Mussulmani seconda generazione Italia


Introduzione

Seconda generazione

Terrorismo e fondamentalismo islamico rischiano di riaccendere uno «scontro di civiltà» nei paesi europei. In questa situazione, che ruolo possono giocare le seconde generazioni?

Negli ultimi mesi terrorismo e fondamentalismo islamico sono tornati prepotentemente sulle prime pagine dei giornali, portando con sé un’isteria collettiva che richiama le paure dello «scontro di civiltà». Il terrorismo e i suoi effetti collaterali hanno, infatti, ricadute importanti sulle stesse comunità islamiche in Europa e sul faticoso processo di integrazione nelle comunità in cui si trovano. Ai musulmani che vivono nei paesi europei viene chiesto con forza di prendere posizione: condannando, dissociandosi dagli estremisti, cercando spiegazioni ai gesti folli, per «tranquillizzare» le società in cui vivono. Gioalisti e accademici si sforzano allora di inquadrare nuove figure con cui poter dialogare, da poter «integrare» o già «integrate»: il «musulmano moderato», il «musulmano europeo». Cercando di dare etichette, però, talvolta, si viene a generare ancora più confusione, rendendo sempre più difficile trovare interlocutori adeguati perché, al di là delle prese di posizione pubbliche e ufficiali, molti sono i punti critici che rimangono aperti: l’esistenza o meno di un Islam europeo o italiano, l’influenza dell’Islam politico, il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa, il ruolo della secolarizzazione.

A questi elementi va aggiunta la crescita di una nuova generazione di musulmani di origine straniera in Italia che, nell’ultimo decennio, ha raggiunto l’età adulta, e il confronto (talvolta lo scontro) tra padri e figli sulla diversa visione della religione e del ruolo di questa nella società d’adozione, sulle nuove forme di riappropriazione di rituali, tradizioni e usanze, sulla rivisitazione e rinegoziazione di pratiche e credenze, che riflette una crescente autonomia soggettiva dei più giovani dalla cultura ereditata. La partecipazione a un contesto democratico, l’uso di una lingua differente da quella della propria comunità d’origine, l’immersione totale in luoghi di socializzazione italiana condizionano, infatti, le scelte dei giovani musulmani, contribuendo significativamente a una messa in discussione e, spesso, a una reinterpretazione critica dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto la ricercatrice Anna Granata, i giovani spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica».

Si riscontra, insomma, un progressivo distacco da un Islam «etnico» e l’affermazione di una relazione personale con la dimensione religiosa. I giovani musulmani non vedono più l’Islam come una mera riproduzione di pratiche religiose del paese di origine dei genitori in un nuovo contesto. L’appartenenza religiosa delle seconde generazioni si configura piuttosto come uno stile di vita legato a una scelta: scelta che aiuta a comprendere sé stessi e sentirsi parte attiva della società.

Viviana Premazzi

SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN
SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN

Musulmani d’Italia

In Italia, l’appartenenza religiosa, in quanto dato sensibile, non viene rilevata dalle analisi Istat. Per questo le stime, foite dai diversi enti e istituti di ricerca, possono variare significativamente: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) nel 2012 parlava di 115mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, Camillo Regalia di Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) alla conferenza Metropolis del 2014 li stimava in 258mila. Più alti sono invece i numeri foiti dal Pew Forum on Religion and Public Life: nel 2010, secondo l’istituto, i musulmani in Italia erano già 1.583.000, dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) 1 milione e 700mila, e stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Centro studi e ricerche): più di 1 milione e 600mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, troviamo ora anche una consistente presenza di «musulmani di seconda generazione», ossia giovani di fede musulmana e di origine immigrata, ma nati in Italia. (Vi.P.)

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA' MUSULMANA DI REGGIO
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA’ MUSULMANA DI REGGIO


L’analisi

Stessa fede, modalità diverse

La prima generazione di immigrati musulmani ha visto l’Islam come un elemento di
riconoscimento e rafforzamento identitario e come un antidoto alla solitudine e all’isolamento. La seconda generazione (ovvero i figli) non rifiuta la religione, ma ha avviato un (lento) processo di revisione critica e di adattamento al contesto di vita del paese d’adozione. Nel contempo, l’affermazione delle nuove tecnologie ha anche facilitato la diffusione di visioni radicali.

Ragionare di religione in emigrazione spesso significa tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, ritenuta spesso più secolarizzata. Tuttavia, risultati di indagini empiriche recenti come quella realizzata da Abis Analisi e Strategia nel 2011, G2: una generazione orgogliosa1, hanno mostrato, invece, che la religione può giocare un ruolo significativo anche nelle vite dei giovani di seconda generazione, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi aveva evidenziato2.

L’esperienza migratoria, infatti, è certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui, in presenza di un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità d’espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose3. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli e quindi la trasmissione dell’identità culturale.

Spesso per la prima generazione il fatto di trovarsi in una realtà nuova, senza riferimenti linguistico-culturali familiari, ha favorito il ricorso alla religione come elemento di riconoscimento e rafforzamento identitario, ma anche come antidoto alla solitudine e all’isolamento. Questo soprattutto perché la frequentazione delle moschee e dei luoghi di culto permetteva l’incontro con connazionali con cui condividere esperienze e bisogni. È però con il passaggio da una migrazione temporanea (o percepita come tale) a una di radicamento e stabilizzazione che si sono concretizzate nuove forme associative per la trasmissione della propria religione ai figli e nuove richieste nei confronti della società italiana, ad esempio riferite alla libertà di culto.

La pratica religiosa in un nuovo contesto

La socializzazione dei giovani in Italia dà vita a percorsi autonomi di relazione con il sacro: nascono nuove riflessioni sulla propria identità personale e sull’appartenenza religiosa personale e collettiva. La fede non viene abbandonata, ma rivista e adattata al contesto di vita quotidiano, traducendosi in un pluralismo valoriale che rivendica un proprio riconoscimento4. I giovani infatti spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica»5. Studiando l’idea che i figli hanno del contesto religioso familiare, si riscontra l’avvio di un processo di revisione e reinvenzione delle pratiche religiose. Se per le prime generazioni vivere la propria fede in emigrazione significa spesso mantenere anche le tradizioni religiose-culturali del paese di origine, per i figli non è più così. Le strategie di adattamento sono molteplici e in alcuni casi si riscontra un certo interesse per l’approfondimento dei contenuti fondamentali della propria fede, per reagire a un contesto di vita in cui coesistono secolarizzazione e pluralismo religioso, fenomeni che mettono in discussione valori e principi tradizionali6.

Come evidenzia la professoressa Jocelyne Cesari (University of Birmingham) a proposito dei musulmani in Francia, anche la secolarizzazione in atto nel paese ha influenzato i giovani musulmani spingendoli, in molti casi, a individualizzare e privatizzare la loro religione. Questi processi, secondo Oliver Roy (Istituto universitario europeo), mettono anche in discussione l’idea stessa di una comunità musulmana «unica» in Europa: «Non esiste un Islam occidentale, esistono musulmani occidentali». L’individualizzazione può significare maggiore libertà di adattare alcune regole a determinati contesti o di sviluppare forme inedite di mescolanze e sincretismo, ma può anche portare a orientamenti fondamentalisti e radicali, tendenza ulteriormente complicate dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha aggiunto nuove opportunità ma, parallelamente, nuovi rischi. L’uso di internet e dei canali satellitari può infatti portare allo sviluppo di interpretazioni «bottom up» dell’Islam (interpretazioni fai da te della religione), un Islam «cut and paste» (un Islam taglia e incolla che ognuno si costruisce prendendo quello che più gli piace o gli fa comodo), eclettico, dal quale le persone possono prendere ispirazione a seconda delle proprie preferenze. L’incontro online con particolari messaggi o predicatori può anche legare i giovani nati in Italia a pratiche religiose lontane dalle loro esperienze familiari e favorire la diffusione di visioni radicali e inconciliabili con il contesto di vita, producendo situazioni d’isolamento e straniamento che portano a rifugiarsi sempre più in ambienti «protetti», nella rete o nella vita reale.

Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Oltre le moschee e i centri islamici

Il crescente individualismo dei giovani musulmani con riferimento alla fede islamica può essere collegato alla perdita d’autorità delle organizzazioni religiose, che non sono più in grado di trasmettere i loro valori e di rispondere alle domande e ai bisogni delle nuove generazioni. Per gli adulti immigrati e quindi per le istituzioni da loro create (moschee e centri islamici) è infatti difficile comprendere fino in fondo il contesto in cui i giovani crescono e socializzano. Alle difficoltà e alle paure dei genitori che i figli seguano l’esempio dei coetanei italiani e quindi perdano i propri valori tradizionali, fa da contraltare, però, la cosiddetta «forza della numerosità», che sta diventando un aspetto importante nel rapporto fra giovani e religioni. Per i figli dell’immigrazione, infatti, la sensazione di essere «come un pesce fuor d’acqua» si manifesta quando essi assumono comportamenti che li distinguono dalla maggioranza dei coetanei. Tuttavia, l’aumento della visibilità delle famiglie musulmane, del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, inibite dal timore della discriminazione. La religione e le associazioni religiose create dalle seconde generazioni, in questi casi, sembrano soddisfare il desiderio di trovare un punto di riferimento morale e il proprio posto nel mondo, evidenziando la propria originalità, all’interno di una precisa appartenenza. L’Islam praticato insieme ai propri coetanei offre stabilità, un quadro in cui si può vivere da musulmani nella società italiana, continuando però a interrogarsi sia rispetto all’identità religiosa dei propri genitori in Italia, sia rispetto all’identità religiosa percepita nei paesi d’origine, in cui essere musulmano va per così dire da sé e determinati comportamenti non richiedono continue giustificazioni, come invece avviene in Italia.

Le associazioni musulmane dal «chi siamo» al «cosa possiamo fare»

La nascita di associazioni musulmane di seconda generazione, come ad esempio quella dei «Giovani Musulmani d’Italia», ha attirato l’attenzione degli studiosi sociali per la sintesi che tali realtà sembrerebbero esprimere tra religiosità dei padri e religiosità dei figli e per la capacità di porsi come musulmani in Italia, protagonisti nella costruzione della società italiana. Le associazioni sembrano infatti esprimere la richiesta di uguaglianza di questi nuovi italiani che non si limitano a chiedere di essere riconosciuti come cittadini liberi di professare le proprie convinzioni religiose, ma domandano anche di partecipare attivamente alla società, al pari dei loro coetanei non musulmani. Oltre quindi a offrire formazione e aggregazione per i propri membri, le associazioni superano l’atteggiamento rivendicativo di diritti tipico delle prime generazioni e, forse considerando ormai acquisito il loro riconoscimento in quanto associazioni di italiani musulmani, guardano al di là dei confini della propria religione e della propria cultura di origine per proporre e realizzare insieme ad altre associazioni e singoli italiani progetti e attività in ambiti diversi. Ci troviamo quindi in presenza di una nuova generazione che non si accontenta più solo di esserci, ma che vuole partecipare attivamente alla costruzione di significati, che cerca quotidianamente di conquistare i propri spazi di azione e rivendicazione, sia rispetto alle prime generazioni sia rispetto all’intera società italiana. Superato il passo del «chi siamo», ora le associazioni sembrano cercare di rispondere alla domanda del «che cosa possiamo fare» in relazione al contesto sociale in cui sono inserite. Per le seconde generazioni, il riferimento all’immigrazione e alla diversità deve essere abbandonato: la relazione è sullo stesso piano, tra (quasi) cittadini7, ovvero tra residenti che si impegnano per il bene comune della comunità e della città in cui vivono.

Il cambiamento è significativo: da immigrati considerati destinatari di interventi, i giovani musulmani vogliono diventare coprotagonisti nei processi di costruzione delle politiche pubbliche. La seconda generazione perciò non confina più l’Islam a una questione personale, «da immigrati», ma cerca di far entrare il discorso religioso nel più ampio dibattito pubblico sul pluralismo, liberandolo dai suoi legami con l’immigrazione, di cui spesso i nuovi attori non hanno alcuna esperienza.

L’obiettivo di partecipazione si è tradotto, nei fatti, in un’idea di cittadinanza «praticata». La seconda generazione aspira a essere riconosciuta come partner, ad avere un ruolo attivo negli eventi culturali delle città, a intervenire laddove possibile nei processi decisionali sostenendo l’idea che l’Islam è compatibile con forme di cittadinanza attiva.

Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Le associazioni: i punti critici

Le aspirazioni però spesso si scontrano con la realtà, che vede le associazioni di seconda generazione, pur apprezzate da gran parte dei gruppi politici locali, non ancora completamente in grado di rappresentare l’Islam davanti alle istituzioni, anche per tensioni intee alla comunità islamica soprattutto riguardo ai processi di selezione delle leadership.

Un altro aspetto importante da mettere in luce è la relazione di queste associazioni con i propri membri. Essa infatti pone anche dei rischi, come ad esempio, quello di porsi come l’«unica vera via», quasi che l’appartenenza associativa risulti più importante dell’appartenenza religiosa, al punto che solo l’associazione possa pretendere di porsi come rappresentante dell’Islam. Il rischio è anche che, per i membri, le associazioni possano trasformarsi in un ghetto che chiede alla società italiana spazi di partecipazione e di riconoscimento, ma esclude anime e visioni diverse al proprio interno. Se le associazioni possono infatti configurarsi come un ponte tra la cultura islamica e occidentale, come pure tra i padri e i figli della nuova presenza musulmana in Italia, il rischio è che si trasformino in realtà che aderiscono incondizionatamente al pensiero dei padri o che cercano di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. Si tratta di un rischio concreto soprattutto in relazione alle modalità con cui si strutturerà nei prossimi anni l’egemonia religiosa e culturale nel confronto tra le generazioni. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. Questioni come l’autorità e la rappresentanza hanno, infatti, strettamente a che vedere con le dinamiche intergenerazionali, anche in relazione al modo in cui le prime generazioni considereranno l’Islam dei figli: se confinato in associazioni giovanili di «eternamente giovani», se cornoptato per influenzae gli orientamenti o se riconosciuto come una «terza via» in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine). La sfida ancora tutta da giocare riguarderà proprio la capacità dell’associazionismo islamico di sviluppare processi trasparenti di formazione delle leadership, in grado di garantire indipendenza e pluralismo. Al momento la creazione di una propria leadership è una delle questioni più importanti con cui si sta confrontando l’Islam in Italia. Il processo di selezione, in particolare rispetto ad alcune realtà associative giovanili, rischia di essere connotato da derive nepotiste, soprattutto per quanto riguarda la formazione teologica e culturale dei quadri, restando ancora troppo orientata verso (e influenzata da) i paesi di origine.

Viviana Premazzi

Note

(1) Abis Analisi e Strategia, G2: una generazione orgogliosa, Rapporto di ricerca, Milano 2011.
(2) Joceyline Cesari, Sean McLoughlin, European Muslims and the Secular State, Ashgate, London 2005.
(3) Viviana Premazzi, Religioni in migrazione. Intervista a Maurizio Ambrosini (Milano, 27 novembre 2014), in Giovanni?Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 75-77.
(4) Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
(5) Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010), pp. 86-100.
(6) Cfr. Luisa Deponti, Migrazione e religione: la prospettiva dei giovani della seconda generazione, «Corriere degli Italiani», 3 ottobre 2012.
(7) Diciamo «quasi» perché molti musulmani, pur nati in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, dato che la legge attuale non è basata sullo «ius soli».

Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall' associazione Papa Giovanni XXIII
Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall’ associazione Papa Giovanni XXIII


L’esperienza

Oratori, un passo avanti

Nato come luogo di rafforzamento della religione cattolica tra i più giovani, da qualche anno l’oratorio ha attenuato questa caratteristica originaria. Oggi, soprattutto nelle regioni del Centro Nord, l’istituzione accoglie molti ragazzi stranieri – i numeri parlano del 20-25% -, indipendentemente dal loro credo religioso. Per gli stranieri la motivazione è quasi sempre strumentale e la grande maggioranza dei genitori dei ragazzi non partecipano alle attività. Tuttavia, il ruolo che giocano gli oratori nel superamento delle differenze è rilevante.

Nel contesto italiano, in particolare nel Centro Nord, l’oratorio è rimasto nel tempo un luogo importante di socializzazione e punto di riferimento sotto diversi aspetti per molti bambini e adolescenti, oltre che per le loro famiglie.

Anche se la dimensione religiosa è la base e il cardine di tutte le attività che l’oratorio propone, non sembra rappresentare un elemento discriminante per chi non professa la religione cristiano cattolica. Oggi si assiste infatti a una diminuzione della partecipazione da parte dei giovani di origine italiana e un aumento nell’uso di strutture e servizi offerti dall’oratorio da parte dei giovani di origine straniera e delle loro famiglie, anche se, come vedremo più avanti, questo uso è nella maggior parte dei casi strumentale.

L’oratorio nasce come una struttura aperta a tutti e pronta ad accogliere anche coloro che esprimono bisogni peculiari: esso è, per sua natura, in dialogo con il contesto locale nel quale è inserito ed è attivo protagonista nei cambiamenti che coinvolgono la comunità alla quale appartiene e coinvolto nelle problematiche che emergono1.

Cosa dicono le ricerche

Nel 2015, secondo la ricerca Ipsos L’oratorio oggi, commissionata dalla Fom (Federazione oratori milanesi) e da Odielle (Oratori diocesi lombarde), gli oratori in Lombardia erano 2.307. Nel 15% di questi si svolgono attività specifiche per gli stranieri. In media, infatti, almeno un bambino su dieci che frequenta l’oratorio è straniero e di questi un terzo è musulmano. Anche in Piemonte, negli oratori salesiani, già nel 2008, il 21% dei ragazzi che li frequentavano erano stranieri2 e provenivano soprattutto da Maghreb, Perù, Ecuador e Brasile. In alcuni oratori delle diocesi lombarde – come, ad esempio, Cremona, Lodi e Milano – la presenza di minori stranieri raggiunge percentuali vicine al 40- 50% di tutti i frequentanti3. Nei diversi oratori si trovano racconti e pratiche diverse dovute anche alle diverse caratteristiche delle zone e della tipologia di immigrazione.

Secondo la ricerca Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione a cura di Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, l’oratorio viene scoperto per la prima volta dai ragazzi stranieri soprattutto grazie al doposcuola4 o ai corsi di lingua italiana, organizzati in genere per gli adulti, i genitori, che spesso devono portare con sé i figli piccoli, o grazie ad amici e compagni di scuola che invitano a giocare negli spazi all’aperto o nelle squadre sportive. Nel primo caso sono per lo più gli insegnanti della scuola a parlare ai ragazzi della possibilità di frequentare un doposcuola e dell’aiuto che potrebbe dare loro sia per l’apprendimento della lingua sia per un sostegno scolastico più generale.

Più rare sono le situazioni per cui la prima conoscenza avviene grazie all’iscrizione, da parte della famiglia, all’oratorio estivo, oppure attraverso la partecipazione alla messa e al catechismo5.

Secondo la ricerca condotta dalla Caritas Ambrosiana6 sui doposcuola nella diocesi di Milano, più del 40% dei ragazzi e delle ragazze che li frequentano è di origine immigrata con punte del 90% nei quartieri popolari di Milano. Questo dato supera il 50% nella città di Milano e nella zona di Lecco mentre nelle altre aree della diocesi tale valore si attesta intorno al 30- 35%. Nella sola diocesi ambrosiana sono presenti quasi 200 doposcuola, nella maggior parte di essi sono coinvolti prevalentemente volontari: universitari, insegnanti e pensionati.

In fila per l’oratorio estivo

L’oratorio estivo è uno dei momenti più importanti nella vita della struttura ed è, sempre più, un’occasione fondamentale di condivisione di esperienza tra italiani e stranieri e di educazione ai valori che sono comuni a tutte le nazionalità e le religioni: l’amicizia, il rispetto dell’altro, l’onestà7.

L’indagine Educare generando futuro mette in luce come l’oratorio estivo risulti essere tra le attività maggiormente frequentate dai ragazzi di origine straniera: la percentuale di minori stranieri si attesta, infatti, al 27% circa, sia per i maschi sia per le femmine. Sempre secondo i dati della ricerca, sul totale dei ragazzi stranieri presenti negli oratori estivi, la percentuale di cattolici si attesta al 60,2%; i musulmani tra i minori immigrati sono invece il 26,9% e coloro che appartengono ad altre confessioni cristiane rappresentano circa il 10%.

È possibile anche che alcuni ragazzi di origine straniera, i più grandi, dopo i primi anni da «utenti/usufruitori di servizi», prendano degli impegni e delle responsabilità in oratorio, come il compito di allenare una squadra sportiva, di fare l’animatore all’oratorio estivo o, più raramente, di partecipare agli incontri di catechismo o di confronto e riflessione settimanale del gruppo adolescenti. In quest’ultimo caso, può avvenire che i momenti di preghiera non siano vincolanti per loro (possano cioè non pregare) qualora siano di religione non cattolica. Come spiega il sociologo Maurizio Ambrosini (Università di Milano), infatti, «l’oratorio non viene percepito come un luogo di indottrinamento cattolico. Alcuni lo frequentano solo per le attività sportive, per altri invece è anche un’occasione di impegno»8. È quella che la professoressa Paola Bonizzoni (Università Milano Bicocca) chiama «inclusione non partecipante»: «I ragazzi hanno la possibilità di fare comunque un’esperienza di spiritualità e di riflessione che trascende (in quanto universale e connaturata alla natura umana) la specificità (e la padronanza) del linguaggio cattolico»9.

Don Andrea Plumari, della parrocchia di Precotto, indica (un suo commento anche a pagina 44, ndr) diversi atteggiamenti adottati da chi non è di religione cattolica rispetto alla preghiera: dalla partecipando alla preghiera, senza però pregare, per sentirsi comunque parte del gruppo a chi preferisce invece stae totalmente al di fuori per evitare problemi, probabilmente anche con la famiglia.

In poco più della metà degli oratori che compongono il campione della ricerca Educare generando futuro ci sono animatori di origine immigrata (52%) e il 44,4% delle parrocchie ha responsabili stranieri negli ambiti relativi alla pulizia e manutenzione, anche se in questo caso si tratta di adulti. Più scarsa è invece la partecipazione nei consigli pastorali di persone immigrate o tra i catechisti: 23,5% e 19%. Anche la quota di educatori (13,4%) e di allenatori sportivi (12,9%) risulta essere relativamente modesta.

L’oratorio e le famiglie: in cerca di cura ed educazione

Le famiglie intervistate, italiane e straniere, anche di religione non cattolica, considerano l’oratorio un luogo di educazione ed accudimento, un posto sicuro, controllato dagli adulti che lo gestiscono con un’attenzione educativa ai ragazzi, in cui viene chiesto il rispetto delle regole e vengono foiti stimoli positivi e non credono che la connotazione religiosa sia un problema per il proprio figlio. Esistono comunque casi, anche se più rari, di genitori che temono un luogo connotato dal punto di vista religioso. A Torino, ad esempio, un genitore, marocchino musulmano, voleva vietare al figlio di giocare nella squadra di calcio dell’oratorio perché temeva lo volessero convertire10.

L’approccio dominante nei confronti delle attività e dei gruppi presenti in parrocchia e in oratorio è, però, di carattere strumentale: per tutti – italiani e non, cattolici e musulmani e di altri credi – l’oratorio sopperisce al bisogno di cura e di educazione.

Sarebbe interessante capire se, nel caso ci fossero strutture simili, organizzate dalle proprie comunità religiose, la partecipazione si orienterebbe verso queste piuttosto che verso gli oratori che hanno il valore aggiunto di offrire ai ragazzi la possibilità di stare anche con ragazzi italiani. Il caso della comunità filippina, da questo punto di vista, è emblematico: i filippini, infatti, tendono a fare gruppo a sé e si concentrano soprattutto nelle cappellanie dove celebrano la messa nella propria lingua.

CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL' ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE
CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL’ ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE

Genitori stranieri: un coinvolgimento ancora limitato

Nonostante all’oratorio ci siano possibilità di incontro non solo tra i ragazzi, ma anche tra le famiglie, i genitori dei ragazzi stranieri sembrano relazionarsi maggiormente con i connazionali o con altri stranieri e meno con i genitori italiani, partecipando poco alle occasioni di festa e agli incontri dedicati ai genitori, mentre sembra cerchino occasioni di incontro e di confronto con chi si occupa del doposcuola e chi ha ruoli di responsabilità all’interno dell’oratorio11.

Le famiglie hanno un ruolo attivo nella fase del «contatto» poiché sono loro che devono iscrivere il figlio al doposcuola o all’oratorio estivo, ma sono meno coinvolti nelle fasi successive: i livelli di partecipazione, infatti, sono molto bassi. Sempre secondo la ricerca Educare generando futuro, nessuna attività/iniziativa vede il coinvolgimento di più del 7% di famiglie immigrate. Mentre, laddove presenti, sono impegnate in attività caritative/missionarie (6,3%), nel gruppo famiglie (6,2%) e nelle attività ricreative/culturali (5,2%). Ugualmente basso è il coinvolgimento in ruoli di responsabilità, come già segnalato in precedenza nella partecipazione ai consigli pastorali o tra i catechisti.

L’oratorio è un luogo dove si costruiscono e si sviluppano importanti relazioni tra pari e con adulti significativi: sacerdoti, suore, educatori ed educatrici e in cui la provenienza e l’origine dei genitori spesso passano in secondo piano rispetto alle dinamiche e ai processi classici di socializzazione dei ragazzi e degli adolescenti. I ragazzi vivono, infatti, nelle relazioni tra pari una dimensione di normalità e le differenze – che si vedono di più nella generazione dei genitori – sono spesso superate da un radicato senso di appartenenza al territorio in cui si abita e si vive e ai luoghi che si frequentano, come l’oratorio, appunto, più che alle proprie origini.

Per il dialogo serve la conoscenza

Dal punto di vista dell’offerta e della proposta valoriale ed educativa dell’oratorio gli intervistati per la ricerca Educare generando futuro concordano su due questioni: la presenza di ragazzi stranieri negli oratori e nelle parrocchie stimola l’innovazione nell’organizzazione delle attività e richiede, in particolare con riferimento alla presenza di minori stranieri di fede non cattolica, che vengano organizzate occasioni di mutua conoscenza e, allo stesso tempo, fa sorgere un bisogno di formazione specifica per gli educatori, i catechisti e gli animatori.

Quello della formazione e delle occasioni di incontro, non solo per catechisti ed educatori, ma anche per i ragazzi e le loro famiglie, è un tema ricorrente rispetto alle questioni poste dall’incontro e dal dialogo interculturale ed interreligioso: prima di dialogare è necessario conoscersi.

Sempre più urgente appare il bisogno di formazione e accompagnamento attraverso l’organizzazione di incontri, anche su temi molto specifici come quello della legislazione e regolazione dell’immigrazione e, soprattutto, dal punto di vista religioso, sull’Islam e le sue diverse correnti.

Già il cardinal Martini nel documento Noi e l’Islam del 1990 metteva in guardia contro il conflitto e il relativismo disinformato. Il fenomeno, infatti, va conosciuto, precisava, per evitare «uno zelo disinformato che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura pregiudiziale sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che, in nome di un generico ottimismo, non colgono la complessità delle questioni e i problemi. La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza, un supplemento di cultura»12.

Come sottolinea don Andrea Pacini, rispetto all’Islam, l’obiettivo di questi percorsi di formazione dovrebbe essere quello di «fornire una conoscenza in grado di impedire il cristallizzarsi di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo disinformato) sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa)»13.

Anche il documento Musulmani all’oratorio dell’Ufficio Cei per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso considera l’opportunità di invitare imam locali per fornire agli educatori strumenti utili a una migliore conoscenza e comprensione dei ragazzi: «Il dialogo interreligioso e interculturale, infatti, esigono la conoscenza della propria e dell’altrui religione»14.

Aumentare la formazione e la sensibilità

È importante, però, proporre anche momenti di formazione al cristianesimo per le famiglie straniere non con l’obiettivo di convertirle, ovviamente, ma per far loro conoscere i valori che stanno alla base del «servizio di cui usufruiscono». In alcune realtà questo avviene già, come ha raccontato all’Inteational Joualism Festival di Perugia 2015 mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Molte famiglie di immigrati, ad esempio, si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica per una finalità di tipo culturale, per conoscere la cultura del paese in cui si trovano»15.

Nonostante venga posto il problema della formazione e della conoscenza reciproca, quello che si riscontra nei fatti è, però, una bassa partecipazione ai momenti di formazione organizzati. Dall’indagine Educare generando futuro emerge, infatti, che la maggior parte dei catechisti, degli animatori e degli educatori non partecipano ad attività di formazione sul tema dell’immigrazione e della multiculturalità. Questo sembra causato, per lo meno nelle risposte raccolte dall’indagine, principalmente dalla scarsa sensibilità sul tema che prevale negli oratori e nelle parrocchie  e dalla mancanza di competenze necessarie per l’organizzazione di queste attività.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Ismu, Fom, Caritas ambrosiana e Ufficio pastorale migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.
2)  Rosita Deluigi, La progettualità ricercata. Minori immigrati e intrecci educativi nel territorio, Edizioni Università di Macerata 2008.
(3)  Ismu, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014.
(4)  Il doposcuola è un servizio di accompagnamento educativo, con particolare attenzione al sostegno allo studio. In alcune realtà i ragazzi stranieri costituiscono la maggior parte degli iscritti.
(5)  Anche perché per lo più i ragazzi stranieri non sono di religione cattolica, bensì musulmana, oppure cristiano ortodossa o cristiano copta.
(6)  Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
(7)  Laura Badaracchi e Claudio Urbano, Se in oratorio arriva lo straniero, «Popoli» aprile 2011.
(8)  Ibidem.
(9)  Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E., Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano, p. 120.
(10)  Nell’ottobre 2015, sempre a Torino, un’altra polemica ha riguardato il ritiro da parte di alcune famiglie musulmane dei propri figli da un corso di musica organizzato dalla scuola. Di fronte a questo genere di incomprensioni che possono anche generare scontri è importante offrire occasioni di confronto aperto, coinvolgendo anche i responsabili religiosi di entrambe le comunità e cercando di trovare un accordo nel rispetto delle diverse sensibilità, quella del bambino, quella del genitore e quella dello spazio-oratorio o della scuola.
(11)  Cfr. Educare generando futuro, opera citata.
(12)  Andrea Pacini, Il dialogo interreligioso e le relazioni islamo-cristiane in Italia, p. 11.
(13)  Ibi, 12.
(14)  Cei – Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, scheda 3a e 3a bis, I musulmani in oratorio, p. 2.
(15)  Laura Lana, Come costruire il dialogo interreligioso. Cristiani, ebrei e musulmani a confronto, in www.perugiaonline.it, 15/04/2015.

REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA' MUSULMANA
REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA’ MUSULMANA

Il commento

Identità cercasi

Credo sia ormai chiaro a tutti che ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa in Europa si pone come una realtà tra le tante, non più come la realtà predominante tra tante piccole realtà religiose (e non): basta osservare l’attuale composizione delle assemblee nelle nostre parrocchie. È vero che vi è ancora un significativo senso di appartenenza alla Chiesa, almeno in Italia, ma è altrettanto vero che è debole la coscienza di cosa sia realmente la Chiesa; per esempio molti chiedono ancora i sacramenti per i propri figli – e qui si esprime un certo senso di appartenenza – ma questi stessi non hanno più chiaro cosa sia la Chiesa. Ci si potrebbe chiedere: ma è necessario essere coscientemente cristiani per essere in grado di incontrare il diverso? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: ma quale altra personalità è riuscita a produrre la cultura non cristiana? Mi pare che l’uomo europeo da una parte rifiuti di riconoscersi cristiano o ne ha una coscienza debole, dall’altra non ha più un volto: non sa più chi è. Questa non coscienza di ciò che si è genera confusione nel rapporto con l’altro: più non sai chi sei, più l’altro ti fa paura.

Solo dove ci sono luoghi, anche con numeri esigui, dove si ha chiara quale sia la ragion d’essere della Chiesa e quindi della propria personale vocazione – quindi i ragazzi scoprono che la vita ha uno scopo – , si sta ricominciando a costruire. Gli oratori nelle nostre città spesso sono dei luoghi dove ciò accade, nel silenzio più totale dei mass media ma tra la gratitudine delle famiglie.

Solo un’identità chiara consente di guardare all’altro non come un problema ma come un’occasione anche per approfondire la propria identità. Da quando nasciamo, anzi già dal grembo materno, noi scopriamo chi siamo in rapporto con qualcuno che è altro da noi: fin dall’inizio della vita l’altro non è un problema ma un’occasione.

Con queste premesse non può fare paura avere tra i ragazzi dell’oratorio alcuni mussulmani: loro sanno di essere accolti dalla Chiesa e nessuno, né noi né loro, deve rinunciare alla propria identità o annacquarla. È un’arricchimento reciproco che costringe ad approfondire la propria identità e fa scoprire che l’altro è una risorsa per ciascuno.

don Andrea Plumari
parrocchia San Michele Arcangelo in Precotto, oratorio San Filippo Neri, Milano

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE


Le criticità

Stato italiano e islam, dialogo complicato

In Italia non esiste un solo Islam, ma una pluralità di soggetti islamici. Anche per questo per lo stato non è facile trovare un’«intesa» come per le altre confessioni religiose. A ciò vanno aggiunte le pesanti intromissioni di alcuni paesi stranieri (Arabia Saudita e Qatar, in primis) e le ambiguità insite nelle figure degli imam. E il piano «Moschee trasparenti» trova molte resistenze.

A titolo di premessa è opportuno ricordare che, al di là di un nucleo condiviso di elementi/principi/pilastri, l’Islam, e in particolare l’Islam sunnita, non può essere considerato un insieme monolitico; profonde sono le differenze che si possono registrare all’interno di un mondo che si estende dal Marocco all’Indonesia sia sul piano interpretativo che dottrinale. Su questo, inoltre, si innestano, si mischiano, talvolta si confondono, tradizioni e pratiche culturali proprie dei diversi paesi o di alcune aree all’interno di questi stessi paesi. A questa condizione intrinseca non sfuggono le diverse comunità islamiche presenti in Europa e in Italia. Questa pluralità si esprime, dunque, in una varietà di sale di preghiera e di centri culturali islamici. Inoltre, negli ultimi anni si sono costituite diverse associazioni di seconda generazione, che cercano di ritagliarsi un ruolo attivo nella società italiana e stanno cercando di proporsi come interlocutori per le istituzioni.

Il punto di partenza dovrebbe dunque essere il seguente: non si può far riferimento a un solo Islam né ancora, almeno per il momento, a un «Islam italiano» (e neanche europeo), esiste invece una comunità islamica composta da musulmani «provenienti da altrove» (dal Marocco al Pakistan, dall’Albania all’Iran), da musulmani nati e cresciuti in Italia e da convertiti. A livello locale, in molti contesti, si sperimentano forme positive di convivenza e integrazione che sembrano, per ora, reggere alla prova dei fondamentalismi, ma molte questioni devono trovare una risposta politica forte a livello nazionale, che poi si possa concretizzare e rendere operativa a ogni livello.

Le ingerenze di Arabia Saudita e Qatar

Tra le questioni che ancora non hanno trovato una soluzione c’è, sicuramente, la mancanza di un’intesa con lo stato italiano e la questione della costruzione dei luoghi di culto.

L’Islam ad oggi, non può contare, infatti, su alcun tipo di intesa con lo stato italiano1, al contrario di altre religioni minoritarie come ebraismo o buddismo. La causa principale di tale situazione risiede nella mancanza di una leadership unitaria, riconosciuta e realmente rappresentativa delle diverse organizzazioni e orientamenti. Questa difficoltà è inoltre aggravata dalla presenza di molteplici gruppi nazionali di immigrati musulmani sul territorio italiano e dagli interessi (ingerenze) e dai conseguenti finanziamenti dei paesi di origine o dei paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis) a determinate organizzazioni. L’intervento dei paesi del Golfo, in particolare, ha spesso sostenuto un Islam meno spirituale e più politico, promotore di battaglie politico-religiose talvolta molto distanti dal vissuto e dalle esperienze dei musulmani in Italia. La questione dei rapporti con i paesi di origine e con i paesi del Golfo deve trovare una risposta urgente, anche rispetto a punti come la costruzione di nuove moschee e il riconoscimento o la formazione degli imam in Italia.

La questione degli imam e il piano «Moschee trasparenti»

Per quanto riguarda gli imam e la loro formazione, se è vero che molti processi di radicalizzazione sono avvenuti online o in carcere e non in moschea, e a causa dell’incontro con determinati imam e predicatori, le moschee possono comunque giocare un ruolo fondamentale nella formazione e nel contrasto alla radicalizzazione. La mancanza di un’intesa con lo stato pone, però, il rischio che, in assenza di controlli, autoproclamati imam possano improvvisare moschee/centri islamici e fare propaganda per un Islam radicale. Nell’ambito del progetto denominato «Moschee trasparenti», lo scorso 11 luglio il ministro dell’Inteo Alfano ha chiamato a raccolta gli esponenti di varie anime della comunità musulmana italiana. L’obiettivo era di discutere il rapporto «Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam»2. Il rapporto, datato 1 aprile 2016 e redatto da 12 esperti guidati dal professor Paolo Naso (Università La Sapienza), insiste sulla necessità di avere imam formati e certificati per guidare i fedeli verso l’integrazione. La formazione non entrerà nel merito delle questioni religiose, ma sarà un percorso civico di riconoscimento delle regole dell’ordinamento italiano3. Nel documento si legge che l’obiettivo è quello di «costituire un nucleo primario di interlocutori delle istituzioni che, per competenza e autorevolezza riconosciute da parte delle loro comunità, conoscenza della realtà italiana ed esperienza nella partecipazione alla vita pubblica del territorio in cui operano, possano svolgere costruttivamente il ruolo di «mediatori» nelle relazioni tra lo stato e le varie associazioni». Gli imam che sottoscriveranno lo statuto potranno ottenere maggiore libertà di accesso a «luoghi protetti quali ospedali, cimiteri, centri di identificazione e accoglienza dei migranti, «case del silenzio» e, naturalmente, le carceri, luoghi, come già detto, dove più forte è il pericolo della radicalizzazione violenta. Un altro punto della discussione, condiviso tra i partecipanti all’incontro, ma criticato aspramente sui social network, è stato l’uso della lingua italiana nei sermoni. Le accuse, rivolte, contro il ministro e la Consulta ponevano l’attenzione sull’idea che i musulmani siano «sorvegliati sociali» e non considerati al pari dei fedeli di altre religioni. Da ultimo, contro la radicalizzazione, è fondamentale che moschee e imam siano in contatto e collaborino a livello locale sia con la polizia e i servizi di sicurezza per condividere informazioni e contrastare esiti violenti di processi di radicalizzazione, sia con le famiglie, le scuole e le altre agenzie formative presenti sul territorio per prevenirla.

modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina
Modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina

L’elenco delle «giustificazioni» e i rischi

Il rischio di giustificare l’Isis (o altri movimenti violenti) con «le guerre fatte in Medio Oriente dagli occidentali» o di identificarlo come creazione del «complotto americano-sionista» e di giustificare i foreign fighters con la discriminazione e il disagio economico e sociale di cui alcuni immigrati sono vittime può generare gravissime conseguenze. Per quanto riguarda i foreign (o domestic) fighters, infatti, non sempre i soggetti radicalizzati sono scarsamente integrati (ancora meno il discorso vale per i convertiti). Se è vero che le scelte legislative e politiche dell’Italia possono determinare dinamiche di rifiuto, di isolamento sociale, di sentimenti contrari al senso di appartenenza civile e comunitaria, soprattutto di quei (molti) musulmani di origine straniera. La radicalizzazione (e tutti gli attentatori degli ultimi mesi lo confermano) ha molteplici cause e può innestarsi su debolezze, talvolta anche personali, di individui che finiscono per abbracciare la violenza, o persino il jihadismo internazionale, perché in cerca di «significato» per la propria vita e di appartenenza a un gruppo. Rispetto a critiche e autocritiche verso «l’Occidente», poste alcune responsabilità innegabili, sarebbe però importante rendere conto della complessità e delle responsabilità dei diversi attori coinvolti in specifiche situazioni. L’autocritica generalizzata non giova e anzi non fa altro che aumentare la credibilità di chi pone come unica soluzione lo scontro «Noi-Loro» e la giustificazione di atti di violenza come vendetta o ritorsione rispetto a ingiustizie e soprusi subiti, facendoci precipitare in una spirale di violenza senza fine.

Il ruolo dei media: tra buonismo cieco e condanna aprioristica

Un ultimo punto critico riguarda il ruolo dei mass media: da un lato i mezzi più tradizionali (televisioni, giornali) spesso presentano l’Islam attraverso generalizzazioni e semplificazioni, dall’altro internet e i social network veicolano varie immagini di questa religione, ma in uno spazio assolutamente non controllato né controllabile. Ne deriva che il discorso pubblico, specie quello diffuso e alimentato dai canali mediatici, oscilla spesso tra un buonismo, cieco di fronte alle problematiche oggettive di certi fenomeni, e una condanna aprioristica e corredata di stereotipi, che può creare il terreno per le derive più intransigenti o sentimenti di rivalsa. C’è il rischio, in fondo, che vengano mostrati solo gli aspetti politicizzati o mitizzati dell’Islam, lontani dalla realtà vissuta quotidianamente dai musulmani italiani. In questo terreno possono proliferare non solo i pregiudizi, ma anche le strumentalizzazioni politiche e conseguenti scelte basate sull’emozione di tutti quei soggetti che colgono solo in modo parziale la realtà islamica. La sfida deve essere, allora, quella di decostruire i pregiudizi e di dare conto della complessità dell’Islam.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Sulle intese tra stato italiano e diverse religioni si vedano le puntate della rubrica «Libertà religiosa» in MC n. 1,3,4,5 del 2015 e n. 6 del 2016. Le puntate sono reperibili e/o scaricabili (in formato Pdf) dal sito della rivista.
(2)  Il documento è scaricabile dal web. Un secondo rapporto su moschee e luoghi di culto è di recente uscita.
(3)  Un’iniziativa simile sul tema è stato il corso per leader religiosi organizzato dal 2010 al 2012 dal Fidr («Forum internazionale democrazia e religioni», www.fidr.it) al quale hanno partecipato diversi rappresentanti di moschee e associazioni musulmane da tutta Italia. L’iniziativa era volta a offrire ai leader religiosi informazioni e approfondimenti necessari allo svolgimento di attività culturali e cultuali sul territorio italiano. Benché patrocinata dal ministero dell’Inteo e da quello per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, l’esperienza non ha avuto seguito, specie nell’elaborazione di politiche ufficiali sul tema della formazione degli imam.

Formigine (Mo). Doposcuola all' oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco
Formigine (Mo). Doposcuola all’ oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco

Bibliografia

  • Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
  • Pietro Cingolani, Roberta Ricucci (a cura di), Transmediterranei. Generazioni a confronto fra Italia e Nord Africa, Accademia University Press, Torino 2014.
  • Annalisa Frisina, Giovani Musulmani d’Italia, Carocci, Roma 2007.
  • Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010).
  • Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016.
  • Stella Coglievina e Viviana Premazzi, L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Padova 2015, pp. 126-138.
  • Viviana Premazzi, Secolarizzazione e nuove forme di protagonismo nella seconda generazione musulmana in Italia, in Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 106-116.

Bibliografia sugli oratori

  • Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
  • Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese, in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E. (a cura di), Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano 2011.
  • Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio pastorale migranti diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.

Sitografia

  • Chiesa cattolica italiana, Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
  • Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose: www.olir.it.
  • Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità: www.ismu.org.

HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA
HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA

Questo dossier è stato firmato da:

  •  Viviana Premazzi Esperta di immigrazione e, in particolare, di seconde generazioni di religione musulmana. Collabora con il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri) di Torino e la Fondazione Oasis di Milano. È stata consulente per la Banca mondiale e per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Le riflessioni contenute in questo dossier sono state elaborate nell’ambito del progetto «Conoscere il meticciato. Goveare il cambiamento» cornordinato da Fondazione Oasis e finanziato da Fondazione Cariplo.
  • Roberto Brancolini Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.



Il peso della storia


All’inizio del IV secolo fu la prima nazione a convertirsi al cristianesimo. Nel 1915 un milione e mezzo di suoi cittadini persero la vita nel primo genocidio del Novecento. Finita l’era sovietica, dal 1991 l’Armenia è uno stato indipendente. Con molti problemi: la guerra con l’Azerbaijan, la mancanza di relazioni con la vicina Turchia, la povertà diffusa che spinge giovani e intellettuali a emigrare.

Armenia, un nome che a molti di noi richiama alla mente quella che papa Francesco lo scorso giugno, durante la sua visita apostolica nel paese, ha chiamato la «prima delle immani catastrofi del secolo scorso». Ci riferiamo al genocidio armeno, che si compì nel 1915, quando persero la vita un milione e mezzo di persone a causa di uno sterminio pianificato e portato avanti con sistematica lucidità dal movimento politico dei «Giovani Turchi». Un crimine a lungo dimenticato, e ancora oggi negato da diversi paesi, e in primo luogo dalla Turchia, nata sulle ceneri di quell’Impero Ottomano in cui quella tragedia avvenne. Eppure, ieri come oggi, l’Armenia è molto di più.

armenia-popoliL’identità armena: la religione e la lingua

Prima nazione a convertirsi al cristianesimo all’alba del IV secolo grazie all’opera di San Gregorio l’Illuminatore, l’Armenia ha alle spalle una lunga storia che si è tradotta e sviluppata in entità territoriali, anche molto diverse fra loro, susseguitesi nel tempo, ma sempre contraddistinte da un’identità molto marcata. Una cultura ricca e pluriforme, capace di raccogliere e rielaborare – essendo questa terra un ponte naturale fra Oriente e Occidente – il meglio della produzione artistica e intellettuale dei due mondi nelle diverse epoche. Al centro di tutto, come detto, la religione, ma anche la lingua, sopravvissuta a dominazioni straniere e diaspora, tramandata di generazione in generazione grazie all’alfabeto appositamente inventato all’inizio del V secolo dal monaco Mesrop Mashtots, desideroso di tradurre la Bibbia e farla conoscere al popolo armeno. Stretta fra tre vicini assai ingombranti quali l’Iran, la Turchia e la Russia, questa piccola nazione dal grande cuore – tre milioni di abitanti su un territorio esteso come il Belgio – è riuscita a sopravvivere nei secoli alle innumerevoli invasioni e tragedie della sua storia.

Più di recente, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica di cui è stata parte, l’Armenia è tornata a essere un paese indipendente. Uno stato giovane, che compie quest’anno venticinque anni di vita, come ha ricordato anche il papa durante la sua visita a giugno, congratulandosi con il presidente armeno Serzh Sargsyan. Certo, quella di oggi è una repubblica la cui estensione territoriale è assai più ridotta di quella che è stata (e in parte ancora è) la presenza armena nei paesi limitrofi. Ma non per questo la sua esistenza è un segno meno importante e significativo: il paese è l’emblema di una sopravvivenza, ma anche un riferimento umano e spirituale per i milioni di armeni sparsi in lungo e in largo per il mondo dopo la tragedia del genocidio.

Le relazioni impossibili con Azerbaijan e Turchia

Oggi il paese, i cui confini ripercorrono fedelmente quelli dell’ex repubblica sovietica d’Armenia, si presenta segnato ancora da conflitti e forti contraddizioni. In primo luogo, pesa la guerra mai conclusa con il suo vicino, l’Azerbaijan, per il controllo della regione contesa del Nagoo-Karabakh (MC agosto-settembre, ndr), oggi in mano agli armeni. Pesa anche l’assenza di rapporti diplomatici con la Turchia, un altro vicino, con la quale i confini sono chiusi da moltissimi anni, anche a causa della questione irrisolta del riconoscimento del genocidio. Pesano infine – in parte come conseguenza dei conflitti appena ricordati – anche la povertà e le disuguaglianze economiche, che determinano una continua fuga di forza lavoro, anche intellettuale, dal paese, una vera e propria emorragia verso la Russia e l’Europa, con la conseguente, costante caduta demografica che affligge l’Armenia. Eppure, per chi lo conosce e ci ha vissuto, il paese non è privo di fascino e dolcezze, e anche di notevoli sorprese.

Una cosa che va sottolineata subito – aspetto tipico di molti paesi dell’Asia, ma non sempre facile da comprendere da una prospettiva europea – è la grande disparità esistente fra la capitale, Yerevan, e il resto del paese. Una città, questa, che da sola assomma circa la metà della popolazione totale armena. Ma anche e soprattutto un luogo che fa da catalizzatore delle migliori energie del paese. Così, negli ultimi anni, Yerevan è diventata una capitale modea con una scena culturale assai vivace, con una gioventù aperta e cosmopolita che guarda sempre di più all’Europa come fonte di ispirazione.

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Povertà e monasteri Unesco

Assai diversa è la situazione appena ci si avventura fuori della capitale. Paesaggi dolci e incontaminati, dove la natura regna incontrastata sulla sparuta presenza dell’uomo, visibile a volte solo dopo molti chilometri di viaggio. Nei villaggi e nelle cittadine l’esistenza è dura. Qui la povertà e il disagio sembrano regnare su tutto. Emblematico il caso di Gyumri, seconda città dell’Armenia, visitata anche da papa Francesco. Un centro urbano che ha subito un drastico tracollo demografico, seguito al terremoto del 1988, quando tra la città e i territori circostanti morirono circa 25.000 persone. Dei 222.000 abitanti registrati nel censimento sovietico del 1984, oggi ne restano poco più di 120.000. Una perdita costante che non ha avuto fine neanche in anni più recenti. Un tempo centro industriale dell’Urss, oggi vive in larga parte dei soldi mandati dai parenti emigrati ai suoi abitanti e sui proventi – derivanti perlopiù da piccolo commercio – connessi alla base militare russa che vi si trova.

Oltre ai paesaggi suggestivi e sempre diversi, ciò che colpisce di più la fantasia del viaggiatore sono senza dubbio i monasteri medievali di cui questa terra è disseminata. Fra i tanti, ricordiamo almeno il monastero di Geghard, che prende il suo nome dalla reliquia della lancia («geghard», appunto, in lingua armena) che trafisse il Cristo al costato. Secondo la tradizione, a farla arrivare in Armenia sarebbe stato l’apostolo Taddeo, il primo a portare la lieta novella del Vangelo fra gli armeni. Scavato nella roccia, il monastero è situato nella valle del fiume Azat, che scorre subito accanto al monumento. Inclusi nella lista Unesco dei patrimoni dell’umanità – al pari di Geghard – sono altri due giornielli dell’architettura armena, ubicati nel Nord del paese. Ci riferiamo ai monasteri di Haghpat e Sanahin, sommi esempi di un connubio perfettamente compiuto fra arte e natura, ma anche di che cosa rappresenti la spiritualità armena. Ciò che stupisce di più, infatti, di questi edifici religiosi, è l’estrema sobrietà degli interni e degli arredi. Niente di più diverso, per intenderci, da una chiesa barocca veneziana. Pareti spesse e solide, concepite per resistere ai terremoti che da secoli colpiscono questa terra, giochi minimali di luci ed ombre, dipinti quasi assenti, spazi ridotti e sobri, privi di qualsivoglia forma di ricchezza e ostentazione. Al centro di tutto, il simbolo della croce, ripetuto in maniera quasi ossessiva in mille varianti sulle pareti e sulle pietre disseminate in questa antica terra.

L’ultimo dei siti Unesco del paese, la Cattedrale di Echmiadzin, inclusa nel registro insieme al sito archeologico di Zvartnots. Si tratta del centro religioso e spirituale del paese, una sorta di Vaticano armeno, situato a pochi chilometri da Yerevan e visitato fra l’altro da papa Francesco a giugno e da Giovanni Paolo II nel 2001. Qui a Echmiadzin risiede anche la massima autorità della Chiesa apostolica armena, il catholicos Karekin II. Nella sua «Storia degli armeni» scritta nel V secolo, lo storico Agatangelo racconta che fu una visione a mostrare al già ricordato San Gregorio il luogo in cui sarebbe dovuta sorgere la cattedrale. Echmiadzin significa infatti «discese l’unigenito», proprio in riferimento all’apparizione del Cristo.

Ma non è solo l’antichità di siti come questo a contraddistinguere l’Armenia di oggi.

Tra innovazione e oligarchi

Un altro paese, moderno e all’avanguardia, vive e si sviluppa all’ombra dell’Ararat, il monte biblico oggi appartenente alla Turchia, ma con i suoi 5.137 metri d’altezza ben visibile dall’Armenia. Uno dei settori più in crescita dell’economia nazionale è oggi quello della tecnologia dell’informazione. Un successo notevole per un’economia fortemente limitata dai confini chiusi, dalla guerra in corso e dalla mancanze di infrastrutture. Con una crescita media annuale di oltre il 20% nell’ultimo decennio, il settore It (acronimo inglese di «information technology») si è affermato come un simbolo per molti armeni: l’orgoglio di una nazione antica che, nonostante la povertà e le difficoltà del presente, riesce a produrre innovazione a livello internazionale. La riscossa di un popolo che ha fatto nel passato – così simile, in questo, al destino degli ebrei – dell’intraprendenza economica e della sua cultura cosmopolita due pilastri della propria identità. Non è mancato così chi ha parlato, in patria e altrove, di una «Silicon Valley» caucasica: software, applicazioni e videogame, tablet, smartphone e tecnologia militare (droni inclusi), tutti made in Armenia, sono gli ingredienti del successo.

Passando alla politica e alle istituzioni, a conclusione di questo rapido affresco del paese, l’Armenia può essere definita come uno degli esperimenti democratici più riusciti fra i paesi dell’ex Unione Sovietica. Nonostante tutti i limiti di uno stato non privo di alcuni tratti autoritari e piegato dalla corruzione, vi si tengono libere elezioni e nel quarto di secolo della sua giovane storia si sono succeduti al governo diversi partiti e uomini politici, con un’alternanza che ha permesso di sviluppare una certa libertà nei mass media e spazi di espressione e dissenso per la società civile. Forse la piaga più grande, a tal proposito, è rappresentata dal potere economico degli oligarchi, che rischia di strozzare, a suon di monopoli, le buone conquiste fatte negli ultimi anni in campo democratico.

Il 24 aprile, data simbolo della storia armena

Concludendo, non possiamo non tornare sulla questione del genocidio, con cui abbiamo aperto. Una questione su cui papa Francesco si è speso personalmente, nonostante notevoli pressioni contrarie anche all’interno dello stesso Vaticano. Una pagina di storia importante, per gli armeni, ma anche qualcosa in più. Per comprenderlo, basta visitare il paese il 24 di aprile, data simbolo in cui si ricorda il primo genocidio del XX secolo. Decine di migliaia di armeni, provenienti da ogni parte del paese, ma anche dall’estero, marciano fianco a fianco ogni anno per la durata di un giorno e una notte per prestare omaggio alle vittime di quella tragedia. Proprio fuori dal centro della capitale, su un colle chiamato Tsitseakaberd («il forte delle rondini») si trova il memoriale del genocidio, fatto costruire in epoca sovietica. Visitarlo significa comprendere come la storia per gli armeni non si limiti ai libri, alle targhe commemorative o a un calendario, ma sia parte della vita di ogni giorno, cibo quotidiano di questa gente. Qui, ai piedi dell’Ararat, dove per la Bibbia la vita toò dopo il diluvio, passato e presente, tradizione e futuro si compenetrano, facendo dell’Armenia un luogo unico.

Simone Zoppellaro

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Cronologia essenziale: dal 301 al 2016

La prima nazione cristiana

301 – Grazie all’opera di San Gregorio l’Illuminatore, il re armeno Tiridate si converte e l’Armenia diventa così – cuius regio, eius religio – la prima nazione al mondo ad abbracciare il cristianesimo.
406 – Il monaco Mesrop Mashtots inventa l’alfabeto armeno e inizia l’opera di traduzione delle Sacre Scritture in lingua armena.
1512 – Viene stampato a Venezia il primo libro in armeno.
1828 – Con il trattato di Turkmenchai l’Armenia orientale viene ceduta dalla Persia alla Russia.
1915 – Nell’Impero ottomano – in Anatolia, a Istanbul e in altre città – viene messo in atto lo sterminio della minoranza armena: è il genocidio («Medz Yeghe», in lingua armena) che porterà alla morte di un milione e mezzo di persone (vedi MC maggio 2015).
1920 – Viene proclamata la Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia, una delle repubbliche facenti parte dell’Urss.
1988 – Un terremoto si abbatte su Leninakan (oggi Gyumri) e altri villaggi nel Nord Ovest del paese. Perdono la vita 25.000 persone.
1991 – L’Armenia dichiara la sua indipendenza dall’Unione Sovietica. Lo stesso anno Levon Ter-Petrosyan viene eletto primo presidente del paese.
1991 – La popolazione armena del Karabakh vota con un referendum per l’indipendenza della regione dall’Azerbaijan. Inizia una guerra che vedrà la vittoria militare degli armeni con la conquista del territorio.
1994 – A maggio viene firmato a Bishkek un protocollo che getta le basi per il cessate il fuoco fra azeri e armeni. Un accordo di pace non sarà mai raggiunto.
2001 – Visita di papa Giovanni Paolo II.
2008 – Dopo aver vinto le elezioni del 19 febbraio, Serj Sargsyan diventa il terzo presidente dell’Armenia. È tuttora in carica.
2016 – Il 2 giugno il parlamento tedesco, il Bundestag, riconosce con una risoluzione il genocidio armeno.
2016 – A giugno papa Francesco vista il paese. La Turchia polemizza con lui perché pronuncia la parola genocidio.

Si.Zo.

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La situazione religiosa

Armeni, un popolo di credenti

La quasi totalità della popolazione aderisce alla Chiesa apostolica armena, oggi guidata dal patriarca Karekin II.

«Visita al primo paese cristiano»: questo il motto scelto dalla Santa Sede per il viaggio di papa Francesco in Armenia (24-26 giugno 2016). Un primato, quello della nazione armena, conquistato grazie alla conversione, avvenuta nel IV secolo, del re Tiridate, portato alla fede in Cristo dall’opera di San Gregorio l’Illuminatore. Da allora, il cristianesimo accompagnerà tutte le tappe della storia armena, divenendo parte fondante della sua identità.

Ma non si tratta solo di storia. Una ricerca del 2015 condotta da Win/Gallup Inteational mostra come l’Armenia risulti essere il secondo paese più religioso al mondo, al pari della vicina Georgia. Il 93% della popolazione si dice infatti religiosa, a un solo punto percentuale dal primato mondiale, che spetta alla Thailandia.

Secondo il censimento del 2011, il 94,8% della popolazione armena (che conta 3,2 milioni di persone) è cristiana. In larga parte, questi si riconoscono nella Chiesa apostolica nata con San Gregorio e oggi guidata dal catholicos (patriarca) Karekin II. Secondo i numeri foiti dall’ufficio centrale di statistica della chiesa cattolica, in Armenia si troverebbero inoltre 280.000 cattolici, pari al 9,6% della popolazione. Ma si tratta di cifre dibattute, e il censimento citato fornisce cifre inferiori. Fra le altre religioni, ricordiamo lo 0.8% di yazidi, minoranza oggi perseguitata in Medio Oriente che ha trovato rifugio in Armenia, dove è in costruzione un loro tempio. Non mancano infine i musulmani: 812, secondo il censimento. Per loro a Yerevan è in funzione la Moschea Blu, splendido esempio di architettura persiana.

Si.Zo.

 




Papua Nuova Guinea. Deforestazione: la rapina silenziosa


Lo stato di Papua Nuova Guinea divide con l’Indonesia la seconda isola più grande del mondo. Ma soprattutto il terzo polmone verde del pianeta. Un polmone messo in pericolo da una deforestazione incontrollata. Il programma delle Nazioni Unite denominato «Redd» può essere una soluzione?

Fermare la deforestazione che sta devastando il paese e stabilire un piano d’azione concreto per dar vita a un’industria del legname sostenibile, in grado di produrre vantaggi anche per le comunità locali e non solo per le grandi compagnie straniere. È questo l’obiettivo degli incontri del Redd+ in Papua Nuova Guinea, avvenuti ad aprile e agosto 2016 a Kimbe, nella regione della Nuova Britannia.

La sigla Redd+ sta per «Reduction of emissions from deforestation and forest degradation», un programma elaborato nell’ambito della Unfccc, la «Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici», per favorire la riduzione delle emissioni provenienti dalla distruzione delle foreste nei paesi in via di sviluppo. Il meccanismo alla base del progetto prevede l’istituzione di un sistema di pagamenti per quegli stati che riescono a dimostrare la capacità di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione che, secondo le stesse Nazioni Unite, ammontano al 20 per cento del totale prodotto sul pianeta.

Per una terra verde e in buona parte ancora incontaminata come la Papua Nuova Guinea, che, secondo le stime degli esperti dell’Onu, ospita da sola circa il 5% della biodiversità di tutto il globo ma che da decenni è oggetto di un sistematico e violento saccheggio da parte di società straniere che commerciano in legname, il Redd+ non può essere considerato solo un programma di nicchia per biologi e addetti ai lavori, quanto piuttosto uno strumento da mettere in funzione prima che sia troppo tardi. Vale a dire prima che si superi quella soglia di non ritorno che porterebbe al definitivo collasso del terzo polmone verde più grande della terra, dopo la foresta amazzonica e quella che ricopre la parte meridionale del continente asiatico. Porre un freno alla deforestazione, però, è un’impresa tutt’altro che semplice in uno dei paesi tra i più poveri e arretrati del pianeta, oggetto delle voraci brame dell’industria dei tronchi d’albero.

Tremila alberi per abitante

La Papua Nuova Guinea occupa metà della seconda isola più grande al mondo dopo la Groenlandia e diverse centinaia di piccole isole. Tre quarti dei suoi 462.840 chilometri quadrati sono coperti da foreste, in un chilometro quadrato delle quali crescono circa 70.000 alberi. Partendo da queste premesse è facile calcolare a spanne che il paese ospita più o meno 24,3 miliardi di alberi, 3.037 per ognuno dei suoi 8 milioni di abitanti. Numeri impressionanti, che sembrerebbero mettere al sicuro il territorio da qualsiasi «calvizie» da disboscamento, e che invece devono essere confrontati con le ancora più sconcertanti cifre della deforestazione.

Superando tutti i paesi africani, asiatici e dell’America Latina, la Papua Nuova Guinea è divenuta infatti il primo esportatore mondiale di «taun». Conosciuto nella regione del Sud Est asiatico anche come ahabu, matorna, malugai, kasai, sibu, tava o truong, questo particolare tipo di legno tropicale simile al mogano risponde al nome scientifico di Pometia pinnata ed è ricercato principalmente, ma non solo, per le decorazioni degli interni. Secondo uno studio pubblicato a febbraio dal think tank califoiano Oakland Institute (oaklandinstitute.org), solo nel 2014 dall’isola sono stati esportati quasi 4 milioni di metri cubi di legname, l’80 per cento dei quali è finito sul mercato cinese. Il tutto senza che la disastrata economia locale ne abbia tratto sostanziale giovamento.

Il dossier, significativamente intitolato «The great timber heist» (La grande rapina del legno), sottolinea a questo proposito che attualmente circa un terzo del territorio coperto da foreste del paese è nelle mani di compagnie straniere, e che ogni anno l’isola perde oltre 100 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale perpetrata da queste società. Attraverso complessi sistemi di scatole cinesi e aziende controllate, spiega il documento, le imprese estere riescono a dichiarare prezzi di vendita del legname irrisori, gonfiando parallelamente i costi dei materiali acquistati e arrivando in questo modo a dichiarare profitti quasi nulli, e quindi non tassabili. L’Oakland Institute ha analizzato nel dettaglio il caso della società malese Rimbunan Hijau, le cui 16 consociate attive in Papua Nuova Guinea risultano essere in perdita e non pagano un dollaro di tasse, pur gestendo un quarto di tutte le esportazioni di legname del paese.

«I prezzi all’esportazione dichiarati per il legname dell’isola – si legge nel dossier – sono significativamente più bassi rispetto a quelli degli altri grandi fornitori di tronchi tropicali. Negli ultimi 15 anni il prezzo medio per metro cubo è stato inferiore del 20 per cento rispetto alla media degli altri cinque principali esportatori. Nel 2014, il prezzo medio dei tronchi prodotti da grandi esportatori come il Camerun e la Birmania era di 388 dollari al metro cubo, quasi il doppio del prezzo dei tronchi della Papua Nuova Guinea, che non arrivava ai 210 al metro cubo. Applicati ai volumi di esportazioni del 2014 questo si traduce in una variazione annua di fatturato di 679 milioni di dollari per le industrie del legno». Le autorità forestali del paese sono «inefficienti – prosegue lo studio – e presentano grandi carenze e una corruzione diffusa». In questo contesto «l’industria del legname ottiene in molti casi trattamenti preferenziali, mentre gli abitanti delle zone rurali subiscono le conseguenze sociali e ambientali prodotte da un settore che opera spesso al di fuori delle leggi». Se veramente il commercio del legname è un’attività in perdita, «perché le imprese straniere continuano la loro attività?», si è chiesto Frédéric Mousseau, direttore del think tank califoiano. Una domanda ovviamente retorica, se si considera che, malgrado i bilanci in rosso dichiarati dalle compagnie, le esportazioni sono quasi raddoppiate a partire dal 2009.

Terre in vendita

Il documento si sofferma anche sul problema delle cosiddette Sabl, le Special agriculture and business leases, locazioni a tassi agevolati per agricoltura e commercio concesse dalle autorità alle imprese e pensate teoricamente per attrarre investimenti. Tra il 2003 e il 2012 a causa delle Sabl, 5,5 milioni di ettari di foreste sono passati di fatto sotto il controllo di società del legname nazionali ed estere, mentre la percentuale della terra controllata dalle comunità locali è scesa dal 97 all’85 per cento. Un’inchiesta ufficiale condotta dalle autorità di Port Moresby ha dimostrato come le assegnazioni delle Sabl siano state caratterizzate da «abusi, frodi, assenza di cornordinamento tra le agenzie governative, fallimento e incompetenza dei funzionari governativi nell’assicurare il rispetto, la responsabilità e la trasparenza». Evidenze che hanno portato il primo ministro papuano Peter O’Neill ad ammettere in pubblico che «lo strumento delle Sabl ha fallito miseramente».

L’Oakland Institute aveva provato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il problema della deforestazione in Papua Nuova Guinea già nel 2014 con il documentario On our land. Un cortometraggio di 36 minuti (è visibile su YouTube, ndr) che racconta il furto subito dalle comunità rurali dell’isola, nonostante la carta costituzionale del paese stabilisca l’autonomia e la sovranità della terra e delle risorse naturali, imponendone un impiego sostenibile e affidandone la gestione a clan e tribù, con l’esclusione quasi completa della proprietà privata. Anche grazie a queste e tante altre iniziative di sensibilizzazione portate avanti da numerosi gruppi e associazioni per la difesa della terra e dell’ambiente, le autorità di Port Moresby hanno iniziato a rendersi conto che lo sfruttamento delle foreste ha ormai raggiunto un livello insostenibile. Il problema, come ha spiegato il professor Simon Saulei del Papua New Guinea Forest research institute all’agenzia Inter press service (Ips), è che gli organismi governativi incaricati di difendere le foreste e l’ecosistema si scontrano con una cronica «carenza di personale e fondi», che blocca le attività avviate e non consente di intraprendere nuove iniziative.

Redd sarà la soluzione?

Una delle strade che l’esecutivo di Port Moresby sta cercando di percorrere per arginare in qualche modo la situazione è l’implementazione del Redd+. Come già ricordato, lo scorso aprile si è svolto a Kimbe il primo Redd+ expert training event, che ha visto la partecipazione di 37 rappresentanti del governo, della società civile e del settore privato. L’evento ha avuto il sostegno dell’Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni unite. «Abbiamo messo insieme esponenti di tutti i settori interessati dal problema della deforestazione – ha spiegato al quotidiano online Papua New Guinea Today Terence Barambi, manager della Climate change and development authority papuana -. Quello che vogliamo fare è individuare le diverse priorità e stabilire una strategia nazionale contro la deforestazione nell’ambito del progetto Redd+». Barambi crede che la massima di Lao Tzu secondo cui «Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce», descriva bene la situazione della Papua Nuova Guinea, dove la deforestazione ha prodotto danni enormi ma a suo avviso non ancora irreparabili.Nel frattempo prosegue un altro importante progetto che vede il National forest monitoring system (Nfms) papuano impegnato nella creazione di un inventario nazionale degli alberi. Un’iniziativa senza precedenti per un paese in via di sviluppo, che coinvolge anche l’Italia, dato che il Nfms si avvarrà della collaborazione di alcuni scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. L’archivio comprenderà la misurazione del volume del legname, la stima delle riserve di carbonio immagazzinate dagli alberi e delle emissioni di gas a effetto serra in caso di deforestazione, consentendo di effettuare una valutazione concreta del rapporto costi-opportunità legati al taglio degli alberi. L’obiettivo è mostrare chiaramente i benefici economici collegati alla creazione di un’industria del legname che abbia ritmi di produzione commisurati alle esigenze di tutela dell’ambiente, con vantaggi di lungo periodo sia per le società impiegate nel settore che per le comunità locali.

Paolo Tosatti*
(China Files)

* Paolo Tosatti, giornalista, collabora con China Files dal 2011. Per MC ha già scritto: Timor Est, Piccoli imprenditori crescono, giugno 2016.

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Etiopia: Addis Abeba capitale d’Africa


Un paese in forte crescita dove grandi restano le disuguaglianze. La capitale si espande e si dota di modee tecnologie. Ma le tradizioni permangono radicate, come l’orgoglio di un popolo mai colonizzato. E adesso si avverte una massiccia penetrazione cinese. Impressioni di un visitatore speciale.

A volte è difficile tornare in un posto che si è amato. Si ha paura di rovinae la memoria bella e intensa che per molto tempo si è serbata con piacere, e che spesso si è utilizzata per ravvivare certi periodi un po’ spenti. Si teme che questo ricordo svanisca, che quel posto perda il suo fascino particolare e diventi come tutti gli altri.

È un po’ come quando si deve rincontrare una persona speciale dopo tanti anni, e si ha il timore che adesso la si sentirà come una qualunque.

Se c’è una cosa che colpisce sempre, giungendo ad Addis Abeba, è la vicinanza dell’aeroporto al centro. Appena il tempo di svolgere le formalità di sbarco, e ci si trova immersi nella capitale d’Africa, con il suo traffico caotico e le sue sfilate di palazzoni che stanno crescendo come funghi. Questo però me l’aspettavo, perché non c’è rivista o sito specializzato che abbia ignorato la vorticosa trasformazione urbanistica della metropoli etiope, del resto comune a molte città africane. Tuttavia, sfogliando i giornali non si può immaginare la sensazione che si prova nel trovarsi di fronte a una serie di condomini in costruzione a perdita d’occhio.

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Orgoglio di popolo

Tredici anni fa ero rimasto a bocca aperta nel visitare le straordinarie chiese di Lalibela, i castelli di Gonder, le stele di Aksum. Tuttavia, ciò che in Etiopia mi aveva colpito non si limitava alle ricche vestigia del passato, ma era stato il senso di nazione, l’orgoglio di popolo, l’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura. A differenza degli altri stati africani nei quali avevo fin lì operato, in Etiopia non avevo riscontrato malcelati sensi d’inferiorità, rancori o impulsi di rivalsa. In altri termini, non ci avevo trovato quell’eredità strisciante del colonialismo che spesso si manifesta con un timore inconscio di non essere messi sullo stesso piano degli occidentali, di essere considerati «inferiori», e che provoca una spinta compulsiva a farsi continuamente sentire, in un modo o nell’altro.

Gli etiopi non sono mai stati colonizzati, e i cinque anni di occupazione italiana non ne hanno minimamente intaccato l’«etiopicità». Anzi, come è avvenuto per tutti gli attacchi che il paese ha dovuto affrontare nel corso della storia, la volontà di resistere al colonialismo fascista l’ha sicuramente rinforzata.

Nuovi rischi

L’Etiopia, nel suo affascinante percorso storico, è riuscita a passare indenne attraverso mille vicissitudini, trasformandosi senza mai snaturarsi. Ma ora, che il paese si è spalancato agli investimenti cinesi, le sue terre sono avvilite dal land grabbing (accaparramento delle terre da parte di multinazionali straniere, ndr), le sue tradizioni sottoposte alla lente banalizzante del turismo di massa, l’etiopicità riuscirà a conservarsi? Si troveranno ancora tracce della «restaurazione ciclica» di un sistema feudale che sembra costituire, nelle sue forme sempre cangianti, una costante della storia etiope? La scomparsa del carismatico primo ministro Meles Zenawi, ex guerrigliero e padre dell’originale federalismo su base etnica, sostituito nel 2012 dal più «anonimo» Haile Mariam Desalegn, interromperà la serie di «imperatori de facto» che si sono succeduti alla guida del paese?

Al mio ritorno, fin dai primi passi ritrovo subito quella tipica capacità etiope di «accogliere questo ma non quello», che avevo spesso riscontrato. Nemmeno due anni fa, il mondo degli affari si era stupito della decisione del governo di Addis Abeba che aveva messo sul mercato titoli pubblici a scadenza decennale (subito andati a ruba) per l’ammontare di un miliardo di dollari. Tuttavia, nonostante tale apparente apertura alla «modeità», in Etiopia si vedono solo insegne di banche locali. Molte hanno aperto una filiale nella zona del Merkato, l’esteso quartiere nel quale si vende di tutto. A dispetto delle migliaia di piccoli commercianti che trascorrono le giornate seduti per terra a contrattare la loro povera merce con avventori di varia estrazione sociale, in questo rione si concludono affari milionari.

Tra i fasci di povere galline legate fra loro e i mucchi di vestiti usati, trovo anche le mele dell’Alto Adige, a un prezzo decisamente elevato. Ma chi le comprerà mai? Non faccio in tempo a chiedermelo, ed ecco un anziano signore acquistarle senza batter ciglio.

Rivedo dunque un’altra caratteristica etiope: l’assenza di una netta separazione fra livelli di reddito molto diversi, ben visibile anche nell’organizzazione (o disorganizzazione…) urbanistica della capitale. Priva di un vero e proprio centro, alterna modei edifici di 20 piani a piccoli agglomerati di tuguri, senza che si possa parlare di quartieri ricchi e quartieri poveri. Quest’assenza di ghetti le consente di avere un tasso di delinquenza decisamente basso, specie se comparato a quello delle sue «sorelle» africane. Ad Addis Abeba, infatti, si può tranquillamente passeggiare a tutte le ore. E i suoi abitanti, che durante il giorno si dedicano a ogni tipo di attività per sbarcare il lunario, conferendo alla metropoli un aspetto brulicante, alla sera non disdegnano ritrovarsi con gli amici negli onnipresenti locali in cui si ascolta musica, per lo più etiope.

La domenica, invece, oltre a partecipare alle cerimonie ortodosse e incontrare i parenti, migliaia di giovani corrono o improvvisano partite di calcio negli spiazzi erbosi ancora rimasti fra un quartiere periferico e l’altro, dove sorgono orti e pascolano bovini. Appassionato di atletica, vado a farci una corsa anch’io, anche se la mia età è un po’ meno verde e i 2.400 metri di altitudine si fanno sentire. Tuttavia, è una buona occasione per relazionarmi in maniera più agevole di quanto solitamente avvenga nelle altre nazioni del continente. Qui, infatti, mi trattano tutti alla pari, e nessuno sembra guardarmi come un «bianco», ma tutt’al più come uno dei tanti stranieri che giungono da ogni dove.

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Le grandi opere

Nei programmi del governo, lo sviluppo del paese dovrebbe basarsi in larga parte su una serie di grandi opere, la più mastodontica delle quali risulta essere la Grand Ethiopian Renaissance Dam, cioè la Grande Diga del Rinascimento Etiope: un ciclopico muraglione alto 175 metri e largo 1.800, che sbarrerà il Nilo Azzurro prima di entrare in Sudan, formando un bacino di oltre 1.500 km2 (cioè come mezza Valle d’Aosta). Con le sue 16 turbine che potranno sviluppare una potenza di 6mila megawatt, vi sorgerà la centrale idroelettrica più grande d’Africa, l’undicesima al mondo. Fra mormorii e sospetti per l’assenza di gara d’appalto, l’incarico per la costruzione di quest’opera faraonica, ormai completata per più di metà, è stato assegnato all’italiana Salini Impregilo. Nulla di nuovo, quindi, rispetto a quanto già accaduto nella Valle dell’Omo. Assommando le altre aziende estere che foiranno le varie componenti, il costo totale dovrebbe ammontare a 4,8 miliardi di dollari, dei quali 1,8 finanziati dalla Cina e i rimanenti tre a carico dell’Etiopia stessa. C’è dunque da attendersi ulteriori emissioni di bond da parte del governo di Addis Abeba. Resta da vedere cosa accadrà quando questi, con il loro tasso d’interesse superiore al 6,5%, giungeranno a scadenza fra 10 anni.

Secondo l’esploratore scozzese James Bruce, che aveva visitato il paese nel ‘700, il mitico re etiope Lalibela aveva progettato già 8 secoli fa la costruzione di alcune dighe sul Nilo Azzurro, con lo scopo di ostacolare l’irrigazione delle terre d’Egitto, così da affamarlo e poterlo facilmente conquistare. Non si sa se tale piano sia mai stato realmente concepito, ma adesso che il fiume viene davvero sbarrato, è proprio il governo del Cairo a sollevare le principali obiezioni. Il Sudan, da parte sua, vede la diga di buon occhio poiché si trova a metà fra Khartoum e Addis Abeba, e l’energia elettrica prodotta raggiungerà entrambi i paesi. Ma l’Egitto, seppur dovrebbe anch’esso beneficiae, non è così sicuro che l’operazione sarà conveniente, anche perché vedrà diminuire la sua percentuale di sfruttamento del grande corso d’acqua. In passato, i governi Hosni Mubarak e Mohamed Morsi avevano proferito aperte minacce, ma ora la situazione, seppur fra mille discussioni e contrasti, pare un po’ più tranquilla. In ogni caso, l’Etiopia non ha mai vacillato nella sua idea di portare a termine l’impresa, costi quello che costi.

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L’ossessione per le guerre

Dopo il conflitto fratricida con l’Eritrea, negli ultimi tre lustri l’«ossessione» etiope per le guerra sembra essersi affievolita. Ma un giovane militare con il quale mi trovo a chiacchierare, mi offre un esempio della storica fierezza dei combattenti locali. Quando, davanti al suo kalashnikov che esibisce in bella mostra, gli dico scherzosamente di non spararmi, per tutta risposta si fa serio e mi ribatte piccato: «Non sono mica un pericolo pubblico, sono un soldato della Repubblica Federale d’Etiopia e sono stato addestrato a comportarmi in modo professionale!». Molti si chiedono come mai, nonostante le numerose azioni incisive portate avanti da reparti etiopi in Somalia, il paese non abbia subito attacchi terroristici della portata di quelli registrati nel vicino Kenya, anch’esso militarmente impegnato oltreconfine.

Trovandomi ad Addis Abeba, non posso rinunciare a un giro sull’ultima novità: la prima metropolitana dell’Africa subsahariana, entrata in servizio nel settembre 2015 e costata 475mila dollari. Oltre alla costruzione e alla foitura del materiale rotabile, Pechino si sta occupando anche del funzionamento: per un paio d’anni, i macchinisti alla guida dei treni saranno cinesi, gradualmente sostituiti da personale etiope sotto loro sorveglianza.

Percorro poi la nuova autostrada verso Sud e, di fronte ai carrettini e agli asinelli che procedono contromano, mi chiedo quante persone beneficino davvero di tali investimenti. Infatti, dopo più di un decennio con tassi di crescita del Pil mediamente superiori al 10%, ci si trova ancora di fronte a una maggioranza della popolazione, che ormai raggiunge i 100 milioni di abitanti, costretta a vivere con meno di due dollari pro capite al giorno. Una grande povertà, ma anche una forte capacità di accoglienza dei profughi (calcolati in circa 750mila persone), che ha stupito il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella durante la visita di stato del marzo scorso. In capitale, dove giungono molti mendicanti, sempre più persone si scostano dalle indicazioni sia ortodosse sia musulmane, per le quali ogni soldo donato sarà lautamente ricompensato in paradiso, ma pretendono che il governo sia più incisivo nei programmi di lotta alla povertà, in modo da evitare che molti bambini non vedano altro futuro che l’accattonaggio.

Seppur fra mille cambiamenti, posso affermare di aver ritrovato l’Etiopia di sempre, con le sue meraviglie e i suoi orrori, che offre fascino o sgomento a seconda di come la si guardi. Quell’Etiopia difficile da inquadrare, soprattutto se ci si ostina a utilizzare i consueti parametri statistici. Si tratta infatti di un paese nel quale, in statistica, possono anche coesistere diverse quote superiori al 50% nello stesso conteggio, o i cui confini interni risultano alquanto elastici, così come certe regole grammaticali. Basta ad esempio chiacchierare con le persone, per capire che la maggioranza della popolazione può essere cristiana, oppure musulmana, a seconda dell’interlocutore. E basta mettere in atto delle iniziative in certi villaggi, per accorgersi di come questi cambino di regione a seconda che si tratti di ricevere fondi per lo sviluppo o essere sottoposti a tassazioni. Chi poi non riesce a lavorare senza avvalersi di supporti informatici, può sempre impazzire a trovare delle traduzioni univoche per trasferire i nomi propri delle località dall’amharico (con i suoi 260 segni sillabici) al nostro scao alfabeto.

Insomma, oggi come ieri, risulta pienamente valida l’affermazione, espressa nel 1968 dal linguista eritreo Abraham Demoz: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».

Repressioni estive

Nel momento in cui scrivo, giungono notizie delle ennesime manifestazioni soffocate nel sangue. Sarebbero oltre 100 i morti nel solo fine settimana del 6-7 agosto. Le proteste erano iniziate l’inverno scorso a causa di un programma, poi abrogato, volto ad allargare la giurisdizione della capitale: una città in piena espansione che ha bisogno di nuove terre edificabili, pestando così i piedi all’Oromiya, la regione che la ingloba e che, storicamente, si sente schiacciata dal potere centrale. Nel contempo, attivisti amhara sono scesi in piazza per rivendicare la territorialità di alcune aree a Nord di Gonder, ora incluse nella regione del Tigray, e anche qui l’intervento delle forze governative (apertamente filo tigrine, da ormai 25 anni) ha provocato numerose vittime. In entrambi i casi, si tratta del difficile rapporto tra centro e periferie, reso più aspro dall’ineguale distribuzione dei profitti derivanti dalla vorticosa crescita economica.

Alcuni analisti fanno notare che gli Amhara e gli Oromo sembrano finalmente in grado di superare gli annosi contrasti, così da coalizzarsi nella richiesta di una maggiore democrazia. Se così fosse l’Etiopia potrebbe rivestire un ruolo faro nell’indicare alle altre nazioni del continente una via africana allo sviluppo. Lo dimostrano i molti oppositori che, nelle loro feroci critiche al governo, si mostrano costruttivi e motivati da un grande amore per il proprio paese, manifestando un’apprezzabile larghezza di vedute. Niente di meglio per sfatare il luogo comune dell’africano che non riesce a guardare al di là del proprio gruppo etnico e delle proprie necessità immediate. Emblematico, a questo proposito, quanto accaduto alle recenti Olimpiadi di Rio. Feyisa Lilesa, fortissimo maratoneta etiope (di etnia oromo), ha tagliato il traguardo conquistando la medaglia d’argento. Al termine della gara il suo pensiero è andato alle proteste della sua gente soffocate nel sangue. E allora ha deciso di ripetere il gesto che tanti altri giovani stavano facendo in quei giorni per le strade d’Etiopia: le braccia alzate, con i polsi incrociati, a mimare le manette alle quali va incontro chi richiede un maggior rispetto dei diritti civili.

La protesta nonviolenta dell’atleta etiope ci fornisce qualche briciolo di speranza in più.

Alberto Zorloni

Alberto Zorloni veterinario tropicalista, ha operato in diversi paesi africani e centroamericani. Originario di Varzo, Piemonte, si è laureato a Milano; è specializzato ad Anversa (Belgio) e ha conseguito un master di ricerca in etnoveterinaria a Pretoria (Sudafrica). Ha pubblicato Ripartire da ieri (Emi), di cui MC ha scritto sul numero di agosto-settembre 2015. Alberto è tornato in Etiopia nel 2016, dopo averci lavorato un anno nel 2003.

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Nigeria: Boko Haram califatto made Africa


Boko Haram è un nome che incute paura. La sua storia è legata a un’area ben definita della Nigeria. Ma vanta legami inteazionali. Come si è arrivati a questo fenomeno africano? E cosa rappresenta nello scacchiere del terrorismo internazionale? E il jihad in Africa in che direzione sta andando? Un libro appena uscito cerca di dare queste e molte altre risposte.

«Boko Haram è una realtà del jiahadismo internazionale, in particolare dopo l’adesione di Aboubakar Shekau al califfato di al Bagdhadi. L’Africa è stata scoperta essere uno scenario importante dal terrorismo, prima ancora che dalla politica internazionale e dall’Europa. Il terrorismo internazionale, infatti, investe molto nel continente africano». Chi ci parla è Raffaele Masto, giornalista, specialista di Africa, esperto di Nigeria e delle sue storie. Masto ha appena pubblicato «Califfato Nero», editori Laterza, nel quale racconta le origini e le gesta della setta integralista nigeriana. Il vero nome di questa formazione è «Gruppo della gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihad», mentre Boko Haram signigica: «L’educazione occidentale è vietata».

«Si tratta dell’unica realtà del terrorismo internazionale che ha una logica locale, e ha avuto un’origine tutta africana. Gli altri gruppi presenti in Africa, per esempio in Mali, sono un’emanazione del jihadismo magrebino, un tentativo delle formazioni del Nord di penetrare in Africa nera e controllare quel vasto e remoto deserto che è la scena di traffici inteazionali molto lucrosi. Dall’altra parte, sulla costa orientale, in Somalia, c’è al Shabaab che è un’emanazione di Al Qaeda. Boko Haram rientra in questo scenario, ed evidentemente copre un territorio ambito dal terrorismo internazionale».

This video grab image created on August 14, 2016 taken from a video released on youtube purportedly by Islamist group Boko Haram showing what is claimed to be one of the groups fighters at an undisclosed location standing in front of girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014. Boko Haram on August 14, 2016 released a video of the girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014, showing some who are still alive and claiming others died in air strikes. The video is the latest release from embattled Boko Haram leader Abubakar Shekau, who earlier this month denied claims that he had been replaced as the leader of the jihadist group. / AFP PHOTO / HO / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / BOKO HARAM" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS
This video grab image created on August 14, 2016 taken from a video released on youtube purportedly by Islamist group Boko Haram showing what is claimed to be one of the groups fighters at an undisclosed location standing in front of girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014.
Boko Haram on August 14, 2016 released a video of the girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014, showing some who are still alive and claiming others died in air strikes. The video is the latest release from embattled Boko Haram leader Abubakar Shekau, who earlier this month denied claims that he had been replaced as the leader of the jihadist group. / AFP PHOTO / BOKO HARAM

Così vicini

Ma che importanza ha oggi Boko Haram sullo scacchiere internazionale? E perché un europeo ha interesse a conoscere l’esistenza e le azioni di un gruppo sanguinario che agisce nel cuore dell’Africa?

«Per l’Europa tutto ciò ha grande importanza, perché solo il Maghreb, sempre più burrascoso, e quel deserto, il Sahara, che è un territorio di traffici e affari, la separano dalla zona dove tutto questo avviene. Ma è anche quell’Africa che sfoa profughi, rifugiati e migranti verso il vecchio continente. Voglio dire che è una realtà abbastanza vicina a noi europei e ci conviene conoscerla». Continua Masto: «Non è che dobbiamo farlo per buonismo o per occuparci di un’Africa dimenticata. No, l’Africa è diventata uno scenario importante, ci è vicina per una serie di questioni, per cui dovremmo capire meglio che cosa accade “là dentro”. Questo ci spiega anche, in questo momento, alcune dinamiche inteazionali che ci sfuggono».

Raffaele Masto dal 1989 lavora nella redazione di Radio Popolare e ha seguito, come inviato, crisi in Medio Oriente, America Latina, e in particolare in Africa, continente per il quale è diventato un vero riferimento nel giornalismo italiano. E non solo.

Anche questo suo ultimo lavoro nasce da anni di frequentazione della Nigeria, da una raccolta minuziosa di dati e testimonianze dirette sul campo. Ci confida: «La Nigeria è un paese difficile da percorrere, ci vuole molto denaro, perché spesso bisogna essere scortati. Io non ho dei grandi budget per i viaggi, ho dietro una testata che non è ricca, anche se è prestigiosa nel suo genere, e quindi la prima difficoltà è stata quella di conciliare le spese per viaggi d’inchiesta con i soldi a disposizione».

E continua: «Ma direi che i viaggi sono stati essenziali, perché un fenomeno studiato dall’Europa continua ad avere dei buchi che si riempiono e si comprendono solo se si riesce ad andare sul posto.

Io ho cercato di farlo preparando molto bene le missioni, creando e mantenendo relazioni con persone fidate in loco, e cercando di risparmiare».

Il libro «Califfato Nero» descrive un fenomeno complesso con parole semplici, intervallando descrizioni di situazioni nigeriane ricche di spunti, con parti di storia, cronaca e analisi approfondite.

«La dinamica locale di Boko Haram, secondo me, è la cosa veramente importante. Questo gruppo terrorista è nato dalla necessità di alcune lobby politiche ed economiche della Nigeria del Nord. Solo in un secondo momento è stato inglobato in una dinamica più ampia. Questo è esattamente quello che si poteva prevenire. Se si fosse affrontato prima il problema non ci troveremmo di fronte a un jihadismo africano radicato in tre regioni con il rischio che si crei un cornordinamento».

La ribalta mediatica

Boko Haram «buca» i notiziari di tutto il mondo guadagnandosi la fama internazionale nell’aprile 2014. Un gruppo di guerriglieri, in quel momento semisconosciuti fuori dai confini della Nigeria, realizza un clamoroso rapimento di massa di ragazze da un collegio femminile a Chibok, nel Nord Est del paese. «C’erano tutti gli elementi necessari per solleticare l’immaginario occidentale: 276 adolescenti in mano a miliziani oscurantisti, sessuofobici, abituati alla violenza e ostili all’universo femminile, considerato utile solamente a soddisfare le necessità materiali maschili», scrive nel suo libro Masto.

L’opinione pubblica si mobilita, viene lanciata una campagna internazionale: Bring back our girls, che non avrà molto effetto.

Ma che origini ha Boko Haram?

«A partire dal 2002, anno della sua nascita, e per circa sette anni, la setta fondata dal predicatore Mohammed Yusuf si rende protagonista dei una netta opposizione al potere costituito, inscenando manifestazioni che degenerano in disordini, scontri, violenti attacchi alle forze di polizia e all’esercito. Questa formazione radicale, che assume da subito una forte valenza religiosa, si scaglia contro la corruzione delle autorità e della politica, così come contro il lassismo dei costumi, criticando duramente quella che ritengono un’applicazione troppo blanda dei dettami della religione islamica».

Yusuf, predicatore dotato di grande carisma, trova terreno fertile nei giovani nigeriani disadattati «che vedevano in un fustigatore dei potenti un’alternativa al sistema imperante della corruzione e nella stretta osservanza della sharia (legge islamica) una possibilità di ristabilire una giustizia e un ordine sociale».

Ma Yusuf è anche bravo nella «real politik», e fin dall’inizio, riceve soldi dal senatore Ali Modu Sheriff, che sarebbe poi diventato governatore dello stato di Boo (proprio dove è nato Boko Haram), e quindi un alto rappresentante di quella classe politica che la setta contestava. Scrive Masto: «Il sodalizio tra Sheriff e Yusuf parve funzionare, perlomeno per qualche tempo: in cambio del sostegno alle elezioni locali, il futuro governatore promise una rigida applicazione della sharia nel Boo». Ma qualcosa in seguito va storto, la legge coranica non viene applicata nella modalità auspicata da Yusuf e presto gli alleati occulti si trovano su barricate opposte.

Al contrario di molti altri gruppi e sette che fioriscono in Nigeria «Il gruppo di Mohammed Yusuf intersecava questioni religiose e politiche, cioè la moralizzazione dei costumi e la critica senza appello della corruzione; e forse fu proprio questa particolarità a fae un movimento diverso degli altri, più incisivo e con un seguito più fedele e radicato».

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La svolta

Nel luglio del 2009, violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine scoppiano in diversi stati del Nord della Nigeria, con epicentro lo stato del Boo, nel Nord Est, dove ha origine Boko Haram. La repressione dell’esercito federale è violentissima anche con i civili (le cifre ufficiali parlano di 700 morti, nella realtà saranno molti di più). Yusuf è arrestato e sarà poi giustiziato senza processo. Questo fatto, e il conseguente mutamento di leader, producono il salto di qualità della setta. Dopo una lotta intea con altri tre pretendenti alla successione di Yusuf, emerge Aboubakar Shekau, che si rivelerà spietato e sanguinario, portando, tra l’altro, il gruppo terrorista al record di uccisioni, che nel 2014 superano quelle dello Stato islamico (Isis).

«Da movimento insurrezionale è diventato una formazione terroristica capace di mettere in campo una grande versatilità con veri e propri attacchi militari, quando è possibile sferrarli, e capace di ripiegare su attentati kamikaze quando è necessario.

Di certo la sua evoluzione e la sua crescita costituiscono una vera e propria novità. L’insurrezione del 2009 era stata messa in campo con un esercito di militanti impreparati al combattimento, c’erano poche armi e perlopiù la polizia veniva fronteggiata con machete e bastoni. Oggi questa setta può contare su grandi quantità di esplosivo, su esperti che lo sanno usare, su una buona capacità logistica, su mezzi rapidi ed efficienti per gli spostamenti e su combattenti preparati». Il merito di tutto questo è in gran parte di Abubakar Shekau, ma anche «il risultato di alleanze e relazioni con i movimenti del jihadismo internazionale».Dopo aver raccontato la figura del fondatore Yusuf, Masto dedica un intero capitolo a tratteggiare il ritratto di Shekau, detto l’«immortale», perché lo si è dato per morto ormai innumerevoli volte ma è sempre ricomparso con video e dichiarazioni. Una figura oscura, ma fondamentale, che è necessario tentare di comprendere.

L’autore descrive anche le modee tecniche di comunicazione usate del gruppo terrorista e il loro sviluppo negli ultimi anni.

Espansione di Boko Haram

Sul terreno l’escalation degli attacchi di Boko Haram dal 2010 in poi è innegabile. Assalti a moschee, chiese, mercati, villaggi, postazioni di esercito e polizia e poi scuole, diventano quasi quotidiani. Gli attacchi vengono eseguiti tramite kamikaze con autobombe o miliziani armati, e talvolta rapimenti. Sono colpiti interessi occidentali, ma anche locali, cristiani e musulmani. Da Maiduguri (capitale del Boo) gli assalti si spostano negli altri stati del Nord (clamorosi quelli a Kano nel 2012), anche nel centro (a Jos nel Plateau) e nella capitale Abuja, come l’attentato alla sede delle Nazioni Unite (agosto 2011) che causa 23 morti e decine di feriti.

A partire dal 2013 il gruppo comincia un’operazione di conquista territoriale, che lo porterà, come spiega l’autore, sulla scia del Isis a proclamare il Califfato africano: «Superata la metà del 2014, Boko Haram corona la sua strategia di controllo territoriale: il 24 agosto, dalla cittadina di Gwoza, nel Boo, a Sud Est di Maiduguri, Abubakar Shekau annuncia la nascita del suo Califfato». Boko Haram controlla un territorio più vasto di una grande regione italiana, include la foresta di Samibisa ed è vicino al Camerun e non lontano dal Ciad.

Dopo alcuni interventi extraterritoriali, inizia una vera guerra di eserciti combattuata in quella frontiera quadrupla che è il lago Ciad: nel febbraio del 2015 i miliziani attaccano per la prima volta Diffa, una città nel territorio del Niger, paese che fino a quel momento era servito come base a cellule di terroristi e quindi risparmiato. Ciad, Camerun, Niger e pure Benin creano una coalizione militare contro Boko Haram. I villaggi sulle isole del lago Ciad sono più volte conquistati e liberati. Solo in Niger sono decine di migliaia gli sfollati (cfr. MC ottobre 2015).

Fedeltà al califfo

Shekau cerca poi alleati inteazionali. Il 7 marzo del 2015 proclama l’adesione al Daesh (Isis) e, soprattutto, la «sottomissione» di Boko Haram al Califfo Abu Bakr al Baghdadi, il quale pochi giorni dopo, tramite il portavoce Abu Muhammad al-Adnani lo riconosce ufficialmente come «espansione del Califfato in Africa Occidentale». Il passaggio è importante: Boko Haram, fenomeno tutto nigeriano, con la sua propria dinamica e regole, si sottomette al jihadismo mediorientale. Può essere un segno che i finanziamenti «interni» nigeriani si sono ridotti.

Il controllo territoriale presto lo perderà. Nel maggio del 2015 viene eletto presidente della Nigeria Mamadou Buhari, musulmano del Nord, che succede a Goodluck Johnatan, cristiano del Sud. Il nuovo presidente cambia strategia: «Senz’altro Buhari, ha messo in campo un’offensiva militare maggiore di quella che era stato in grado di fare Johnatan, e non tutto per colpa sua. Così ha strappato il territorio dal quale Shekau aveva proclamato lo stato islamico in Africa dell’Ovest. Un’area di una volta e mezza il Belgio, quindi abbastanza significativa. Un classico perché lo Stato islamico irrideva le frontiere coloniali. Ricordiamo che quella è una zona, nello stato del Boo, l’estremità Nord orientale della Nigeria, in cui si ha convergenza di quattro confini e per farli, in epoca coloniale, erano scesi in campo i migliori negoziatori del tempo. Lo Stato Islamico nasce esattamente lì, non è casuale, perché proprio in quella zona può frantumare l’idea di confini, di equilibrio, che provengono da una storia occidentale che il califfato sbeffeggia, rifiuta, non riconosce». Molti analisti danno Boko Haram in declino dai primi mesi del 2016 a causa dell’offensiva del governo federale. Non la pensa esattamente così Raffaele Masto: «Buhari è riuscito a riconquistare il territorio di Boko Haram, ma queste vittorie sul campo sono abbastanza di Pirro. Il terrorismo jihadista ha una caratteristica, lo vediamo anche in Siria e Iraq: adotta la strategia dell’elastico. Se ha un territorio lo amministra, ci ricava ricchezze, risorse, fa addestramento, propaganda. Se non ha il territorio ritorna al terrorismo puro. Boko Haram non ha smesso di fare attentanti».

Cambio di leader?

Per alcuni mesi Shekau non si fa sentire. Poi il 2 agosto scorso, tramite una pubblicazione, lo Stato islamico indica in Abu Musab al-Baawi, portavoce di Boko Haram, il nuovo governatore dello Stato islamico in Africa Occidentale. Ma già la sera successiva, è reso pubblico un audio di Shekau indirizzato ad al Baghdadi, nel quale dichiara che al-Baawi è un deviato e chiede al califfo di posizionarsi. In un video del 7 agosto Shekau si autoproclama «imam del gruppo Boko Haram in Nigeria e nel mondo intero».

Ci spiega Masto: «Oggi la setta è bicefala. Al Baawi, nominato direttamente da Abu Bakr al Baghdadi, dimostra che per il nuovo Isis, la realtà di Boko Haram, la provincia africana, è qualcosa di importante. Per questo hanno nominato un personaggio a loro fedele. Perché Abubakar Shekau è un personaggio sopra le righe, ingombrate, sanguinario, quasi imbarazzante per al Baghdadi. Ai tempi dell’adesione all’Isis qualcuno disse che rovinava l’immagine dello stesso Califfato. Ora con questa nomina, si capisce che lo Stato islamico aveva bisogno di qualcuno di più canonico, e più controllabile, a capo di questa provincia africana. Shekau rappresenta il Boko Haram della metamorfosi, nasce con una dinamica locale, aderisce allo Stato islamico ma vuole mantenere una logica anche locale, mentre Boko Haram di al-Baawi è qualcosa di diverso, più dentro le fila dello Stato Islamico vero e proprio».

Ma sembra chiaro che Shekau è in difficoltà, sia militarmente sia finanziariamente. Siamo lontani dalle disponibilità economiche e conseguenti azioni del 2014 e 2015.

Conclude Masto: «Non si sa quale delle due fazioni avrà maggiore forza, non si sa chi abbia la pateità di alcuni degli ultimi attentati. Di certo la situazione della Nigeria Nord orientale non è tranquillizzante. Rimarrà molto grave anche dal punto di vista umanitario. Inoltre un collegamento dei combattenti e addestratori del califfato mediorientale con gli uomini di al-Baawi sarebbe molto preoccupante. Diventa un cartello del terrorismo e l’Africa è parte di un teatro globale, questa è la cosa più inquietante».

È del 23 agosto, la notizia da fonte governativa nigeriana, che Shekau sarebbe stato «ferito mortalmente» in seguito a un attacco dell’esercito federale. Resta da vedere se e quando, l’immortale, toerà a farsi sentire.

Marco Bello

Archivio MC

Su MC abbiamo trattato a più riprese questioni relative al terrorismo africano: M. Alban e M. Bello, Terrorismo: il grande vuoto, dicembre 2010; E. Casale e M.Bello, Jihad africana, dossier, novembre 2012; M. Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, ottobre 2015.




Brasile grida perdute nell’indifferenza


Dimenticate le Olimpiadi, il Brasile è tornato ai problemi di questi ultimi anni: crisi economica e crisi morale. Il governo Temer, nato da un golpe parlamentare ed espressione dell’oligarchia, non ha in agenda la difesa dei diritti dei popoli indigeni. Al contrario, accentuerà la loro erosione, spinto da un Congresso dominato dagli «uomini BBB» (pallottole, vacche, Bibbia). Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, la combattiva organizzazione indigenista contro la quale il governo del Mato Grosso del Sud ha addirittura istituito una Commissione d’inchiesta. Per aver difeso i popoli indigeni dalle violenze dei propri latifondisti.

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Dopo dieci anni e mezzo come vescovo di Boa Vista, nello stato di Roraima, dal dicembre 2015 mons. Roque Paloschi è arcivescovo di Porto Velho, capitale di Rondonia. Alcuni mesi prima del suo trasferimento, il prelato – nato nella cittadina di Progresso, nello stato di Rio Grande do Sul, da una famiglia di origine italiana – era stato nominato presidente del Conselho indigenista missionário (Cimi), l’organizzazione creata nel 1972 per appoggiare la lotta dei popoli indigeni del Brasile. A fine luglio il Cimi ha ottenuto lo status di consulente per la tematica indigena nel Consiglio economico e sociale (Ecosoc) delle Nazioni Unite.

Questo momento storico

Mons. Paloschi, il Brasile sta vivendo un periodo storico molto particolare.

«Sicuramente. È un momento che nasce anche da una lotta contro le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni. Il nuovo governo (vedere tabella di pagina 53, ndr) è composto da corrotti, come dimostra la situazione di vari ministri».

Nel corso dell’ultimo anno, lei è passato dalla diocesi di Boa Vista a quella di Porto Velho. È diventato anche presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi). Quale dei due compiti ritiene che sarà più difficile?

«Sono due sfide nuove che esigono molto impegno. Tuttavia, non c’è dubbio che la questione indigena è oggi una tematica cruciale in Brasile».

Parliamo allora del Cimi, l’organismo della Conferenza episcopale brasiliana.

«È stato creato negli anni Settanta per accompagnare il cammino dei popoli indigeni. Dopo otto anni con alla guida mons. Erwin Kräutler1, da un anno io ne ho assunto la presidenza. Oggi l’organismo sta vivendo un momento molto impegnativo a causa della difficile condizione degli indigeni. In Mato Grosso do Sul è stata addirittura creata una commissione (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per investigare sul suo comportamento (vicenda raccontata nel riquadro di pagina 54, ndr)».

Il Cimi ha da poco reso pubblico, come fa ogni anno, il rapporto sulle violenze perpetrate ai danni dei popoli indigeni in Brasile. Che quadro ne è uscito?

«Che anche nel corso del 2015 i popoli indigeni hanno subito un gran numero di violenze. Il nostro rapporto annuale – Violência contra os povos indígenas no Brasil – è un lavoro riconosciuto a livello internazionale. Con esso noi denunciamo la violenza delle imprese minerarie, di quelle dell’agroindustria e del legno, ma anche del governo con le sue repressioni poliziesche».

A fine dicembre un bambino di etnia Kaingang è stato ucciso alla stazione dei bus davanti agli occhi della mamma. Come ha reagito il paese?

«L’assassinio di Vitor2, un bambino di 2 anni, dimostra che la società è discriminatoria, spesso alimentata dai grandi media del Brasile. La sua morte ha provocato, evidentemente, una certa commozione, ma non c’è un atteggiamento di accettazione della società brasiliana verso gli indigeni e la loro cultura. È violenta».

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I popoli indigeni e la politica «Bala, Boi, Bíblia»

Provi a farci un elenco dei principali problemi dei popoli indigeni del Brasile.

«Il primo grande problema è l’indifferenza della società brasiliana. Un’indifferenza storica, che parte dai colonizzatori che vedevano nei popoli indigeni una cultura arretrata. Come non fossero persone con una dignità. Il secondo problema è l’aggressione ai diritti che, a costi altissimi, furono introdotti nella Costituzione del 1988. Oggi c’è un tentativo di de-costruzione di questi diritti attraverso tante proposte di modifiche costituzionali (Proposta de emenda constitucional, Pec). C’è poi l’invasione delle terre demarcate per mano di vari soggetti: le compagnie minerarie, le imprese del legno, le compagnie per le grandi opere del governo. Possiamo qui ricordare le centrali di Belo Monte, Balbina, Jirau3 e molte altre. C’è infine il grande problema della salute indigena, che versa in un caos generalizzato: le sue prospettive sono molto difficili».

Prima di essere esautorata, la presidenta Dilma non aveva fatto molto per la questione indigena. Basti pensare che, come ministra dell’agricoltura, aveva Kátia Abreu, nota ruralista e anti-indigena.

«Per i popoli indigeni il governo Temer costituirà una prova ben più difficile rispetto al governo Dilma. L’obiettivo di questo governo è eliminare i diritti dei popoli indigeni. È di aprire l’accesso alle loro terre. È tagliare tutte le politiche di promozione indigena: dall’educazione differenziata alle università. Noi non ci facciamo illusioni sul governo Temer. Come non ce ne facciamo sul Congresso nazionale, sempre più ostile verso la causa indigena e verso quella afro. È un Congresso estremamente conservatore e interessato soltanto al capitale internazionale».

Dom Roque, lei dunque conferma che il Congresso brasiliano è dominato da partiti avversi ai popoli indigeni?

«Confermo. Nel Congresso nazionale noi abbiamo tre schieramenti (bancadas) anti-indigeni: la bancada della Bibbia (Bíblia), quella della pallottola (bala) e quella della vacca (boi)4. Anche il potere giudiziario ha un atteggiamento completamente contrario. Insomma tutti i poteri dello stato mostrano una grande insofferenza nei confronti dei popoli indigeni».

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L’illusione dello sviluppo

Dom Roque, una delle obiezioni che si fanno alle politiche indigeniste può essere riassunta in una frase: troppa terra per pochi indigeni.

«È una obiezione infondata. In primis, perché tutta la terra del Brasile era loro. Essi l’abitavano da tanto tempo. Secondo, gli indigeni hanno un usufrutto della terra e non la proprietà. Terzo, è generalmente riconosciuto, anche dallo stesso governo brasiliano, che le terre indigene sono meglio conservate delle altre. Non mostrano la distruzione della natura come le altre. I fiumi in terra indigena, quelli non inquinati dai garimpos (miniere), sono di acqua cristallina. Da ultimo, non è che la terra appartenga agli indigeni, sono gli indigeni che appartengono alla terra. Appartenere alla terra invece che essee proprietario è ciò che definisce un indigeno. Questa è una differenza che, a prima vista, ai nostri occhi pare incomprensibile».

Un’altra obiezione riguarda la necessità dello sviluppo economico, soprattutto ora che il paese è passato dal miracolo economico alla crisi.

«Il paese deve trovare un equilibrio. Tutti questi progetti servono? Noi dobbiamo chiederci che sviluppo vogliamo. Uno sviluppo dove pochi hanno molto e molti non hanno niente? Oppure uno sviluppo equilibrato in cui ci sia una relazione corretta con l’ambiente e la creazione? Questa Casa comune – come la chiama il papa – è amministrata molto male. I popoli indigeni sono quelli che possono insegnarci come curarla e mantenerla. Secondo: con questo ritmo di sviluppo non ci potranno essere risorse per tutti. È necessario un percorso di austerità, una vita più sobria invece dell’attuale che prevede il consumo per il consumo».

È un fatto che in?Amazzonia si stia facendo di tutto. In modo legale e illegale.

«L’Amazzonia è stata sempre vista come il luogo dell’abbondanza. Per il Portogallo prima, per il Brasile poi, ma non per i popoli indigeni. Le sue risorse sono state messe al servizio del capitale, nazionale e internazionale. I progetti vengono calati dall’alto e non rispettano i modi di vivere di chi l’Amazzonia la abita da sempre. In altre parole, sono fatti per servire i grandi interessi e non certo i popoli amazzonici».

Come Cimi siete spesso accusati di fare politica. Come sono le vostre relazioni con il potere?

«La nostra è una relazione estremamente discreta. Il nostro lavoro non ha bisogno di presidenti. Noi seguiamo il Vangelo».

La missione istituzionale della Funai, organo ufficiale dello stato brasiliano, sarebbe quella di proteggere e promuovere i diritti dei popoli indigeni del paese. È un compito che essa assolve in modo adeguato?

«Storicamente il Brasile non ha mai svolto un lavoro di promozione indigena. La Funai è stata fondata dai militari e guidata per molto tempo secondo la filosofia della sicurezza nazionale5. Oggi è un organismo totalmente disorganizzato e limitato dalle stesse leggi brasiliane».

La Casa comune: distruttori e difensori

Dom Roque, cosa pensa dell’atteggiamento di papa Francesco rispetto ai popoli indigeni? E degli errori commessi in passato dalla Chiesa cattolica nei loro riguardi?

«Già nella Evangelii Gaudium il papa aveva parlato dei popoli indigeni. Nella Laudato si’ il papa è andato oltre scrivendo quasi un inno di riconoscenza verso la ricchezza dei popoli indigeni. Quanto al passato, in vari discorsi tenuti in Bolivia e in Messico Francesco ha riconosciuto i peccati commessi dalla Chiesa cattolica rispetto a loro. Noi aspettiamo la sua visita in Brasile nel 2017. Stiamo cercando di inserire una tappa nel Pará e in particolare nella regione del rio Tapajós, dove la costruzione delle dighe – ne sono previste ben 43 – sta mettendo a repentaglio l’esistenza di molti popoli, compresi alcuni incontattati6».

Da sempre i popoli indigeni vengono additati come popolazioni retrograde. Voi sostenete che le loro modalità di vita possono insegnare molto a noi occidentali.

«Da 500 anni i popoli indigeni hanno messo in discussione la rapina e la violenza contro la Madre Terra, imposta dall’Occidente con il suo modello economico e di sviluppo fortemente distruttivo. I popoli indigeni ci possono insegnare una relazione armoniosa con l’ambiente e la natura. Ci possono insegnare a vivere senza essere schiavi del denaro e dell’accumulazione».

Dom Roque, come presidente del Cimi come vede il futuro?

«La decisione è nelle nostre mani: o accogliere le grida dei popoli indigeni o distruggere la nostra Casa comune nel nome del profitto e del benessere di pochi».

Paolo Moiola

Note

1 – Il suo pensiero in: Ewin Kräutler, Ho udito il grido dell’Amazzonia, Prefazione di Leonardo Boff, Emi, Bologna 2015.
2 – Su questo fatto di cronaca e sugli assassini di indigeni in America Latina, si veda: Paolo Moiola, Una vita a buon mercato, MC, giugno 2016.
3 – Sulle dighe di Jirau e Santo Antonio rimandiamo a: Paolo Moiola, Le dighe della felicità, MC, ottobre 2012.
4 – Lo schieramento (bancada) della Bibbia è guidato dal pastore neopentecostale Marco Feliciano, quello della vacca dal medico e ruralista Ronaldo Caiado e quello della pallottola dal militare Jair Bolsonaro.
5 – La Funai è nata nel 1967, sostituendo il Serviço de proteção ao índio (Spi), che era stato creato da Candido Rondon, un militare di origini indigene.
6 – Sulle opere in terre indigene si veda: Cimi, Empreendimentos que impactam terras indígenas, Brasilia 2014. E sulle violenze: Cimi, Relatório. Violência contra os povos indígenas no Brasil. Datos de 2015, Brasilia 2016.

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Archivio MC e Video

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Mato Grosso del Sud

Dove un indio non vale una vacca…

… o un campo di soia o di canna da zucchero o di eucalipto. È lo stato brasiliano dove si contano più violenze ai danni delle popolazioni indigene per mano dei proprietari terrieri (fazendeiros). Nel 2015 sono stati ammazzati 36 indigeni e 45 si sono tolti la vita.

Il Mato Grosso del Sud è uno stato brasiliano del centro-ovest. È esteso come la Germania, ma ospita soltanto 2,5 milioni di abitanti. I numeri che lo caratterizzano sono i seguenti: 21,7 milioni di bovini (9 vacche per abitante), 1,1 milione di ettari di terra coltivati a soia (per 5 milioni di tonnellate prodotte annualmente), 550 mila ettari di terra coltivati a canna da zucchero (soprattutto per il mercato dell’etanolo), 380 mila ettari coltivati ad eucalipto (per il mercato della cellulosa)1. Vi risiedono anche circa 77 mila indigeni, tra i quali i Kaingang e almeno 43 mila Guarani-Kaiowá, abitanti originari2. Un tempo erano i «padroni» di queste terre, poi – a partire dalla fine del XIX secolo – iniziarono a essee espulsi dai bianchi. Oggi vivono – letteralmente – in accampamenti ai margini delle strade (come la Br-290 e la Br-386) o in qualche angusto spicchio delle 63 terre indigene (Ti) ufficialmente esistenti nello stato secondo la Funai3. La gravità di questa condizione è riassunta in un dato impressionante: nel solo 2015, tra gli indigeni del Mato Grosso del Sud, sono stati registrati 45 suicidi4, con un tasso d’incidenza molto più elevato che nel resto della popolazione brasiliana.

In questi anni di aumento della domanda di prodotti, nel Mato Grosso del Sud la frontiera agricola ha continuato ad espandersi e a concentrarsi nelle mani dell’oligarchia fondiaria, sempre a discapito delle popolazioni indigene.

Quando si ribellano, magari riprendendosi (retomada, è il termine utilizzato dagli indigeni; invasão, è il termine utilizzato dai non-indigeni) parte delle terre (Tekoha, che in lingua guarani significa «il luogo del modo di essere guarani») che appartenevano ai loro avi, vengono vessati dalle autorità locali e soprattutto fatti oggetto di violenza da parte dei sicari (pistoleiros) dei locali produttori agricoli (fazendeiros), i quali mai pagano per le loro azioni delittuose. Da anni il Mato Grosso do Sul è lo stato brasiliano che registra il più alto numero di violenze e di omicidi ai danni delle popolazioni indigene. Nel 2015 sono stati 36 gli indigeni assassinati su un totale di 137 nell’intero Brasile5.

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Una scia di omicidi (impuniti)

Per capire quanto il problema sia radicato, è utile ricordare i casi più eclatanti degli ultimi anni, iniziando dall’11 gennaio del 2003. Quel giorno viene ucciso Marcos Veron, un cacique guarani-kaiowá di 72 anni. Il suo gruppo di famiglie indigene si era installato su un piccolo appezzamento della fazenda Brasília do Sul, un latifondo di 9.972 ettari sorto in terra indigena, nel municipio di Juti. Nello sgombero violento attuato dalle forze di sicurezza dei fazendeiros l’anziano leader indigeno perde la vita.

Il 18 novembre 2011 viene ucciso Nizio Gomes, un altro cacique guarani-kaiowá. Un gruppo di indigeni aveva ripreso un piccolo pezzo della fazenda Nova Aurora, svilluppatasi su un’area indigena. A sgombrare l’accampamento arrivano gli uomini della Gaspem Segurança, un’impresa di sicurezza privata nota per i suoi metodi violenti. Nell’azione Nizio Gomes rimane ucciso.

Alla fine di ottobre del 2009 scompaiono due professori indigeni guarani-kaiowá, Genivaldo Vera e Rolindo Vera, dopo essere stati attaccati dagli agenti di sicurezza della fazenda São Luiz, nel municipio di Paranhos. Il corpo di Genivaldo, che aveva 21 anni ed era professore di informatica, viene trovato dieci giorni dopo la sua sparizione.

Ancora più triste è l’omicidio di Denilson Barbosa, un ragazzo kaiowá di soli 15 anni. Il giovane viene ammazzato con un colpo di fucile alla testa il 17 febbraio 2013 dal fazendeiro Orlandino Caeiro Gonçalves. Denilson era stato colto a pescare in un laghetto della fazenda, sorta su un territorio indigeno.

Il 30 maggio 2013 muore Oziel Gabriel, indio del popolo Terena, il cui accampamento era stato montato sulla terra occupata dalla fazenda Buriti, sorta su un’area dichiarata indigena.

L’8 dicembre 2014, un gruppo armato attacca indigeni  sistemati su una piccola area della fazenda Burana, sviluppatasi su un’area indigena. Una ragazza guarani-kaiowá di 17 anni, Julia Venezuela, scompare, dopo essere stata colpita e caricata su un fuoristrada dagli assalitori.

Il 29 agosto 2015 Semião Vilhalva, giovane kaiowá di 24 anni, viene assassinato nel municipio di Antônio João da un gruppo di fazendeiros accorsi per sgombrare le fazendas Barra e Fronteira da un gruppo di indigeni. A conferma di una storica impunità, poche settimane dopo l’omicidio di Vilhalva, nel settembre del 2015 l’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud, sottomessa agli interessi dell’oligarchia rurale, elegge una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per indagare se il Consiglio indigenista missionario (Cimi) inciti e finanzi l’occupazione di proprietà private da parte delle popolazioni indigene.

L’ultimo assassinato in ordine di tempo è Clodiodi Aquileu Rodrigues de Souza, agente di salute indigena di 26 anni. Lo scorso 14 giugno un gruppo di una settantina di fazendeiros, accompagnati da uomini armati in uniforme e cappuccio, a bordo di decine dei consueti (e costosissimi) fuoristrada, attaccano un piccolo accampamento indigeno sistemato su un terreno occupato dalla fazenda Yvu, sorta su una terra indigena già ufficialmente riconosciuta e delimitata. Clodiodi rimane ucciso, molti altri feriti.

Il prezzo di una vita

Quelli sommariamente descritti sono soltanto alcuni episodi della cruenta guerra in corso nel Mato Grosso do Sul per il possesso della terra. Una guerra tra i proprietari di oggi e i proprietari di ieri, quei popoli indigeni ai quali non si riesce o non si vuole restituire dignità e giustizia6.

Per tutto questo e molto altro non è un’esagerazione giornalistica affermare che il Mato Grosso del Sud è uno stato dove la vita di un indio non vale quella di una vacca. O – a scelta – di un campo di soia, di canna da zucchero o di eucalipti.

Paolo Moiola

Note

(1) Dati Conab, www.conab.org.br.
(2) Ibge, Censo demografico 2010.
(3) L’elenco e la descrizione delle terre indigene è visibile sul sito della «Fundação nacional do índio» (Funai), www.funai.gov.br.
(4) Dato della «Secreteria especial de saúde indígena» (Sesai), organo del ministero della salute. In Brasile, nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, il tasso d’incidenza è di 6,9 casi ogni 100 mila abitanti.
(5) Conselho indigenista missionário (Cimi), Violência contra os povos indígenas no Brasil – Ano 2015.
(6) Sulla situazione nel Mato Grosso do Sul: Reporter Brasil, Em terras alheias. A?produção de soja e cana em áreas Guarani no Mato Grosso do Sul, 2013; Cimi, As violências contra os povos indígenas em Mato Grosso do Sul. E as resistências do Bem Viver por uma Terra Sem Males, 2011. Entrambe le pubblicazioni sono reperibili sul web in formato Pdf.




Argentina San José Gabriel Brochero un pastore odora pecore


San José Gabriel Brochero, il «cura gaucho», era profondamente convinto che avrebbe potuto essere un buon pastore solo con un’azione missionaria ispirata dall’affetto, dall’interesse e dalla compassione per tutte le persone colpite dalla sofferenza, dalla povertà e dalle ingiustizie.

Nel volto di Brochero incontriamo la misericordia di Dio. Il 22 gennaio 2016 papa Francesco ha firmato il decreto che riconosce il secondo miracolo ottenuto grazie all’intercessione del beato José Gabriel Brochero. Il miracolo riconosciuto è quello della guarigione di una bambina che è tornata a camminare dopo un infarto cerebrale. Si tratta di Camila Brusotti, che all’età di otto anni, brutalmente picchiata da sua madre e dal suo patrigno, era rimasta per più di due mesi incosciente in terapia intensiva.

Il cura gaucho (cura = prete, gaucho = equivalente al cowboy, mandriano a cavallo), come era conosciuto, sarà canonizzato da papa Francesco il 16 ottobre e diventerà il primo santo tutto «argentino» perché nato e morto in Argentina. Mentre san Héctor Valdivielso Sáez (1910-1934), considerato da molti il «primo santo argentino», nacque nel paese, ma visse in Spagna da quando aveva quattro anni, e là fu fucilato insieme ai suoi confratelli quando aveva solo 24 anni, durante la rivoluzione delle Asturie, prima dell’inizio della guerra civile spagnola.

Il cura Brochero, la cui causa di beatificazione era iniziata nel 1967, era stato dichiarato venerabile da Giovanni Paolo II nel 2004 e poi beatificato da Benedetto XVI alla fine del 2012.

Chi era il Cura Gaucho?

cura_brochero_01Nacque nelle vicinanze di Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) il 16 marzo 1840 da una famiglia di contadini, quarto di dieci figli, crebbe nel seno di una famiglia profondamente cristiana. Due sue sorelle si fecero suore Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli. Entrò nel seminario Nostra Signora di Loreto il 5 marzo 1856 e fu ordinato sacerdote il 4 novembre 1866. Destinato come collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba, si prodigò durante l’epidemia di colera che colpì la città nel 1867 e mieté più di quattromila vite. In qualità di prefetto agli studi del seminario maggiore, ottenne il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba il 12 novembre 1869.

Verso la fine del 1869 fu nominato parroco di sant’Alberto, un paese a tre giorni a cavallo dalla città; situata sulle Sierras Grandes, alte più di 2 mila metri, la parrocchia contava più di 10 mila abitanti che vivevano in luoghi isolati e impervi senza strade, senza scuole e servizi sociali. La situazione morale e l’indigenza materiale degli abitanti avrebbe scoraggiato chiunque, ma non il cura gaucho che da quel momento dedicherà tutta la sua vita a portare non solo il Vangelo, ma anche a promuovere la vita delle sua gente attraverso la scuola e tante altre iniziative sociali.

Appena un anno dopo il suo arrivo convinse uomini a donne a recarsi a Córdoba per fare gli esercizi spirituali, percorrendo in tre giorni gli oltre 150 km di distanza a cavallo o a dorso di mulo, in carovane che spesso superavano le 500 persone. Più di una volta furono sorpresi da forti tormente di neve. Al ritorno, dopo nove giorni di silenzio, preghiera e penitenza, i suoi parrocchiani cambiavano poco a poco la loro vita, diventando cristiani più convinti, impegnati anche nello sviluppo umano della loro terra.

Nel 1875, con l’aiuto dei suoi parrocchiani, iniziò la costruzione della Casa degli Esercizi del paese allora chiamato Villa del Transito (località che oggi porta il suo nome di Villa Cura Brochero). Fu inaugurata nel 1877 e, durante il ministero del cura gaucho vi passarono più di 40 mila persone con tui di 700 persone alla volta. Come complemento costruì la casa per le suore, un collegio per le ragazze e la residenza per i sacerdoti.

Con i suoi parrocchiani costruì più di 200 km di strade e varie chiese, fondò paesi e si preoccupò per l’educazione di tutti.

Richiese alle autorità e ottenne uffici postali e telegrafici. Progettò il ramo ferroviario che avrebbe attraversato la Valle de Traslasierra unendo Villa Dolores e Soto per liberare i suoi cari montanari dalla povertà in cui giacevano, «abbandonati da tutti, ma non da Dio», come amava ripetere.

Predicò il Vangelo adattando il linguaggio a quello dei suoi fedeli per renderlo comprensibile. Celebrò la santa messa anche nei luoghi più remoti della sua parrocchia, portando sempre con sé il necessario sulla sua mula. Nessun infermo rimaneva senza sacramenti perché né la pioggia, né il freddo lo fermavano, «altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», diceva. Tra questi c’erano numerosi lebbrosi, che visitava regolarmente e con cui beveva il mate, la tipica bevanda argentina che si condivide da uno stesso recipiente. Si donava a tutti, specialmente ai poveri e ai lontani, che cercava con sollecitudine per avvicinarli a Dio.

Pochi giorni dopo la sua morte, il giornale cattolico di Córdoba scrisse: «È risaputo che il cura Brochero ha contratto la malattia che lo ha portato alla tomba perché non solo visitava ma anche abbracciava un lebbroso abbandonato da quelle parti». Diventato lebbroso, nel 1908 rinunciò alla parrocchia, toò a Córdoba e andò a vivere con le sue sorelle a Santa Rosa de Río Primero, la sua città natale. Non vi restò per molto: sollecitato dai suoi vecchi parrocchiani, toò a Villa del Tránsito nel 1912, preoccupandosi dell’opera che aveva sospeso, ossia l’installazione di una linea ferroviaria. Infine, il 26 gennaio 1914, rese l’anima a Dio. Le sue ultime parole, pronunciate in dialetto, furono: «Ora ho gli attrezzi pronti per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

«Sarete miei testimoni»

Il cura Brochero prese alla lettera queste parole di Gesù e le visse da vero missionario praticando la spiritualità delle «tre A: aquí, allí, allá». Sono le tre dimensioni che egli ha sempre conservato nella sua vita.

Aquí – qui dentro il proprio cuore: la missione inizia in noi stessi, ma è necessario entrare nel proprio cuore, in profondità e con sincerità; spesso è il viaggio più difficile e lungo da percorrere.

Allí – qui e ora, in questo posto: nella propria diocesi, nella propria parrocchia, nella propria realtà.

Allá – Là, oltre:  fino ai confini della terra che ci è affidata. Il cura Sapeva aprire le porte e lasciare entrare e nello stesso tempo sapeva uscire al di là delle frontiere tradizionali. Iniziava con un orizzonte concreto e limitato per ampliarlo poco a poco. Nello stesso modo il cammino missionario che egli apriva a coloro che lo aiutavano era proposto seguendo uno schema simile, partendo dal «di dentro», continuando nel «qui e ora» per aprirsi allo sguardo della missione nel «là e oltre» i confini e le barriere.

Juan Carlos Greco*

*Juan Carlos Greco, missionario della Consolata argentino. Il testo è stato tradotto e adattato da Misiones Consolata n. 470, luglio-agosto 2016, pubblicata a Buenos Aires, Argentina.
Foto di questo articolo tratte da: www.curabrochero.org.ar

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Le 3 «A»

Proviamo ad approfondire le tre dimensioni della spiritualità del cura con un po’ di allegria, qualche sua frase e brevi testimonianze.

1. Aquí – qui dentro

cura-brochero_gaucho«Un certo padre Juan è appena morto. Il vescovo durante il funerale abbonda di elogi: “Il defunto era un buon sacerdote, un vero amico di tutti, un padre umile e povero, un missionario esemplare!”. La sacrestana guarda uno dei chierichetti e gli dice all’orecchio: “Vai a vedere nella cassa e guarda se chi sta dentro è proprio p. Juan”».

Non è necessario fare molti elogi di Brochero. Egli sapeva aiutare le persone a entrare dentro di sé, a prendere coscienza della propria situazione e iniziare un cammino di vera conversione.

Diceva: «Non siamo cristiani per un’idea o una decisione etica, ma per incontrarci con Gesù». E a proposito della sua ordinazione sacerdotale: «Ho avuto molta paura. Sono solo un povero peccatore, così pieno di limiti e miserie. E mi domandavo: “Saprò essere fedele alla vocazione? In che imbroglio mi sono messo?”. Ma subito una sensazione immensa di pace invase il mio essere. Perché se il Signore mi aveva chiamato, Egli sarebbe stato fedele e avrebbe sostenuto la mia fedeltà; inoltre, Gesù Buon Pastore, non nega mai i suoi doni a coloro che lo seguono e sono “altri Gesù”» «Solo convertendo noi stessi in un nuovo magnificat potremo diventare ciò che Dio vuole che siamo, umili servitori, sui quali si effonde la misericordia di Dio per poter offrire la propria vita per amore al mondo. Oggi, per intercessione della Madre della misericordia, dobbiamo essere artefici della pace, strumenti di riconciliazione, costruttori di unità e testimoni della misericordia, affinché Dio voglia servirsi di noi e ricordarsi della sua eterna misericordia, ossia della grande promessa di Dio fatta ai nostri padri a favore di Abramo, di noi e del suo popolo per i secoli dei secoli».

«L’ostia consacrata è un miracolo di amore, un prodigio di amore, una meraviglia dell’amore, un complemento di amore ed è la prova più chiara del suo infinito amore verso di me, verso voi e verso l’uomo».

«Egli non fu un cristiano triste, sapeva della gioia che dà Gesù e la voleva contagiare», scrivono i vescovi argentini, «per questo, visitando la gente nelle case, diceva: “Vengo a portarvi la musica”. La musica di sapersi amati da Dio».

Per questo se non si è capaci di ascoltare la musica «che è dentro» (di noi) non si può cantare né in «questo posto» né «oltre», fino ai confini del mondo.

bro192. Allí – qui e ora

Nel confessionale:
– Cosa posso fare con i miei peccati, padre?
– Ora (prega).
– (Hora?) Sono le quattro e un quarto. Però, che posso fare con i miei peccati?

Seduto… Camminare verso il «qui e ora», ma seduto, confessando lunghe ore. «Il sacerdote che non prova molta pena per i peccatori è mezzo sacerdote. Questi paramenti benedetti che indosso non mi fanno sacerdote; se non alberga dentro di me la carità non sono nemmeno cristiano».

E ai suoi sacerdoti che lo aiutavano raccomandò per iscritto «che quanto più i fedeli sono peccatori o rudi o incivili, tanto più li dovete trattare con dolcezza e amabilità nel confessionale, dal pulpito e nella relazione personale».

Camminando… verso i poveri. «Brochero si caratterizzava per l’andare incontro ai bisognosi. Non gli mancavano mai aiuti da donare ai poveri della zona. Il suo vestito era sempre umile e povero. Molte volte, la signora Zoraida Viera de Recalde che gli lavava i vestiti gli domandava: “Signor Brochero, e quella camicia nuova che aveva?!”. Il prete rispondeva: “L’ho data a un altro che ne aveva più bisogno di me”». Diceva sempre: «Dio è come i pidocchi, c’è dappertutto, ma preferisce i poveri».

Con la predicazione itinerante e gli esercizi spirituali. Un sacerdote che lo conobbe ha testimoniato: «Dato che nella sua parrocchia regnavano l’ignoranza, l’indifferenza, l’alcolismo e il latrocinio, iniziò l’opera di evangelizzazione per mezzo degli Esercizi Spirituali e si propose di portare alla città di Córdoba i suoi fedeli perché potessero farli. Ma come trascinare quella gente che non aveva idea di che cosa fossero? Come condurre un numero considerevole di uomini e donne per sentirneri molto difficili lungo gli oltre 150 km attraverso le montagne?

Brochero commentava: “Chiedevo in giro chi era la persona più ‘condannata’, più ubriacona e ladrona della zona. Le scrivevo allora un bigliettino dicendole che desideravo trascorrere due giorni nella sua casa, celebrare messa, predicare e confessare, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente veniva ad ascoltarmi perché se fossi andato da una buona famiglia quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi Spirituali”. In questo modo, invitando la gente non solo della sua parrocchia, ma anche quella della Rioja e di San Luis riuscì a portare circa 700 persone agli esercizi, procurando loro i cavalli e il denaro necessari e rispondendo personalmente per tutte le necessità dei più poveri. Tutte quelle persone tornavano da Córdoba piene di gioia e completamente trasformate».

3. Allá – Là, oltre

Un prete durante la predica disse: «In questo paese si è persa la fede». Al che un ubriaco rispose ad alta voce: «E allora da qui non esce nessuno finché non venga ritrovata!».

Ma se si è persa la fede, Brochero sapeva che bisognava andare a «riscattarla» e nello stesso tempo a seminarla nei cuori che non l’avevano mai avuta. E dove si diresse? È nelle periferie – come ha spiegato in molte occasioni Papa Francesco – che il cura Brochero si impegnò a restare. «Andare verso coloro che non conoscono l’amore di Dio perché non è stato loro annunciato o perché la triste realtà in cui vivono dice loro che Dio è assente dalle loro vite». E faceva questo non solo con le parole, ma anche con le opere in ambienti che non erano certo normali per gli ecclesiastici di quel tempo.

«Come la Madonna alle nozze di Cana, anch’egli ha saputo dire a Gesù: “Non hanno acqua”, “non hanno educazione”, “non hanno strade”, “non hanno mezzi adatti per incontrarsi come fratelli e commercializzare i loro prodotti…”».

«Il cura Brochero come uomo di fede, povero e generoso, era già presente nel cuore della gente a Cordoba nel 1857 quando ci fu l’epidemia del colera. Allo scoppio di quella terribile epidemia egli era già prete. Piuttosto che fuggire dal flagello quel giovane sacerdote, rischiando di contagiarsi per servire gli infermi, andò di casa in casa consolando e assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati. Consolò le famiglie e diede sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia. È proprio a partire da questo fatto che la gente iniziò a scoprire che in mezzo ad essa c’era un uomo di Dio».

«Visitando i lebbrosi della zona contrasse la malattia che sopportò durante i suoi ultimi anni, la lebbra. Si può ben dire che fu un martire della carità. Una persona che lo conobbe, ricorda che nella parrocchia c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Brochero gli si avvicinò, gli portava da mangiare, lo puliva, beveva il mate con lui. La sua stessa nipote gli diceva di non andare da lui ed egli le rispondeva: “Forse l’anima di questo pover’uomo non vale niente?!”, e continuò a servirlo; lo trasformò in un mite agnello. Il lebbroso si confessò da lui e morì santamente avendo ricevuto tutti i sacramenti».

Juan Carlos Greco

Villa del Cura Brochero
Villa del Cura Brochero




Storia del giubileo 11: santi putridume


Papa Sisto IV determinò una svolta nel papato e nella Chiesa per diversi motivi. Per la cronaca fu uno dei papi più nepotisti che la storia conosca, perché si circondò della numerosa sua famiglia alla quale concesse privilegi e cariche senza ritegno e misura. La sua elezione avvenne in odore di simonia a opera principalmente del nipote, Pietro Riario, figlio della sorella, che si prodigò con ogni mezzo affinché i voti dei cardinali si convogliassero sullo zio che, riconoscente, lo gratificò con il cardinalato, già nel primo concistoro, subito dopo l’elezione, insieme a diversi altri nipoti che ne condizionarono la vita e le scelte. Il giorno dell’incoronazione, fu assistito e intronizzato dal protodiacono Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, che l’avrebbe superato non solo in fatto di nepotismo, ma in ogni forma d’immoralità e indecenza.

Attese disattese

Sisto IV confermò il giubileo del 1475 con la cadenza dei 25 anni, in vista del quale intraprese grandi opere di ristrutturazione della città di Roma, trasformando in cantiere l’intero colle Vaticano. Fece costruire la Cappella più famosa del mondo, che, anni dopo, sarebbe stata affrescata da Botticelli e da Michelangelo, detta in suo onore «Cappella Sistina». Ripristinò il vecchio ponte romano, detto «ponte rotto» sul Tevere che da allora fu chiamato «Ponte Sisto»; rase al suolo e ricostruì più grande ed efficiente l’ospedale di Santo Spirito, fece costruire innumerevoli chiese e riorganizzò il sistema viario, anche per governare meglio i tumulti. Era diffidente di tutti e si narra che, non fidandosi di coloro che lo circondavano, per rendersi conto di quello che il popolo pensava realmente di lui, non poche notti si travestiva «da prete» per recarsi nelle tavee ad ascoltare dicerie e giudizi.

Il giubileo fu un completo fiasco perché, per le troppe guerre che infestavano l’Europa del Nord, non era affatto agevole muoversi e i pellegrini affollarono Roma solo in occasione della Pasqua. Tutte le derrate alimentari e i servizi approntati rimasero inutilizzati e furono una manna per il popolo romano perché i prezzi si abbassarono e la logica del «compri uno e porti (via) tre» divenne obbligatoria per potere almeno recuperare parte del denaro. Per ovviare a queste difficoltà il papa protrasse di un anno il giubileo, ma le condizioni di Roma si aggravarono a causa di piogge torrenziali che fecero straripare il Tevere. Roma fu così gravemente allagata e impraticabile da costringere il papa a trasferire alla città di Bologna le prerogative giubilari di Roma, dando un ulteriore colpo all’economia della città eterna. Concesse, inoltre, ai principi che erano in guerra la possibilità di lucrare le indulgenze del giubileo standosene a casa loro, ma a condizione che le offerte raccolte in quella occasione fossero tutte impiegate per finanziare la guerra contro i Turchi.

Alla fine, come ciliegia sulla torta, quasi a sancire una sfortuna senza fine, scoppiò ancora una volta la peste. Il papa, per paura del contagio, scappò con tutta la sua corte di nipoti e familiari da Roma che rimase con grandi opere in parte finite, in parte incompiute, ma senza giubileo di fatto, senza pellegrini e per giunta allagata e con la peste.

Ponte Sisto a Roma
Ponte Sisto a Roma

Dall’Immacolata all’Inquisizione

Sul piano religioso, Sisto IV fu il papa che con la bolla «Cum prœexcelsa» del 27 Febbraio 1477, istituì la festa dell’Immacolata Concezione, fissandola all’8 Dicembre; promosse la recita del Rosario e consacrò la Cappella Sistina a Maria Assunta. Sul piano storico, fu l’iniziatore, sebbene a malincuore, dell’Inquisizione spagnola, voluta a tutti i costi da Ferdinando II di Aragona che, avendo le casse vuote, cercava un modo indolore (per sé) per depredare il denaro degli Ebrei. La condanna, infatti, dell’Inquisizione per motivi di eresia, comportava anche la requisizione di tutti gli averi.

Uccidere in nome di Dio
Quando oggi si accusano i Musulmani di «usare il nome di Dio» per fare le guerre o utilizzare la religione per alimentare il terrorismo, sarebbe bene che ci fermassimo un poco e facessimo un esame di coscienza «storico» perché questo uso peccaminoso e blasfemo lo abbiamo praticato anche noi cattolici. Diciassette anni dopo il giubileo di Sisto IV, nel nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo si sarebbe imposto il battesimo con la spada: o l’acqua o la morte, sistema che dal 1507, anno della sua ordinazione e fino alla morte nel 1566, vide l’opposizione ferma del vescovo spagnolo Bartolomé de Las Casas, uno dei pochi che difese strenuamente, in nome del vangelo, i nativi delle colonie. I cattolicissimi regnanti di Spagna, Ferdinando e Isabella (costei si confessava ogni giorno), usarono la religione per ammazzare, trucidare e depredare gli Ebrei dichiarando guerra al popolo di Abramo solo per avidità di denaro. La Spagna per tutto il 1500 e 1600 – e successivamente anche l’Europa – sarebbe stata segnata da quella piaga purulenta che fu l’Inquisizione, la quale agì, condannò e uccise in nome di Dio, ma senza Dio e contro Dio. Non basta dire che bisogna leggere i fatti nel contesto del loro tempo perché ciò vale per le valutazioni ordinarie, ma di fronte all’uso del nome di Dio e della religione per giustificare la decisione di rubare le ricchezze altrui, c’è una scelta chiara, lucida e determinata di volere compiere un delitto immorale. Anche costoro nel 1500 leggevano il vangelo che è limpido e chiaro, come acqua di sorgente, allora come oggi.

Vittima di questa malvagità cattolica, macchia peccaminosa approvata da papi e vescovi che resterà indelebile fino alla fine della storia, furono anche san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, nipote di un ebreo, costretto a convertirsi per salvare la vita della propria famiglia. Teresa d’Avila disprezzerà l’Inquisizione, da cui per altro fu sfiorata, e difenderà il suo compagno di fede e padre spirituale, Giovanni della Croce, usando un linguaggio cifrato, come si evince dai suoi scritti, per esprimere tutto il suo disprezzo e la sua amarezza. Alcuni suoi manoscritti furono bruciati.

Sisto IV, sostenuto dal suo vice cancelliere, Rodrigo Borgia (futuro Alessandro VI), non voleva l’Inquisizione, ma cedette al ricatto del re «cattolicissimo» di Spagna, e il 1 Novembre 1478 emanò una bolla con cui istituiva un inquisitore non in tutta la Spagna, ma solo nella regione di Siviglia, cioè la regione che interessava i cattolicissimi sovrani. Una volta aperto, il vaso di Pandora non può più essere richiuso. Forti di questa licenza, Re Ferdinando e Isabella di Castiglia, ottennero l’autorizzazione di nominare inquisitori di loro fiducia. Il temibile Torquemada fu da loro nominato inquisitore generale e Sisto IV dovette pure lui riconoscerlo e approvarlo.

Papa Borgia e l’invenzione delle «Porte Sante»

sala_dei_misteri_resurrezione_con_alessandro_vi_02Frattanto, sulla scena della chiesa si affacciavano due tragiche figure che avrebbero condizionato la Chiesa in modo che l’eco arriva fino a noi. Da una parte la figura triste e nevrotica di Girolamo Savonarola (1452-1498), che, ubriaco di un modello teocratico di città, predicava solo sventure e distruzione in chiave apocalittica; dall’altra quella comica e immorale di Rodrigo Borgia, catalano trapiantato a Roma ed eletto papa nel 1492, l’anno che con l’avventura di Cristoforo Colombo avrebbe cambiato non solo il volto ma anche il modo di pensarsi del mondo intero.

Egli assunse il nome di Alessandro VI (1431-1503), passato alla storia come uno dei papi più lascivi e corrotti, a cominciare dalla sua elezione al soglio di Pietro che fu contrattata dai suoi scherani, manovrati dal figlio Cesare, con emissari di cardinali greci e francesi «apud latrinas». Il conclave che lo elesse fu il primo ad essere celebrato nella Cappella Sistina, già affrescata da Botticelli, Perugino e Ghirlandaio. Papa Alessandro VI, tra i suoi innumerevoli figli, ne riconobbe ufficialmente almeno due, Cesare e Lucrezia, avuti da Vannozza Cattanei, locandiera romana, sua amante per quasi venti anni. Stanco di lei, l’abbandonò sostituendola con Giulia Faese, sorella del futuro papa Paolo III. Poiché era disdicevole dire pubblicamente che il papa avesse dei figli, la curia romana che ne sa sempre una più del diavolo, escogitò il sistema di presentare Cesare o Lucrezia Borgia ai diplomatici e nelle udienze pubbliche come «nipoti di un fratello del papa»: il papa aveva veramente un fratello e così salvata la capra della verità, si potevano tranquillamente salvare anche i cavoli della formalità, mandando in malora ogni residua moralità.

Il Giubileo del 1500, che apriva un nuovo secolo e si apriva anche sul nuovo mondo (scoperto solo otto anni prima da Cristoforo Colombo, «raddoppiando» il mondo esistente), fu carico di grande significato simbolico e Alessandro VI, da fine diplomatico e oculato amministratore qual era, vi prestò la massima attenzione e lo curò con particolare dedizione. Intanto per la prima volta il papa approvò un rituale scritto che prevedeva l’apertura di quattro porte sante nelle quattro Basiliche papali: San Pietro (che era ancora un cantiere), San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura. Ancora oggi, mutatis mutandis, è il rituale in uso. Il mondano Papa Borgia non poteva non pensare il giubileo come un teatro, in cui l’elemento spirituale passava in seconda linea per diventare una rappresentazione «visiva» del papato e del suo splendore. Il punto centrale dell’inaugurazione giubilare fu l’apertura della porta, accompagnata da fuochi di artificio, da giochi, da feste e da ogni forma di divertimento perfino dentro il palazzo apostolico, avendo bandito ogni forma di austerità e penitenza.

Il Giubileo del sollazzo

Papa Borgia inventò anche il recupero del Colosseo che da allora divenne letteralmente teatro di manifestazioni spettacolari. Per il 1500 egli incaricò l’arciconfrateita del Gonfalone di rappresentarvi la passione del Signore e le passioni dei martiri, permettendo contemporaneamente al figlio Cesare di organizzare una spettacolare festa di carnevale, in pieno anno santo, arricchita da una grandiosa parata militare. Nella quaresima del 1500, papa Alessandro VI dovette recarsi a Piombino e per l’occasione radunò tutte le donne e le ragazze più belle della cittadina toscana per fare baldoria e mangiare carne, con disprezzo delle regole liturgiche che regolavano in modo rigoroso il digiuno quaresimale, verso il quale il popolo era molto sensibile. Lo scandalo fu grande.

Probabilmente nello stesso anno santo del 1500, presente il papa e quindi questi consenziente, Cesare Borgia diede uno spettacolo che sarebbe rimasto come un marchio indelebile sull’abisso di abiezione che distinse non solo il papa catalano, ma anche tutta la sua disonorevole famiglia, anche per la data scelta.

«… A saggio della profonda sua immoralità e del suo cinismo, basti dire che una volta (era il dì di Ognissanti) Cesare Borgia convittò nel palazzo pontificio cinquanta meretrices honestae, cortigianae nuncupatae [prostittute oneste (in possesso di permesso di esercizio), dette cortigiane], come dice monsignor Burcardo; poi le fece danzare ignude co’ servitori e con altre persone; poi altri osceni spettacoli, che furono rappresentati alla presenza del papa e della Lucrezia sua figlia … E si può conchiudere che la corte del vicario di Dio non era meno laida di quella di Nerone» (Bianchi-Giovini, 1860, 32-33.42).

Le innovazioni giubilari introdotte da Alessandro VI non ebbero nulla di spirituale, ma furono tutte esteriori, superficiali e immorali come i suoi comportamenti e in quelli della sua corte. Forse queste mondanità avevano lo scopo di distrarre le popolazioni dalla guerra con i Turchi che, in lotta con Venezia, scorrazzavano in Friuli, giungendo a lambire Vicenza, anticamera della Repubblica veneta. Tra il 1415 e il 1500 vi furono non meno di nove incursioni che diffusero il panico non solo in quelle regioni, ma in tutta l’Italia del Nord. Nel 1503 Papa Borgia morì. Il suo cerimoniere annota che «morì con i sacramenti». La sua salma gonfiò così tanto che la bara non riusciva a contenerlo: i necrofori furono costretti a chiuderlo dentro a forza.

Lutero alle porte

Se, da una parte, il sec. XVI è il secolo del Rinascimento che nella letteratura, nelle arti, nella scoperta degli autori greci e nella scienza appena agli esordi (medicina, astronomia, architettura, navigazione, ecc.) trova il massimo del suo splendore, dando inizio veramente «a un nuovo mondo» anche in Europa, dall’altra parte per la Chiesa fu una catastrofe perché fu il secolo delle maggiori nefandezze, con Papi che avevano sostituito il senso del vangelo con lo spirito del mondo, incarnando «quel mondo» per cui Cristo stesso non aveva voluto pregare (cf Gv 17,9).

Cosa era successo? La Chiesa di Cristo, la sposa senza macchia, fu oscenamente mostrata agli occhi lubrichi del mondo immersa nella corruzione di ogni livello, nelle trame più oscure finalizzate al mantenimento del potere. I papi furono solo mecenati per la loro vanagloria e l’interesse delle loro famiglie, crocifiggendo  il Cristo non una, ma dieci, cento, mille volte. I rappresentanti di colui che, scalzo, portò la croce per essere scannato come agnello per i peccati del mondo, scelsero la mondanità, incuranti del popolo e della fede. Essi furono papi miscredenti perché di tutto si curavano tranne che di essere fedeli al loro mandato.

I giubilei persero il loro senso spirituale e divennero occasione per «grandi affari», funzionali al papa di tuo che li usò come arma di potere e sollazzo della corte. Non a caso la Chiesa e il mondo si trovavano alla vigilia della reazione di Martìn Lutero, che, fattosi voce della necessità di una «rifondazione» della Chiesa, avrebbe acceso la miccia di una deflagrazione senza pari: nel 2017 ricorrono i 500 anni dell’affissione delle «95 tesi sulle indulgenze» di Lutero, avvenuta il 31 Ottobre 1517 alla porta della Chiesa del castello di Wittemberg. Fu l’inizio della Riforma Luterana (Protestantesimo) e il principio del fallimento del papato.

Paolo Farinella, prete
(11, continua)

 




Accoglienza: piccoli numeri grande efficacia


Da venti persone in giù. Le esperienze di accoglienza a Torino e dintorni che racconteremo in questo reportage parlano di piccoli gruppi, dai venti rifugiati del Cas di Alpignano al rifugio diffuso e all’accoglienza in famiglia. Queste sono realtà che permettono di dare attenzione alle persone – quelle accolte e quelle che accolgono – e di gestire incomprensioni e difficoltà in maniera efficace.

Il «Centro di accoglienza straordinaria» di Alpignano

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Un ragazzo africano sta in piedi in un campo di cipolle, immobile. Poi si china sulle piante, strappa le erbacce, le ammucchia. Sono le sette di sera passate e fa ancora caldo, ma lui indossa stivali di gomma, pantaloni lunghi, una felpa e anche un berretto di lana. Per una volta, però, quella che descriviamo non è una scena di sfruttamento del lavoro dei migranti in qualche torrida campagna italiana: lui è James (nome di fantasia, nda), richiedente asilo originario del Ghana, e il campo di cipolle è un pezzo dell’orto comunitario del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Alpignano, che occupa i locali di quello che prima era il centro di animazione dei missionari della Consolata. «In Ghana faceva il contadino», spiega Monia, operatrice della cornoperativa Pietra Alta Servizi cui è affidata la gestione del Centro con una presenza costante, notte e giorno, del personale. «Stare nei campi gli piace, appena ha un minuto libero corre nell’orto».

Anche gli altri giovani accolti dal Centro – venti ragazzi fra i diciotto e i vent’anni arrivati a partire da ottobre 2015 da diversi paesi dell’Africa occidentale – hanno ciascuno la propria attività d’elezione. «Ce ne sono alcuni», racconta Fabrizio, collega di Monia, «che se la cavano con l’idraulica o l’elettricità, altri bravi ai fornelli». «E poi c’è lui», dice Jacob, uno dei due mediatori interculturali presenti al Cas, indicando un giovane chino su un libro, «che ama studiare e appena può si mette in un angolo tranquillo a leggere. Oppure lui», e ride indicando con la mano un giovane nel cortile fuori dalla finestra, «che vuole fare il calciatore per forza: sta sempre in divisa e scarpette e prende a pallonate il muro».

Queste attitudini dei ragazzi sono state utili per capire a quali tirocini avviarli con le borse lavoro. L’inserimento lavorativo è un’ulteriore tappa di un cammino cominciato lo scorso inverno con il corso di italiano obbligatorio, che si è svolto presso il Centro per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) di Grugliasco, oltre che presso il centro grazie all’aiuto dei volontari cornordinati dagli operatori. Parallelo a questa prima fase è stato poi il percorso di assistenza psicologica presso il Centro Migranti Marco Cavallo a Barriera di Milano.

A queste attività, il Cas di Alpignano ne affianca altre: i corsi di cucina, i laboratori teatrali, il calcio. Sono tutte iniziative, precisano gli operatori, utili per motivare i ragazzi – che hanno davanti una lunga attesa prima di ottenere il responso alla loro richiesta di asilo – a darsi obiettivi e assumersi responsabilità.

«Certo, non va sempre tutto bene», ammettono Monia e Fabrizio. Ci sono state incomprensioni. Una ha riguardato un ragazzo che ha lasciato Alpignano ed è andato in Austria per raggiungere dei conoscenti. «Vieni, gli avevano detto via cellulare: qui c’è lavoro». Una volta là, però, questo fantomatico lavoro si è rivelato inesistente; il giovane è rientrato in Italia e ha chiesto di poter tornare al Cas di Alpignano. «Ma noi, a quel punto, non abbiamo più potuto accoglierlo», racconta Fabrizio.

I migranti possono trascorrere fuori dal Cas fino a un massimo di tre notti, giustificando l’uscita e lasciando un recapito al quale trovarli. Passate le 72 ore, i responsabili del Centro segnalano alla prefettura il mancato rientro. In questi casi i migranti conservano il diritto ad aspettare l’esito della valutazione della loro domanda d’asilo ma perdono quello all’ospitalità presso la struttura che li aveva accolti.

«La parte frustrante», riprende Monia, «è che a volte i ragazzi si fidano di più delle notizie sentite attraverso il tam tam fra migranti – che rischiano di essere parziali se non false – che di quello che diciamo noi. C’è voluta un po’ di pazienza per “smontare” le informazioni sbagliate e superare la diffidenza di alcuni nei nostri confronti». Diffidenza che non di rado nasce ascoltando alla televisione le notizie relative al cosiddetto «business dell’accoglienza» e generalizzandole. «Magari un amico, un connazionale dice loro: “Altro che aiuto, questi dei centri d’accoglienza ci fanno i soldi su di te!”, e i ragazzi diventano guardinghi, ostili. Allora bisogna sedersi, parlare, smentire con dati reali quelli distorti, ricostruire un rapporto di fiducia».

È in queste situazioni che si rivela cruciale il supporto dei mediatori interculturali al lavoro con Monia e Fabrizio: Jacob e Mor sono entrambi di origine africana, della Guinea Conakry uno e del Senegal l’altro. «Io sono arrivato qui che ero un bambino», dice Jacob, ora poco meno che trentenne, «la Guinea la conosco poco, ma una parte della mia famiglia, che sento regolarmente, vive lì. Conosco quindi la realtà e le difficoltà di un paese dell’Africa occidentale e parlo le lingue degli ospiti del Centro. Per questo mi percepiscono come qualcuno che può capirli e aiutarli a capirsi con gli altri».

È quasi ora di cena e i ragazzi convergono al refettorio. Ogni volta che uno di loro passa davanti all’ufficio degli operatori, Monia, Jacob e Fabrizio lo chiamano, si informano di come ha risolto quel problema che aveva segnalato, scherzano, discutono. Di giorno i richiedenti asilo entrano ed escono dal Centro, vanno in paese, si muovono nella città. Ma, fra il corso di italiano, le attività organizzate al Cas e i tirocini, l’immagine dei migranti che stanno a bighellonare e delinquere qui non trova conferma. «Con venti persone lo puoi fare», concordano gli operatori, «puoi seguirli uno per uno e avere un confronto e un dialogo anche con i cittadini del quartiere, o del paese».

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L’accoglienza in appartamento

Se a misura d’uomo è un luogo che accoglie venti persone, altrettanto se non di più lo sono realtà ancora più piccole e più domestiche. Nell’appartamento di Porta Palazzo, Torino centro, dove vivono da più di un anno sette giovani rifugiati afghani, il clima è quello di una casa di studenti lavoratori. In cucina Mustafa, l’ingegnere civile del gruppo, dà il tocco finale al kabuli palaus, piatto afghano a base di riso, carne, uvetta e cumino, mentre Sardar, il più osservante dei sette – barba folta, pantaloni e lunga camicia bianchi, calotta da preghiera sul capo – stende sul pavimento del salone i teli su cui posare stoviglie e pietanze. Maruf, Moinkhan e Hawaldar intanto guidano gli ospiti nel giro della casa: un salone, un bagno, tre stanze da letto, e spiegano che si cenerà senza uno di loro perché lavora al negozio di kebab e, durante il Ramadan, è subito dopo il tramonto che i clienti arrivano numerosi.

I ragazzi, in attesa del responso alla loro richiesta di asilo, stanno studiando l’italiano. Alcuni hanno già iniziato i tirocini come aiuto-cuoco, addetto agli scaffali in un supermercato, incaricato della manutenzione in un centro sportivo. Mustafa è contento del suo tirocinio da operaio edile e ha trovato nel capo cantiere – anche lui straniero ma a Torino da tanti anni – un punto di riferimento. Certo, spera che questa sia una soluzione temporanea e che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, gli sia possibile lavorare in ruoli diversi. Ma un buon ingegnere deve conoscere il cantiere, dice, perciò per ora va bene così.

Antonello è uno degli operatori che segue i sette giovani. Lavora per la cornoperativa Terremondo, nata più di dieci anni fa da alcuni educatori attivi all’Asai, associazione fondata nel 1995 e fra i pionieri del lavoro con i migranti a Torino. Scherza con i ragazzi, guarda con loro la partita di calcio in Tv, si informa di com’è andata la giornata. «Allora, sei andato a scuola o ancora non ti senti bene?», chiede Antonello a uno dei giovani, che di recente ha avuto problemi di salute. «No scuola, no pocket money!», avvertono gli altri ridendo. «Ci sono delle regole precise», spiega Antonello, «e, sempre in un clima di dialogo e di disponibilità a confrontarsi, il ruolo degli operatori è anche di ricordare queste regole». Ad esempio, i ragazzi possono avere ospiti per i pasti, ma non di notte. I giovani afghani vivono soli in questa casa; gli operatori e i volontari di Terremondo passano a trovarli almeno un paio di volte a settimana e sono in contatto costante.

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Il rifugio diffuso

Ma c’è un modo di fare accoglienza ancora più «molecolare»: il rifugio diffuso, nel quale sono le famiglie ad aprire la porta di casa a un migrante. Alessia, dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti (Upm) della Diocesi di Torino, racconta com’è nata questa esperienza: «Tutto comincia nel 2008 con “Adotta un rifugiato”, iniziativa del Comune e di alcune associazioni, che ha avviato oltre un centinaio di accoglienze in famiglia. Dati i buoni risultati, poi, questa modalità è entrata nello Sprar», il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito dalla legge «189/02 Bossi-Fini» e affidato dal ministero dell’Inteo all’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Le esperienze di accoglienza presso abitazioni private e nuclei familiari, si legge nel Rapporto annuale Sprar 2015, sono attivate nei comuni di Torino, Parma e Fidenza, con una sperimentazione in corso nel comune di Milano.

A Torino, sono l’Ufficio stranieri del Comune, diverse associazioni e l’Upm a cornordinare il progetto: quello attuale è iniziato nel 2014 e ha quasi concluso l’inserimento di 28 rifugiati usciti dai centri di prima accoglienza.

Il contributo alla famiglia che accoglie, finanziato con fondi Sprar per i sei mesi previsti, è di 413 euro al mese per le spese di vitto, alloggio e utenze della persona accolta; si consiglia alle famiglie di dare circa 90 euro al rifugiato come argent de poche.

«Il ruolo dell’Upm e delle associazioni», spiega ancora Alessia, «è quello di segnalare al comune i richiedenti asilo che hanno i requisiti. Per essere coinvolti nel progetto, infatti, queste persone devono conoscere la lingua e aver manifestato la volontà di investire le proprie energie per inserirsi nel territorio. Si fa una valutazione anche sul profilo professionale, per favorire l’inserimento lavorativo. Finora i beneficiari sono in maggioranza uomini fra i venti e i trent’anni che hanno competenze nella ristorazione, nell’agricoltura e nell’allevamento, spesso perché in questi ambiti lavoravano già nel loro paese. C’è una sola donna, nigeriana, ex vittima di tratta».

Anche con le famiglie si fa un lavoro preparatorio per spiegare i dettagli del progetto e cercare di prevenire possibili problemi: «Quella che nasce è a tutti gli effetti una convivenza e il suo obiettivo è quello di rendere autonomi i rifugiati». Come? Permettendo loro di migliorare l’italiano, di conoscere altre persone e di venire a contatto con le opportunità di lavoro.

La preparazione con le famiglie cerca di evitare che queste ultime si creino aspettative, ad esempio quella di avere un po’ di compagnia – desiderio che emerge a volte quando ad accogliere sono persone anziane – o di ricevere un aiuto in casa, magari nell’assistenza ai malati. Nulla vieta che relazioni di questo tipo possano svilupparsi, se il rifugiato e la famiglia lo vogliono; ma il punto di partenza è quello di una condivisione di spazi nel reciproco rispetto.

Anche qui, non va sempre tutto bene. È il caso di una convivenza conclusa dopo soli quindici giorni per screzi legati al cibo e forse anche ad aspettative deluse. Ma non sono la norma, spiega Alessia, gli esempi positivi sono tanti: ci sono famiglie che accantonano i 413 euro e, alla fine dei sei mesi, consegnano al rifugiato il denaro così risparmiato. E ci sono migranti che a loro volta si offrono per accogliee altri, come a voler restituire l’aiuto che hanno ricevuto.

«Accomunare le realtà come il Cas di Alpignano, l’appartamento di Porta Palazzo o il rifugio diffuso alle accoglienze in massa, magari in strutture fatiscenti, o alle occupazioni è fuorviante», commenta Sergio Durando, direttore dell’Upm.

Chiara Giovetti
(fine prima puntata)




L’atto di uscire. Giuseppe e la strage degli innocenti


Mi sono messo in viaggio senza sapere cosa mi aspettasse. Non sapevo nemmeno da quale pericolo mi allontanassi. Ho solo sentito che la tua presenza, per non venire meno, mi chiedeva di aprire gli occhi sulle tenebre, di infilare i piedi nei sandali e uscire. Mi chiedeva di mettermi in movimento (cfr Mt 2,13-18).
Mi sono destato nel cuore della notte e ti ho preso con me per salvarti. Ora so che, salvandoti, sei stato tu a salvare me. Misteriosamente mi hai indicato la strada. Mi hai condotto fuori da quella notte verso qualcosa che non conoscevo, un paese straniero che non sapeva di attenderti e che ti ha accolto mentre accoglieva me.
Della strage ho saputo solo dopo diverso tempo, mentre eravamo ancora in viaggio io, te e tua madre, Maria, con la nostra cavalcatura precaria di migranti. Non ricordo il nome del villaggio in cui eravamo quel giorno, nemmeno quello dell’uomo che ci ha riferito di tutto quel sangue versato. Ricordo però che erano circa le tre e che l’ora più calda del giorno stava appena iniziando a ridurre il suo fuoco sulla sabbia. Ho sentito tua madre pronunciare un versetto di Geremia, quello che parla di Rachele che piange i suoi figli, e che non vuole essere consolata. Ho voltato gli occhi sul tuo viso e tu stranamente in quel momento non sorridevi, come se, nonostante la tua piccola età, avessi capito la notizia portata dallo sconosciuto. Non ti nascondo che mi sono chiesto se tutta quella morte da cui eravamo scampati fosse arrivata a causa tua. Ho trattenuto il respiro per non scoppiare a piangere. Poi, d’improvviso, guardando il tuo volto, ho capito: non è stata la morte ad arrivare per causa tua, ma il contrario, tu sei arrivato a causa di quella morte, per stanarla, per sanarla.
In quel momento ho percepito con certezza che il nostro viaggio, in qualche modo, non si sarebbe mai fermato, e che sarebbe proseguito anche dopo di noi in chiunque ti avesse preso con sé.
L’atto di uscire dalle tenebre per causa tua, per dono tuo, alla tua presenza, si sarebbe ripetuto in altri luoghi, fino agli estremi confini della terra, e per tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Buon viaggio e buon mese missionario da amico.

Luca Lorusso