Perdenti 18 don Minzoni martire del fascismo


La sera del 23 agosto 1923 don Giovanni Minzoni, mentre faceva ritorno a casa, fu attaccato da squadristi fascisti e ucciso a bastonate. Aveva trentotto anni. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885, cresciuto in una famiglia medio borghese, studiò in seminario e nel 1909 fu ordinato sacerdote. L’anno seguente fu nominato cappellano ad Argenta (provincia di Ferrara ma diocesi di Ravenna), da cui partì nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò. Animato da un profondo amore per la Chiesa e dotato di acuta sensibilità per i problemi sociali, si interessò subito alla vita politica e civile del paese avviando numerose iniziative per i parrocchiani più bisognosi. Le sue opere di carità, unite a un’intensa attività pastorale e sociale, avrebbero fatto di lui un coraggioso leader dell’organizzazione della gioventù cattolica della sua zona. Chiamato alle armi nell’agosto 1916, inizialmente prestò servizio nella Sanità in un ospedale militare di Ancona. Successivamente chiese di essere inviato al fronte dove giunse come tenente cappellano del 255° Reggimento di fanteria. Durante la battaglia del Piave, dimostrò un coraggio tale da essere decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare. Al termine della Grande guerra toò ad Argenta. Aderì al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, ma ciò non gli impedì di essere amico del sindacalista socialista Natale Gaiba, prima vittima nel 1921 della violenza delle camicie nere fasciste. Questo fatto e altri episodi lo portarono a rifiutare con convinzione l’ideologia fascista e di conseguenza avviare fra i giovani una robusta formazione civica e morale per lo sviluppo della democrazia; una prassi pastorale che in seguito pagò a caro prezzo.

Caro don Giovanni a leggere la tua succinta biografia si capisce subito che per te, il messaggio evangelico non doveva essere solo proclamato, ma bensì calato nella realtà anche in situazioni non tanto propense ad accogliere la Parola di Cristo.

La zona dove sono nato e cresciuto, da secoli aveva fama di essere piuttosto indifferente all’azione della Chiesa. Durante il Risorgimento era un’area franca per i «mazziniani repubblicani», il che è tutto dire! Se a questo aggiungi il carattere «sanguigno» dei romagnoli avrai modo di capire che il nostro universo era (ed è) molto particolare.

Oltre a questo, la tua spiccata sensibilità umana e sacerdotale ti precludeva di percepire il fascismo sotto una luce positiva.

I metodi violenti con cui il fascismo si era impadronito del potere mi impedivano di accettarlo come soluzione dei problemi sociali d’Italia. Nell’ottobre del ’22, per esempio, fui tra i pochi sacerdoti che si rifiutarono di esporre la bandiera tricolore davanti alla canonica per celebrare la marcia su Roma.

Tutto sommato, però, questo era un gesto, per quanto grave agli occhi dei fascisti, abbastanza scontato.

Sì, ma devi tener conto che poco prima avevo rifiutato di esser nominato cappellano della milizia fascista, creando non poco disappunto fra le loro file.

E non solo.

Avevo il «maledetto vizio» di prendere sistematicamente le difese dei braccianti agricoli nelle loro rivendicazioni salariali contro i proprietari terrieri quasi sempre privi di scrupoli, complici, finanziatori e spesso mandanti dello squadrismo fascista.

In Romagna le squadracce fasciste facevano capo a Italo Balbo e proprio ad Argenta avevano ucciso Natale Gaiba, sindacalista socialista.

Con Natale, pur essendo lui un socialista, eravamo in ottimi rapporti. Nella circostanza della sua morte condannai apertamente con parole di fuoco il barbaro assassinio e ignorai le ripetute minacce e gli avvertimenti anonimi che mi arrivarono a raffica.

Si vede che eri proprio immerso nella vita del tuo popolo, ne condividevi fino in fondo le preoccupazioni e desideravi un futuro diverso, in modo particolare per i contadini.

In una lettera a un amico avevo scritto: «Quando un partito (quello fascista, nda), quando un governo, quando uomini in grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano un’idea, un programma, un’istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre».

Parole forti, non c’è che dire…

Gli avversari mi davano la colpa per l’influenza non solo spirituale ma soprattutto morale che io avevo sui giovani del paese e della zona, ma sono ben lieto che loro seguissero i miei insegnamenti, tutta la mia azione pedagogica era ispirata al Vangelo e non al vanto di appartenere a una razza superiore o a un movimento politico che per imporsi adottava metodi violenti.

Certo è che il coraggio non ti mancava.

Anni prima per la salvezza della Patria, offersi la mia vita condividendo la trincea come cappellano militare insieme a migliaia di altri giovani italiani. Con l’arrivo del fascismo mi accorsi che una battaglia ben più aspra era in atto.

Puoi spiegarti meglio?

Di fronte al Movimento fascista che andava sempre più crescendo, invitai i miei giovani a prepararsi ad una lotta tenace utilizzando un’arma per noi cattolici democratici sacra e divina, ovvero quella dei primi martiri cristiani: preghiera e bontà. Tirarsi indietro equivaleva a rinunciare a una missione fondamentale per la nostra Italia.

Ma per i fascisti queste tue idee erano davvero pericolose.

Per questo il massimo esponente dello squadrismo locale invitava apertamente i suoi sgherri a impartirmi una sonora «lezione di stile», in quanto il mio impegno pastorale era visto come un ostacolo alla piena fascistizzazione della zona.

E così fu…

Infatti a due sicari, qualcuno dice al servizio di Italo Balbo e su mandato della Federazione fascista di Ferrara, venne comandato di prepararmi un agguato e di riempirmi di botte.

funerale-don-minzoni

In un’afosa serata estiva, don Giovanni Minzoni viene aggredito e ucciso a colpi di spranga sulla soglia della sua canonica. Tanto gli esecutori materiali quanto i mandanti del delitto verranno assolti in un processo farsa condotto in un clima intimidatorio e conclusosi a Ferrara nell’estate del 1925. Il «Corriere Padano», giornale fascista di Italo Balbo nell’edizione del 1° agosto 1925, esalta la mirabile e travolgente arringa dell’onorevole De Marsico che porta all’assoluzione di tutti gli imputati.

Bisognerà aspettare il 1947 perché il processo venga rifatto e i responsabili condannati, però ormai il reato è caduto in prescrizione.

Quanto alla Santa Sede, le proteste ufficiali si fanno sentire lungo tutto il ventennio fascista, ma riguardano propriamente gli episodi di aggressione ai singoli o alle organizzazioni e non mostrano alcuna critica di principio all’azione e ai metodi del governo fascista. Del resto Mussolini impone di riappendere il Crocifisso negli uffici pubblici con grande sollievo di gran parte della popolazione. L’Osservatore Romano sorvola sull’assassinio di don Giovanni Minzoni per mantenere gli equilibri che faticosamente si stanno costruendo tra il governo fascista e la Santa Sede.

La salma di don Minzoni riposa oggi nella Chiesa di Argenta, ove è stata trasferita da Ravenna nel 1983. Per quella cerimonia Giovanni Paolo II inviando un messaggio ricordò: «L’eccezionale significato assunto dal sacerdote martire del fascismo per l’intera nazione italiana», additando in don Minzoni un punto di incontro tra i credenti e coloro che, pur privi del dono della fede, ne riconoscono i valori.

Don Mario Bandera

Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso
Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso




Cari missionari si scrive crisi, migranti, Valmiki e tanto altro

Tempi di crisi

Egregio padre,
leggo nel numero di maggio di MC dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice Lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze.

Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza. La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale «stato di guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere con scopi umanitari coloro che vogliono fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine corrono il rischio di perdere la vita durante il trasporto. Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza, accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di: stupidità, sciocco buonismo e altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso menefreghismo di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta», che dovrebbe sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto
Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillità burocratica», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono sono anime sporche? Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (Va), 28/05/2016

Caro Angelo,
l’argomento da lei toccato è scottante e spesso affrontato in termini fuorvianti. Ne è prova la virulenza faziosa dei giorni di fine agosto, appena dopo il tragico terremoto nelle Marche e nel Lazio. Gli attacchi ai migranti che vivrebbero a spese nostre in hotel di lusso mentre i poveri terremotati battono i denti al freddo, dimostrano quanto si parli e straparli per sentito dire deformando dati che sono facilmente verificabili, usando la menzogna senza alcun pudore.
Certo l’Onu dovrebbe poter fare molto di più per prevenire le cause di tutte le migrazioni e non soltanto intervenire, come sta facendo in molti luoghi del mondo con grande competenza e professionalità, per gestire gli immensi campi dei rifugiati.

Creare ponti

Caro padre Gigi,
in riferimento all’editoriale di giugno è vero che i bambini creano spontaneamente dei ponti; sono degli «ingegneri» e degli «architetti» che non solo con i pezzi del Lego o con altri materiali giocano cercando di risolvere i problemi della staticità delle costruzioni con il vuoto sotto e gli appoggi distanziati, ma con facilità intraprendono legami interpersonali. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che se da un lato i bambini sono favoriti nella formazione di relazioni che includano, dall’altro lo fanno se trovano un contesto di adulti che li sostengano in tale percorso, con motivazioni e facilitazioni, in quanto i bambini sono anche i primi a cogliere differenze di vario genere. Creare ponti è quindi complesso a tutte le età in quanto le valutazioni, le conoscenze e l’esercizio della volontà implicati costituiscono un elevato investimento di energie. Negli ambiti in cui sono impegnata, familiare, pedagogico, giudiziario e della disabilità, è necessario creare ponti ininterrottamente per prevenire, per quanto possibile, conflitti, conclusioni sommarie ed esclusioni. Mi rendo conto però che non sono in gioco solo le differenze che si possono cogliere nell’immediatezza, quali, ad esempio, il ritardo cognitivo o il colore diverso della pelle, ma anche le idee e i meriti, ossia i valori di verità e di giustizia oltre ai diritti e agli interessi. Tali ponti domandano perciò volontà, manutenzione, ristrutturazione e, se necessario, abbattimento e ricostruzione; tutto ciò richiede non solo ingegneria ed architettura ma anche eroismo ed incessante preghiera per non essere soli nell’edificazione.

Milva Capoia
08/07/2016

Valmiki

Egregio signor Iazzolino,
innanzitutto la ringrazio di cuore. Nel marzo scorso ho trovato in chiesa una copia di MC e sono rimasto molto scosso dal suo articolo «A mani nude». Non riesco a togliermi dalla testa le realtà che lei descrive, riportando anche testimonianze dirette. Così la ringrazio e la stimo perché a mio avviso è molto importante far conoscere tali realtà in cui vivono tanti nostri fratelli. Mi sono subito abbonato alla rivista, che leggo volentieri ogni mese. Ho visto in internet delle foto di Valmiki con le ceste di vimini e le scopette, ma mi permetterei di chiederle, se può confermarmi che talvolta i manual scavengers usano addirittura le mani nude, senza scopetta (art. cit., p. 10) o se per caso non si tratta di un errore di stampa! O se per caso lei ha addirittura visto coi suoi occhi una cosa simile. La ringrazio in anticipo per la sua attenzione e resto in attesa di una sua cortese risposta. Cordiali saluti, in Cristo.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 05/08/2016

Gentile dott. Carlo,
la ringrazio profondamente per la sua email, che mi è stata inoltrata dalla redazione. Sono missive come la sua che danno un senso a quel che facciamo a Missioni Consolata. Con il nostro reportage dall’India, la mia collega fotografa Eloisa D’Orsi e il sottoscritto abbiamo provato a trasmettere l’intensità di un’esperienza che pure, ci rendiamo conto, abbiamo colto solo a un livello superficiale. La realtà dei Dalit, e dei raccoglitori manuali, è viva e pulsante, nelle grandi città indiane e ancora di più nelle aree rurali più remote, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. Per rispondere alla sua domanda, una delle donne da noi intervistate ci ha raccontato della scopetta che oggi usa come di una conquista, realizzata anche grazie all’organizzazione che citiamo nel testo, e che sta facendo un ottimo lavoro per portare il tema al centro del dibattito politico.

Personalmente, ritengo che sia utile vedere questa situazione di violenza strutturale attraverso la lente di rapporti di potere consolidati nel tempo, e che oggi, alla luce di cambiamenti sociali ed economici epocali che l’India sta vivendo, sta provocando il colpo di coda delle caste più alte. È una realtà che sta vivendo delle trasformazioni drammatiche e, nonostante la violenza che la resistenza a queste trasformazioni sta suscitando, un numero crescente di Dalit sta acquisendo consapevolezza dei propri diritti. Non è sicuramente un processo lineare, e le trasformazioni in senso neoliberista dell’economia indiana rischiano di cambiare solo la forma, ma non la sostanza, della marginalità Dalit. Ma abbiamo conosciuto molti attivisti e persone comuni che negli ultimi anni hanno cominciato a rifiutare lo status quo.

Spero di poter tornare a raccontare presto queste trasformazioni in un paese così complesso e affascinante come l’India. La ringrazio ancora per la sua email e le porgo i miei più cordiali saluti.

Gianluca Iazzolino
08/08/2016

Caro Gianluca,
la ringrazio per la sua pronta e cortese risposta. Sono i reportage come il vostro che scuotono e fanno progredire le coscienze. Denunciare all’opinione pubblica è già un modo per combattere quelle pratiche raccapriccianti, che rovinano tante vite. Perciò spero e le auguro che Missioni Consolata ed altre pubblicazioni possano far conoscere al maggior numero di persone quelli e altri soprusi che affliggono tanti nostri fratelli. Si legge ad esempio in internet che per i membri delle caste superiori stuprare una dalit non è immorale, anzi, purifica la vittima, però mi piacerebbe sapee di più da fonti certe. Le porgo i più cordiali saluti.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 08/08/2016

Di migranti e di Ius soli

Carissimo padre Gigi,
dopo aver letto il numero di luglio di MC non posso fare a meno di scriverLe ancora una volta. La premessa è sempre la stessa: non sono interessato alla polemica ma semplicemente alla discussione.

Riguardo all’articolo «Risorse migranti»: lodevole l’iniziativa Coro Moro, spero di avere occasione di ascoltarli (ormai Gipo non c’è più, le canzoni nella mia lingua sono difficili da ascoltare). Ma siamo sicuri che tutti i mòro (così mi dice vada scritto Gioventura Piemontèisa) richiedenti asilo siano onesti? Non conosco le condizioni dei paesi citati, ma il collega ghanese che siede nel mio ufficio dice che non c’è ragione per loro di scappare dal Ghana. Credo all’articolo «buonista» di Giulia Bondi o al mio collega che fa il master all’Università di Ulm (Germania, ndr) e lavora part time con me?

Non è che magari loro come me hanno lasciato il paesello natio per semplici motivi economici? Hanno preso una scorciatornia, ovvero immigrare clandestinamente per poi chiedere asilo politico e sperare nelle lungaggini burocratiche? Il tutto a discapito degli stranieri regolari come il mio collega (oppure mia moglie, ora italiana, che tutte le volte che veniva in Italia da fidanzati era dotata di visto turistico ed a seguire di permesso di soggiorno).

Vengo ora all’appello per lo Ius soli. Quale sarebbe la precarietà esistenziale per gli stranieri minori nati in Italia? L’unica differenza tra un italiano e uno straniero sta nel diritto al voto, se minore comunque non può votare anche se italiano. Se un francese nasce in Italia e a due anni torna in Francia con la famiglia è italiano? Al momento penso che la cittadinanza, ai minori, vada legata alla famiglia. Quale sarà il vantaggio per la società italiana se concediamo lo Ius soli?

Luca Medico
Neu-Ulm (Germania), 13/08/2016

Caro Luca,
provo a condividere con lei alcuni punti.

Migranti economici o rifugiati politici. È un fatto ormai ben documentato che i migranti economici sono in aumento, segno anche che le nostre nazioni (nonostante la percezione negativa che noi ne abbiamo) sono ancora ben più ricche e floride di quelle da cui provengono i migranti. Le previsioni sono che i migranti economici continueranno ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico che rafforzerà i fenomeni di siccità e fame in molti paesi. Un fatto però è certo: sta diventando sempre più difficile distinguere tra rifugiati politici e migranti economici, anche perché, in molti paesi, le due realtà (politiche vessatorie e economie disastrate o schiavizzanti) sono strettamente collegate. Tenga poi conto che molte di queste situazioni sono mantenute e sostenute da un sistema economico (di cui noi siamo parte beneficiaria e spesso anche vittima) che perpetua le ingiustizie e favorisce i regimi basati sul privilegio di un’élite, per poter continuare a sfruttare impunemente risorse naturali e umane di tanti paesi a beneficio dell’arricchimento sfacciato di pochi (i 62 super ricchi che oggi controllano metà della ricchezza mondiale, secondo l’Ong Oxfam, e diventano sempre più ricchi nonostante la crisi).

Ius soli. La proposta oggetto del nostro appello chiede che il diritto di cittadinanza venga riconosciuto «agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino all’età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini». Essa è una richiesta strettamente legata alla famiglia del minore.
E non mi sembra che la differenza stia solo nel diritto di voto, pur importante. È piuttosto il sentirsi parte, l’inclusione e l’appartenenza, il sentirsi a casa. In fondo questi ragazzi vivono come in un limbo: non sono né italiani né del paese di origine dei loro genitori.

Quali i vantaggi per noi? Per noi ci sono tutti i vantaggi che vengono dall’immigrazione, senza la quale sicuramente nel 2050 saremo dieci milioni di meno di quanti siamo oggi e mediamente tutti più vecchi (vedi dati Eurostat resi noti in agosto) e con pensioni ridicole. Lo ius soli farà sì che i nuovi cittadini siano e si sentano italiani a tutti gli effetti e non apolidi appena tollerati e disprezzati.Forse non piace a certi difensori della purezza patria, ma conviene ricordare che noi italiani siamo tali proprio perché siamo una mescolanza incredibile di popoli diversi. La mescolanza di geni di genti autoctone con quelli di popoli Celti e Normanni del Nord, Arabi e nordafricani del Sud, Fenici, Greci, Ebrei, Slavi, Turchi e Mongoli dall’Est, e spagnoli e francesi dall’Ovest, ha fatto di noi quel paese bellissimo e contraddittorio che siamo. La mescolanza delle «razze» (per usare un termine scorretto e obsoleto) non porta alla degenerazione della «razza», ma la migliora e la rende più sana, intelligente e resistente alle avversità.

Moschee negate

Leggo sulla rivista di giugno l’interessante articolo sulle «Moschee negate». Nell’articolo si sottolinea il carattere «laico» dello stato. Mi si permetta di non essere d’accordo con l’aggettivo descrittivo «laico»: per molti oggi tale aggettivo connota o intende connotare uno stato non solo distante dai credenti, ma che addirittura li vorrebbe relegati in ambito «sacrestitoriale», lì zitti e buoni, solo ad incensare e far tiritere di preghiere. Mi pare ovvio che tale descrizione auspicata da tanti, non corrisponde ad una chiara posizione costituzionale sulla libertà religiosa, per cui i credenti hanno e debbono avere piena libertà d’azione e pari dignità in quanto cittadini alla pari degli altri. Allora perché non iniziate a definire lo stato come poi è in realtà per costituzione (costituenti furono anche i cattolici), come stato solo e sempre «plurale», di tutti, cioè, e per tutti?

Bruno Cellini
07/07/2016

Abbiamo chiesto all’autore dell’articolo, prof. Alessandro Ferrari un commento. Ecco quanto ci ha scritto:

Rispondo al volo.
Lo stato italiano è costituzionalmente laico proprio perché impegnato a rispettare il pluralismo confessionale e culturale, come ha affermato la Corte costituzionale nella sua notissima sentenza n. 203 del 1989. Di conseguenza, quando si parla di laicità come supremo principio costituzionale non c’è alcuna contraddizione con il principio pluralistico, anzi, lo si declina con particolare – specifica – attenzione al fattore religioso. La laicità costituzionale non è una laicità anticlericale, né una «sana laicità», non mira alla privatizzazione del fattore religioso ma ad assicurare che le legittime manifestazioni pubbliche delle fedi religiose e «convinzionali» possano esprimersi nel rispetto dell’uguale libertà di ciascuno.
Alla prossima,

Alessandro Ferrari
12/07/2016




Una vita per dono


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Carissimi Missionari e Missionarie,

Il prossimo 17 settembre celebriamo il X anniversario del martirio della nostra sorella, la Serva di Dio Suor Leonella Sgorbati, uccisa nel 2006 a Mogadiscio – Somalia. Le ultime sue parole furono:

«Perdono, perdono, perdono…». Il martirio di Suor Leonella è espressione della radicalità dell’offerta della propria vita e profezia della sua donazione. Il suo martirio è profezia che rende visibile l’amore e testimonia il dono e la responsabilità che abbiamo nella nostra vocazione di consacrati per la missione. Mettiamoci all’ascolto di Suor Leonella per riscoprire la bellezza della nostra vocazione e per amare senza riserve e con grande generosità nella nostra missione. Leonella c’insegna il perdono, il perdono come regalo per rompere il circolo vizioso di rispondere al male con il male, il perdono che ci rende liberi per immaginare il nostro futuro, il perdono come dono e questo ci basta!

  1. La Causa di Beatificazione e Canonizzazione

leonella-office-face1.1 La richiesta del X Capitolo generale MC

Il 20 giugno 2006 la Direzione Generale MC, in un incontro con le Superiore di Circoscrizione, aveva indetto un tempo di preparazione al primo centenario dell’Istituto che si sarebbe celebrato nel 2010.

La domanda che accompagnava questa indizione era la seguente: «Che cosa chiede lo Spirito di Dio all’Istituto MC, oggi, per essere fedeli all’intuizione carismatica del Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, che ci volle donne consacrate, votate alla Missione anche a costo della vita?».

La risposta a questa domanda fondamentale ci venne appena qualche mese dopo con il martirio di Suor Leonella Sgorbati che, come Gesù, si è offerta nel perdono e nell’amore totale.

L’Istituto lesse, nel dono di vita di Suor Leonella, un richiamo forte del Signore alla fedeltà alla Missione. Per questo, il X Capitolo generale MC del 2011 chiese alla Direzione generale di dare inizio al procedimento per riconoscee il martirio:

«Suor Leonella Sgorbati ha vissuto l’amore incondizionato a Cristo e ha realizzato il desiderio del Fondatore: “servire la missione anche a costo della vita” (cf. Conf. S., 24 settembre 1916). Alla luce delle parole del S. Padre Benedetto XVI, della testimonianza di tante Sorelle e di tanta gente, il X Capitolo Generale chiede alla Direzione generale di dar inizio alla procedura per il riconoscimento del martirio di suor Leonella Sgorbati avvenuto a Mogadiscio il 17 settembre 2006 perché diventi per tutte noi esempio di come vivere la missione, anche nel contesto dell’oggi».

Dopo aver valutato la richiesta del X Capitolo generale 2011, l’attuale Direzione generale MC, considerando importante dare avvio all’Inchiesta Diocesana per il riconoscimento del martirio di Suor Leonella, ha nominato la Postulatrice della Causa nella persona di Suor Renata Conti, MC. Verificata e raccolta in un Dossier la “Fama di Martirio e di Segni”, la Direzione generale ha quindi domandato – attraverso la Postulazione – al Vescovo competente, Sua Eccellenza Mons. Giorgio Bertin, Vescovo di Djibouti e Amministratore Apostolico di Mogadiscio, di volere accogliere questa richiesta perché Suor Leonella, con la sua vita e soprattutto con la sua morte per la fede, potesse essere un esempio e incoraggiamento per le sorelle dell’Istituto nel loro impegno missionario, sostenere i Cristiani del Medio Oriente3 nel loro cammino di fedeltà a Cristo e alla Chiesa e dire alla società che la santità della Chiesa è visibile nei suoi membri, anche oggi.

1.2. L’iter dell’Inchiesta diocesana

Il primo passo realizzato dalla Postulatrice fu di raccogliere e sistematizzare la documentazione che riguardava la “Fama di Martirio e di Segni” di cui godeva Suor Leonella.4

Il Dossier elaborato riunisce, per temi, i numerosi documenti pervenuti all’Istituto in occasione della sua morte.

Il giorno 25 settembre 2012, a Nepi (VT – Italia), in Casa Generalizia MC, S.E.R. Mons. Giorgio Bertin diede inizio ufficiale al percorso dell’Inchiesta Diocesana con la S. Messa. Parteciparono numerosi Missionarie e Missionari della Consolata e tanta altra gente.

A nome dell’Istituto e accompagnata dalla Postulatrice, Madre Simona lesse il Supplex libellum, ossia la richiesta formale di dare inizio alla Causa. Successivamente, Suor Renata presentò al Vescovo il Dossier contenente i documenti sopra citati.

Mons. Bertin rispose con il seguente messaggio:

«Con immensa gioia e gratitudine verso Dio, accolgo la vostra domanda di dare inizio all’Inchiesta Diocesana per il riconoscimento del Martirio di Suor Leonella Sgorbati, uccisa nella mia Giurisdizione Ecclesiastica, in Somalia, il 17 di settembre del 2006. La sua vita e il suo martirio nel segno del perdono ci sono di esempio e di motivo per dare inizio al cammino di verifica e di ricerca attraverso le testimonianze e lo studio dei documenti allegati al dossier. Possa lo Spirito di Dio illuminare e sostenere quanti saranno impegnati nel portare avanti l’Inchiesta Diocesana».5

Da settembre 2012 a settembre 2013 Mons. Giorgio Bertin, in collaborazione con la Postulatrice, prepararono ciò che conceeva l’organizzazione del tribunale:

  • Nomina delle commissioni storica e teologica  per lo studio degli scritti non editi: Lettere circolari alle sorelle del Kenya, due diari personali e la corrispondenza

La commissione storica fu conformata da: P. Antonio Magnante IMC, Mons. Luigi Paiaro, Vescovo emerito della Diocesi di Nyahururu (Kenya) e Suor Chiara Piana MC; la commissione teologica da: Mons. Carlo Ghidelli, Vescovo emerito della Diocesi di Lanciano (Italia) e P. German Arana SJ, Rettore del Seminario Pontificio Comillas (Spagna).

  • Nomina dei membri del Tribunale per l’iter diocesano.

Essi furono: P. Francesco Giuliani IMC, giudice delegato; P. Giovanni Tortalla, promotore di giustizia; Suor Kathy Meier MC, notaio attuario; Signor Vincenzo Marini e signora Marilena Credidio, notai aggiunti.

L’Inchiesta Diocesana ebbe inizio in Djibouti il 16 di ottobre 2013 alle ore 09:00 e si concluse il 15 gennaio 2014 alle 12:30 con una S. Messa di ringraziamento per i lavori portati a termine. L’inchiesta si sviluppò in quattro tappe: prima tappa a Djibouti, seconda tappa a Nairobi con la partecipazione anche dei testimoni della Somalia, terza tappa nel Meru e quarta tappa a Torino con la partecipazione anche dei familiari. I testimoni furono 46: 2 vescovi, 1 sacerdote diocesano, 4 Missionari della Consolata, 2 Religiose di altre Congregazioni, 19 Missionarie della Consolata e 18 laici.

Alla conclusione dell’Inchiesta Diocesana e dopo aver ottenuto il “nulla osta” della Congregazione per le Cause dei Santi, la Postulatrice elaborò la Positio che venne consegnata alla stessa il 7 aprile 2016.

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  1. Importanza della testimonianza martiriale di Suor Leonella

 Il 17 settembre 2006 Suor Leonella Sgorbati veniva colpita a morte da una raffica di colpi di arma da fuoco. Con lei moriva la guardia del corpo, Mohamed Mahamud, che aveva cercato di difenderla. L’assassinio della nostra sorella la unisce di fatto alla scia di sangue che ha segnato indelebilmente la storia recente della Somalia: Mons. Salvatore Colombo (Mogadiscio, 1989), p. Pietro Turati (Gelib, 1991), Graziella Fumagalli (Merca, 1995) e Annalena Tonelli (Borama, 2003).

Il telegramma inviato da Benedetto XVI tramite il Segretario di Stato all’Istituto MC pare rivolto a tutta la Chiesa:

«[…] Nel riaffermare ferma deplorazione per ogni forma di violenza Sua Santità auspica che sangue versato da così fedele Discepola del Vangelo diventi seme di speranza per costruire autentica frateità tra i popoli nel rispetto reciproco convinzioni religiose di ciascuno […]».

Poche righe, senza articoli né punteggiatura, com’è lo stile del telegramma. Ma dove si stigmatizza con chiarezza tutta la semplicità e la grandezza della fede di chi muore per una causa in cui crede e in cui investe la vita, tutta. In queste poche righe è espressa una convinzione forte: Suor Leonella non è morta, ha versato il sangue. E nel linguaggio della Chiesa, «l’azione del “versare il sangue per…” è l’azione dei martiri».6

Possiamo desumere l’importanza della testimonianza martiriale della Serva di Dio per la Chiesa perseguitata del Medio Oriente anche da alcune espressioni di una lettera che il Patriarca Latino di Gerusalemme, Fuad Twal, indirizzò al Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in data 4 aprile 2013 con copia a Mons. Giorgio Bertin ofm.

Nella lettera sopra citata il Patriarca rilevava come i Vescovi Latini per le Regioni Arabe si auguravano che il sangue versato da Suor Leonella Sgorbati fosse come l’acqua che fa fiorire il deserto. Essi erano convinti che l’amore fino a versare il sangue e le ultime parole pronunciate da Suor Leonella sarebbero state, per tutti gli abitanti del Coo d’Africa, l’esempio di una riconciliazione e di un perdono sempre possibili.7

Ricordare il martire è un inno alla vita e non alla morte. Giovanni Paolo II, durante la giornata dei Martiri celebrata al Colosseo nell’anno giubilare del 2000, ricordava che la memoria dei martiri non doveva andare perduta, anzi doveva essere ricuperata in maniera documentata perché la storia del martirio è quella di una lotta tremenda e tragica, che va scritta, capita e non dimenticata.

Anche Papa Francesco rileva come la Chiesa è chiamata a ricordare i martiri perché essi ci insegnano che dobbiamo mettere Cristo al centro della nostra vita ed il loro esempio ha molto da dire a ciascuno di noi e alla Chiesa tutta.9 Nella sua visita apostolica in Corea il Santo Padre rilevava come l’esempio dei martiri mostra l’importanza della carità nella vita di fede e la loro eredità dove ispirare tutti gli uomini e le donne di buona volontà ad operare in armonia per una società più giusta, libera e riconciliata ed aggiungeva che essere martiri voleva dire soprattutto essere testimoni di Gesù.

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  1. Dimensione Eucaristica e martiriale della vocazione missionaria in Suor Leonella

Suor Leonella operò nella sua vita la scelta radicale di eliminare tutto quanto lei definiva il «fascino della nullità»11, per impegnarsi con passione e determinazione affinché lei e Gesù non fossero solo

«buoni vicini di casa»,12 ma si stabilisse tra loro una unione sponsale.13 Ella cercò la completezza umana e spirituale con Gesù, con accenti di squisita delicatezza. In tutte le espressioni che Suor Leonella usò rivolgendosi a Gesù,14 si percepisce come una interiore nostalgia mistica:

«Che nostalgia – ella annotava quando andava a salutare le Suore Sacramentine appena arrivate in missione – […] nostalgia di una vita che ha solo il Signore per ragione e motivo».

Il martirio di Suor Leonella è stato preparato da un’intensa relazione con Gesù nel mistero Eucaristico nel corso di tutta la vita. Nei suoi diari si percepisce però che durante il mese allamaniano, vissuto a Castelnuovo nel febbraio del 2006, essa fu particolarmente e gradualmente attratta da questo mistero e Gesù Eucaristia le concesse grazie particolari d’intima unione, fino al punto di sentirsi una cosa sola con Lui, secondo le parole stesse di Gesù:

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (Gv 6, 56-57).

Diceva: «Se il Suo corpo e il mio sono una cosa sola, se il Suo sangue e il mio sono una cosa sola, allora è possibile essere sempre in Lui, dono d’amore, dono di Lui, per tutti. Sempre, in ogni momento! Allora è possibile testimoniare sempre che Lui c’è e ci ama».

Le parole di Gesù erano per lei esperienza e le ripeteva continuamente. Questa esperienza l’aveva segnata come un marchio di fuoco.16 Fu proprio all’interno di questa esperienza che Suor Leonella percepì chiaramente la chiamata di Gesù a vivere il mistero eucaristico fino alla fine, fino al dono della vita, fino allo spargimento del sangue, come Lui e a questo invito rispose con il suo Sì d’amore. Non sapeva come questa chiamata si sarebbe concretata; era sicura però che si trattasse del dono della sua stessa vita, in maniera radicale e in un tempo breve. Lei disse il suo Sì, con tutto l’amore del suo cuore, con gratitudine e umiltà per tanta grazia, con tanta consapevolezza della sua fragilità e sofferenza e del fatto che l’amore fedele per Gesù era più forte.17 Da quel giorno quante volte Suor Leonella ha ripetuto il suo Sì, quante volte ha supplicato di pregare per lei perché fosse fedele!

Quando fu colpita a morte, le sue ultime parole non potevano essere se non quelle di Gesù: “Perdono”!

Suor Leonella scriveva nel suo diario n. 2 il 27 febbraio 2006:

«Il mio andare in Somalia è la risposta a una chiamata: tu Padre hai tanto amato la Somalia da donare il tuo Figlio… e io dico con lui “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue donato per la salvezza di tutti”. Ho solo questo momento presente per… »

La sua penna si ferma qui. Forse non ha osato andare oltre.

  1. Missione come dialogo di vita

 Suor Leonella dona la sua vita, fino all’effusione del sangue, nella missione tra i non cristiani, da lei vissuta come un andare a cercare i più poveri, coloro che non hanno mai conosciuto il messaggio dell’Amore di Dio, la mitezza e la mansuetudine del Figlio. Scriveva alle sorelle del Kenya nella circolare dell’11 novembre 1994:

«Sorelle carissime, rivediamo insieme le nostre posizioni; Siamo disposte a schierarci dalla parte dei più poveri? Siamo disposte a scelte che ci renderanno forse meno efficienti, più povere, più spoglie e più abbandonate alla Provvidenza? Siamo disposte ad andare a cercare coloro che il messaggio dell’Amore di Dio non l’hanno mai conosciuto, anche se questo implica distacco e sacrificio fino a dare la vita? Siamo disposte a dare la vita, a dare il sangue se occorre testimoniando la mitezza e la mansuetudine del Figlio? Si, io credo di si. Credo che nel cuore di ciascuna di noi è viva e vibrante la freschezza della nostra prima chiamata…».

Per Suor Leonella la missione era dialogo di vita e dono senza riserve. Il 28 febbraio 2006 scriveva nel suo diario 2, rivolgendosi a Gesù:

«Forse anche a te sarà costato “lasciare” il Padre e partire per la tua Missione, ma il tuo amore per il Padre e per noi ha vinto, magari anche tu hai pianto … ma hai teso le braccia alla volontà d’amore … e la tua missione ci ha salvato, mi ha salvata… Tu per primo hai amato e hai, per amore, dato la vita… Il Tuo Sì è nostra vita. Non c’è amore più grande. Tu sei con me… Buon Pastore. La missione Somalia è ciò che Tu mi chiedi ora. Ti dono la mia vita in tutto e per tutto come Tu desideri… Mi chiami ad amare Te, ad amare le sorelle, ad amare la gente, i Fratelli dell’Islam… Possiedimi Signore e ama in me… che io sia una cosa sola in te e Tu possa donare loro la gioia di sentirsi amati da te».

Qui il dialogo della vita tocca le radici più profonde del nostro carisma!

«Insieme a Suor Leonella, un Somalo, un uomo musulmano, ha versato il suo sangue nel tentativo di salvarla, dopo che il primo sparo l’aveva raggiunta. Si tratta di Mohamed Mahamud, sposo e padre di quattro figli. […].

Suor Leonella e Mohamed Mahamud uniti per sempre nel dono della vita. Lei offrendola per i suoi Figli e Figlie Somali, Lui in un gesto estremo per tentare di salvarla …

Lei, donna cristiana, fedele al Suo Signore e alla Missione, lui, uomo musulmano, certamente fedele ad Allah ed al Profeta; uniti nel servizio al loro Popolo, sognando la Pace, la fratellanza … Mohamed per i suoi figli, Suor Leonella per ogni Somalo e per tutti i popoli …

C’è un dialogo di vita, stupendamente in atto in questo gesto; c’è il superamento di barriere, il dono di sé, per sempre… mistero dell’Amore, mistero di Pasqua, di Risurrezione… speranza e consolazione».18

È importante continuare ad ascoltare, approfondire e cogliere il messaggio di “Vita” di Suor Leonella, per tutti noi, consapevoli che il suo esempio ci stimola a vivere la Missione cercando strade di comprensione, riconciliazione e dialogo, nella certezza che solo quando sapremo unire cuore e forze, vita e sangue, potremo costruire il Regno a cui tutti, musulmani e cristiani, uomini e donne di ogni religione e cultura, che credono nella Vita, sono chiamati a dare il proprio apporto.

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  1. Suor Leonella e la Consolata

Un altro aspetto molto presente nella vita di Suor Leonella è il rapporto con la Consolata. Un rapporto filiale molto sentito. Nel periodo in cui Suor Leonella fu Superiora regionale in Kenya, quasi tutte le sue circolari alle sorelle della Regione parlano di Maria. Suor Leonella percepisce Maria come Colei che, nel suo Figlio, dona la Consolazione. Suor Leonella non stacca mai Maria da Gesù e dalla missione. Diceva alle sorelle:

«[…] siamo chiamate ad essere presenza umile e rispettosa, come Maria, che condivide la vita ed il cammino di fede delle persone e dei popoli… . Presenza di consolazione, rimanendo con il popolo afflitto o in festa, fidandosi più di Dio che dell’umana prudenza con il coraggio dello Spirito per portare il Vangelo nelle situazioni concrete della vita, specialmente nei momenti di rischio, di insicurezza, di scomodo, fino a dare la vita».19

Suor Leonella si chiede: «Che cosa vuole dire “donare la Consolazione” oggi? Cosa vuol dire entrare nel mistero dell’Incaazione, e diventare il Figlio oggi? Perché è proprio nel rapporto filiale che conosceremo per esperienza che cosa è la Consolazione e che cosa significa essere Consolate per Consolare.» E risponde lei stessa:

«Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione e della compassione nella mia comunità, libero di fare in me il cammino che il Padre ha fatto fare a Lui con le scelte che il Padre indica. Libero di farmi percorrere il cammino della pazienza, della mansuetudine, dell’umiltà che passa attraverso l’umiliazione…

Libero di amare attraverso di me con l’Amore più grande, l’Amore che va fino alla fine… che è più forte dell’odio e dell’inferno… nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento… e per diventare così abbiamo bisogno che la Consolata generi in noi questo Figlio Consolazione affinché lo possiamo riconoscere anche nel volto degli umiliati ed oppressi».

Nella festa della Consolata del 1996 scriveva:

«Contempliamo la Madre che accoglie nel suo Grembo e genera per noi la Consolazione stessa – il Figlio – e generando Lui genera anche noi in Lui “figlie nel Figlio” Missionarie dell’Amore del Padre oggi, perché portiamo la Sua Tenerezza in questo nostro tempo dove l’umanità ed il creato tutto sembra gemere e grondare sangue!

Contempliamo la Consolata nell’attitudine di donarci il Figlio! Questa Madre che diventa “Tabeacolo e Calice” affinché nutrendoci di questo Figlio che lei ci porge diventiamo davvero figlie nel Figlio!

Il Fondatore passava ore a contemplare la Madre, passava ore ad adorare il figlio reso pane spezzato per noi! E così, anche noi, diventiamo consapevoli e capaci, per l’energia stessa del nostro carisma, di dare risposte d’amore coraggiose alle sfide dell’oggi perché l’umanità riscopra la sorgente della sua identità e felicità».

  1. Conclusione

Carissimi Missionari e Missionarie, il prossimo 17 settembre sia per noi tutti una giornata di viva memoria del dono di Suor Leonella! Celebriamo con intensa gratitudine questo anniversario, nelle nostre comunità tra i diversi popoli a cui siamo inviate, possibilmente assieme: Missionari, Missionarie e Laici Missionari della Consolata.

Carissime e carissimi, mostriamo con la nostra vita sull’esempio di Leonella, che l’amore è più forte della morte. L’amore ispira la fiducia, scaccia la paura e porta la pace. Un amore disposto anche a morire, come Gesù, come Leonella e tanti altri che lo hanno capito. Senza amore, nessun gruppo di persone può diventare comunità. È l’amore più forte della morte a rendere i membri della comunità capaci di restare insieme nonostante i propri difetti e fallimenti. È l’amore a costruire relazioni di fiducia che danno pace a una comunità. È l’amore a trasformare le persone in testimoni premurosi e disposti a sacrificarsi gli uni per gli altri. È l’amore del Signore risorto che prende forma in una persona e in una comunità. Ciò di cui il mondo ha bisogno ora è l’amore. È la sola cosa di cui vi è sempre troppo poco. Suor Leonella c’insegna questo amore, c’insegna che una comunità può essere veramente missionaria solo quando vive l’amore, il perdono e la misericordia. È di questo che il mondo, noi missionarie e missionari, tutti abbiamo bisogno adesso! Buona missione!

Sr. Simona Brambilla MC, Superiora generale della Missionarie della Consolata
P. Stefano Camerlengo IMC, Superiore generale dei Missionari della Consolata   

 




Nel Brasile olimpico inedita vittoria per gli indigeni


Vale quanto una medaglia d’oro. Anzi di più, perché è una vittoria clamorosa e inaspettata degli “ultimi”, (o meglio ritenuti tali): gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana. Sostenuti da Greenpeace, che ha raccolto in poche settimane più di un milione di firme a loro sostegno in venti paesi, gli indios Munduruku sono riusciti a bloccare una mega-diga sul fiume Sao Luis de Tapajòs, che avrebbe distrutto la foresta in cui abitano da millenni e il loro modo di vivere. A sorpresa, infatti, l’Ibama (Istituto brasiliano delle risorse rinnovabili e ambientali) ha accolto le proteste di questo popolo (non più di 12000 anime) e degli ambientalisti, rigettando il devastante mega-progetto (8000 megawatt, la sesta diga più grande del mondo che avrebbe “annegato” ben 376 kmq di selva tropicale).

Si tratta in realtà di una mezza vittoria, perché il governo brasiliano non ha ancora proceduto alla demarcazione ufficiale dei territori ancestrali dei Munduruku: destino che questi ultimi condividono con quasi tutte le 240 etnie sopravvissute in Brasile ed America Latina a un genocidio lungo cinque secoli. Alla faccia di Costituzioni “progressiste”, che garantiscono sulla carta i diritti dei popoli indigeni ma che in realtà li lasciano preda della brutalità di multinazionali e poteri forti, ansiosi di impossessarsi delle loro terre, ricche di risorse (petrolio, pietre preziose, acqua, metalli rari).

Ma in gioco non è soltanto la difesa della foresta e della Pacha Mama (la Madre Terra, ritenuta sacra nella cosmo-visione indigena). Il “rinascimento indigeno” degli ultimi decenni punta anche alla strenua tutela dell’identità storica e culturale dei popoli scampati non solo ai devastanti effetti della conquista, ma a quelli ancor più desolanti dell’assimilazione forzata alla “way of life” dominante.

Non a caso, la “Giornata Internazionale dei Popoli Autoctoni”, celebrata dall’Onu il 9 agosto, nel pieno dei Giochi di Rio,ha messo al centro “la questione dell’accesso all’educazione culturalmente e linguisticamente adattata e non come mezzo di assimilazione”. Nonostante i buoni propositi (e una Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni,approvata dalle Nazioni Unite il 13 settembre 2007), le richieste di poter educare i piccoli indigeni nella loro lingua ancestrale raramente vengono accettate e la tanto conclamata autodeterminazione rimane un miraggio. Tanto che, oltre alle esortazioni di rito dell’Onu ai governi, anche Papa Francesco ha sentito il bisogno di sostenere la disperata lotta degli indios, con un tweet diffuso proprio il 9 agosto :
“Chiediamo che vengano rispettati i popoli indigeni minacciati nella loro identità e nella loro esistenza”.

Proprio in concomitanza con i Giochi Olimpici, con l’intento di “sfruttare” l’attenzione mondiale sul Brasile, Survival Inteational, una delle ong più attive sul fronte della difesa degli indigeni in tutto il mondo, ha lanciato una grande campagna, “fermiamo il genocidio in Brasile”, centrata sul caso esemplare dell’etnia Kawahiva,nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, le cui terre sono state prese di mira da grossi commercianti di legname e allevatori, supportati da potenti politici corrotti. Nell’aprile scorso il ministro della giustizia aveva ceduto alle pressioni dei Kawahiva e dei loro supporters,firmando un decreto per la protezione e la demarcazione dei territori concupiti, ma la norma non è stata resa esecutiva, secondo un copione ormai stantio che si ripete in tanti paesi latino-americani (e non solo).

Morale della favola: i Kawahiva, che prima dell’incontro/scontro con la cosiddetta civiltà occidentale non avevano praticamente contatti con i bianchi,vivono da anni in fuga, o in accampamenti di fortuna lungo le strade, piagati da malnutrizione, malattie e violenze dei sicari al soldo dei loro persecutori, mentre le loro foreste vengono via via abbattute e/o trasformate in pascoli, piantagioni di canna da zucchero e soya transgenica.

“In Brasile- spiegano a Survival Inteational- ci sono ancora più etnie “incontattate”, isolate nella selva, che in qualunque altro paese. Sono questi i popoli più vulnerabili del pianeta, che rischiano la catastrofe se le loro terre non saranno protette”.

In attesa che il governo brasiliano, (distratto oggi dagli ori di Rio e domani da problemi considerati ben più gravi, come l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff e la sempre più severa crisi socio-economica) si decida a non fare orecchio da mercante, gli indigeni continuano a contare sulle proprie forze e sul sostegno di coalizioni inteazionali di ambientalisti e difensori dei diritti umani. Riuscendo, non di rado, a trasformare anche sconfitte e tragedie in possenti motivazioni per non gettare la spugna.

Un caso simbolico: l’onda di rivolta innescata dall’assassinio della leader ambientalista Berta Càceres, uccisa da due sicari il 3 marzo scorso nella sua casa di La Esperanza, in Honduras, nel territorio della comunità Lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, eredi della cultura maya.

Berta, in lotta contro il progetto di una centrale sul rio Gualcarque (ma anche intenta a costruire le alternative, perchè come cornordinatrice del Ccopinh, il consiglio dei popoli indigeni honduregni, stava organizzando workshop sulle energie rinnovabili) era molto nota in tutto il mondo perché nel 2015 aveva ricevuto il premio Godlman, l’Oscar ambientale. La sua morte, dunque, ha suscitato indignazione e solidarietà in tutto il pianeta, dando il via ad una mobilitazione a molti livelli, dal parlamento europeo alle reti sociali, nonché a una vera e propria “missione internazionale”, denominata “Justicia per Berta Càcares Flores” che ha ripreso la battaglia contro il progetto, al punto che la Fmo, la banca finanziatrice olandese, ha ritirato i fondi, seguita a ruota da altri investitori.

Ma non basta: la figlia Berta (stesso nome della madre) sta girando il mondo con una delegazione del Copinh, trovando ascolto presso istituzioni e governi. Convinti che la lotta sia soprattutto sul piano della critica all’insostenibile modello di sviluppo attuale, Berta e i suoi sostenitori hanno puntato sulla “parola”: “Loro hanno i proiettili, noi la parola. Il proiettile finisce con la detonazione, la parola torna a vivere ogni volta che la pronunci. Berta Càceres si è moltiplicata”.

La tragedia di Berta diventa così combustibile per il “rinascimento indigeno” in corso,pur tra mille difficoltà.
“Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori Lenca, è una forma di resilienza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale “conclude la figlia. “Mia madre no muriò, se multiplicò”.




Bestemmie


Appena arrivato in Kenya, i miei confratelli mi hanno raccontato una storia assai popolare tra loro. Era quella di un giovanotto che, avendo lavorato con operai italiani alla costruzione di una strada, si vantava di sapere la nostra lingua. Sfidato a provare il suo talento, aveva snocciolato una bella sfilza di colorite bestemmie. Buffo e penoso, pensai allora, benché, da bresciano quale sono, fossi abituato fin da bambino a sentirne, soprattutto dai muratori, bestemmiatori seriali, e, diventato poi prete, nelle confessioni di Natale o Pasqua, quando sentivo «mi è scappata qualche bestemmia», riuscissi a immaginare la sfilza di perle italiche sparate in automatico.

Non è certo di quelle bestemmie che voglio scrivere ora, anche se mi hanno sempre messo a disagio per la loro gratuita stupidità. Altre sono le bestemmie che oggi trovo davvero repellenti e inaccettabili, perché feriscono e degradano l’immagine di Dio che è l’uomo.

Una è quell’«Allah akbar» gridato con orgoglio dagli assassini dell’Isis e loro aggregati. Ma come si può urlare che «Dio è il più grande» quando si violenta l’immagine stessa di Dio uccidendo persone innocenti, colpendo di proposito i più deboli e indifesi, stuprando e vendendo donne come se fossero oggetti, o trasformando bambini innocenti in portatori di morte? Quale sarebbe la grandezza di questo dio? Un dio che terrorizza e distrugge l’opera stessa delle sue mani non è dio, non certo il Dio dell’Islam, ma il frutto del più ottuso e superbo, anche se inconsapevole, ateismo. È un idolo di morte fatto a immagine e somiglianza degli uomini che lo usano nel loro delirio di onnipotenza. Di fatto sostituendosi a Dio: non gli uomini strumento di Dio, ma Dio strumento degli uomini.

Il Dio di Gesù Cristo è ben altro. È il Dio della vita e dell’amore, un amore gratuito e totale. È il Dio che – citando Osea 11 – «attira con legami di bontà e con vincoli di amore», che, come un padre, solleva il suo «bimbo alla guancia» e, come una madre, «si china su di lui per dargli da mangiare», mentre il suo «cuore si commuove e l’intimo freme di compassione» (cfr. Lc 15). È il Dio che manda i suoi «angeli» (Lc 9,52) a «guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni», senza «oro né argento, né denaro, né sacca da viaggio, né vestiti di ricambio, né sandali di scorta e neppure il bastone» (forse anche per evitare di usarlo come arma), e a portare come dono la pace, senza imporre niente a nessuno, ma offrendo solo la gratuità dell’amore (cfr. Mt 10). Questo è stato Gesù, l’unico cha ha davvero visto Dio (il Padre) ed è stato capace di mostrarcelo attraverso la sua vita, le sue parole, le sue azioni di misericordia e il dono finale di sé (cfr. Gv 12,44; 14,5ss).

È il Dio amato da santa Maria Goretti che abbiamo ricordato il 6 luglio nella settimana in cui la liturgia ci ha offerto i brani di Matteo e di Osea sopra citati, mentre i media ci narravano degli orrori del mercato delle schiave yazide, in Sud Sudan riprendeva con rinnovata violenza la terribile guerra civile di cui parliamo nelle pagine intee, i corpi delle vittime di Dacca venivano restituiti alle loro famiglie, Emmanuel, giovane marito innamorato, veniva pestato a morte a Fermo, e a Dallas avveniva l’ennesima tragedia a sfondo razzista.

Che c’entra Maria Goretti, uccisa da chi diceva di amarla e voleva solo il suo corpo? C’entra, perché aveva capito che il Dio vero è quello delle vittime, non dei carnefici. E poi perché la sua figura smaschera un’altra bestemmia dei nostri tempi, sempre contro l’immagine di Dio che è l’uomo: il fare del corpo un oggetto di desiderio, che porta, tra l’altro, adolescenti in branco a violentare le loro stesse compagne, giovanissime a concedersi o a esibirsi per non essere escluse dal gruppo, adulti a far fiorire il traffico di bambini e donne per il ricchissimo mercato della prostituzione, pedofilia e turismo sessuale, gruppi mafiosi a controllare e promuovere la pornografia online.

E la lista delle bestemmie non finisce qui. È una violenza all’immagine di Dio, cioè all’uomo, anche il gioco d’azzardo che vende illusioni, rovina famiglie, crea povertà e confonde la scala dei valori nella vita delle persone. Non basta la legalizzazione e il controllo da parte dello stato, che ottiene così miliardi di euro imbrattati di lacrime e sangue, per renderlo accettabile o perfino un diritto. Su un livello più alto è violenza all’uomo anche il grande gioco d’azzardo dei mercati azionari, dove, come abbiamo visto in questo ultimo mese, si bruciano, a dispetto degli affannosi interventi delle istituzioni, miliardi su miliardi ipotecando il futuro di intere nazioni e aumentando a dismisura il peso del debito pubblico sulle spalle di ogni persona, il tutto nel nome della libertà di mercato, ma in realtà a solo vantaggio di pochissimi ricchi in delirio di onnipotenza che hanno perso il senso dell’umanità.

Gesù ha detto: «Che vedano le vostre opere di giustizia e rendano gloria al Padre» (Mt 5,16). Contro il moltiplicarsi delle bestemmie ci vogliono opere di bene, fatti di giustizia a opera di «martiri» e «angeli» che con la loro vita rivelino il vero volto di Dio, che è amore.




Sommario agosto-settembre 2016


In questo numero: l’editoriale puntualizza sulla bestemmia della violenza in nome di Dio e altre bestemmie. Il dossier presenta quattro donne “straniere” che raccontano di cibo e di nostalgia di casa. Gli articoli spaziano dall’Honduras al Nagoo-Karabakh, dall’Ecuador inquinato al petrolio al Sud Sudan attanagliato da una guerra civile causata anche dal petrolio, dal cinema africano e alla ricostruzione in Nepal. Eticamente parla di paradisi fiscali; Cooperando si interroga sul cambiamento di linguaggio circa il Terzo Mondo; Madre Terra conclude la ricerca sul rapporto malattie e migranti; i Perdenti dialoga con l’eroe di Masada; Librarsi presenta diversi buoni libri e l’inserto Allamano continua a farci conosce meglio in nostro beato.



Bestemmie
di Gigi Anataloni | editoriale      pdf sfogliabile |pag. web classica

Cari Missionari
risponde il Direttore | lettere dai lettori              pdf sfogliabile |pag. web classica


Dossier

Aromi e sapori di Casa lontana
Il valore del cibo in racconti di donne “straniere”
testi di: Daniela Finocchi, Michaela Sebokova, Ramona Hanachiuc, Lydia Keklikian E Leyla Khalil
a cura di: Gigi Anataloni
per gentile concessione del «Concorso letterario nazionale Lingua Madre»
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Articoli

Honduras: Berta Cáceres si è moltiplicata
di Daniela Del Bene (Ejatlas)      pdf sfogliabile |pag. web classica

Nagoo Karabakh: Trincee dimenticate
di Simone Zoppellaro (Obc)        pdf sfogliabile |pag. web classica

Cinema: Africa in scena
di Mario Ghirardi           pdf sfogliabile |pag. web classica

Ecuador /4: una storia troppo sporca
di Paolo Moiola              pdf sfogliabile |pag. web classica

Sud Sudan: Guardandosi in cagnesco
di Marco Bello                pdf sfogliabile |pag. web classica

Nepal: Terremoto dimenticato
di Silvia C. Turrin            pdf sfogliabile |pag. web classica


Rubriche

Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto | notizie dal mondo    pdf sfogliabile

Reliquie e corruzione
di Paolo Farinella | Misericordia voglio / storia del giubileo 10         pdf sfogliabile |pag. web classica

Il paradiso non può attendere
(a proposito di paradisi fiscali)
di Sabina Siniscalchi | Eticamente           pdf sfogliabile |pag. web classica

La malattia non ha colore
Migranti e malattie: miti e realtà /2
di Rosanna Novara Topino | Madre Terra           pdf sfogliabile |pag. web classica

Un altro modo per dire il mondo
di Chiara Giovetti | Cooperando             pdf sfogliabile |pag. web classica

Librarsi
a cura di Luca Lorusso | libri per tutti     pdf sfogliabile

Dal cielo per il bene sulla terra
a cura di Sergio Frassetto | Allamano 4/2016     pdf sfogliabile |pag. web classica

Eleazar Ben Yair, eroe di Masada
di Mario Bandera | I Perdenti /17           pdf sfogliabile |pag. web classica




Aromi e sapori di casa lontana


Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»


Non solo cibo

Il cibo riveste un ruolo cruciale nelle storie raccontate da molte donne: lo dimostrano i tanti testi che ogni anno giungono al «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», assunto come progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il concorso è diretto alle donne straniere (anche di seconda e terza generazione) residenti in Italia e prevede anche una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare storie di donne straniere.

Molto più di un semplice premio letterario, il Concorso Lingua Madre negli anni si è trasformato in qualcosa di più grande, grazie anche all’ampia rete di contatti e legami intessuti con associazioni, enti, scuole, carceri, realtà al femminile presenti su tutto il territorio nazionale, ma anche internazionale. Dal 2005 a oggi sono state oltre 4.000 le partecipanti e, tra queste, moltissime hanno dedicato le proprie narrazioni al cibo, sottolineandone il valore identitario, culturale, sociale e simbolico. Da questa constatazione è nata nel 2009 la collaborazione del Concorso con Slow Food che, insieme a Terra Madre, offrono un premio speciale al racconto maggiormente ispirato a piatti e tradizioni culinarie.

E, ancora, proprio grazie a questa forte attinenza tematica, l’anno scorso e in concomitanza con Expo Milano 2015, il Concorso è entrato – con una serie di iniziative e progetti – nel grande network al femminile We Women for Expo, nato per agire sui temi dell’alimentazione, per migliorare il diritto universale al cibo.

Il Concorso è inoltre tra i principali partner di Transnational Appetites: Migrant Women’s Art and Writing on Food and the Environment, un progetto di ricerca – di cui è titolare la prof. Daniela Fargione -, promosso dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino e finanziato dalla Compagnia di San Paolo, che ha come obiettivo quello di esplorare la relazione tra arte, letteratura, cibo, cambiamenti climatici, ecologia, dalla prospettiva delle donne migranti. A esso è collegato il Festival «Alla tavola delle migranti» (che avrà luogo il 17 settembre 2016 presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale di Torino): una manifestazione pensata per coinvolgere l’intera cittadinanza sui temi delle culture migranti, della biodiversità culturale, del rispetto dell’ambiente e delle sue risorse in un’ottica di condivisione e cambiamento tra dibattiti, concerti musicali, mostre fotografiche, laboratori di disegno, reading, proiezioni di film e documentari, con la partecipazione di ospiti inteazionali.

Ecco a voi dunque i racconti vincitori del Premio Speciale Slow Food/Terra Madre: una raccolta ricca di tutti i sapori, i colori, i profumi del mondo.

Daniela Finocchi
ideatrice e direttrice del concorso


borscht_in_white_wine_recipe_-_russian_cuisine_170574324-cut1. Il profumo della domenica

di Michaela Sebokova (Slovacchia)

Mi attendeva una lunga giornata all’ospedale, tra una visita diagnostica e l’altra. Non era un periodo buono. Superati i quarant’anni, il mio corpo ha iniziato a protestare. Era giunto il momento di scoprie il motivo. Dopo lunghe discussioni ho convinto mio marito che mi lasciasse affrontare gli esami da sola. Avrebbe pensato lui ai ragazzi, alla scuola e al pranzo.

La mattina degli esami mi sono munita di pazienza, ho infilato una bottiglietta d’acqua nella borsa e sono partita per l’ospedale. Le solite stradine tortuose di montagna, l’abituale traffico di fuoristrada rombanti, api singhiozzanti e motorini folli, semafori rotti, gente a piedi, il piccolo parcheggio sempre pieno. Per incoraggiarmi, prendo un buon caffè al bar accanto all’ospedale e mastico un pezzo di crostata. Mmmh, buona. Sembra fatta in casa. Forse la prepara la mamma del barista. Per un attimo non penso ad altro. La magia del cibo funziona sempre.

Salendo al primo piano passo davanti all’edicola. Mentalmente scarto tutte le riviste che costano più di due euro. La scelta si restringe alle riviste tascabili di cucina. Ne prendo una qualsiasi, pago, e mi siedo davanti all’ambulatorio. Chissà come mai, non ho tempo per cominciare ad annoiarmi che già mi chiamano.

Dopo un’ora esco, sfinita. Bevo un sorso d’acqua, la mano trema, anche la bocca trema. «Su, da brava, che non è niente, hai quasi finito!» cerco di convincermi. Mi ritiro in un angolino, accanto alla finestra. Per il secondo esame devo aspettare il primo pomeriggio, non mi conviene tornare a casa.

Così me ne sto seduta lì, su una brutta sedia di plastica, a osservare la pioggia che batte violentemente sul vetro. Il cielo è cupo e le grosse nuvole corrono a Est, inseguite dal vento. Sento che la mia maschera di coraggio si sta di nuovo sgretolando, il brutto tempo mi si rispecchia nell’anima. Come se cercassi l’ancora di salvataggio, apro la borsa e tiro fuori il libricino di cucina. Vediamo. Polpette di agnello. Torta di radicchio. Pubblicità. Zuppa di lenticchie, bene. Crostata di zucca (ecco, siamo sotto Halloween). Pubblicità. Mi tolgo gli occhiali, mi riposo un po’. Per la prima volta guardo in faccia le persone che dividono la sala d’attesa. Non la condividono, ma la dividono, perché ognuna ha creato intorno a sé un piccolo spazio personale impenetrabile per gli altri. E forse nessuno vuole violentare lo spazio di qualcun altro, ognuno chiuso nei propri problemi e pensieri, dolori e preoccupazioni. Non ci sono bambini, gli unici ammessi a penetrare le difese degli adulti.

C’è una signora anziana, elegante nel suo cappotto un po’ fuori moda. Ogni tanto mi rivolge un’occhiata curiosa. Non m’infastidisce, non è per niente invadente. Ricomincio a leggere. Anatra con le mele. Ravioli di pesce. Pubblicità. L’infermiera chiama l’anziana signora. Torta di patate. Cavolfiore gratinato. Pubblicità. La signora esce, si rimette in una paziente attesa. La osservo sopra gli occhiali, mi sembra che stia recitando una preghiera. Distolgo educatamente lo sguardo. «Io sono una donna forte, forte!» mi ripeto come un mantra e continuo a leggere. Pasta all’uovo. E poi, una breve scritta, un’introduzione: «Il profumo di lasagne, di cannelloni, di pasta al foo che si diffonde in casa… A chi questi piatti non farebbero tornare in mente la domenica, la mamma, l’infanzia?».

Rimango pietrificata. Del tutto irragionevolmente ho voglia di gridare a squarciagola «A me! A me non fanno ricordare proprio niente della mia infanzia, le lasagne e la pasta al foo!». All’improvviso mi sento fuori luogo, fuori paese, fuori pianeta. Mi sembra di essere in un posto del tutto sbagliato, perché i miei ricordi sono sbagliati. La domenica di casa mia sapeva di brodo di carne, pollo fritto, purea di patate e pesche sciroppate. Come faccio a vivere qui, se la parola «lasagne» non sveglia in me nessuna emozione?

Pensavo di essere ormai immunizzata. Integrata. Una brava moglie e mamma di figli italiani. Mimetizzata, una straniera che non nasconde di esserlo ma che non le dispiace se la scambiano per un’italiana; in realtà l’immagine di mimetizzarsi è del tutto ridicola, in un paesino di montagna che conta sì e no cinquecento abitanti e dove tutti sanno perfino che numero di scarpe porti. Certo, ho insegnato ai miei bambini la mia lingua madre, ma la nostra lingua di casa è l’italiano. Preparo le calze per la Befana e le bandiere per la Festa della Repubblica. Cucino le lasagne emiliane, il risotto alla milanese, lo stracotto e la cassata. E qualche volta delizio la famiglia con un piatto tipico delle mie zone, un gulasch di cinghiale o un’oca al foo. Pensavo di avere dietro le spalle la nostalgia di sapori, di profumi. Un errore.

Una risatina isterica mi sale sulle labbra. La mia maschera immaginaria si rompe, sento il rumore assordante quando cade per terra, e comincio a piangere in silenzio. Piango tutte le mie preoccupazioni, paure. E anche la mia folle e improvvisa voglia di tornare bambina e trovare a casa la mamma che prepara il pranzo domenicale.

Dopo qualche istante l’anziana signora si alza, si avvicina.

«Cara, si sente bene?», mi dice con quella sua voce tremula, dolce. Scuoto la testa. Potrebbe essere un sì, o un no.

«Suvvia, cara, non deve piangere così. Si risolve tutto, vedrà. Ce l’ha un fazzoletto?».

Certo che ce l’ho un fazzoletto, ne ho un pacchetto intero, ne sono sicura, ma non riesco a trovarlo. La signora mi dà il suo, di tessuto fine. Profuma di lavanda. Dopo un secondo di imbarazzo ci soffio il naso. Non ho mai usato un fazzoletto di stoffa.

Passano cinque minuti, dieci. Ho smesso di piangere. Nel frattempo, senza rendermene conto, la signora mi si è seduta accanto. Non parliamo, ma tra noi si è già creato un legame particolare.

La signora mi chiede quando ho il prossimo esame. Le rispondo tra due ore. «Allora venga, abbiamo tutto il tempo per prendere un buon tè», dice con la voce che non accetta rifiuti.

Scendiamo le scale, la signora apre il suo ombrello e ci para entrambe. Entriamo nel bar, ordiniamo il tè nero, il più forte che ci sia: niente aromi e sapori aggiunti.

Mi faccio avvolgere da quel profumo familiare, lascio che il tempo scorra e che le cose succedano. Poi, la sua domanda-non domanda rivoltami con tatto: «Le auguro che la cosa che l’ha fatta piangere vada per il meglio».

Guardo il suo viso animato, i gentili occhi grigi. La pelle sembra di alabastro, è quasi trasparente. Per la risposta tiro fuori il libricino e mostro alla signora la pagina con l’introduzione «Il profumo di lasagne…».

Lei inforca gli occhiali e si mette a leggere. Dopo inclina la testa e dice: «Ed è questo che l’ha fatta piangere?».

Arrossisco per la vergogna, la mia disperazione di poco fa ora mi appare ben esagerata.

«Forse non le piacciono le lasagne?» mi sorride dolcemente.

Incoraggiata, le rispondo sinceramente: «È solo che all’improvviso mi sono di nuovo sentita talmente straniera! A me il profumo di lasagne non rievoca nessun ricordo d’infanzia, mia mamma la domenica preparava il brodo e il pollo fritto».

La signora annuisce e dice pensierosa: «Io sono nata qui», fa un gesto vago con la mano, «ma ora che ci penso, sa di cosa profumava la mia infanzia? Di borsch!». E si mette a ridere con una risata argentea, contagiosa. «In sessant’anni vissuti in Italia, mia mamma, ex ballerina del teatro Marijinskij, non ha mai imparato a fare le lasagne. Però faceva un borsch eccezionale!».

L’anziana signora beve un sorso del suo tè nero. Poi mi dà una pacca delicata sulla mano e aggiunge: «Non sia triste perché non ha dei ricordi “giusti”, cara. Consideri invece, quanti italiani possono dire, come noi due, di avere dei ricordi del tutto diversi. Siamo speciali, noi straniere e figlie di donne straniere. Abbiamo in memoria i sapori e i profumi di terre lontane che gli italiani non se li sognano neanche!», conclude con gli occhi luccicanti da monella.

Guardo l’anziana signora di cui non so ancora il nome e le dico riconoscente: «Io sono Michaela. E la ringrazio di cuore».

Lei mi fa un occhiolino e risponde: «E io mi chiamo Anoushka. E la ringrazio tanto per avermi fatto venire in mente il mio piatto d’infanzia. Quando si è anziani, a volte ci si scorda le cose più buone».

Ci scambiamo i numeri di telefono e ci promettiamo di non perderci di vista. Magari potremmo prendere un altro tè insieme, un giorno.

Toiamo all’ospedale. Nel frattempo ha smesso di piovere, il vento forte porta l’odore di bosco autunnale. Sa di castagne e di funghi porcini. Sorrido. Affronterò con pacatezza anche il secondo esame. E la prossima domenica cucinerò una bella pentola di borsch.

Michaela Sebokova

Michaela Sebokova teaserbox_40189041Michaela Sebokova nasce in Slovacchia, a Nove Zamky, il 19 agosto 1975. Nel 2001 si trasferisce in Italia e lavora a Padova come impiegata. Nel tempo libero scrive, legge, traduce letteratura per bambini e si cimenta con la cucina ma, come lei stessa sottolinea, al primo posto rimane sempre la sua famiglia. Ha scritto un libro di narrativa e una fiaba. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste. Il suo racconto Il profumo della domenica ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Ciambelline intrecciate-cut2. Magie del passato

di Ramona Hanachiuc (Romania)

Avete mai passato una notte in bianco per aspettare il risveglio della nonna? Io sì. Da piccola.
Passavamo le vacanze insieme, io e mia cugina, dai nonni matei. Privilegio raro direi, mio padre imponeva sempre le vacanze dai nonni patei, quindi, i rari giorni passati dalla Nonna per eccellenza erano giorni dorati… Poi… Poi c’era lei: la mia cuginetta, l’unica cugina femmina, ma nata quattro anni dopo di me, considerata troppo piccola per frequentarci. A detta di mio padre che ovviamente sapeva quel che era meglio per me. Non ha mai voluto capire quanto mi facesse male la lontananza che imponeva dai parenti matei. Ma ora lo capisce… Oh se glielo faccio capire! Non perdo nessuna occasione: ogni volta che posso tolgo una spina dal mio cuore per infilarla nel suo…! Vendetta? Non direi, semplicemente vive ciò che mi ha imposto lui di vivere quando ancora non potevo scegliere per me.

Dicevo che passavo qualche giorno di vacanza dai nonni matei in inverno… Certe volte, prima che calasse la sera, nonna usciva di casa con un catino di legno tra le mani. Io intuivo già dove stava andando. Avvolgevo di corsa un vecchio scialle di lana sulle spalle di mia cugina, le facevo infilare gli stivali nei piedi e la trascinavo, a volte nella neve, dietro di me nel cortile.

«Vieni, vieni, ti faccio vedere una magia…», lei mi seguiva con gli occhi blu spalancati quasi strisciando per terra. Ci avvicinavamo in silenzio al granaio e con l’indice davanti alla bocca chiedevo l’assoluto silenzio: nonna non doveva sapere che eravamo lì. Con un cenno le facevo capire di seguire i miei movimenti: appoggiavamo la fronte alle astine fredde di legno che componevano le pareti del vecchio granaio e guardavamo dentro.

La nonna, leggermente chinata sul catino, setacciava la farina con movimenti regolari e ondeggianti.

Gli ultimi spruzzi di luce che il sole infilava timidamente tra le saette e la polvere di farina mossa dai suoi movimenti, la avvolgevano in una nuvola dorata e cangiante. Troppo piccola mia cugina per capire che non era magia. E con le labbra appuntite sussurrava incantata: «Nonna è diventata una fata…».

Guardavo i suoi occhi grandi e azzurri: erano pieni di incanto e curiosità. Sorridevo e la riportavo di corsa in casa per non farci sorprendere. Aspettavamo la nonna sedute tranquille sul divano, solo le gambe dondolavano impazienti e i cuori battevano forte per l’eccitazione. Erano le nostre impronte nella neve, gli sguardi incuriositi e le guance arrossate dal freddo a tradirci.

Nonna sorrideva nascondendo la bocca dietro al suo scialle, appoggiava il catino con la farina su una sedia vicino alla stufa e lo avvolgeva con una tovaglia pulita. Era per scaldarla: la farina prima di diventare pane doveva essere coccolata, areata e riscaldata vicino alla stufa per tutta la notte.

Poi andavamo a dormire: nonna e nonno nella piccola stanza che di giorno serviva da salotto e cucina, noi bambine nella cameretta adiacente, separati solo da una porta con piccole finestre intagliate, che restava quasi sempre aperta.

All’alba, nonna si alzava, e in silenzio accendeva una piccola lampada a petrolio. Rinfrescava il fuoco buttando qualche pezzo di legno sui carboni ancora accesi e toglieva la tovaglia che aveva ricoperto il catino. La luce gialla e la polvere di farina ricreavano un’altra nuvola che avvolgeva la donna minuta e lievemente curva sulla sua magia… Altri colori, altri profumi… Stesso sguardo dolce e sorridente della nonna.

La luce tremolante e i rumori sordi mi svegliavano e cambiavo posizione nel letto strisciando come un gatto in agguato sotto le coperte, in modo da trovare l’angolazione giusta per non perdermi nessun suo movimento. Cercavo invano di svegliare la piccola addormentata di fianco a me. All’inizio mi seguiva ma non appena riuscivamo a trovare la posizione con la visione migliore e la sua testa ritoccava il letto, ritornava nel mondo dei sogni. Io continuavo a seguire i movimenti lenti che la nonna con il suo corpo snello ma stanco compiva come dei piccoli rituali: legava intorno alla vita il grembiule bianco a fiori rosa, si lavava le mani, controllava con le dita che l’acqua riscaldata sul fuoco non fosse troppo calda e iniziava ad impastare. Con le mani creava un «vulcano» di farina, sotto nascondeva il sale e in mezzo iniziava a versare il lievito sciolto nell’acqua calda insieme a qualche cucchiaino di miele. Lentamente l’impasto iniziava a prendere consistenza.

All’inizio rimaneva incollato alle sue mani, e lei, con sapienti movimenti e l’aiuto di altra farina, lo faceva ritornare nel catino, continuando a mescolare, stringere e lavorare con forza tutta quella massa bianca e morbida. Il profumo iniziava a riempire la casa, profumo acido di pasta lievitata, legna che brucia e calore. Mi riaddormentavo poi sfinita appena nonna rimetteva il vecchio catino vicino alla stufa e sedeva su una sedia per lavorare a maglia per qualche ora.

Al nostro risveglio era tutto pronto: un grande asse di legno ricoperto di farina, piccoli pezzi di impasto che ci aspettavano per prendere le più bizzarre e svariate forme e le teglie unte e infarinate per infoare. Facevamo colazione in un soffio, latte, pane e marmellate, con gli occhi luccicanti fissi sui pezzi di pasta che ci aspettava, poi una volta finito di masticare e deglutire quasi intero l’ultimo boccone, ci mettevamo all’opera.

Sollevavo mia cugina e la sedevo inginocchiata su una sedia morbida; io di fianco a lei in piedi: ero più grande. Iniziavamo a modellare con cura i nostri impasti. Guardavo le piccole manine con le dita grassocce affondare nella pasta morbida, stendere, tirare, annodare, e i suoi occhi grandi e blu che si aprivano e chiudevano ripetutamente.

«Vedi…, – le dicevo. – Vedi che nonna è magica? Hai visto cosa ha fatto diventare la farina che ha portato in casa ieri sera?». Sgranava ancora di più gli occhi e, mordendosi le labbra tra i denti, continuava a lavorare l’impasto morbido.

Lei formava sempre delle colombe, io delle ciambelle intrecciate che spennellavamo poi con l’uovo e infoavamo insieme al pane della nonna e aspettavamo con le guance arrossate dal calore davanti al foo accesso. Ognuna mangiava poi la sua creazione, egoisticamente, orgogliosamente, lodandone la bontà. Stessa farina, stesso foo, forme diverse, gusti diversi per ognuna di noi. Diversi come diversi erano i nostri occhi che guardavano le stesse magie.

Ci pensavo giusto l’altra sera, mentre mia cugina impastava nella sua cucina.
– Facciamo le colombe? –, mi ha chiesto.

– Tu ti ricordi come si fanno? Io non ne sono sicura, eri tu l’esperta!

Solleva gli occhiali e sposta una ciocca di capelli, poi si mette al lavoro.

– La mia è più graziosa –, ho detto qualche minuto dopo. Lei ride divertita: – Certo! La mia è incinta… Come me…  –. Aspetta il secondo figlio la mia cuginetta.

E mentre la guardo toccarsi amorevolmente la pancia con la mano aperta, cerco di ricordarmela da piccola, e mi vengono in mente i suoi grandissimi occhi azzurri. Azzurri e curiosi come il mare.

Ramona Hanachiuc

Ramona Hanachiuc cRamona Hanachiuc nasce il 7 luglio del 1976 a Vaslui in Romania, dove riceve un’istruzione scolastica durante gli ultimi anni del periodo Ceausescu. Mette al mondo, all’età di vent’anni, sua figlia Ioana e nel 1999 decide di trasferirsi con lei in Italia, ad Alba, dove ancora oggi vive e lavora. È volontaria del 118 cittadino e nel tempo libero – come lei stessa racconta – ama dedicarsi alla lettura di quei classici che durante la dittatura le erano proibiti. Il suo racconto Magie del passato ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


taboule? libanese unico - cut3. Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazione

di Lydia Keklikian (Libano)

Da Beirut una ricetta che stuzzica non solo l’appetito, ma anche la vita complessa del nostro paese.
Tabboulé e integrazione sono cose diverse, ma simili al tempo stesso.

Diverse perché il primo è un piatto mediterraneo composto di diversi ingredienti che si prepara per un pranzo festoso, favorendo l’incontro tra persone o famiglie, viene presentato nei momenti di festa in occasione di un matrimonio o di semplice convivialità.

Il tabboulé è il primo piatto che si porta a tavola e si offre ai commensali per cominciare il pranzo.

L’integrazione a sua volta è una realtà composita per i vari elementi che la costituiscono. Richiama l’idea di una pluralità di culture diverse, la presenza di persone differenti per etnia, religione e cultura in un determinato contesto sociale. È colorata come il tabboulé, in quanto coinvolge nel processo persone diverse disponibili a percorrere una strada nuova che conduce a vivere insieme.

Nell’integrazione, pertanto le persone non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, folkloristica, ma devono fare in modo da comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa che stuzzica il desiderio di ognuno a conoscersi a vicenda.

Nel tabboulé gli ingredienti non si fondono tra di loro, ma si amalgamano bene al punto da offrire sia alla vista che al gusto un’armonia tale da rendere piacevole il mangiare suscitando una sensazione di freschezza e un piacere che invade tutti i sensi.

Nell’integrazione, il punto di partenza è l’incontro tra persone diverse. Immaginiamo una persona italiana e una straniera di origine africana. Magari l’italiano di pelle bianca e l’africana di pelle nera. Il colore della pelle può essere, in un primo momento, un motivo per attirare l’attenzione e suscitare curiosità.

Se l’incontro avviene in un bar, possiamo vedere come agiscono queste due persone. Bevono il caffè, chiacchierano e si scambiano sorrisi ed espressioni varie che denotano un’armonia e una complicità. Se poi arrivano a baciarsi, questo gesto può suscitare curiosità, a volte perplessità o disapprovazione e può diventare occasione di giudizio che va dal rispetto fino alla critica totale verso ciò che si è visto. Non possiamo certo ancora parlare di integrazione. Questa non può risultare da un incontro al bar o da un bacio.

Come non si può dire che il tabboulé è buono solo perché siamo abbagliati dai colori che si distinguono in un piatto ben presentato.

È importante avere la ricetta giusta e preparare il piatto seguendo le indicazioni precise. È altrettanto importante che tutti gli ingredienti siano ben visibili quando il piatto è sotto i nostri occhi. Ogni ingrediente deve restare ben distinto, mantenere il suo colore e la sua forma, pur essendo amalgamato agli altri ingredienti. Il sapore poi deve poterli distinguere e offrire al palato un gusto piacevole e di completezza in modo da suscitare in chi lo mangia un benessere e un piacere che lo lascino soddisfatto e appagato.

Anche l’integrazione parte dalla vista e dal palato, ma anche dalla piena consapevolezza dei valori comuni delle persone con culture diverse con le quali ci si impegna ad interagire.

Non può essere raggiunta una volta per tutte! Non è un percorso che si intraprende e si conclude in tempo breve, non può essere neppure definito a priori.

È come se la vita di una coppia di giovani raggiungesse il suo traguardo nel momento della celebrazione delle nozze. Se fosse così non avrebbe più senso continuare a vivere insieme e ad impegnarsi tutti i giorni per un traguardo già raggiunto. Lo sappiamo che non è così; il giorno del matrimonio rappresenta il punto di arrivo, ma anche un punto di partenza; percorso che porta due persone a costruire giorno per giorno il loro progetto di vita insieme con sincerità e responsabilità per il resto dei loro giorni.

Lo stesso vale per l’integrazione, per costituire un cammino positivo per entrambe le parti, deve essere un impegno preso da tutte e due le parti e portato avanti con lucidità e responsabilità, ben coscienti della sacrosanta realtà che le due parti hanno ciascuna il diritto di esistere, di progredire e di essere se stesse.

L’integrazione è il cammino di una vita delle persone e delle comunità. Una delle sue fasi è il momento dell’impegno solenne, come il giorno delle nozze, in cui le due parti si rendono conto che non possono più vivere l’una senza l’altra e dove si è convinti che il bene di entrambi è condizionato dalla volontà di impegnarsi reciprocamente nel rispetto di ciascuno e nella complementarietà.

Nel tabboulé chi decide le dosi è la persona che lo prepara. Chi decide come preparare il piatto è colei/colui che lava e taglia gli ingredienti, li mescola e li predispone nel piatto.

Nell’integrazione una parte non può decidere per l’altra. È vero che politiche diverse e persone con concezioni diverse possono incidere e condizionare la preparazione e l’attuazione di questo percorso, ma alla fine tocca alle persone direttamente coinvolte renderlo effettivo nella vita quotidiana con gradualità e modalità proprie e diverse da un quartiere all’altro. Se sono convinta che nel mio quartiere si trovano persone provenienti da luoghi diversi e incontro alcune di queste che condividono lo stesso interesse per il quartiere, sarà nostra responsabilità renderlo più vivibile. In tal senso, non posso più scaricare su altri il fatto che queste persone si chiudano nelle proprie case o nel proprio gruppo senza avere il coraggio di guardare in faccia i problemi esistenti e di impegnarsi per affrontarli.

Per riuscire a preparare il tabboulé non basta conoscere la ricetta, essere capaci di lavare o tagliare il prezzemolo, spezzettare la cipolla e spremere il limone.

Ci vuole attenzione quando si pulisce il prezzemolo, si lava e si taglia. Il prezzemolo deve essere tritato a mano, né troppo grande altrimenti le persone rischiano di strozzarsi, né troppo piccolo perché si rischia di ridurlo in brodaglia. Dopo, lo si deve lasciare a parte mentre si prepara il resto. La menta fresca deve essere lavata e asciugata, tritata al momento opportuno, altrimenti diventa nera e da buttare via. Il pomodoro deve essere tritato nella dimensione giusta per poter essere mangiato con facilità, facendo attenzione a non schiacciarlo durante la tritatura perché si rischia di ridurlo in succo di pomodoro. Una parte del limone deve essere spremuta e il restante lasciato intero del quale si ricava la scorza grattugiata.

La cipolla tritata deve essere condita, prima di mescolarla con gli altri ingredienti, con sale e pepe per far esaltare il sapore e renderlo meno sgradevole al tempo stesso.

L’integrazione deve seguire la stessa procedura, ma con ingredienti diversi. Ci deve essere la stessa cura e amore. Deve anche risultare come il lavoro congiunto di diverse persone desiderose di presentare a chi la mangia una pietanza appetitosa che soddisfa le aspettative di tutti; deve esaltare il valore di ogni persona umana e saziare coloro che cercano pace, armonia e dialogo. In tal modo si valorizzerebbe il principio della dignità umana e renderebbe tutti capaci di farcela.

L’integrazione non prevede la scomparsa di un gruppo nell’altro, non tollera la disparità, non appoggia le ingiustizie e non si alimenta di pregiudizi e di disprezzo.

L’integrazione giornisce quando ci si completa nell’incontro, quando ognuno mantiene la sua specificità e la sua ricchezza culturale, e gode quando vede tutte queste diversità camminare insieme nelle stesse strade della città.

Per il tabboulé il percorso è analogo. Nella terrina predisposta per mescolare gli ingredienti, si prepara il grano, si aggiunge il prezzemolo tritato, il pomodoro e la cipolla, distribuendo a forma di cerchio ogni ingrediente uno sopra l’altro. Si versa il succo di limone seguendo sempre la forma circolare, l’olio d’oliva e la scorza di limone grattugiata. Si mescola con un cucchiaio grande, con delicatezza e cura come se si stesse accarezzando il viso di un neonato, facendo attenzione a non schiacciare gli ingredienti, rispettando la singolarità di ogni ingrediente.

Nell’integrazione bisogna stare attenti a non sopraffare l’altra persona, a non prevaricare l’anima dell’altro e a non svalutae la ricchezza nel nome di un bene comune.

Ciò vale sia per la parte italiana sia per quella straniera. Nell’integrazione non c’è una parte debole e una forte. Non ci sono persone capaci e persone disabili. Tutte le componenti del progetto sono diversamente abili e diversamente capaci. Bisogna cercare di far emergere le capacità di ognuno e di lavorare sugli aspetti che presentano punti deboli.

Le parole scritte da Gibran nel suo famoso libro «Il Profeta» ci aiutano a comprendere meglio la relazione fra integrazione e matrimonio:

«Voi siete nati insieme
e insieme starete per sempre.
Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
E insieme nella silenziosa memoria di dio.
Ma vi sia spazio nella vostra unione,
E tra voi danzino i venti dei cieli.

Amatevi l’un l’altro,
ma non fatene una prigione d’amore:
Piuttosto vi sia un moto di mare
tra le sponde delle vostre anime.
Riempitevi l’un l’altro le coppe,
ma non bevete da un’unica coppa.
Datevi sostentamento reciproco,
ma non mangiate dello stesso pane.

Cantate e danzate insieme e state allegri,
ma ognuno di voi sia solo,
Come sole sono le corde del liuto,
benché vibrino di musica uguale.
Donatevi il cuore,
ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
Poiché solo la mano della vita
può contenere i vostri cuori.

E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una
all’ombra dell’altro».

È chiaro che l’integrazione è un cammino di amore che non soffoca, di condivisione che non mescola, di rispetto che non schiaccia, di accettazione che non pretende che una parte si annulli per essere accolta dall’altra. È lo stesso per il tabboulé!

A questo punto non ponetevi altre domande.
Lasciatevi portare dall’armonia dei gusti e dei colori di questo piatto e abbandonatevi nell’oceano dell’umanità racchiusa in ognuno dei suoi ingredienti. Umanità che svela l’origine di ogni ingrediente, di ogni terra lavorata dalle persone, di ogni fatica sudata per preparare il necessario e renderlo disponibile per il piacere dei vostri sensi e palati.

È la stessa umanità che ci circonda ogni giorno, di pelle bianca o nera, di una religione o di un’altra. Questa umanità che si esprime attraverso linguaggi che a noi possono essere sconosciuti e che emette suoni che non riusciamo a decifrare…

E ciò che meraviglia è la verità che dentro e dietro ogni ingrediente che compone il tabboulé si nasconde un territorio che magari conosciamo perché gli ingredienti sono stati coltivati a casa nostra, lavorati e preparati da mani straniere per offrirci un piatto che riteniamo esotico!

Buon appetito e buona integrazione.

Lydia Keklikian

Lydia KeklikianLydia Keklikian: Cittadina italiana, nata in Libano da famiglia armena è laureata in Scienze Sociali a Beirut, diplomata in Scienze Religiose a Brescia, laureata in Lingue Orientali a Venezia. Da anni si occupa di immigrazione, intercultura e mediazione culturale con particolare attenzione ai temi legati alle religioni, alla donna orientale, alla cultura araba armena e turca per quanto riguarda le leggi di famiglia, le tradizioni sociali e culturali attraverso la fiaba la musica e la cucina. Il suo racconto Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazionha vinto il Premio speciale Slow Food-Terra Madre della IV edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Kibbeh-c4. A Téta, ricordi congelati

Traslata dall’arabo all’italiano, catapultata telefonicamente da un continente all’altro, che sapore ha la morte?
Toavo da una serata fra amici in zona Ostiense la notte che, a Zouk Mkayel, morì Téta. La notizia arrivò l’indomani via cellulare, Libano-Italia in un secondo: ricordo la spossatezza di quelle ore, il silenzio sospeso, l’estraneità surreale, ma non ricordo dolore. Non subito. Ricordo quelle quattro lettere impresse in pancia come se si trattasse di un nome proprio, senza necessità di tradurle: Téta.

Téta, sei andata via e il freezer conserva ancora memoria dei cibi che hai cucinato e impacchettato per me. Sapevo che sarebbe accaduto, forse ero io a volerlo, ci ho sempre trovato un che di poetico: adesso ho tanti piccoli kebbeh stipati nel ghiaccio, li trovo esageratamente evocativi e so bene che li mangerò con un groppo alla gola e che, celebrando la mia commemorazione laica, penserò fate questo in memoria di me. Ripercorrerò le volte che non mi mandavi via senza una borsa piena di khiara, khobez, kebbeh e, se riuscivi, addirittura qualche mehshi cousa. Ora il freezer è una teca sacra, ostensorio profano di ricordi congelati.

Ricordo congelato è la foto scattata col cellulare di te che prepari il tabboulé sfidando gli anni e le intemperie, coi capelli di fronte agli occhi e lo sguardo basso e concentrato mentre smisti le foglie di prezzemolo e poi tagli fette finissime di cipolla e pomodori e intanto canticchi le tue filastrocche.

Ricordo congelato è il primo cenno di anzianità. Ero piccola quando Téta è caduta nel corridoio e ha perso i sensi. Guardavo la tivù e non me ne sono accorta fino a che la gola non mi ha portato verso la cucina per chiedere un arous jibneh. Il corpo fermo a terra che ho trovato a metà strada, con un rivolo di sangue che sgorgava dal labbro, non mi sembrava reale: forte dei miei undici anni, avevo la certezza che Téta non potesse cadere così. Invece, da quel momento, cominciò a farlo: cadere o scomparire per qualche ora o giorno, per tornare poi un bel mattino a casa, a sorpresa. Ho memorie sfocate della volta in cui papà la salvò dall’arresto cardiaco notturno davanti alla tivù: guardavano i giochi a premi insieme e per un lasso di tempo indefinito nessuno si accorse che Téta non rideva più e che il suo non era il solito afflosciarsi in uno stanco riposo serale. Papà, quando capì che il cuore di Téta aveva smesso di funzionare, corse a farle il massaggio cardiaco, poi arrivò l’ambulanza, la portò via e, non appena papà appurò che Téta si fosse davvero ripresa, le lanciò sette otto accidenti in dialetto libanese. Io quella notte dormivo da ore nella mia stanzetta; credo di aver dormito per giorni o di aver vissuto in una sorta di infantile torpore: al mio risveglio, Téta era sempre lì, punto fisso della mia quotidianità a Zouk.

Ricordo congelato è la frase rituale, ripetuta ogni sera: Qu’est-ce que Vous voulez manger demain? Me l’ha sempre chiesto così, Téta. A me sembrava di stare in un hotel di lusso e lo zio di Boston la prendeva in giro per quella sua ostinazione a dare del voi anche ai familiari. Téta sorrideva con aria furbetta e raccontava per l’ennesima volta di quel francese scolastico imparato fra lezioni di economia domestica e di pittura, in ambienti gerarchici in cui non esisteva che si potesse dare del tu a qualcuno. Per Téta la confidenza in francese non aveva un corrispondente linguistico e per me sentirla darmi del voi è sempre stato come prendere parte ad un banchetto fra ambasciatori. Io, ambasciatrice d’Italia, in visita a lei, rappresentante del Libano. L’autorevolezza e l’eleganza dell’alto ceto sicuramente l’ha sempre avuta Téta, più di me. Bastava un gesto e Hala capiva cosa avrebbe dovuto cucinare l’indomani, sapeva senza bisogno di dirlo che non bisognava comprare i lahmi b’ajin senza fornire al fornaio l’impasto di carne che lei stessa preparava, perché era l’unico di cui si fidasse.

Andare in Libano era quindi per dei versi come gettarsi a capofitto nel set di uno di quei film talmente ben riusciti che sembrano realtà, tanta è la naturalezza: io non mi accorgevo di niente, ventenne distratta, ma lei cornordinava ogni minuscolo evento che prendeva vita fra le mura domestiche. Sapevo che al mio arrivo avrei puntualmente trovato lo shmandour e che a nulla sarebbe servito offendere l’orgoglio di Téta dicendo che con gli anni qualcosa nel mio gusto era cambiato e che lo shmandour non mi piaceva più: sapevo che la cucchiaiata di shmandour, almeno per fare il gesto, dovevo ingoiarla con estremo riconoscimento. Perché il primo latte della vacca incinta, ingrediente principale, è merce rara e Téta diffondeva ai paesi vicini la notizia del mio arrivo già settimane prima, affinché il primissimo latte della vacca partoriente finisse fra le sue mani e potesse avviare i processi di preparazione di quella primizia dolce. Tanto più lo shmandour smetteva di piacermi, quanto più aumentava la gratitudine per il gesto fedele di Téta nei confronti di me, figliola prodiga.

A volte mi è bastato fissare un piatto con gola per trovare Hala affianco a porgermelo: subito era chiaro che il mio sguardo fosse stato intercettato da Téta; un po’ mi sentivo oppressa o presa in giro, poi mi dicevo che in una famiglia di maghi le cose non potevano che andare così. Una famiglia di maghi: così amava descriverla nonno, prima di morire. Il prozio mago era il capostipite, poi, con l’avanzare delle generazioni, quella magia si è ridimensionata e si è fatta semplice filosofia. Ma chissà che poi non sia un po’ la stessa cosa.

Ricordo congelato è lo sguardo triste di Téta mentre guarda la tivù e le si spezza il cuore di fronte alla morte di palestinesi e israeliani – ya kharam, diceva di entrambi. Io penso a quanto quello stesso conflitto è stato strumentalizzato nell’altra parte del mondo, la mia, riducendosi a rigido gioco di fazioni a distanza di sicurezza.

Ricordo congelato è Téta che, mentre vado in piscina, mi ferma per darmi un bacio sulla guancia e dirmi serissima «Attention de tomber dans l’eau». Ogni volta, fino all’ultimo, ho sospettato che l’età le giocasse un brutto scherzo o la facesse allarmare per pericoli inesistenti, ma ogni volta era invece lei a prendersi gioco di me con ironia sottile. Questa frase, questo francese sbagliato e maccheronico, era la frase di complicità ridanciana con cui due generazioni si danno la staffetta – quasi un gioco di ruoli – e a quella più antica non resta altro che dare raccomandazioni assurde alla più giovane, pur con piena coscienza della loro assurdità.

Ora le foto di Téta invadono il web: i suoi figli e nipoti sparsi per il mondo si fanno compagnia come possono, si consolano vicendevolmente, cercano di mantenere vivo il suo ricordo, anche se buona parte ha dimenticato la lingua madre o la utilizza soltanto sporadicamente. Siamo schegge scagliate nei cinque continenti e Facebook è la nostra disillusa preghierina serale, adesso che nessuno più accosta la porta della camera come faceva Téta mentre, con aria bambina, si inginocchiava sul suo letto per fare il segno della croce. Il social network è una chiesa virtuale con le sedie vuote ed è lecito domandarsi in fondo cosa arriva, cosa passa da un cuore all’altro, da una pancia all’altra e da un computer all’altro, salendo oltre i pensieri tradotti in tutte le lingue del mondo, cosa è sempre arrivato negli scambi comunicativi fra tutti noi, la Big Khalil Family, noi che traduciamo goffamente dall’inglese al francese all’italiano all’arabo i nostri pensieri e le nostre emozioni, noi che cerchiamo significanti molteplici per indicare un unico significato e non sappiamo mai quali sfumature si perdono in questo travaso continuo di informazioni.

Ricordi congelati.

Tutto questo e solo questo rimane di te – la mia Téta in un’altra lingua – ed io non so bene con quanta efficacia l’italiano sappia essere fedele a questi ricordi: mi appare come lingua impacciata, incapace, inesperta nell’espressione di queste memorie che hanno sede altrove; lingua dei tentativi e degli errori. Eppure è per errori e traduzioni concatenate che abbiamo mandato avanti la nostra comunicazione intergenerazionale ed intercontinentale: sentimenti perennemente filtrati da successive conversioni mentali. Chissà quante cose abbiamo frainteso, quante ne abbiamo gonfiate, quante rimpicciolite, chissà quali immagini mentali c’erano in te, dietro le tue frasi in un francese imbalsamato, e che modifiche hanno subito nella loro caduta a effetto domino verso il mio orecchio che le percepiva e dava loro un altro senso, il mio.

Apro il freezer, prendo un kebbeh, ne tasto la sfericità. Non ho il coraggio di mangiarlo, basta l’odore a tuffarmi di nuovo in antiche corse sotto il sole ad acchiappare le code dei gatti a Zouk e poi correre in spiaggia. Provo a ricreare l’eco della tua voce – Attention de tomber dans l’eau! – ma non ne sono più davvero capace.

Chissà dove sei, Téta.
Attenzione a non cadere in acqua, Téta, ovunque tu sia.

Sento che l’italiano è giunto al limite: non è più sufficiente a narrare la nostra storia in questa maniera. In italiano il ricordo libanese di te non fa che sbiadirsi più velocemente, gli spaghetti nella scansia non sanno chi tu sia stata, ma questi kebbeh sì, ne hanno chiara memoria, sono figli delle tue mani pazienti ed è mio compito tradurre fino in fondo questi ricordi. Guardo la sfera di grano e carne e all’improvviso so che, finché non racconterò la tua scomparsa in un’unica lingua, la tua figura rimarrà in bilico fra due mondi. Presenza e assenza, occidente e oriente, vita e morte.

Respiro profondamente. Traduco.
Téta in arabo vuol dire nonna.
Lo dico sottovoce, finalmente, e sento il sottilissimo germe della mancanza farsi spazio ed espandersi fino a occupare anche l’altra parte di me, quella che parla italiano. Due metà si ricongiungono, i ricordi riprendono vita, il ghiaccio attorno al kebbeh si è sciolto, ora la tua scomparsa ha una dolorosissima forma.
Mi manchi, nonna.

Leyla Khalil

Leyla Khalil,Leyla Khalil, italo-libanese, nasce a Roma il 30 agosto 1991. È mediatrice culturale e ha pubblicato racconti e poesie in antologie per Edizioni Ensemble, Giulio Perrone, L’Erudita, Ediesse, Guasco, Seb27. Appassionata di narrativa e cucina, tiene due rubriche settimanali su facciunsalto.it: “Cosa borbottano le pentole” e “La Grasse Matinée”. Ideatrice del progetto di scrittura “Fast Writing, scritti di rapida consumazione”, ha curato per Edizioni Ensemble la prima raccolta di racconti incentrati sui fast-food come non luoghi e sta lavorando a nuovi sviluppi sul tema. Il suo racconto, Ricordi congelati, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del X Concorso letterario nazionale Lingua Madre

 



  • Questo dossier narrativo centrato sul cibo, è frutto della collaborazione con «Lingua Madre», il concorso letterario nazionale la cui premiazione avviene ogni anno nel contesto del «Salone Internazionale del Libro di Torino».
    È la terza volta che MC pubblica testi scritti per questo concorso in lingua italiana da donne provenienti da ogni parte del mondo. La prima volta fu il racconto, Cubetti di zucchero, apparso in MC 4/2015, seguito poi dal dossier Sono anch’io Italia, sogni non impossibili, in MC 8-9/2015.
  • A «Lingua Madre», che ha scelto di presentare quattro testi premiati nel contesto del «Premio Slow Food – Terra Madre», va tutta la nostra riconoscenza.
  • I testi sono stati selezionati da Daniela FinocchIi, ideatrice e cornordinatrice del concorso. Il dossier è stato cornordinato da Gigi Anataloni.
  • Il libro: Daniela Finocchi (a cura di), Lingua Madre Duemilasedici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB27, via Accademia Albertina, 21 – 10123 – Torino; sito: seb27.it, sarà nelle librerie in autunno.

 




Honduras Berta si è moltiplicata


Sono stati 185 gli attivisti per la giustizia ambientale uccisi nel 2015 nel mondo. Berta Cáceres, hondureña, sarà contata tra le vittime del 2016. Il suo paese è tra i più pericolosi per chi vuole difendere i territori e, con essi, la vita, la storia, la cultura delle comunità che li abitano. A rappresentare la minaccia è spesso l’industria estrattiva, mineraria ed energetica. Industria che, con cinismo, non manca di autodescriversi come sostenibile, green, attenta ai bisogni delle popolazioni locali.

Il rapporto di Global Witness uscito a giugno e riferito al 2015, intitolato in modo significativo «Su un terreno pericoloso » (On dangerous ground) registra un aumento del 59% rispetto all’anno prima degli omicidi ai danni di attivisti ambientali (185 in 16 paesi del mondo)1. L’accurato lavoro di ricerca con cui l’organizzazione non governativa denuncia l’elevato livello di violenza che si produce nei luoghi di estrazione di materie prime e di fonti energetiche in tutto il mondo, è dedicato quest’anno all’attivista Berta Cáceres2, uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 in uno dei paesi che risultano essere tra i piú pericolosi negli ultimi anni per chi lotta per la giustizia ambientale: l’Honduras.

I Lenca sotto assedio

Berta Cáceres, cornordinatrice del Consejo de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras – Copinh -, viene brutalmente assassinata nella sua casa in La Esperanza, nella valle del rio Blanco-Gualcarque, da almeno due sicari. Ospite a casa sua quel giorno, sopravvissuto all’attacco ma ferito alle mani e a un orecchio, c’era Gustavo Soto, presidente di Otros Mundos Chiapas Amici della Terra Messico, che partecipava a un workshop di formazione con il Copinh sul tema delle energie rinnovabili comunitarie. La comunità La Esperanza, dove Berta si era trasferita da poco, si trova nella regione delle comunità lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, appartenente alla cultura maya. Quelle abitate dai Lenca sono terre fertili e ricche d’acqua. Per questo vengono considerate la nuova frontiera dell’economia estrattiva. Il Copinh denuncia da molti anni le modalità con cui vengono rilasciate le concessioni minerarie, quelle per lo sfruttamento del legname e per la costruzione di centrali idroelettriche con dighe sui principali fiumi del territorio.

Insicurezza, deportazioni, criminalizzazione della protesta

Non solo il Copinh si occupa delle terre lenca: anche la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidu) nel suo ultimo rapporto sull’Honduras lancia un allarme per la grave insicurezza, l’uso eccessivo della forza, le deportazioni forzate, la criminalizzazione della protesta. Tutto ciò trova la strada spianata soprattutto a partire dal 2009, durante i governi creatisi dopo i golpe di Micheletti e poi di Porfilio Lobo Sosa. Il 24 agosto 2009 si approva la Ley General de Agua (la legge generale sull’acqua), che apre a nuove concessioni idriche, e il decreto 233 che deroga qualsiasi impedimento a concessioni idroelettriche in aree protette, in violazione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni, che l’Honduras ha firmato nel 2007. Organizzazioni della società civile hanno informato la Cidu di almeno 837 potenziali progetti minerari, che coinvolgerebbero il 35% del territorio nazionale, 76 progetti idroelettrici che già vantano uno studio di fattibilità e/o un contratto per operare già approvato, in un totale di 14 dei 18 dipartimenti del paese.

Progetto Agua Zarca

Tra il 2010 e il 2013 viene approvato uno dei progetti più controversi, conosciuto come Agua Zarca. Contro di esso il Copinh e Berta Cáceres non risparmiano critiche e denunce: la centrale è una infrastruttura di per sé piccola, con una potenza stimata di 21,3 Mw, ma che comporta un profondo impatto ambientale e culturale nel territorio. L’esistenza delle comunità lenca è infatti strettamente legata ai boschi e ai fiumi, fonte di vita e luogo in cui vivono gli spiriti delle niñas indigenas. La zona è considerata inoltre eredità del Cacique Lempira, eroe nazionale che ha lottato per la libertà di quei territori dall’invasione coloniale spagnola. L’arrivo senza preavviso dell’industria estrattiva con conseguenti zone disboscate, macchinari nel letto dei fiumi, strade bloccate, presenza di militari e forze di sicurezza armate, ha purtroppo diviso la popolazione. Alcuni Lenca hanno infatti creduto alla promessa di «sviluppo» fatta dall’impresa, una strategia corporativa piuttosto comune per rompere il fronte critico delle comunità locali, soprattutto se organizzate.

«Consultazioni zero»

«Sviluppo locale», «protezione dell’ambiente attraverso l’energia verde, rinnovabile», sono le parole d’ordine, gli slogan usati per presentare il progetto ai finanziatori e alla comunità internazionale. Nel 2012, la Banca Centroamericana di Integrazione Economica (Cabei) concede all’impresa hondureña Desarrollos Energéticos (Desa) un prestito di 24,4 milioni di dollari. Desa a sua volta stipula un contratto con il gigante cinese dell’idroelettrico Sinohydro, che viene presto accusato dalla popolazione lenca di non rispettare il diritto alla consultazione previa e informata della popolazione locale, così come sancito dall’Ilo (Oganizzazione internazionale del lavoro) nella Convenzione 169, firmata dall’Honduras nel 1995. Anche la tedesca Voith Hydro Holding GmbH & Co. KG è coinvolta nella foitura delle turbine, e accusata delle stesse violazioni. Di fronte alla protesta e alle denunce, Sinohydro si ritira dal progetto, così come la Corporazione Finanziaria Internazionale (Ifc) della Banca Mondiale.

I paradossi locali dell’economia estrattiva

Agua Zarca indica chiaramente che i conflitti non sorgono solo contro progetti di grandi dimensioni, ma da situazioni in cui diversi fattori d’ingiustizia si combinano insieme. In terra lenca, infatti, sono ben 17 le nuove dighe in previsione o già in costruzione, ma l’elettricità prodotta da questi impianti è principalmente destinata alle industrie e al settore minerario. Questo territorio non ha mai beneficiato di servizi statali, di salute, di educazione, se non in misura insufficiente. Tanto che l’Istituto Nazionale di Statistica registra, per esempio, un 30% di analfabetismo nel municipio di Intibuncá, 16 punti sopra la media nazionale. Ma il paradosso più grande sembra però essere il fatto che, appunto, alle comunità non è mai arrivato il collegamento all’energia elettrica. Un’analisi comparata delle realtà dove opera l’industria estrattiva rivela che questo è un fenomeno ricorrente che si verifica in maniera sistematica soprattutto in zone rurali dove la popolazione viene emarginata e i cui diritti di partecipazione e di espressione sono violati.

«Svegliati, umanità, vegliati!»

La morte di Berta Cáceres ha destato indignazione e rabbia in tutto il mondo. Espressioni di solidarietà sono arrivate da tutti i continenti perché il suo lavoro era conosciuto: il suo sguardo e le sue parole avevano suscitato forti emozioni, ad esempio, durante la consegna proprio a lei del premio ambientale Goldman nel 2015. Premio che Berta Cáceres aveva dedicato al popolo lenca e alla sua forza e dignità. In quell’occasione aveva invitato la comunità internazionale ad agire: «Svegliati, umanità, svegliati! Non c’è più tempo!». Parole che sono risuonate mille e mille volte nei social media dopo il suo assassinio, come un monito e un grido di dolore per le tante persone che subiscono repressione e violenza.

Una scia di sangue troppo lunga

Solo pochi giorni dopo la morte di Berta, viene ucciso nella sua dimora in Rio Lindo Nelson Garcia, per essersi opposto a deportazioni e sfollamenti forzati della sua comunità. Nel 2013, il giovane Tomas Garcia era stato ucciso durante una repressione della polizia. Entrambi i Garcia erano membri del Copinh assieme a Berta. Nel vicino Messico, Noé Vasquez della piattaforma anti dighe Mapder era stato vittima di un’imboscata mentre raccoglieva fiori e pietre per la cerimonia di apertura dell’incontro annuale del movimento nel 2013. Nello stesso anno due ragazzi erano stati assassinati da un sicario presso la diga Santa Rita in Guatemala, e un anno prima Andrés Francisco Miguel era morto durante le proteste per la diga Barillas Santa Cruz per mano delle guardie di sicurezza. Questi sono solo alcuni dei molti casi3 che dimostrano la grande violenza che accompagna l’industria estrattiva e i suoi progetti energetici e infrastrutturali, la connivenza fra imprese e autorità pubbliche e forze di «sicurezza» in Centroamerica.

L’eredità di Berta

Berta Cáceres però ha lasciato un’eredità speciale: «Il suo assassinio ha lasciato un segno profondo nei movimenti per la giustizia ambientale. Qualcosa è cambiato dalla sua morte», ci dice un attivista in Cile. C’è stata infatti una grande mobilitazione a molti livelli, dalle reti sociali al Parlamento europeo, che ha chiesto con forza al governo hondureño di intervenire per identificare i colpevoli materiali, per indagare sul ruolo delle imprese di Agua Zarca, e per rilasciare immediatamente Gustavo Soto, unico testimone diretto di quella tragica notte, che per settimane è stato trattenuto in Honduras nonostante avesse già riferito alle autorità tutto ciò che sapeva. Tra il 17 e il 21 marzo la Missione Internazionale Justícia per Berta Cáceres Flores ha partecipato a una visita nel paese, assieme a membri del Copinh e altre organizzazioni dell’Honduras. Anche dai paesi europei molte reti si sono attivate e hanno fatto pressione anche sui finanziatori del progetto, tra cui BankTrack, Both Ends, Inteational Rivers e la grande rete della campagna Stop Corporate Impunity. Fmo, la banca finanziatrice olandese, già coinvolta in altri progetti come Barro Blanco nello stesso Honduras e Santa Rita in Guatemala, e Finnfund, hanno deciso di sospendere il loro appoggio alla centrale pochi giorni dopo l’assassinio. La Cabei, che al principio aveva espresso fiducia sul fatto che per «il caso di Mrs. Cáceres ci sarà la dovuta accuratezza nelle indagini da parte delle autorità», il 4 aprile finalmente ha deciso di sospendere il finanziamento a Agua Zarca.

Resistenza all’imposizione

Nel mese di maggio è venuta in Europa una delegazione del Copinh, tra cui una delle figlie di Berta, che porta il suo stesso nome. Due lunghe settimane di incontri con dirigenti di banche, agenzie per lo «sviluppo», e imprese per raccontare, testimoniare ma anche per interrogare chi decide la destinazione di fondi e chi investe in nome di quello sviluppo e quell’energia che non si dimostrano né sostenibili né puliti. «Noi Lenca viviamo il nostro territorio con altre relazioni socio-ambientali », dice Bertita, che per la sua sicurezza ha dovuto vivere molti anni fuori dal paese e lontana dalla madre, durante un incontro a Barcellona. «Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori lenca, è una forma di resistenza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale». E, concludendo, saluta con quanto gridato più volte dalla sua gente: «Mia madre no murío, se multiplicó ».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas


Note:

1- «Global Witness ha documentato in totale 185 omicidi in 16 paesi nel 2015, un aumento del 59% rispetto al 2014, e il numero totale più alto da quando abbiamo iniziato la raccolta di dati nel 2002. Difensori del territorio e dell’ambiente vengono uccisi a un ritmo impressionante di più di 3 a settimana. La maggior parte dei casi registrati sono avvenuti in paesi dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, con il più alto pedaggio registrato ancora in Brasile (50) e nelle Filippine (33). I popoli indigeni difensori delle loro terre ancestrali sono stati i più colpiti, rappresentano infatti quasi il 40% delle vittime. Industrie minerarie e estrattive sono state collegate ad almeno 42 delitti. Ma anche industrie agroalimentari (20 omicidi), idroelettriche (15) e del legname (15). Abbiamo trovato un coinvolgimento sospetto di gruppi paramilitari in 16 casi, delle forze armate in 13, della polizia in 11, e di guardie di sicurezza private in altri 11». (da On dangerous ground, p. 5).

2- «Intoo alla mezzanotte del 2 marzo 2016, uomini armati hanno sfondato la porta della casa in cui Berta Cáceres si trovava a La Esperanza, Honduras, hanno sparato e l’hanno uccisa. Berta era un’attivista ambientale e per i diritti della terra indigena di alto profilo. L’anno scorso aveva ricevuto il premio ambientale Goldman, un prestigioso riconoscimento per l’attivismo ambientale di base in tutto il mondo. Nel suo discorso alla premiazione Berta aveva parlato delle minacce di morte e dei tentativi di rapimento subiti a causa della sua lotta contro la diga di Agua Zarca. Global Witness ha evidenziato il suo lavoro coraggioso in How many more? (quanti altri?), una ricerca in cui l’Honduras veniva descritto come il paese più pericoloso al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente. Questo rapporto (On dangerous ground, ndr.) è dedicato a Berta Cáceres e ai molti attivisti coraggiosi che, come lei, resistono al potere, nonostante i pericoli per la loro vita». (da On dangerous ground, p. 2).

3- Circa l’assassinio sistematico degli indigeni in America Latina si veda MC 6/2016, p. 10-12.




Trincee dimenticate


Senza sbocchi sul mare, in prevalenza montagnoso, teoricamente parte dell’Azerbaigian, di fatto occupato dall’Armenia, il Nagoo-Karabakh (o Artsakh) è uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo. Quasi scomparsi gli azeri musulmani (appoggiati dall’Azerbaigian), l’attuale popolazione è armeno cristiana. Ignorato da tutti, in questa enclave il conflitto non è però mai terminato. Come testimoniano gli scontri e i morti del 2016.

Alle frontiere dell’Europa, dimenticato da tutti, c’è un luogo dove migliaia di giovani bruciano le loro esistenze nel fango e nel gelo delle trincee, mese dopo mese, anno dopo anno. Un luogo dove il tempo sembra sospeso da più di vent’anni all’epoca della Grande Guerra, come in un’oscura maledizione da cui nessuno riesce più a liberarsi. Ma anche un luogo da favola, fatto di paesaggi incontaminati, gente dal cuore antico, splendidi monasteri e ottimo cibo prodotto in loco da mani sapienti. È il Nagoo-Karabakh: un luogo dal nome che evoca, ai pochi che lo conoscono, uno dei conflitti più dimenticati del nostro tempo, a cui tutti – anche la comunità internazionale – sembrano essersi oggi arresi con un odioso fatalismo, quasi fosse un evento naturale e inevitabile.

Ma questo territorio, ricco di poesia e contraddizioni, è molto di più. Il Nagoo-Karabakh – per chi lo conosce in prima persona – non è soltanto una guerra: dai suoi tanti villaggi, dove si aprono squarci di grande umanità ma anche di vera disperazione, alla sua capitale de facto, Stepanakert – sonnolenta eppure ridente città di provincia -, fino alla natura che sembra avere la meglio – a tratti – sulla follia dell’uomo e sulle sue bandiere di morte. E non mancano anche moschee e minareti, in questo fazzoletto di terra, a ricordarci che – prima del drammatico spartiacque della guerra tra Armenia e Azerbaigian, scoppiata con la dissoluzione dell’Urss nel 1991 – questa era una terra plurale da un punto di vista etnico e religioso. Il Nagoo-Karabakh porta con sé storie di fughe e abbandoni, di rancore e nostalgia, di molti che questa terra amara e dolce – dove ci sarebbe posto per tutti – l’hanno dovuta lasciare per sempre. Ci riferiamo alle centinaia di migliaia di azeri che, da un giorno all’altro – con l’esplosione del conflitto – hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro beni a rischio della vita.

Il Nagoo-Karabakh è oggi uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo, ed è tuttora ufficialmente parte della repubblica dell’Azerbaigian. Ma è anche un crogiuolo di storie che si incrociano, storie di chi, vent’anni fa, è stato costretto a partire senza poter più ritornare e di chi ci è arrivato partendo da lontano. Perché in questo lembo di terra si trovano anche migliaia di profughi che sono dovuti fuggire dall’Azerbaigian in quei drammatici anni, insieme – più di recente – ad alcune decine di famiglie di cristiani armeni (in molti casi, figli e nipoti dei sopravvissuti al genocidio armeno del 1915), fuggiti dalla guerra in Siria.

Anno 1991: lo scoppio

La questione del Nagoo-Karabakh è nata col tramonto del sistema sovietico che – pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni – era riuscito a tenere a bada antiche tensioni più volte riesplose fra cristiani armeni e musulmani azeri, due popolazioni che per lungo tempo avevano condiviso nel bene e nel male i frutti di questa terra. «Nel nero velluto della notte sovietica», come la definiva il poeta russo Osip Mandelstam, le questioni di nazionalità – come ogni altro tema politico – erano semplicemente bandite, o tuttalpiù materia da discutere di nascosto, fra le quattro mura di casa. Con la Perestrojka di Gorbaciov, quel silenzio ha avuto finalmente fine. Senonché, come una pentola a pressione tenuta coperta per troppo tempo, lo scoppio è arrivato ancora più forte e fragoroso, provocando una improvvisa e irrefrenabile violenza. Il Nagoo-Karabakh è un piccolo territorio, grande poco più della Basilicata o dell’Abruzzo, situato nel Caucaso del Sud, una regione stretta fra tre giganti: la Turchia, la Russia e l’Iran. Oggi vi si trovano poco meno di 150.000 abitanti. Il genio criminale di Stalin decise, per ragioni di opportunità politica, di assegnarlo negli anni venti alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, nonostante vi si trovasse già all’epoca una larga preponderanza di armeni. Una maggioranza non omogenea, allora, in una terra – il Caucaso – da sempre declinata al plurale. Cosa che si evince anche dal nome di questo stato non riconosciuto: Nagoo-Karabakh, tre lingue che si fondono in un solo toponimo. Il «giardino nero di montagna», così potremmo tradurlo in italiano, è un’espressione che coniuga russo («nagoo», che vale per montagnoso), turco («kara», ovvero di colore nero) e persiano («bakh» significa giardino). I suoi abitanti, invece, preferiscono chiamarlo con il toponimo esclusivamente armeno di Artsakh.

Ebbene, con l’entrata in crisi dell’Urss alla fine degli anni Ottanta, la maggioranza armena del Karabakh si attiva per rivendicare l’indipendenza dall’Azerbaigian e ricongiungersi con l’Armenia. Lo fa con un referendum, nel 1991. Una cosa inaccettabile, per gli azeri, tant’è vero che ne nascerà un conflitto destinato a durare per un quarto di secolo, arrivando fino ad oggi.

Bilancio di una guerra lontana dai riflettori

Trentamila morti, oltre un milione fra profughi e sfollati (vedi riquadro), interi villaggi rasi al suolo, una corsa agli armamenti che produce povertà e insicurezza: questo il tragico bilancio di un conflitto che in molti, per lungo tempo, si sono ostinati a considerare congelato. Questo almeno fino all’inizio di aprile, di quest’anno, quando la tensione è tornata a esplodere incontrollata. Oltre trecento morti in quattro giorni di scontri, fra carri armati ed elicotteri abbattuti, e ancora interi villaggi da cui la popolazione civile è stata costretta a sfollare. Quest’improvvisa esplosione di violenza ha riportato a galla una questione – quella del Karabakh – a lungo sepolta, sempre lontana dai riflettori. Ma non si è sparato soltanto ad aprile. Morti lungo quella lunghissima frontiera si hanno praticamente ogni mese, se non ogni settimana, da tantissimi anni. Il cessate il fuoco raggiunto nel maggio del 1994 ha prodotto uno stallo diplomatico a cui non è seguito alcun accordo di pace. Ogni iniziativa diplomatica è naufragata, e così – nonostante periodi di calma apparente – non si è mai finito di morire.

Per gli armeni, che la guerra l’hanno vinta conquistando per intero il territorio, questa terra è loro, tant’è vero che l’hanno proclamata repubblica indipendente, pur senza riuscire a giungere ad alcun riconoscimento internazionale. Il Karabakh si è provvisto di un presidente, un parlamento e istituzioni, ed elegge con votazioni democratiche i suoi rappresentanti. Per gli azeri, invece, che non si sono rassegnati alla sconfitta, questa terra non può essere che loro, e puntano a riavere indietro tutto il territorio conteso.

Benvenuti a Stepanakert

Ma come si presenta il Nagoo-Karabakh, e come ci si arriva? Si tratta di una regione quasi inaccessibile, senza alcun aeroporto attivo, che si raggiunge solo via terra attraverso un’unica, tortuosissima strada, che parte dall’Armenia. Tutte le altre vie e frontiere sono chiuse e inaccessibili. Giunti al confine di questo stato che non c’è, per entrare alla fine basta un visto – curiosamente scritto a mano – rilasciato a una piccola dogana, ma anche presso un ufficio di rappresentanza a Yerevan.

Dopo circa sei ore di viaggio dalla capitale armena, in macchina o in autobus, si arriva a Stepanakert, il centro maggiore della regione. Si tratta di una cittadina di oltre 50.000 abitanti che, a differenza di tutti gli altri centri urbani del Karabakh, si trova in un ottimo stato. Qui hanno sede il parlamento e le varie istituzioni dell’autoproclamata repubblica, ma anche molti negozi, ottimi ristoranti, e persino un pub dove si può assaggiare una birra prodotta in loco. Nonostante la tensione resti alta, si è persino riusciti a sviluppare, pur senza toccare grandi numeri, il settore turistico. Vi si trovano così diversi ottimi alberghi, e persino un piccolo ufficio turistico nel centro di Stepanakert.

Ma onnipresente è la guerra, almeno nel pensiero. Qui tutti hanno combattuto, tutti hanno parenti o amici che hanno perso la vita. Sotto l’apparenza di normalità, scorrono vene profonde di dolore, per quanto non subito percettibili. Eppure, in superficie, l’atmosfera di provincia è quella che si respira in ogni altra parte del mondo. In piazza della Repubblica, che costituisce il cuore di questa cittadina, fra una macchina e l’altra si può sentire il frinire dei grilli anche in pieno giorno. Gli sforzi per tirare a lucido la città – anch’essa distrutta dalla guerra – sono stati notevoli, e il risultato è tutt’altro che sgradevole.

Benvenuti a Shushi

Ben diverso il caso di Shushi (chiamata ?u?a in lingua azera). Nonostante gli sforzi del governo, la cittadina non si è più ripresa dal conflitto. Benché sia solo a pochi chilometri da Stepanakert, i prezzi delle case sono molto più bassi. Facile capire il perché: molti gli edifici abbandonati, e ancor più numerosi quelli che portano segni di proiettili o esplosioni. Tutto qui odora di macerie. Le nuove costruzioni, molto curate – un ufficio del turismo, il mercato coperto e un albergo di proprietà di un armeno libanese – non fanno che mettere in risalto ancor più la desolazione circostante, in contrasto stridente. Qui i bambini giocano alla guerra fra gli edifici sventrati dalle bombe, mentre gli adulti – in molti casi profughi che hanno lasciato l’Azerbaigian negli anni Novanta – trasudano disperazione.

Tanti anche i monumenti che raccontano il passato multietnico della città, ormai perduto, e la storia di questo conflitto: due moschee e una scuola coranica, alcune case di chiara impronta islamica. La cittadina di Shushi – situata su un’altura da cui le truppe azere bombardavano notte e giorno Stepanakert – fu al centro della battaglia più importante della guerra del Nagoo-Karabakh. La sua presa nel 1992 da parte degli armeni rappresentò una svolta del conflitto, e tutti qui ancora la ricordano con emozione. Prima dell’entrata nella città, provenendo dalla capitale, un carro armato T-72 – usato dagli armeni e divenuto simbolo della vittoria – è lì a ricordarlo.

Freddo, fango e filo spinato

La strada che congiunge la capitale de facto, Stepanakert, alla cittadina di Martakert è un vero pugno allo stomaco. Uno dopo l’altro scorrono, accanto a chi la percorre, villaggi distrutti e in rovina. Il caso più celebre è quello di Aghdam, chiamata l’Hiroshima del Caucaso, dato che è completamente rasa al suolo. Terribile anche la situazione in cui versa il villaggio di Talish, dove si è combattuto casa per casa ad aprile, e la popolazione è oggi interamente sfollata.

A pochissimi chilometri dalla strada e da questo villaggio, scorre l’infinita frontiera con l’Azerbaigian dove, da una parte e dall’altra, i giovani del Caucaso trascorrono il loro tempo chiusi in trincea. Uno spettacolo agghiacciante: ragazzi con un kalashnikov in mano che, nel freddo e nel fango, prigionieri di una noia e di una solitudine impossibili da combattere, passano le loro giornate in condizioni di estrema povertà e privazioni. Lungo il filo spinato, pendono barattoli di latta, usati – insieme ai cani lupo alla catena – per prevenire possibili incursioni. La tecnologia pare completamente assente, in un paesaggio in tutto e per tutto simile a quello della prima guerra mondiale.

Una waste land che è un fallimento di tutti, e non solo dei governi locali. Tutti i tentativi – invero neanche troppo convinti – dell’Ue, della Russia e degli Stati Uniti per arrivare a una soluzione diplomatica sono naufragati. Il risultato è paradossale, assurdo. Una terra a bassissima densità abitativa, verde, boschiva e dall’enorme potenziale per allevamento e agricoltura, resta così imprigionata in un limbo che ha l’amaro sapore dell’inferno. Entrambi membri del Consiglio d’Europa, Azerbaigian e Armenia mandano a morire i loro figli, compromettendo il loro stesso futuro, ormai da un quarto di secolo per contendersi questo fazzoletto di terra privo di risorse quali petrolio o gas. Un grido, il loro, troppo a lungo dimenticato, qui ed altrove.

Simone Zoppellaro*

 

* Simone Zoppellaro, giornalista freelance, per 7 anni ha lavorato fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. È corrispondente per l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Scrive tra gli altri per il Manifesto e La Stampa. Autore del libro «Armenia oggi» (Guerini e Associati). Roberto Travan, giornalista professionista. Come fotografo indipendente ha seguito le missioni militari italiane in Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Kosovo. Ha documentato la guerra in Ucraina e le recenti tensioni in Tunisia. Per i servizi realizzati in Nagoo-Karabakh, non potrà entrare in?Azerbaigian per i prossimi 5 anni. I suoi servizi sono stati pubblicati da La Stampa – giornale in cui lavora dal 1989 – e tradotti in diverse lingue.

 




L’Africa in scena


Il cinema africano cresce. I temi trattati sono impegnati: dalla migrazione al rapporto con l’Europa, l’Aids e i conflitti generazionali. La tradizione e la modeità. E spunta il tema dell’integralismo islamico. Dai festival nel continente africano alle sale europee. Ma è un cinema non sempre compreso.

La bandiera nera del califfato sventola sulla mitica città di Timbuktu, al centro del Sahara dove per secoli si sono incrociate le carovane tuareg che trasportavano da una costa all’altra del continente africano tonnellate di oro e avorio e migliaia di schiavi neri. Nella città capitale della cultura i jihadisti hanno raso al suolo i mausolei dei profeti islamici e bruciato i manoscritti quattrocenteschi, mentre le donne sono costrette a vendere il cibo al mercato, oltreché avvolte nei veli, anche con le mani guantate. Fare musica non è permesso, giocare al pallone in un polveroso spiazzo tra le case nemmeno. Il jihad non lo consente.
E non consente neppure che il  pastore e la sua compagna vivano sotto la stessa tenda senza essere sposati. Per questo motivo saranno lapidati.

È questa la scena su cui si chiude «Timbuktu», del regista mauritano Abderrahmane Sissako. Uno dei pochi film di produzione africana che sia riuscito a conquistare il pubblico europeo nei canali tradizionali delle prime visioni. In Francia l’hanno visto un milione di spettatori, in Italia ha incassato 70 mila euro nel primo fine settimana, 428 mila in totale, una performance più che modesta in sé, ma in grado di generare fiducia nei progressi di un cinema prodotto in Africa da registi africani.

«Timbuktu» è stato persino indicato nella cinquina dei candidati all’Oscar 2015 per il miglior film straniero, «dramma poetico e struggente con cui Sissako mostra come il jihad porti dolore e lutto in terre che vorrebbero solo vivere in pace. Il regista rappresenta una comunità di islamici moderati forse un po’ idealizzata e facile da amare. Pur nella tragicità delle situazioni, riesce a coniugare realismo e lirismo, non negandosi neppure un’inaspettata vena di humour che ricorda il cinema del regista palestinese Elia Suleiman. Si apprezza soprattutto l’appassionata difesa delle donne, prime vittime dell’integralismo». Sono parole scritte da Roberto Nepoti su La Repubblica, nel febbraio 2015, quando il film approdò sugli schermi italiani. «Roba da matti. Questo filmino di un regista mauritano, dal nome impossibile, corre all’Oscar per il miglior film straniero. Nobili gli intenti, mortale la noia» fu, negli stessi giorni, il commento di Massimo Bertarelli su Il Gioale.

Certo la noia può fare capolino, se si giudica questa pellicola con gli stessi criteri di un «cinepanettone» (peraltro anche quest’ultimo ne può provocare altrettanta) e se non si conoscono i ritmi di vita di un mondo dove silenzi, spazi e tempi sono dilatati al massimo rispetto a quelli cui siamo abituati noi europei. In Africa l’impatto del film è stato forte: il regista Abderrahmane Sissako è stato consulente del premier della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz e per questo è stato accusato di parlare dei crimini del Califfato in Mali, anziché riversare il suo sdegno politico sulla schiavitù ancora praticata proprio in Mauritania da un regime giudicato corrotto e repressivo dall’autorevole sito «Mondafrique.com». Intanto però i numerosi premi inteazionali conquistati da «Timbuktu», tra cui sette César, gli Oscar francesi, hanno portato il cinema dell’intero continente alla ribalta mondiale. Intanto, al successivo Fespaco di Ouagadougou, nel 2015 non si voleva ammettere il film al festival stesso, proprio per la paura di dividere anziché unire. E invece Timbuktu vi ha vinto pure due premi (miglior arredamento e migliore musica).

Il festival

Già, Fespaco ancora una volta alla ribalta, perché se finalmente si parla con ottimismo di cinema africano lo si deve soprattutto a questa rassegna del cinema panafricano che tiene banco ogni due anni nella capitale del Burkina Faso, dal 1969, e che nel prossimo 2017 affronterà la sua 25° edizione. Obiettivo: «Far capire agli africani di non cercare altrove ciò che hanno già», ovvero quel patrimonio culturale millenario che va oggi espresso secondo nuove regole. Lo affermò il senegalese Sembène Ousmane, lo scomparso decano dei cineasti africani, presenza fissa di quel festival che da 40 anni ormai proietta a ogni edizione centinaia di film e documentari nel centro della capitale, in periferia, in zone rurali, nelle scuole e nelle arene all’aperto sempre affollate da burkinabè e da stranieri.

Il festival è un momento importantissimo di incontro anche per gli addetti ai lavori che ne approfittano per fare sfoggio di abiti eccentrici a rimarcare diversità e analogie tra produzioni che hanno avuto la loro culla nel Sahel, tra Senegal e Burkina Faso, e che ancora oggi distinguono la loro cinematografia da quella del Maghreb, pur tutte francofone, a quelle anglofone di Sudafrica ed Etiopia, e lusofona dell’Angola. Prima di questa nuova vitalità il cinema africano affrontò (e subì) le produzioni di stampo coloniale e poi etnografico, sino a darsi un’identità con un film da tutti i critici ormai riconosciuto come modello di nuove consapevolezze, quell’«Afrique sur Seine», fatto da africani per africani, che nel 1955, come si intuisce dal titolo, con una pur incerta qualità raccontò la vita dei neri esiliati a Parigi. Gli anni ’70 portarono poi nel cinema subsahariano, concepito soprattutto in Senegal, occasioni di crescita complessiva di mentalità e di rinnovo nell’estetica e nella narrazione, tanto che nei successivi anni ’80 si videro nelle sale generi diversi da quelli trattati sino ad allora, ovvero parodie weste, commedie, melodrammi, film d’azione, musical, diretti – altra novità – anche da registi donna.

L’Africa reale

Le tematiche sono oggi innanzitutto sociali, politiche, di denuncia, di riflessione sulle guerre e sulle riconciliazioni nazionali, di rielaborazione del passato storico e della colonizzazione, sul dialogo con l’Europa come momento di incontro e scontro tra le culture, di indagine sui meccanismi del potere, sui conflitti generazionali e famigliari tra genitori e figli, sulle morti per Aids. C’è attenzione per l’eterno dilemma di conciliare tradizione e innovazione, per il ruolo fondamentale delle religioni, per l’emancipazione femminile, per le migrazioni con camere in presa diretta sulla realtà quotidiana.

I problemi più rilevanti sul tappeto restano quelli del finanziamento, i più urgenti da risolvere. Falliti, una ventina di anni fa, alcuni tentativi velleitari di fare da sé, oggi la stragrande produzione è francofona con sostegni economici che giungono da radio e tv francesi appoggiati dall’Unione europea. L’obiettivo odierno è però svincolarsi dai possibili condizionamenti che questa scelta comporta e raggiungere l’autosufficienza attraverso partenariati privati e contemporanee agevolazioni statali su tasse e diritti di ripresa. Serve insomma professionalizzare tutto il settore con la creazione di centri di formazione per cineasti e attori, affiancati da strutture proprie di distribuzione delle pellicole utili a svincolarsi dalle majors interessate prima di tutto a creare profitti.

Il Fespaco fortunatamente non è la sola manifestazione cinematografica del continente. A Zanzibar, di fronte alle coste della Tanzania, di cui l’isola costituisce parte integrante, siamo giunti alla 19° edizione dello Ziff, lo Zanzibar Inteational Film Festival, il più importante evento culturale dell’Africa orientale, noto anche come Festival of Dhow Countries, ovvero la rassegna del paese dei sambuchi,  sempre ricca di eventi collaterali pensati per la popolazione locale con riflessioni sulla condizione femminile e giovanile in genere. Vi partecipano anche film mediorientali e indiani con proiezioni nella suggestiva capitale Stone Town e nelle isole di Pemba e Unguja che pure non possiedono sale cinematografiche.

Anche in Italia

Il film vincitore del Fespaco partecipa di diritto al Festival del cinema africano di Verona, un’iniziativa voluta dai missionari Comboniani di Nigrizia, e ormai consolidata in Italia, per far luce su quel mondo spesso, come già detto, in crisi di visibilità. In Italia un altro aiuto viene da Milano, che da 25 anni propone ai Bastioni di Porta Venezia il Festival del cinema africano, d’Asia e di America Latina. Tra gli obiettivi della rassegna del Coe (Centro Orientamento Educativo), ci sono, citiamo testualmente: «Approfondire la conoscenza dei temi e dei linguaggi delle cinematografie meno conosciute e mettere in evidenza le potenzialità della creatività artistica dei tre continenti; veicolare un’immagine dell’attualità e della cultura d’Africa, Asia e America Latina, attraverso il punto di vista dei registi locali; proporre un’alternativa concreta alla cultura e all’informazione corrente dei mass media in rapporto al Sud del Mondo; dare un’opportunità ai registi di entrare in contatto con le istituzioni europee di produzione e distribuzione cinematografica; stimolare uno scambio culturale tra gli artisti, il pubblico, i giornalisti e i professionisti del settore degli audiovisivi; favorire relazioni di scambio tra le istituzioni, i festival, gli organismi europei impegnati nella promozione della cinematografia africana; creare un luogo di riflessione annuale sulle nuove tendenze e prospettive del cinema del Sud del mondo; offrire alle comunità straniere in Italia un’opportunità d’incontro con la propria cultura d’origine; sollecitare nelle scuole l’introduzione degli audiovisivi come strumenti didattici per l’educazione all’immagine e per l’approccio interculturale».

Insomma un insieme di buone intenzioni e pratiche che si sono materializzate strada facendo anche in tante altre città e che fioriscono ogni anno soprattutto tra la fine primavera e l’estate. A Torino nel maggio scorso si è parlato di migranti con la rassegna voluta dal Csa, Centro piemontese di Studi africani, intitolata la «Diaspora dei giorni nostri», con la proiezione di quattro film che raccontano di identità perdute, nostalgia, ma anche di opportunità per un riscatto, dei registi Alain Gomis, Haile Gerima, Ahmed El Maanouni, Pocas Pascoal. E da Torino a fine maggio scorso è anche partita un’importante rassegna itinerante con 20 tappe in otto regioni per presentare 20 titoli tra lungometraggi e cortometraggi, foiti dal catalogo Coe, l’unico in Italia esclusivamente dedicato a film realizzati da registi provenienti dai tre continenti, selezionati o premiati proprio al festival  milanese. La rassegna si chiama «Sconfinamenti. Le culture si incontrano al cinema» ed è organizzata da Engim Internazionale Piemonte in collaborazione con Pianeta Africa.

Due esempi

Nella pellicola di Gomis, «Tey, aujourd’hui», coproduzione franco senegalese del 2012, un giovane uomo di ritorno a Dakar dall’America in cui avrebbe potuto avere un futuro certo, pur sano nel fisico, sente di essere giunto all’ultimo dei suoi giorni, e lo sanno anche amici, conoscenti e persino le autorità locali che in municipio gli confezionano una festa d’addio. Satchè, il protagonista, viene salutato dai familiari radunati nel patio di casa tra lacrime e preghiere, gli amici lo avvolgono del loro affetto mentre percorre le vie della sua infanzia. Lo zio, che celebra funerali, lo dispone sulla terra compiendo le stesse operazioni che farà sul suo cadavere. Il suo primo amore lo scaccia rimproverandogli l’abbandono, così come la moglie prima lo respinge perché non può accettare la cruda realtà, e poi lo accoglie nel suo letto.

Un’altra parabola su aspettative, ritorni e speranze deluse è «Teza», coproduzione franco tedesca ed etiope. Anberber, studente etiope di belle speranze si laurea medico in Germania, ha la fidanzata tedesca, così come l’ha il suo amico Tesfaye. Quando Menghistu prende il potere, i due uomini, impegnati politicamente a sinistra, salutano il nuovo regime marxista come il rinnovamento tanto auspicato e tornano in patria, dove saranno clamorosamente delusi dal corso degli eventi. Tesfaye, che per gli ideali ha abbandonato in Europa anche il figlio, perderà la vita colpito dal repressivo regime, e Anberber si salverà attraverso l’amore per una donna ripudiata dalle regole della tradizione e per il suo dedicarsi all’insegnamento nei villaggi restituendo ai locali il sapere che lui aveva avuto il privilegio di acquisire.

L’Africa è dunque oggi scenario per rappresentare i luoghi dove agiscono gli individui, non più esotico sfondo. Ci sono villaggi da cui ci si sposta per andare a vivere in città o a cercare fortuna in Europa e in Usa, toccando i temi del viaggio come riscatto, ma anche come raggiungimento di una meta non sempre soddisfacente, piena di trappole, imprevisti, desideri non avverati che fanno talvolta rimpiangere, idealizzandola, la protezione della casa d’origine irrimediabilmente perduta. Un cinema finalmente maturo capace di riservarci molte piacevoli sorprese.

Mario Ghirardi*

  • Gioalista ed editore con esperienza trentennale nel campo dell’informazione locale. Ha partecipato a progetti di cooperazione in Sahel. Attualmente è docente di corsi di formazione universitaria in criminologia.