari» e quella degli «Zeloti», che non volevano assolutamente arrendersi ai Romani, si rifugiarono a Masada e su quello sperone roccioso si organizzarono per resistere per lungo tempo all’assedio dei Romani.

Giuseppe Flavio narra come il generale romano Flavio Silva ponendo l’assedio a Masada, circondò alla base la roccaforte con un muro che la racchiudeva tutta, creando otto accampamenti con i 7000 legionari che aveva a disposizione.

Coloro che si erano rifugiati a Masada potevano resistere per un tempo indeterminato, perché il luogo aveva un solo stretto accesso, avevano a disposizione l’acqua piovana che veniva raccolta con grande cura nelle numerose cistee, dalla terra ricavavano verdura e cereali che insieme a qualche animale domestico dava il necessario per vivere, per cui l’assedio non li avrebbe mai costretti ad arrendersi per fame o sete.

Perciò occorreva conquistare Masada in altro modo?

Il sentirnero (detto «del serpente») che portava alla fortezza, lungo più di 5 km, era facilmente difendibile perché non consentiva a due persone di camminare appaiate. Era così stretto e tortuoso che anche se si fossero lanciati centinaia di soldati all’attacco, poteva essere difeso senza difficoltà da pochi uomini.

I Romani non erano certamente gente da arrendersi, per cui progettarono di costruire una rampa che dalla piana arrivasse all’altezza del costone più basso di Masada, rampa sulla quale si sarebbero lanciati per conquistare la sommità della fortezza.

Le cose andarono proprio così. In poco più di un mese, grazie al lavoro continuativo di migliaia di schiavi, l’enorme rampa venne portata fin quasi a raggiungere le mura. Su di essa costruirono poi una enorme torre tutta ricoperta di ferro e munita di catapulte, con le quali cominciarono a demolire le mura e «bombardare» i difensori.

Gli Zelori e i Sicari, vedendo il progresso inesorabile della potente macchina da guerra romana, quando anche la torre fu completata e una breccia fu fatta nelle mura, consci di non avere alcuna possibilità di vittoria di fronte alla schiacciante superiorità numerica degli avversari, la notte prima dell’assalto finale decisero di ricorrere a un’estrema soluzione piuttosto che arrendersi.

La decisione presa era terribile in quanto gli uomini, disubbidendo alle Sacre Scritture, decisero ognuno di passare a fil di spada i propri familiari, cominciando dalle mogli per poi sacrificare i figli e per ultimi i più piccoli.

E tra di loro come si sono comportati?

Estraendo a sorte, un ebreo avrebbe ucciso con la spada dieci suoi compagni fino a quando ne sarebbe rimasto solo uno e questi si sarebbe suicidato.

Quando i Romani, completata la rampa, misero piede sul pianoro di Masada, furono presi da grande stupore nel vedere che non incontravano alcuna resistenza e il luogo era completamente deserto.

I Romani, mettendo piede sulla piana della fortezza, rimasero sorpresi dal silenzio e dall’assoluta mancanza di ogni tipo di resistenza. Infatti non c’era più alcuno che potesse combattere contro di loro perché gli assediati, pur di non arrendersi, avevano compiuto quello che il mondo ebraico non considerava per nulla un atto di valore, cioè il suicidio.

Come fecero i Romani a capire cosa era successo?

I Romani, trovandosi di fronte a un luogo apparentemente abbandonato e con le case e i magazzini in fiamme, alzarono alte grida per vedere se si faceva vivo qualcuno. Le loro urla furono udite dalle uniche due donne superstiti che, uscite dal loro nascondiglio, raccontarono ai Romani tutti i particolari dell’accaduto.

Poi cosa successe?

Increduli dinnanzi al racconto delle donne, i Romani cercarono di domare gli incendi appiccati ovunque, ma quando entrarono nel palazzo reale e videro sul pavimento una distesa di cadaveri non provarono esultanza per aver vinto una battaglia e annientato il nemico, ma piuttosto tanta ammirazione per quello che venne considerato dai vincitori come un nobile gesto.

Con la conquista di Masada finiva la prima rivolta dei Giudei contro i Romani.

I vincitori lasciarono una guaigione a Masada mentre il grosso dell’esercito toò a Cesarea Marittima ove risiedeva Erode. In tutta la zona non rimaneva più alcun focolaio di resistenza, tutta la Giudea, così come la Galilea e la Samaria, era stata di nuovo sottomessa all’Impero di Roma.

Masada si sacrificò per non arrendersi, ma ugualmente venne conquistata dai Romani, la notizia di quello che successe si diffuse rapidamente per tutto l’Impero.

Sì, tanto che le comunità ebraiche sparpagliate lungo le coste del Mediterraneo vennero sospettate come potenziali focolai di ribellione. Vennero quindi sorvegliate e tenute d’occhio con un’attenzione particolare da parte delle legioni romane.

Sul popolo ebraico, che effetto ebbe?

Ne rimase un vivo ricordo per molti secoli, ma poi la storia di Masada cadde nell’oblio. Anche la sua esistenza fu dimenticata. La fortezza fu riscoperta nel solo 1834 e venne riportata alla luce dagli scavi del 1963 a opera di Yigael Yadin. È dalla prima metà del secolo scorso che è partito un processo di riscoperta e valorizzazione di quell’epopea, fonte di orgoglio identitario per l’Israele di oggi.

Quindi oggi Masada, dal moderno stato d’Israele, viene ricordata positivamente?

Per far capire quanto Masada sia profondamente radicata ancora oggi nel popolo di Israele, basti pensare che tutte le reclute che entrano a far parte dell’Esercito, della Marina o dell’Aviazione giurano sulla spianata di Masada con questa formula: «Masada non cadrà mai più, lo giurate voi?» e le reclute alzando il braccio destro rispondono all’unisono gridando: «Lo giuro!».

Questo fatto ci aiuta a capire come passato e presente siano strettamente intrecciati nella memoria del popolo di Israele, quello che anticamente fu un sacrificio collettivo e in definitiva una sconfitta della guaigione giudaica di fronte all’Impero Romano, si trasforma in un atto fondamentale nella vita dei giovani dell’Israele dei nostri giorni quando pronunciano un giuramento così impegnativo per loro stessi e per il loro paese.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 


Nota

Entrata nell’oblio dopo la conquista araba, la fortezza di Masada (oggi «patrimonio dell’Umanità» protetto dall’Unesco) toò alla luce nel 1834, mentre la storia dei suoi difensori entrò nella leggenda soprattutto dopo la seconda guerra mondiale con il crescere del sionismo, diventando funzionale a una visione eroica del nascente stato di Israele. Il racconto di Giuseppe Flavio (uno storico ebreo, spesso accusato di essere partigiano perché asservito ai Romani) è molto sobrio e si conclude con un giudizio molto negativo sul suicidio collettivo che, pur avendo suscitato una notevole ammirazione nei conquistatori, non poteva essere accettato dalla visione religiosa del popolo d’Israele.
Ai primi scavi degli anni 1963-64, ne seguirono altri, accompagnati da studi più approfonditi di storiografia comparata a opera delle stesse università israeliane. Tali studi hanno evidenziato come i difensori di Masada fossero stati membri del solo gruppo dei «Sicari», noti per il loro fanatismo e l’uso indiscriminato dell’assassinio come mezzo di lotta politica. Tale gruppo era stato cacciato per la sua eccessiva violenza da Gerusalemme dal popolo stesso, capeggiato dagli «Zeloti», subito dopo le prime fasi della rivolta contro i Romani. Fuggiti dalla città, nel 66 i «Sicari» avevano occupato Masada e, per rifoirsi di cibo, avevano razziato alcuni dei villaggi vicini massacrandone tutti gli abitanti, donne e bambini compresi.
Dalle tracce archeologiche risulta inoltre come non abbiano offerto molta resistenza ai Romani, i quali, dopo aver prima sistematicamente eliminato, dopo battaglie feroci, altre fortezze dove i fuggiaschi da Gerusalemme si erano rifugiati, da ultimo presero Masada quasi senza colpo ferire dopo alcuni mesi di assedio. Il suicidio collettivo, cui sopravvissero solo due donne e quattro bambini, colpì profondamente i Romani, che lo consideravano un atto di grande onore.
Si veda in proposito l’ebook «Masada Myth: Collective Memory and mythmaking in Israel», di Nachman Ben-Yehuda, distribuito in Italia da Feltrinelli.




Cari missionari 77

Padre Pietro (Parcelli)

Spett/le Redazione,

ricevo il vostro mensile da tempo, […] grazie a padre Pietro Parcelli, di cui ho letto la splendida lettera sul vostro numero di giugno. Pur essendoci pochi km di distanza fra la mia residenza e la sua, confesso che non sapevo che aveva lasciato l’Amazzonia nel 2014. Ora farò in modo di mettermi in contatto con lui. Volevo solo aggiungere che a parte le sue doti di missionario e religioso, ritengo il degno padre Parcelli uno dei pochi rimasti, per la sua missione, ad avere «passione, amore, altruismo» per il prossimo ed in particolare per i più bisognosi.

Vi ringrazio per l’ospitalità che mi concederete e mi è gradita l’occasione per distintamente e cordialmente salutarvi.

Massimo Finaldi
Trecase (Na), 13/06/2016

Fatti, non parole

Egregio Padre,
leggo nel numero di maggio della rivista Missioni Consolata dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze. Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza.

La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale stato di «guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere, con scopi umanitari coloro che vogliono da questi fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine il rischio di perdere la vita durante il trasporto.

Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti, (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di stupidità, sciocco buonismo, altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso «menefreghismo» di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta» che dovrebbero sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte, (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillismo burocratico», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono che sono anime sporche?

Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 28/05/2016

Vendi tutto

Caro direttore,

dopo aver letto «vendi tutto», lettera pubblicata sul numero di giugno u.s., non ho potuto fare a meno di porre mano alla penna (come si suole dire) e scriverti. L’argomento affrontato è di certo assai attuale e non fa altro che riproporre argomenti spesso utilizzati negli incontri televisivi e sulle pagine dei giornali a proposito del «tesoro della chiesa» che fa scandalo e andrebbe venduto o donato a beneficio dei poveri. Spesso anch’io confesso di trovarmi a riflettere su questi argomenti e sinceramente non so trovare risposte adeguate e convincenti. Quanto tu esponi nella risposta aiuta a capire o almeno a farsi un’idea della complessità del problema e comunque lascia aperte molte porte per ulteriori dibattiti e ricerca di nuove e rivoluzionarie soluzioni. Ti espongo qui ad alta voce una mia riflessione. La Chiesa è nata povera e ci si augurerebbe fosse ancora così, ma la storia è riuscita a sconvolgere e spesso a stravolgere il messaggio evangelico che sembra trovi molta difficoltà a penetrare nei cuori e a tradursi poi in comportamenti coerenti che applichino in concreto quanto detto dal Maestro. Ma una cosa credo sia importante da capire e che spesso, a cominciare dal sottoscritto, ci fa comodo pensare che non ci riguardi, e cioè che la Chiesa siamo anche noi, che il messaggio evangelico è anche rivolto a ciascuno di noi e che prima di pensare alla pagliuzza nell’occhio del vicino, ci si dovrebbe guardare allo specchio per controllare se magari sia opportuno che anche noi facessimo ogni tanto un po’ di pulizia e togliessimo le famose «fette di salame» che ci coprono non solo gli occhi ma anche la coscienza. Certo questo non esclude che anche la Chiesa in tutti i suoi apparati faccia un esame di coscienza per vedere se qualche cosa può essere migliorato. Aggiungo anche che è perché esiste la struttura secolare della Chiesa se molte missioni ricevono aiuti e possono continuare nell’annuncio della Buona Novella. Dimentichiamo a volte che se certe missioni sperdute nelle lande deserte o nelle foreste del mondo dove non giunge la televisione, ignorate dalla stampa scandalistica o dal politico contestatore tout court, riescono a portare silenziosamente il messaggio di speranza di Cristo con ospedali, scuole, dispensari o anche solo un sorriso, spesso lo possono perché la Chiesa tanto vituperata lo consente con il suo aiuto concreto. Anche se non spetterebbe a me citare il messaggio evangelico, ma ad altri ben più autorevoli, tuttavia ricordo quanto detto 2000 anni fa: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Messaggio stringato, ma preciso: nel «chi…» ci siamo tutti nessuno escluso. Prima di pretendere la coerenza dagli altri, cerchiamo di esigerla da noi.

Auguro a te e a tutta la tua magnifica squadra «buon lavoro» e dato il mese anche «buone ferie» delle quali anche tu avrai di sicuro bisogno e, a tutti i missionari e missionarie della Consolata, auguro un proficuo «Buon lavoro».

Giacomo Fanetti
11/06/2016

Accoglienza e solidarietà

Ci sono parole che inducono a larghe riflessioni, come, ad esempio, quelle che ha pronunciato papa Francesco, ricevendo il Premio Carlo Magno 2016, conferitogli dalla città di Acquisgrana. Egli ha rivolto un accorato appello all’Europa affinché, attingendo nuova linfa dagli ideali dei Padri Fondatori, affronti con rinvigorito spirito le sfide presenti; si renda creatrice e generatrice di nuovi processi sui quali costruire un futuro di libertà e di pace; sia culla di un nuovo umanesimo fondato sulla capacità di integrare, sulla capacità di dialogare, sulla capacità di generare.

L’Europa alla quale si rivolge il papa non è però solo quella dei capi di stato e di governo; è la «famiglia dei popoli»; sono dunque gli individui, singoli e associati, le formazioni intermedie, le istituzioni private e pubbliche, gli enti di governo fino al livello massimo rappresentato dallo Stato.

Allora, l’appello e l’auspicio del superamento dell’attuale fase di stanchezza – che esclude e sottrae dignità e libertà non solo a chi in, cerca di asilo o anche solo di cibo, preme ai confini d’Europa, ma anche a chi in essa rinviene le proprie origini e vorrebbe trovare il proprio futuro – passa necessariamente attraverso un processo che coinvolge la comunità dei popoli, oggi chiamati a dare nuovo vigore ad un concetto di unità europea fondata – usando le parole di Karl Lowith – «su un comune modo di sentire, di volere, di pensare …, a una determinata modalità di concepire e di dare forma a se stessi e al mondo».

In questa prospettiva i concetti di accoglienza e solidarietà assumono significati che trascendono la dimensione strettamente fisico–spaziale o materiale; non si tratta tanto – o solo – di trovare una sistemazione alloggiativa a chi cerca ospitalità o di somministrare mezzi di sussistenza agli indigenti; l’accoglienza e la solidarietà debbono tendere ad innescare processi di sviluppo dotati di una forza autorigenerante, capaci di generare altro sviluppo; che riservino ai beneficiari il ruolo di protagonisti e nei quali l’apporto di risorse economiche – pure indispensabile – non si risolva in sterile assistenzialismo ma costituisca mezzo per il raggiungimento di un’autonomia personale ed economica.

Oltre il territorio e l’elemosina

Il concetto di accoglienza non può e non deve dunque essere costretto in una dimensione territoriale e il concetto di solidarietà non può e non deve essere inteso come «elemosina»; una società che creda nella dignità umana deve saper trovare, proporre e realizzare modelli di vita e di sviluppo che – a prescindere dalla dimensione geografica di intervento – reintegrino l’individuo nelle condizioni indispensabili per l’esplicazione delle proprie facoltà e capacità, e lo rendano nel contempo consapevole che tutto quanto gli viene offerto costituisce un mezzo di sviluppo e di crescita di cui egli stesso diviene il principale artefice e responsabile.

Questo concetto – ne siamo convinte – è un punto chiave cui dovrebbero essere improntate le relazioni individuali e sociali tra chi offre e chi riceve accoglienza e solidarietà; è infatti il rispetto dell’uomo il fondamento dell’accoglienza e della solidarietà ed è sempre il rispetto dell’uomo – e, quindi, il rispetto innanzi tutto di se stesso e la coscienza della propria dignità – il fondamento dell’accettazione dei benefici offerti e il buon uso di essi.

La convinzione nasce dall’esperienza della cooperazione internazionale ove è stato constatato che, qualora gli interventi e gli aiuti posti in essere non si accompagnino alla formazione, nei beneficiari, della coscienza di dover essere responsabili del proprio auto-sviluppo, le iniziative intraprese sono destinate a concludersi non appena cessa la presenza degli organismi sostenitori e del flusso di denaro (vedi MC n. 7/2015, pag. 65); al contrario, laddove tale coscienza sia acquisita e presente, i processi di auto-sviluppo proseguono indefinitamente.

L’Assefa Ngo

Questa metodologia è stata, ad esempio, praticata con successo da Assefa Ngo indiana che, partendo da un piccolo gruppo formato da venticinque contadini ha raggiunto un milione di famiglie (circa cinque milioni di persone pari a più di tre volte la popolazione della Liguria) con progetti di sviluppo, e ben potrebbe essere adottata nella gestione dell’emergenza determinata dai flussi migratori verso il nostro paese e verso l’Europa; ciò al fine di evitare che le risorse messe in campo – anziché innescare processi di sviluppo e di integrazione – si esauriscano in meri interventi di somministrazione di mezzi di sussistenza (alloggio, vitto, eventuali altri interventi economici variamente denominati) e inducano ad una pretesa di essere mantenuti, senza porsi il problema del fatto che i costi vengono a gravare sui cittadini che lavorano e inducono in questi ultimi l’ostilità verso i nuovi venuti.

Responsabili del proprio autosviluppo

Crediamo, perciò, che sia fondamentale associare allo spirito di solidarietà ogni azione utile alla formazione, in capo ai beneficiari, della consapevolezza che essi stessi sono responsabili del proprio autosviluppo e che su questo principio debba basarsi la «relazione sociale» con la comunità di accoglienza. Ciò a partire dall’auto–organizzazione delle attività necessarie a provvedere agli elementari bisogni della vita quotidiana (approvvigionamento delle materie prime; preparazione dei pasti; pulizia ed igiene dei locali occupati; manutenzione ed eventuali migliorie degli stessi) fino all’offerta, a favore della comunità ospitante, di servizi e attività che costituirebbero un segno tangibile di non voler diventare un peso per la società, ma di volee divenire una componente attiva attraverso l’esercizio e lo sviluppo delle proprie capacità e abilità. Si è tentato di proporre agli immigrati un impegno volontario e gratuito, ma questo non sempre ha funzionato, come riconosceva amaramente Patrizia Calza, sindaco di Gragnano, dove i pochi immigrati che avevano accettato di fare volontariato, ad uno ad uno si sono poi ritirati: «Preferiscono fare i mantenuti» commentava in un recente convegno a Piacenza. Invece, se si trovasse modo di coinvolgere queste persone ad iniziare dalla individuazione dei progetti e inventando un qualche ritorno economico, il processo di autosviluppo potrebbe avere successo. Così è avvenuto per esempio nei comuni di Riace, Caulonia ed altri della costa jonica. E intanto si incomincia a parlare di «borse lavoro».

Questo modello di accoglienza potrebbe probabilmente attenuare le tensioni e i conflitti; favorirebbe perciò il dialogo e il processo di integrazione nei paesi ospitanti.

Si tratta di un modello che richiede di essere coltivato giorno dopo giorno; non è scevro da difficoltà ed ostacoli e forse potrà dare un ritorno immediato modesto; crediamo però che esso possa costituire un grande stimolo per riscoprire i valori della solidarietà e del rispetto della dignità umana e per restituire, a chi è disperato, un orizzonte di speranza.

Graziella De Nitto
e Itala Ricaldone
Assefa Genova Onlus
24/06/2016