La cultura è rivoluzione


1. La crisi di oggi e le sue cause nel passato

Vent’anni dopo

Haiti è un paese davvero strano. Unico, con una cultura forte, speciale, che affonda le sue radici nella singolarità della storia del suo popolo. La dominazione di un piccolo gruppo su una moltitudine, un passato di schiavitù e di rivoluzione antischiavista, antirazzista e anticoloniale. Come ci spiega bene il professor Laënnec Hurbon nell’intervista che segue. Un paese che provoca due reazioni opposte alla prima visita. Chi prova repulsione e vuole andarsene appena possibile, chi invece vi rimane attaccato per la vita.

Dopo due decenni di frequentazione mi viene spesso rivolta la domanda: cosa è cambiato ad Haiti in questi 20 anni? Difficile rispondere. Poco, se si guarda il livello di vita della grande maggioranza degli haitiani. Molto, se si esaminano gli stati d’animo delle persone incontrate.

Atterro all’aeroporto internazionale Toussaint Louverture che è già sera e non fa particolarmente caldo. È fine febbraio, è vero che anche qui è inverno, seppure tropicale. Forse è arrivato il fenomeno del cambiamento climatico. Quest’arietta fresca non me la ricordavo. Il mio pensiero va al 1995. Era luglio, quando per la prima volta misi piede sull’isola. Il clima era diverso, e non solo quello meternorologico.

Si grondava di sudore tutto il giorno. I marines statunitensi erano ovunque. Avevano appena riportato il presidente Jean-Bertrand Aristide al potere, amato dal popolo, ed esautorato tre anni prima, a fine 1991, da un colpo di stato, organizzato e finanziato dagli stessi Stati Uniti, con a capo George Bush (padre). Era un esempio troppo pericoloso per gli altri paesi sotto l’influenza statunitense.

Per riportarlo in patria, Bill Clinton, diventato presidente degli Usa, aveva imposto ad Aristide di firmare le famigerate concessioni ai piani di aggiustamento strutturale, tra le quali l’abbassamento dei dazi doganali per il riso e il mais, che avrebbero sancito l’invasione dei prodotti alimentari made in Usa e di conseguenza la miseria di centinaia di migliaia di famiglie di contadini haitiani e il loro inurbamento in enormi bidonville.

Ma in quel momento l’euforia era grande. Titid (come Aristide veniva chiamato in creolo) era il messia, tornato per salvare la sua gente. Il sacerdote salesiano era diventato presidente a furore di popolo con le prime elezioni davvero democratiche e partecipate, nel dicembre 1990. Il prete era espressione dei movimenti della società civile, che affondavano le loro radici nella classe povera rurale, quei contadini animati attraverso le comunità ecclesiali di base portate dal vento della Teologia della liberazione.

Purtroppo però, Titid, in esilio proprio negli Usa, era stato comprato dai democratici con a capo Clinton.

Il messia è perso

Anche la speranza in un futuro migliore, in quel lontano 1995, era negli occhi e nelle parole di tutti. A luglio fu eletto il parlamento e a dicembre il nuovo presidente della Repubblica, il delfino di Aristide, l’agronomo René Préval. Gli «amici» Usa avevano impedito che Titid recuperasse i tre anni di presidenza rubatigli dal golpe. Préval sarebbe diventato famoso in tutto il mondo i giorni successivi al 12 gennaio 2010, per la sua ignavia di fronte al terremoto che avrebbe distrutto la capitale Port-au-Prince. In quei giorni terribili Préval, al suo secondo mandato, avrebbe consegnato le chiavi del paese agli Stati Uniti. Lo ricordiamo camminare nervoso, con una sigaretta in mano, senza sapere cosa dire o fare.

L’euforia del ’95 si spense negli anni successivi e la fiducia nel futuro si trasformò in desolazione. Tutti si accorsero che Aristide era diventato molto ricco, era cambiato, si era trasformato un politico ambizioso e scaltro.

Due anni dopo ebbi la fortuna di vivere a Port-au-Prince, dove lavorai come fotografo e formatore per il settimanale in lingua creola Libète (Libertà), legato ai movimenti sociali. A causa del lavoro, girai in lungo e in largo il paese. Fu in quel periodo che persone di ogni livello sociale, mi raccontarono la delusione e il disincanto rispetto a una classe dirigente che, venuta dalla base dopo che la rivolta popolare aveva scalzato il duvalierismo (1986), aveva approfittato del potere solo per fare il salto nella ristretta classe alta, a spese di tutto il paese.

Ricostruzione a «cinque stelle»

Poi venne il terremoto che in pochi minuti distrusse ampie zone della capitale e di altre città e falciò circa 300.000 vite. Nessuno ne saprà mai il numero reale. Complice l’inurbamento selvaggio, dovuto all’impoverimento delle masse rurali, e l’assenza di regole nella pianificazione territoriale e nell’edilizia. Fu un «momento zero» per il paese.

Tornato ad Haiti alcuni mesi dopo, parlando con la gente vi ritrovai una grande voglia di rinascita, di ricostruzione. Quasi il sisma fosse stato un’opportunità per ricominciare tutto su basi nuove. Fu la conferma della capacità degli haitiani di resistere, adattarsi e reagire, anche di fronte ai colpi più duri. Anche in quel momento, al di là di una grande tristezza e della paura di nuove scosse, si sentiva nella gente la voglia di fare, di cambiare il paradigma di dominazione e di miseria subito fino ad allora.

Ma ancora una volta intervennero gli Stati Uniti, e Bill Clinton, ormai presidente emerito, che si installò a capo della commissione per la gestione dei fondi della ricostruzione. Lui, non un dirigente hatiano, avrebbe deciso come spendere i soldi. E così sarebbero nate alcune nuove zone industriali (la più importante nella baia di Caracol, splendida insenatura nel Nord, inaugurata dai coniugi Clinton nel 2012) dove le imprese statunitensi del tessile avrebbero sfruttato la manodopera haitiana per 2-2,5 dollari al giorno. E a Port-au-Prince sarebbero spuntati tre grandi hotel, mai visti da quelle parti, tra i quali il Meriott, finanziato, guarda caso, proprio dalla Fondazione Clinton e inaugurato un anno fa.

Oggi, negli haitiani, anche quella voglia di rivincita, di ricostruire meglio la propria società, è svanita. E la ricostruzione? Molti mi chiedono. A parte gli hotel cinque stelle, e le zone industriali, sono state rimosse le macerie e asfaltate alcune strade verso Nord. Ma la maggior parte degli edifici pubblici non sono stati rifatti, mentre tra i privati, solo qualcuno è riuscito a liberarsi delle macerie e a ricostruire a spese sue. Diversi sono stati anche gli istituti religiosi che si sono occupati del problema della casa per la gente più povera.

Alle elezioni post terremoto di fine 2010, gli Usa (di Barak Obama), imposero il presidente nella figura del cantante di kompa Michel Martelly. Questa volta lo fecero senza preoccuparsi troppo delle apparenze, intervenendo direttamente sui risultati del primo tuo e facendoli modificare da una commissione di revisione elettorale. L’operazione fu cornordinata direttamente da Hillary Clinton, all’epoca segretario di stato Usa, in una visita di 24 ore. Il cantante è anche legato alla corrente duvalierista e affarista. Dopo 20 anni la destra toò al potere.

Fallimento elettorale

A Port-au-Prince il traffico è sempre asfissiante e imprevedibile. Ma trovo un certo miglioramento dagli anni ’90. All’epoca non riuscivo a passare gli ingorghi neppure in moto. Oggi ci sono più strade asfaltate nei quartieri e i conducenti sono un minimo più disciplinati.

Qualità che non vedo nella politica haitiana. L’impasse politico-elettorale di questi ultimi mesi si sta radicalizzando ogni giorno di più e rischia di portare il paese in un vero caos.

Michel Martelly ha evitato di organizzare elezioni durante i cinque anni della sua presidenza, così le cariche istituzionali dello stato sono andate in scadenza, senza essere rinnovate. Finalmente, grazie a una mediazione della Chiesa cattolica, a inizio 2015 si è potuto formare il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), organo preposto per organizzare le consultazioni. Erano previste amministrative, legislative e presidenziali.

«All’inizio si diceva che il Cep era equilibrato. Ma c’erano politici che non volevano le elezioni – ci confida Ricardo Augustin, consigliere del Cep delegato dalla chiesa -. Quando il Cep ha bocciato alcune candidature che non rispondevano ai criteri, si è allargato il fronte dei contrari». Le prime consultazioni (legislative) si sono tenute il 9 agosto, e sono state macchiate da violenze in diversi seggi elettorali di provincia. «L’8 agosto si avevano ancora dei dubbi se realizzare le elezioni. Dopo siamo stati criticati, come se avessimo forzato. Abbiamo verificato che il 70% dei verbali erano validi. Accettate le critiche, abbiamo corretto gli sbagli». Due mesi dopo è stata la volta delle presidenziali: «Le elezioni del 25 ottobre sono andate bene. Abbiamo ricevuto i complimenti da parte di molti, e il rapporto degli osservatori inteazionali è stato favorevole». Poi, due giorni dopo, gli oppositori hanno iniziato a versare fango sulla consultazione. «Hanno denunciato frodi senza avere prove. È stato un piano preparato e ben eseguito per affossare le elezioni. Al Cep abbiamo subito pressioni, diffamazione e menzogne. Ma abbiamo pubblicato i risultati». I due candidati ammessi al secondo tuo delle presidenziali erano Juvenal Moise, candidato del partito di Martelly, e Jude Célestin, uomo dell’ex presidente Préval. Lo stesso Célestin che era stato estromesso dal ballottaggio di inizio 2011.

Il balletto dei politici

Le elezioni sono state contestate con forza dall’opposizione e rimandate due volte. Si sarebbero dovute tenere il 24 gennaio ma violente manifestazioni di piazza si sono susseguite quotidianamente. La notte tra giovedì 21 e venerdì 22, due scuole sedi di seggi a Gonaives e Léogane, sono state date alle fiamme. «La violenza si stava annunciando – continua Agustin -. Il presidente del Cep ha deciso di rinviare ulteriormente il secondo tuo, perché il rischio di derive era evidente. Così chi non voleva le elezioni ha vinto», dice il consigliere del Cep, che è stato il primo a dimettersi, seguito dagli altri membri dell’organismo elettorale.

Dall’esterno sembra che il popolo haitiano non abbia voluto le elezioni perché manipolate. In realtà sono i partiti di opposizione, tra cui quelli di Préval e di Aristide, che hanno bloccato il processo, sicuri che altrimenti Moise avrebbe vinto.

«Le manifestazioni di piazza –  ci racconta il neoeletto senatore del Nord Ovest, Onondieu Louis – non sono state popolari, anche se i media si sono affrettati a sdoganarle come tali, ma decise a tavolino e pagate dai politici». Che non si trattasse di una rivolta popolare è d’accordo anche la sociologa e politica Suzy Castor che fa un’analisi più ampia: «Ho visto molta disaffezione per le elezioni. La gente ha perso la speranza. Nel 1990, andare a votare, era stato come esercitare un potere. Oggi non vale più nulla. Nel 2010 c’era ancora l’idea di provare a voltare pagina, votando il cantante Martelly. Ma sono seguiti cinque anni di delusioni. Le manifestazioni sono state fatte da pochi agitatori professionisti, che hanno coinvolto i delusi».

Creatività  istituzionale

Nelle settimane successive è regnata la confusione istituzionale. Il presidente Martelly ha finito il suo mandato il 7 febbraio, secondo la Costituzione, e non è stato eletto un nuovo presidente. Il parlamento non era completo e il governo era anch’esso in scadenza.

I presidenti di Senato, Camera dei deputati e Martelly hanno firmato un accordo, per il quale il parlamento – la cui legittimità è contestata perché figlio di queste elezioni – avrebbe eletto un presidente provvisorio che, in 120 giorni al massimo, dovrà organizzare il secondo tuo e installare un nuovo presidente. Nell’accordo non si parla invece della Commissione di verifica delle elezioni, richiesta da diversi settori.

Il Parlamento ha scelto, il 14 febbraio, Joselerme Privert, presidente del Senato (che così è rimasto senza presidente), già ministro di Aristide e vicino a Préval. Ma per fare questo è stato affossato un primo accordo, più equilibrato, richiesto dalla società civile, che prevedeva come presidente provvisorio l’attuale presidente della Corte di Cassazione. «L’opposizione vuole accedere al potere, e l’unico modo è cacciare Juvenal Moise, l’imprenditore agricolo arrivato in testa al primo tuo. Narcisse vuole prendere il potere, ha dietro Aristide. Lei è arrivata quarta». Ci spiega Ricardo Augustin.

Grazie a questa operazione, sebbene per un mandato provvisorio, partito al potere e opposizione hanno invertito i ruoli. Oggi è Lavalas (partito di Aristide e, in passato, di Préval) che gestisce il potere. Ci dice il senatore Onondieu: «Noi vogliamo continuare il processo elettorale, ma non sembra questa l’intenzione del presidente, che vuole restare al potere il più a lungo possibile». È abbastanza chiaro che non ci sono i tempi tecnici per una revisione elettorale e per l’organizzazione di elezioni anche parziali entro la scadenza del presidente provvisorio. Suzy Castor: «Un’opzione è che il governo provvisorio si proroghi, altrimenti se ne deve fare un altro. Ma la transizione durerà 8-12 mesi. È una situazione molto complessa, non è solo una crisi elettorale, ma è più vasta, è una crisi sociale. E non data ieri». E continua: «C’è anche una profonda crisi economica. Il debito è enorme e pesa sulla popolazione, salvo un piccolo gruppo di potere. Il costo della vita è aumentato a causa della svalutazione della moneta. Assistiamo all’affondamento dello stato, alla sua delegittimazione, e alla degradazione della classe media, che si è impoverita e si è ridotta».

Mi vengono in mente le parole di un leader contadino di Gros Moe, nel Nord (povero) del paese: «Haiti è un paese ricco, ma l’ipocrisia dei paesi che lo circondano non vuole che si sviluppi. Noi stiamo bene qui e vogliamo sfruttare la nostra risorse».

È la coscienza di avere una grande ricchezza culturale, naturalistica, produttiva e volerla sfruttare al meglio per fare andare avanti le cose, per migliorare la vita delle persone.

Sono passati vent’anni. Una generazione. Sono sulla Grande rue, il centro pulsante della capitale. Guardo davanti a me un giovane bagnato di sudore che spinge un carretto. Vedo un neonato del 1995. Non ha avuto molto di più di suo padre. Anzi, forse a lui è pure negata la speranza in una vita migliore. Per sé e i suoi figli.

Marco Bello


2. Incontro con il professor Laënnec Hurbon

Da Haiti venne… la libertà

di Marco Bello

Pittura, musica, danza. Poi poesia e letteratura. Un paese fucina di creazioni culturali. Che hanno una base comune: la religione Vodù. Un ambiente naturalistico stupendo da valorizzare. Ma i politici guardano solo a interessi immediati e personali. Potrà la cultura salvare il popolo di Haiti? Lo abbiamo chiesto a un grande intellettuale haitiano.

Il professor Laënnec Hurbon, sociologo e teologo, è uno dei più noti studiosi haitiani contemporanei. Ha scritto numerosi saggi sui rapporti tra religione, cultura e stato. Direttore di ricerca al Cnrs (Centro nazionale di ricerca scientifica) di Parigi dal 1987, è professore all’Università Quisqueya (Port-au-Prince) di cui è uno dei fondatori (1990). Ci ha accolti nella sua tranquilla casa di Port-au-Prince dove vive.

Professore, Haiti è ricca di cultura, che ruolo può giocare oggi essa per una rinascita del paese?

«Come spiegare una tale profusione di pratiche culturali, creatrici, dalla pittura – forse la più nota – , alla musica, dalla danza alla letteratura? Certo è che siamo in un paese ancora dominato dall’analfabetismo. Haiti ha due lingue, il francese, che è parlato da chi è andato a scuola, quindi una minoranza, e il creolo che è parlato da tutti. Al popolo haitiano il sistema non ha offerto molte possibilità d’espressione della propria dignità. Prima di tutto il sistema della schiavitù. È stato necessario, durante quegli anni, che gli schiavi si creassero la loro propria cultura, diversa da quella dei padroni. Quindi si è avuto un lavoro di inventiva, che è consistito nel porsi come esseri umani in cerca di dignità e di un senso da dare alla propria vita. Questa situazione è cambiata con la rivoluzione haitiana del 1791 e con gli anni dell’indipendenza (dal 1804).

Da quel momento in poi si può osservare tutta la difficoltà che il paese ha avuto per fondare uno stato davvero sovrano. Ci sono stati molti ostacoli, provenienti in primo luogo dall’estero, perché Haiti era circondata, durante tutto il XIX sec., da paesi nei quali la schiavitù era ancora un’istituzione dominante. È nel 1848 che i popoli dei Caraibi francesi hanno potuto ottenere l’abolizione della schiavitù. A Portorico è arrivata molto tardi, alla fine del XIX, così anche a Cuba, e in Brasile (1888). Haiti ha dovuto farcela da sola in un contesto ostile all’indipendenza della nazione haitiana, e ha forgiato il suo proprio orientamento attraverso pratiche culturali che non sempre corrispondevano a quello che lo stato dominante offriva sull’isola. Quest’ultimo, infatti, non considerava l’insieme dei cittadini. Dopo l’indipendenza si erano costitute, di fatto, due società. Una dominata da coloro, chiamati “grandon”, che ottenevano i vantaggi del governo, e potevano approfittare del nuovo stato indipendente; l’altra costituita dalla massa di ex schiavi, una società contadina che viveva chiusa e non aveva molte possibilità.

La cultura haitiana, la più importante, si è costituita in un contesto quasi di apartheid sociale, perché c’era un élite urbana di fronte a una maggioranza contadina. Abbandonata dallo stato, quest’ultima era costituita da cittadini di serie B, e sono loro che hanno forgiato una cultura propria, nella quale troviamo il Vodù. Come se ci fosse stata la creazione di un’altra civilizzazione, durante tutto il XIX secolo, nella quale troviamo pratiche culturali di grande invenzione che riprendevano elementi e rituali imposti dalle chiese dominanti, dallo stato, dall’estero, integrandoli con l’eredità tramandata dall’Africa. E attraverso il Vodù, si sono sviluppate pratiche di danza, mitologia, leggende – i racconti in particolare -, architettura e tecniche varie. Possiamo dire che se Haiti oggi ha una cultura eccezionale nei Caraibi, è grazie a quanto sviluppato dalle masse della gente povera delle campagne, considerate come cittadini di second’ordine. Le élite, quelle con una visione, un sogno per Haiti, hanno attinto da lì per produrre una pittura molto conosciuta a livello mondiale, una musica molto apprezzata nei Caraibi, che prevede una grande capacità d’inventiva. Tutto questo si appoggia al Vodù, anche se non è Vodù. La poesia e la letteratura hanno preso anche loro da quello che le masse contadine hanno costruito.

Ad Haiti abbiamo una cultura molto forte perché abbiamo vissuto delle situazioni di dominazione, dove l’espressione non era libera, con governanti preoccupati più dell’estero che dell’insieme dei cittadini. Ed è questo il problema specifico di Haiti. Occorre capire come fare diventare la nazione haitiana una comunità di cittadini che si rispettano e hanno diritti. Diritti fondati su una storia ben precisa, quella della prima grande rivoluzione di schiavi vittoriosi grazie a una lotta condotta, dal 1791 al 1804, anche contro l’esercito di Napoleone. Un pezzo importante nella storia universale, perché ha dato il via a tutte le lotte che sono state combattute dagli altri paesi. Haiti ha dato l’esempio, ha aperto tutta una serie di insurrezioni antirazziste, antischiaviste e anche anticoloniali, con grande anticipo. È qualcosa che è molto forte, che Haiti ha prodotto e le va riconosciuto».

Risorse culturali importanti e uniche che potrebbero anche portare reddito al paese, ma occorre promuoverle. Pensa che ci sia oggi la volontà politica di valorizzare questa cultura nel mondo?

«Io penso che manchi una reale volontà politica di promuovere la cultura haitiana. C’è piuttosto una volontà di sfruttamento, di strumentalizzare, di mantenere la società nello stato in cui è. Mentre tutto quello che esprime la cultura haitiana nasce da una vera utopia, un sogno di una nuova Haiti, di un paese nel quale ognuno riconosce l’altro nei suoi diritti.

Ecco il problema, la cultura haitiana non è mai stata veramente sostenuta dai governanti. Si vede qualche sforzo ogni tanto per il carnevale, che rappresenta un’altra sorgente d’espressione e diversità della nostra capacità di fare cultura. Anche a livello della letteratura, molto spesso si riconosce prima all’estero l’importanza di alcune opere, e solo in un secondo momento in patria.

Oltre a questo, il grosso lavoro che deve fare lo stato haitiano è sul fronte dell’educazione, dell’insegnamento, del riconoscimento del creolo, che è molto importante, l’alfabetizzazione per permettere a tutti di entrare in comunicazione gli uni con gli altri, a livello politico e sociale (il creolo è utilizzato nella scuola primaria sono da fine anni ‘70, nda). Si sente palpitare attraverso le associazioni più diverse, i movimenti sociali, una ricerca molto forte di dignità, espressa in diversi tipi di pratiche, come musica e pittura. C’è tanto da fare, ma ci sono stati progressi: è stata creata l’Accademia di creolo, vi sono testi, radio e Tv in creolo. C’è un nuovo rapporto con la lingua, anche se gli uomini politici spesso si mettono a parlare in francese per escludere la maggioranza della popolazione. La questione culturale è centrale per l’avvenire di Haiti».

Nei servizi, la Chiesa cattolica in molti casi ha sostituito lo stato. Come ha potuto collegarsi alla cultura tradizionale, come il Vodù?

«La Chiesa cattolica in fondo ha giocato un ruolo importante nello sviluppo di Haiti, perché grazie al concordato del 1960, tra il Vaticano e lo stato haitiano, religiosi e religiose hanno potuto aprire scuole e hanno avuto anche responsabilità di scuole pubbliche, ed è grazie a queste persone che abbiamo potuto avere una vera cooperazione sull’educazione. La Chiesa ha avuto un ruolo capitale per la cultura e, allo stesso tempo, è stata responsabile di strutture a carattere sociale: ospedali, aiuto ai più poveri. La Chiesa cattolica è stata un apparato che ha permesso allo stato haitiano di sopravvivere, di esistere. Ma, evidentemente, c’è qualcosa di contraddittorio e paradossale, perché i missionari non sempre hanno capito la cultura haitiana e questo ha spesso spinto a voler eradicare il Vodù, che è un’eredità africana. C’erano molti pregiudizi contro la cultura africana: tutto quello che arrivava da quel continente era considerato come stregoneria, era demonizzato. Questo ha creato nella mentalità ad Haiti, una tendenza a separare la gente cattolica da coloro che vivevano nelle campagne e praticavano il Vodù.

Una situazione cambiata con il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa ha iniziato a riconoscere, ai più alti livelli, il diritto alla libertà religiosa e la necessità di avere un altro tipo di rapporto con le popolazioni dove si inseriva.

Oggi la questione si pone in altri termini, perché la Chiesa cattolica è in competizione con molti movimenti religiosi, che hanno invaso il paese a partire dall’occupazione statunitense (1915-34). Da una ventina di anni il movimento pentecostale si è diffuso, soprattutto nelle classi popolari.

La Chiesa cattolica ha mitigato la sua volontà di combattere il Vodù, e ne ha introdotto alcuni elementi nella liturgia, come l’uso dei tamburi in chiesa. Ha introdotto il creolo e ha avuto un ruolo molto importante per la sua promozione e accettazione come normale lingua di comunicazione. Stessa cosa hanno fatto anche i protestanti. Ma il protestantesimo, soprattutto nella sua versione pentecostale, ha lottato contro il Vodù, ha voluto che la gente abbandonasse il Vodù, che considera come qualcosa che viene dal demonio. Evidentemente in questo modo il protestantesimo agita ancora di più l’immaginario religioso che diventa ancora più presente, si difende e oggi dispone di una sua organizzazione autonoma (vedi MC giugno 2014) e comincia a essere riconosciuto nello spazio pubblico, dalla radio alla televisione. Molti si dichiarano oggi apertamente vuduisti. La battaglia è per la tolleranza religiosa, la libera competizione dei movimenti, la laicità dello stato, che permetterà la protezione di tutte le religioni».

Il 9 agosto e il 25 ottobre 2015 si sono svolte le elezioni per il parlamento e per il presidente della repubblica. Perché la partecipazione alle elezioni è stata così bassa?

«Dal 1986 il movimento di democratizzazione del paese ha fatto progressi e il paesaggio sociale è cambiato. La differenza che esisteva tra élite urbane e classi popolari delle campagne e bidonville oggi si esprime diversamente. La gente fa delle richieste allo stato, reclama i propri diritti, vuole più uguaglianza, partecipare alla vita politica e cittadina, e questo crea una continua crisi a livello politico. Perché le strutture dello stato e la classe politica si trovano in ritardo rispetto al livello di coscienza popolare ad Haiti.

La bassa affluenza esprime una mancanza di fiducia nelle istituzioni dello stato e in particolare in quella elettorale. Intanto c’è stata una pletora di candidati (i candidati presidente erano 54, nda), che non fanno realmente campagna, e non hanno programmi politici. Non si vede la differenza tra un partito e l’altro. Di fronte a questo le persone sono perse, non sanno chi votare.

Inoltre la gente ha boicottato anche perché ci sono prove di tentativi di manipolazione da parte dell’esecutivo, nel modo in cui le elezioni sono state condotte. E questo succede sempre, ogni volta che ci sono elezioni in questo paese. È qui che si vede che abbiamo a che fare con una classe politica chiusa su se stessa, non intenzionata a scendere in mezzo alla gente, interessarsi ai problemi reali espressi dai diversi strati sociali del paese. Sono più portati a risolvere i loro problemi personali, legati ai posti e alle ricompense da ottenere».

La lotta politica alla quale assistiamo è una lotta di potere e di interessi o anche ideologica e di classe?

«Non vedo lotta ideologica né lotta di classe espressa nettamente. Quello che è chiaro è che il governo degli ultimi cinque anni è stato imposto in maniera quasi diretta dagli statunitensi. Gli Usa si sono introdotti nel paese attraverso la Minsutah (contingente Onu presente dal 2004, nda) e hanno voluto che fosse Martelly a diventare presidente. C’è stato tutto uno sforzo per scartare la persona che era arrivata seconda (Jude Célestin, nda). Martelly è arrivato al potere senza alcun programma e oggi vediamo in che stato si trovano le istituzioni a causa del suo governo. È stato un periodo di apertura al business, nel quale non ci si doveva più interessare di politica. Si sarebbero dovute fare strade, organizzare elezioni. Ma il presidente era più interessato a organizzare il martedì grasso del carnevale. È simpatico, però ci sono cose più importanti e serie da risolvere nel paese. Abbiamo avuto a che fare con un governo di business man e oggi ne paghiamo le conseguenze».

A livello della ricostruzione, che risultati vede in questi sei anni?

«Molti soldi sono stati promessi, ma pochi sono stati dati. C’è stata l’espressione di una grande compassione per Haiti, ma spesso le Ong hanno preso il paese come un grande campo di gente da assistere, quando invece si sarebbe dovuto avere una visione molto più ampia, di medio e lungo termine, al di là della ricostruzione. Il sisma è stato un’opportunità offerta ad Haiti per realizzare una vera costruzione del paese. Questo non è stato fatto. Non metto tutto sul conto degli stranieri, perché era compito del governo presentare dei progetti che avrebbero potuto accogliere questo aiuto e orientarlo. E se il governo non ha un piano, l’aiuto arriva da diverse parti e c’è un certo spreco. Si è portato un po’ di appoggio a gente che non aveva nulla, ma che continua a non avere nulla. Ci sono molte critiche che sono state fatte sugli aiuti. Raul Peck, cineasta molto conosciuto, ha realizzato il film “Assistenza mortale”, una critica radicale dell’aiuto. La gente è in continua richiesta di “stato”: scuole, sicurezza, salute, lavoro, casa, ma tutto questo è trascurato».

La cura dell’ambiente è fondamentale e le risorse possono essere utilizzate per il turismo. Ma come fare?

«Ci sono associazioni che lavorano su queste questioni, ma non sono tenute in conto dal potere, non ricevono sovvenzioni. Occorre che ci sia un governo con un programma, che ci siano uomini politici attenti all’ambiente. I candidati alla presidenza hanno molta fame di potere, ma poco appetito per le questioni importanti come ambiente, sviluppo sostenibile, lotta all’inquinamento, prevenzione dei terremoti e intemperie. È un paese che ha bisogno di pensare il suo avvenire, di avere gente che presenti dei piani più generali a livello di politiche nazionali».

I rapporti con la Repubblica Dominicana sono particolarmente tesi in questi ultimi mesi, perché?

«Haiti è in una situazione particolare, perché una buona parte degli scambi economici avviene con la Repubblica Dominicana (Rd), ma con un grosso deficit nella bilancia commerciale. I dominicani vendono per due miliardi, mentre Haiti esporta per qualche centinaio di milioni. Buona parte della popolazione che non ha lavoro va in Rd, dove vivono molti haitiani, da oltre un secolo. C’è una volontà della Rd di controllare i lavoratori haitiani, di cui però ha molto bisogno. Questo ha creato situazioni gravi. Come nel 1937, quando ci fu un vero genocidio di haitiani, organizzato dal dittatore Trujillo. Questo massacro fu dovuto alla volontà di chi governava in Rd di fare una pulizia etnica, perché per i dominicani tutto quello che viene da Haiti viene dall’Africa, dal Vodù, è nero, mentre invece loro si considerano come indios ed europei. I dominicani hanno ancora il problema su come assumere il passaggio della loro storia che riguarda la schiavitù. Allo stesso tempo hanno bisogno degli haitiani per il lavoro nella canna da zucchero, nell’agricoltura, nelle costruzioni. La situazione è grave anche perché c’è un atteggiamento di scarso interesse da parte dei governanti haitiani. I vicini, hanno approvato una legge per espellere tutti gli haitiani che non hanno documenti. È un modo per ripulire Santo Domingo e le altre città da chi, secondo loro, non dà una bella immagine. Nonostante questo, ci sono sforzi che sono già stati fatti. Adesso sono i governanti haitiani che devono capire come gestire i rapporti con Rd, come trattare i problemi relativi al commercio e alla cultura. Come i due popoli possono vivere insieme. Occorre pensare a quello che ci avvicina, quello che è simile e quello che è diverso, per permettere dei rapporti e liberare dai pregiudizi. Ripensare il modo di vedere l’economia e la cultura haitiana, facendo attenzione al rapporto con la Rd. La storia tra i due paesi è complessa, e loro adesso sono più avanti come sviluppo, come educazione, università. Ci vuole uno sforzo da parte degli haitiani».

Marco Bello
con la collaborazione di Alessandro Demarchi




I dolori di Pristina


Dallo scorso febbraio il presidente della piccola repubblica è Hashim Thaçi, già leader del (controverso) Esercito di liberazione (Uçk). Sopito (ma tutt’altro che superato) il conflitto etnico con la minoranza serba, oggi il Kosovo rimane un paese in gravi difficoltà e con vari leader accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Al terzo scrutinio, con 71 voti su 120,  viene nominato Hashim Thaçi, leader del «Partito democratico del Kosovo» (Pdk).

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici tra il Pdk e il partner di governo, la «Lega democratica del Kosovo» (Ldk), non arriva a sorpresa: il segretario del Partito democratico è da tempo uno degli uomini politici kosovari più in vista. Nel 1999, durante la guerra combattuta – col supporto decisivo dell’aviazione Nato – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Miloševi?, Thaçi ha vestito i panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, «eroe» dell’«Esercito di Liberazione del Kosovo» (Uçk).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi era stato l’uomo che aveva pronunciato la sospirata dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi avrebbe dovuto quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, non sono filate così lisce.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo a più riprese nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, sono andate in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetevendosje («Autodeterminazione») scesi in piazza al grido «Thaçi corrotto!», e terminati con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura – «Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo» – non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’Uçk durante e dopo il conflitto armato.

Dal parlamento alle piazze

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia più efficace delle divisioni e fratture che oggi spaccano «il paese più giovane d’Europa», figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’Ue) del 2008.

La prima faglia si trova nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il Pdk di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita a un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato a un «patto innaturale» tra il Pdk e il principale partito d’opposizione, la Ldk, che ha voltato le spalle al patto anti Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le ue.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia raggiunto nell’aprile 2013. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli «affari interni» del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell’ex provincia, Pristina acconsente alla creazione di una «Associazione delle municipalità serbe in Kosovo», che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è «normalizzare» la situazione nel Nord del Kosovo, area a grande maggioranza serba che, dalla guerra del ‘99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina (leggere riquadro).

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile «entità serba» in Kosovo, sul modello della «Republika Srpska» (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dalla povertà

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e sul consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del Pil (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (-2,3% del Pil).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra il 61%.

Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità di vita migliore nei paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati Ue nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare a una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015: ben 62.860 richieste.

Un vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese è circa due milioni di abitanti), che è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati. Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche la corruzione diffusa, l’emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom), la scarsa qualità dei servizi foiti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria e Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro capite, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Accuse di crimini

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’«Accordo di stabilità e associazione» con l’Ue, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita Eulex (European Union Rule of Law Mission) – la più grande missione Ue all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1.600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto sull’obiettivo centrale delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata. Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva «endemica» in Kosovo.

A intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacqué, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però una certa luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’élite criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea ha fatto irruzione sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per il Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. In quel rapporto venivano accusati vari leader di spicco dell’Uçk, oggi leader politici, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’espianto di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’Ue ha creato una Special Investigative Task Force (Sitf), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del «rapporto Marty». Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla Sift aspettano di essere presentate di fronte a una «Corte speciale», che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader Uçk già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio quello del neo presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come «esponente di spicco del mondo criminale kosovaro», ma anche numerosi leader, sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto a Pristina e dintorni.

Giovani con voglia di futuro

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro. Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – cornordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di «Gijrafa.com», piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le proposte non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo Sud occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze. Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio Shok («Amico»), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro che, dopo aver vinto numerosi riconoscimenti, è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria «film brevi».

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pe?, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere – campionato del mondo incluso – nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Francesco Martino

 




Máxima Acuña Premio Goldman 2016 per l’Ambiente


Máxima Acuña, contadina peruviana, è la vincitrice indiscussa  del Premio Goldman 2016 per l’Ambiente, il Nobel dell’ecologia che ogni anno viene assegnato agli eroi ambientali dalla Fondazione Goldman Environmental. Il Goldman Environmental Prize è il più grande premio al mondo per gli attivisti ambientali.

Il Nobel per l’ambiente è andato quest’anno a Máxima Acuña, coraggiosa contadina peruviana analfabeta che ha difeso il suo territorio contro lo sfruttamento da parte di un colosso minerario intenzionato a scavare una miniera d’oro vicino al suo campo e prosciugare il lago, che serve per irrigare i campi, per trasformarlo in una discarica di rifiuti tossici.

Da: http://www.dailygreen.it/

Maxima è la protagonista del reportage di Simona Caino www.aguasdeoro.org, vincitrice con M.A.I.S. Ong di uno dei premi di Dev Reporter Network


Máxima Acuña, mujer campesina y agricultora gana el premio más importante sobre medio ambiente y ningún medio de comunicación transmitió en el Perú.

Da: https://www.youtube.com/watch?v=MSrzroFceh8


A subsistence farmer in Peru’s northe highlands, Máxima Acuña stornod up for her right to peacefully live off her own land, a plot of land sought by Newmont and Buenaventura Mining to develop the Conga gold and copper mine.

Da: https://www.youtube.com/watch?v=Gz8eZx8V4Uo

 




Sommario aprile 2016


Questo mese parliamo di Sudafrica, Guatemala, Myanmar, radio in Ecuador, Iran, morbo di Hansen, Tanzania, abuso di alcol, lago Turkana, missione in Europa. Il dossier è sulle gang di strada dei giovani latinos. E poi di Cristeros e Morricone. C’è anche l’inserto “Allamano”.

Grandioso
di Gigi Anataloni | Editoriale / Ai lettori

Centro America. La violenza fatta famiglia.
Le gang di strada – Pandillas – dei giovani Latinos
di Annalisa Zamburlini | Dossier

Cari missionari
Risponde il Direttore | Lettere dai lettori

La Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto | notizie

Sudafrica: Quattro Passi nella storia
di Silvia C. Turrin | Articolo

Myanmar: Storia millenaria, porti e caserme
di Claudia Caramanti ! Articolo

Guatemala:Misericordia e new media
di Marco Bello | Articolo

Ecuador: Microfoni appassionati
di Paolo Moiola | Articolo – Radio 6

Iran: Donne al tempo del “Mehrieh”
di Maria Grazia Parenzo | Articolo

Brasile: Il morbo che segrega
di Paolo Moiola | Articolo

Tanzania: Streghe e stregoni
di Francesco Beardi | Articolo

Italia: Alcol, non abusare
di Stefania Garini | Articolo

Misericordia voglio: 6. Il Giubileo
di Paolo Farinella | Così sta scritto – giubileo della misericordia

Kenya: Turkana, vento di sviluppo?
di Chiara Giovetti | Cooperando

Messico: I Cristeros
di Mario Bandera | I Perdenti -13 /4 chiacchiere con

Europa: Vecchio continente, nuova missione
di Ugo Pozzoli | Missione Europa

La musica secondo Ennio Morricone
di Gianni Minà | Persone che conosco

Sacerdote missionario
a cura di Sergio Frassetto | Allamano /2
Nell’inserto: Presenza viva | Pioniere della stampa cattolica | Vicino ai giornalisti | Preghiera ! Riconoscenza




Lettere aprile 2016


Ancora sull’Ucraina

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Da un po’ di tempo seguo con interesse la vostra rivista apprezzandola, ma dopo la lettura dell’articolo «Kiev non parla russo» del dicembre 2015 non posso fare a meno di scrivervi. Ben inteso, non ne contesto i contenuti, ritengo che quanto scritto sia plausibile e vero, ma la totale faziosità a senso unico contro la Russia mi ha sorpreso. Mi vengono spontanei quesiti e riflessioni che provo a riportare qui.

Nell’articolo si dice riguardo la Crimea: colpo di mano militare russo; «omini verdi»; Anna che scappa in Italia; le spiagge vuote. L’autodeterminazione dei popoli vale solo quando fa comodo (Kosovo)? Quando non fa comodo vale l’inviolabilità dei confini? L’84,2% della popolazione che ha votato sì (come riportato dall’articolo) non vuole dire niente? Magari citare anche gli altri referendum ivi tenutisi negli anni precedenti aiuterebbe a descrivere meglio il quadro della zona. Una intervista, una, a qualcuno favorevole alla Crimea in Russia proprio non era possibile? Riguardo ai poveri perseguitati tatari: chi ha sabotato i pali dell’alta tensione in Ucraina al fine di lasciare senza luce gli abitanti della Crimea? Come mai l’articolo non cita che la Russia ha riconosciuto agli italiani di Crimea lo status di minoranza deportata e perseguitata, cosa che in venti anni di Ucraina mai era avvenuto.

Venendo al Donbass: Natalia e Aleksandr sono scappati da Donetsk, volevano Donetsk in Ucraina, non ne facevano segreto, lui imprigionato e picchiato. Intervistare i miliziani Dnr-Lnr rilasciati dall’Ucraina dopo scambio di prigionieri? Non sia mai vero. I profughi che scappano dalla Crimea e dal Donbass per essere salvi in Ucraina cita l’articolo. Di quelli che invece scappano in Russia non c’è traccia, e dire che sono circa un milione. Strano che l’articolo citi che il 2 maggio 2013 ad Odessa siano bruciati vivi 48 manifestanti filorussi nel rogo della Casa dei sindacati. Chi ha appiccato il rogo con la complicità della polizia però non è scritto, come anche che quelli che si salvavano dalle fiamme poi venivano picchiati, ma già, i filorussi sono cattivi mentre i filoucraini bravi. Qualche accenno ai battaglioni neo-nazi Azov ed Aidar?

Non è tutto bianco o tutto nero, la situazione in Ucraina è ben più complessa, riportando solo una parte dei fatti si può benissimo dire la verità ma si distorce la realtà a proprio uso e consumo.

Mi sono preso la briga di andare a vedere cos’è Obc. Dal loro sito Inteet: «Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) è un think tank che si occupa di Sud-Est Europa, Turchia e Caucaso ed esplora le trasformazioni sociali, politiche e culturali di sei paesi membri dell’Unione Europea (Ue), di sette paesi che partecipano al processo di allargamento europeo e di buona parte dell’Europa post-sovietica coinvolta nella politica europea di vicinato». Ed inoltre: «Obc ha un accordo di partenariato con il Parlamento europeo e realizza progetti co-finanziati dal Ministero degli Affari Esteri italiano, dall’Unione Europea, da fondazioni private ed enti pubblici e privati italiani ed europei». Appunto un think tank: sono di parte e sono finanziati dalla Ue. Lo scopo è orientare, cosa che nel pezzo gli è riuscita benissimo. Saluti.

Luca Medico
22/01/2016

Cari missionari,
dopo aver letto l’articolo sull’Ucraina del numero di dicembre ho deciso di scrivervi. Infatti dopo quelli da me apprezzati sulla Transnistria, la Cecenia, la Bielorussia, la Turchia (e gli altri) mi è apparsa chiara la faziosità del taglio giornalistico. Ciò è sicuramente da attribuire all’Osservatorio Balcani e Caucaso che, dopo breve ricerca in rete, mi è apparsa in modo lampante una associazione con obiettivi chiari e tutt’altro che neutrali. […] La questione ucraina infatti è ben più complessa di ciò che l’autore voglia far credere. Non dico che i fatti raccontati non siano veri, ma sicuramente è stata raccontata la verità a meta distorcendo quindi la percezione del lettore. D’altra parte l’Obc è un think tank e quindi persegue esattamente questo obiettivo, per carità legittimo, ma il lettore di MC è abituato ad altra qualità e aspettativa. Dall’articolo sembrerebbe che, da un lato, ci siano gli ucraini desiderosi di scrollarsi di dosso una tutela russa che non è più accettata e, dall’altro, i russi/russofoni, naturalmente corrotti e militareschi, che ciecamente frenano un legittimo interese ucraino. Purtroppo la situazione è molto più complessa ed è da ingenui pensare che una nazione come quella russa si facesse sottrarre una zona strategica come la Crimea dove ha sede la sua base navale. La verità è che la corruzione c’è anche sull’altro fronte, per non parlare delle forze militaresche che sostengono il governo di Kiev e che la Comunità europea, sedicente esportatrice di valori (quali?), non ha esitato a sostenere dando loro il nome di forze moderate, espressione con la quale si identificano semplicemente gli amici che fanno gli interessi degli occidentali che non in pochi casi sono quelli della Nato, purtroppo.

Insomma, non voglio dire che sia tutto sbagliato ciò che produce quell’osservatorio, ma varrebbe la pena dare voce anche all’altra campana che a mio parere ha anche buone ragioni.

Andrea Sari
27/01/2016

Accogliamo le critiche all’articolo sull’Ucraina, ma non concordiamo con quelle fatte all’Obc. Ricevere finanziamenti dall’Unione europea non significa diventae i lacchè. La collaborazione tra questa rivista e l’Obc è stata finora eccellente e gli articoli che ci ha offerto su molti paesi e situazioni difficili sono stati di ottima qualità. Per questo li ringraziamo e continueremo a pubblicare i loro servizi su una parte di mondo così vicina a noi eppure così sconosciuta.

Sacerdoti amici dell’Allamano

Caro Direttore,
un caro saluto a te e a tutti i missionari della Consolata e auguri per la «nostra» rivista missionaria.

Vorrei fare un appello a te, ai tuoi superiori e ai sacerdoti diocesani. Mi piacerebbe che tanti sacerdoti approfondissero il carisma e la spiritualità «sacerdotale e missionaria» del Beato G. Allamano e che, se possibile, nascesse un gruppo di sacerdoti «amici dell’Allamano» che si impegnino a conoscere, vivere far conoscere ad altri, sacerdoti e non, il suo carisma.

La mia speranza è che si possa fare un primo incontro a Roma, nella vostra casa generalizia, il giorno 3 giugno p.v., nel pomeriggio, in occasione del giubileo dei sacerdoti. Grazie

don Vincenzo Mazzotta
21/02/2016

Don Vincenzo, i migliori auguri per questa bella iniziativa. I sacerdoti che fossero interessati possono contattare don Vincenzo a questo email: vincenzomazzotta13@gmail.com

Meno copie non è risparmio

Desidero non ricevere più la vostra rivista in cartaceo perché vi faccio spendere del denaro che può essere utilizzato diversamente da voi. Se volete potete inviarmela in email. Un saluto e un augurio per la vostra opera missionaria.

lettrice da Bologna
7/02/2016

Metto in evidenza questa email per sottolineare alcuni punti importanti per la vita di una pubblicazione come la nostra, visto che la signora non è la prima a motivare la sua disdetta del cartaceo con il «risparmio» che potremmo fare.

Preciso anzitutto che la stampa e la spedizione della rivista (stampiamo circa 50mila copie, la metà di quanto stampavamo negli anni ’60) «mangiano» circa il 40% delle spese totali. L’altro 60% va nella gestione (attrezzature, luce, riscaldamento, archivio, Inteet, ecc.) e nei salari e compensi a giornalisti e collaboratori.

Il costo di stampa e spedizione per mille copie in più o in meno è irrilevante, mentre invece ogni volta che perdiamo un lettore/amico del cartaceo, aumenta il carico di spesa su ogni singola copia. Più lettori sul web dovrebbero compensare la perdita dei lettori del cartaceo, ma le statistiche mostrano che il lettore web ama le cose gratuite; mentre il lettore del cartaceo è più cosciente di dover aiutare anche economicamente.

In realtà, per ora, l’unica maniera per risparmiare è quella di aumentare il numero di coloro che ricevono la rivista cartacea! Più sono le copie diffuse, più il costo globale per copia diminuisce.

Fine dell’Europa?

Gentile direttore,
con sorpresa ho letto l’intervista al prof. Bruno Amoroso, riportata da Missioni Consolata nel suo numero 1/2, 2016, sull’Unione Europea e sull’euro, dei quali viene decretata la fine, liquidati come fenomeni temporanei della storia.

I motivi per criticare il «governo» dell’Unione e per auspicarne un cambiamento, sono vari e disparati e trovano fondamento nella situazione di crisi evidente dell’idea di integrazione europea, ma il nostro professore dovrebbe chiedersi come mai i cittadini, di fronte a tale situazione (sono parole sue), «preferiscano non crederci perché si troverebbero di fronte a un vuoto di speranza al quale non vogliono credere». Probabilmente avvertono, come il sottoscritto, che il progetto di integrazione europea per il quale si impegnarono figure come Schumann, De Gasperi, Adenauer (spero che il Prof. Amoroso non consideri anche loro agenti della Triade, come Delors e Prodi, probabilmente) è stato un progetto di pace per superare una situazione nella quale i nazionalismi avevano ridotto l’Europa a un cumulo di rovine, un progetto per il quale vale ancora la pena battersi e sperare. Gli stessi nazionalismi che sembrano riemergere nel momento storico che stiamo vivendo, con il rischio che ognuno si ritiri nei suoi limiti, che ritornino le frontiere, le barriere, i muri… come abbiamo già potuto constatare con il problema profughi.

Preferirei leggere, specie su riviste come MC, una lettura della situazione che pur non nascondendo le difficoltà, non trascuri i motivi di speranza perché l’integrazione europea vada avanti, superi la presente crisi, si realizzi soprattutto a livello di valori, come avevano previsto i suoi fondatori. Ritengo che le idee del prof. Amoroso siano esattamente l’opposto perché privi di qualsiasi prospettiva e incapaci di dare speranza, a parte i soliti slogan e la fiducia che «l’uscita sarebbe un gesto virtuoso (!) per seguitare a governare in modo negoziale e sensato processi che, quando si manifestano in modo spontaneo e disordinato, producono danni dolorosi». Ovviamente il prof. Amoroso può pensarla come vuole, ma, anche se al fondo di pag. 4 è scritto che gli articoli pubblicati non riflettono «necessariamente» l’opinione dell’editore, mi farebbe piacere sapere se nel caso specifico lo sono o meno, considerata l’importanza degli argomenti trattati: implosione dell’UE, data per certa, e uscita dall’euro, auspicata.

Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini
Torino, 21/01/2016

Chiamato in causa, mi permetto una breve risposta. L’editore, che come direttore editoriale rappresento, non ha nessuna ragione per volere il dissolvimento dell’Unione Europea, ma accoglie positivamente le provocazioni del prof. Amoroso come contributo a un dibattito serio su molti aspetti discutibili e problematici che affliggono detta Ue in questi anni. Si vedano, ad esempio, tutte le contraddizioni attuali sui migranti e profughi, l’atteggiamento ambiguo con l’Ucraina, la moltiplicazione di regolamenti e norme comunitarie imposti sopra la testa di nazioni e cittadini, la mancanza di trasparenza nelle negoziazioni dei tratti economici inteazionali, come il Ttip…

Migranti e navi da crociera

Sul numero 1/2 2016 vi è una lettera con il titolo in oggetto, a firma Luciano Montenigri del 31/10/2015, nella quale si propone di usare le navi da crociera di lusso per andare a prendere coloro che soffrono e portarli senza rischi qui da noi. Ora io mi chiedo perché tutti questi buonisti siano buoni con mezzi altrui e non personalmente: al ricco fariseo che chiese al Signore cosa doveva fare per meritare la benevolenza di Dio dato che lui si comportava bene, rispettava il prossimo, seguiva tutti precetti religiosi, ecc., Gesù disse: vendi tutto, regala il ricavato ai poveri e seguimi. Non disse di dare ai poveri i beni altrui (navi da crociera) e di non far niente (salvo farsi belli a scrivere), ma di seguirlo senza niente. Ora perché i buonisti dicono sempre cosa gli altri devono fare ma non incominciano loro a dare l’esempio ospitando in casa loro qualche profugo? Mi viene in mente una barzelletta che compariva su Candido negli anni ‘50: a un operaio veniva detto, «Se tu vincessi 100 milioni cosa faresti? Metà a me e metà al partito. Se ti regalassero due automobili? Certo una a me ed una al partito. E se ti regalassero due biciclette? E no. Le due biciclette le ho e le tengo tutte e due per me». Ora se si tratta di accogliere i migranti in strutture pubbliche e private di altri è giusto farlo, ma a casa mia non c’è posto. Mi pare che il nostro attuale Papa abbia invitato tutti i religiosi ad ospitare nelle dimore ecclesiastiche vuote i migranti, ma finora non ho ancora sentito quale istituzione religiosa ha dichiarato di avere locali inutilizzati. Conosco una comunità religiosa di 4-5 religiosi che vivono in ambienti ove si può ricoverare non uno ma ben due reggimenti di soldati, ma finora nessun migrante è ancora stato accolto. Però come è bello fare i buonisti e non i realisti. Con osservanza.

Cesare Verdi
Riva presso Chieri, 24/01/2016

Caro Sig. Cesare,
più che legittimo il suo sfogo contro chi parla e non fa. Ma, a parte il fatto che non sappiamo se il sig. Montenigri non faccia nulla, il rischio è di fare di ogni erba un fascio. Ad esempio, la Chiesa italiana è impegnata in prima linea nell’accoglienza con la sua rete capillare di Caritas e Fondazione Migrantes, sia a livello diocesano che parrocchiale, oltre che con i molti centri di accoglienza e servizi vari gestiti da religiosi e religiose di tutti i tipi. Sono decine di migliaia i migranti (e non) che beneficiano di mense, dormitori, appartamenti, centri di assistenza legale e sanitaria, scuole, e quant’altro è necessario. Possiamo dirlo: la Chiesa italiana (e non parlo solo dei vescovi, ma di tutti, semplici cristiani e religiosi compresi) non si riempie la bocca di solo buonismo.

è vero che ci sono centinaia di case religiose vuote o semivuote, ma moltissime di queste stesse case/casermoni non hanno i requisiti minimi per un’accoglienza a norma di legge, essendo praticamente abbandonate da anni, e di fatto invendibili, come lo sono tante caserme dismesse che nessuno vuole. L’idea delle navi da crocera sembrava più una provocazione che una proposta, ma se c’è chi rischia di fare il «buonista», non cadiamo nell’opposto pseudo realismo arroccato e populista.

Volontari per il Catrimani

Padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata al Catrimani, ha scritto agli amici del Co.Ro. (Comitato Roraima), che hanno a loro volta rilanciato.

«In verità la gestione delle strutture è molto pesante e avrei proprio bisogno di qualcuno (un volontario, un laico missionario o una coppia, magari qualcuno già pensionato ma ancora con forza e buona volontà) che ci aiutasse. Il tempo che devo dedicare ai lavori manuali è un tempo che tolgo da altri lavori che sarebbe molto importante portare avanti. Questi altri lavori fanno parte del nostro specifico, come l’accompagnamento delle scuole, l’incontro con le persone, il dialogo interreligioso e la formazione in generale. E possiamo portarli avanti noi poiché conosciamo la lingua indigena… ma ci manca proprio qualcuno che si occupasse delle questioni più pratiche. Viviamo in una missione nella foresta, foiamo acqua e energia al posto di salute (ambulatorio), abbiamo strutture che ci permettono una vita abbastanza sicura e salubre quando siamo alla missione, e con le quali possiamo realizzare una serie di attività, come corsi e incontri, che sono invidiate da altre organizzazioni, ma tutto questo esige un grande sforzo. Da parte mia sono alla ricerca di volontari e laici missionari con un profilo adeguato a questa realtà. Qui in Brasile è molto difficile, ma chissà?!».

Co.Ro.

Chi fosse interessato può scrivere al dottor Miglietta, responsabile del Co.Ro.: migliettacarlo@gmail.com
oppure al nostro indirizzo, e provvederemo a recapitare l’email agli interessati.

 


L’Umanità in gioco

Toa il festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistornia e Pescia e dal Comune di Pistornia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. Tre giornate con circa 25 appuntamenti tra incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi, che animeranno – con un linguaggio come sempre accessibile a tutti – il centro storico di Pistornia.

Filo conduttore della settima edizione sarà: «L’umanità in gioco». «Ogni epoca e ogni civiltà hanno giocato e giocheranno, perché il gioco fa parte dell’essere umano, non è solo prova di sé, ma anche di fantasia, di immaginazione, e allo stesso tempo di regole, rischio e azzardo. Il gioco è più antico della cultura, il mondo animale lo testimonia, vogliamo quindi raccontare attraverso la voce di grandi antropologi, filosofi, psicanalisti, studiosi italiani e stranieri questo tema così centrale della nostra esistenza, da quando nasciamo e giochiamo istintivamente a quando, maturi, giochiamo in borsa, su un campo da calcio, oppure online», spiega Giulia Cogoli.

Appositamente per i Dialoghi, Ferdinando Scianna realizzerà la mostra fotografica personale «In gioco», ispirata al tema del festival, che si terrà dal 27 maggio al 3 luglio presso le sale affrescate del Palazzo Comunale di Pistornia. Per informazioni: www.dialoghisulluomo.it – Ufficio stampa Delos: delos@delosrp.it.

 




Sudafrica quattro passi nella storia


Da Sendton ad Alexandra, da Newtown a Soweto, passando per Durban e King William’s Town. Il ricordo di Biko e di Mandela. Visitando i luoghi «storici», ritroviamo il percorso di una delle nazioni più  particolari del continente. E ne scopriamo le contraddizioni.

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Era il 1994 quando si svolsero in Sudafrica le prime elezioni multirazziali e democratiche. I giorni tra il 26 e il 29 aprile furono di grande euforia. Il paese, noto a livello internazionale per una politica fondata su criteri razzisti, stava voltando pagina; stava concretizzando il principio one person one vote, «una persona, un voto», attraverso elezioni inclusive, capaci cioè di incorporare quei segmenti sociali – in primis i neri – rimasti isolati, seppur a differenti livelli, per lungo tempo. Quelle del 1994 vennero definite elezioni miracolose: era finalmente giunto il tempo della riconciliazione, preludio di una nuova era. Tale momento storico vide un imponente coinvolgimento e partecipazione del popolo sudafricano. Il diritto di voto fu infatti esercitato dall’87% dell’elettorato attivo: all’incirca 19 milioni di persone. Ciò diede vita a una miriade di lunghe e colorate file di elettori, la maggior parte dei quali sperimentavano liberamente il loro diritto per la prima volta nella loro vita.

Molti appoggiarono, come ci si aspettava, la linea politica dell’African National Congress (Anc), che ottenne il 62% dei voti, avendo così a disposizione all’Assemblea nazionale (il parlamento) 252 seggi.

In quei giorni nasceva la Rainbow Nation, «nazione arcobaleno», alla cui presidenza sarebbe andato Nelson Mandela, tra i massimi esponenti dell’Anc, il quale dopo ventisette lunghi anni di prigionia, divenne simbolo, nonché guida politica, del nuovo corso sudafricano. Tanti parlavano di Rainbow Nation, per sottolineare la volontà di creare una società multirazziale e tollerante verso ogni genere di differenza. Da allora, sono trascorsi due intensi decenni.

(© Silvia C. Turrin)
Museo dell’apartheid (© Silvia C. Turrin)

La mano di Madiba

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Mandela, quando fu alla presidenza, cercò di implementare programmi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza, ma le logiche neoliberiste prevalsero e i suoi successori non furono in grado di portare la nazione verso un piano di sviluppo che favorisse le comunità povere.

La morte di Mandela (5 dicembre 2013), una delle poche figure, se non la sola, davvero carismatica dell’Anc, acuì alcuni problemi politici: il partito che permise la fine dell’apartheid e che siglò la politica di riconciliazione non era stato in grado di mantenere la promessa di dare aiuti agli indigenti e di migliorare i servizi nelle comunità periferiche.

Il tasso di disoccupazione continua tutt’oggi a essere alto – circa il 25% nel 2014 – e la maggioranza dei senza lavoro sono neri. Inoltre, permangono gli effetti della dura dominazione coloniale che aveva represso, sul piano fisico, psicologico, sociale e giuridico la maggioranza della popolazione sudafricana.

Nonostante ciò, il Sudafrica rimane tra i paesi più vitali del continente africano, sia a livello economico, sia culturale. È una terra vasta, con un ricco mosaico di popoli, etnie e idiomi (si contano undici lingue ufficiali). Incastonato tra l’Oceano Indiano e quello Atlantico, è un paese, in cui convivono culture europee, africane e asiatiche e dove si respira il profumo della libertà. Una libertà per lungo tempo ricercata da tanti sudafricani, per la quale molte persone si sono sacrificate, superando difficoltà e ostacoli.

La democrazia che la società sudafricana sperimenta oggi, seppur con tante contraddizioni, è stata il frutto della protesta e delle lotte portate avanti, nei decenni scorsi, da uomini e donne comuni, da studenti, da attivisti per i diritti civili, da artisti ed esponenti dell’intellighenzia africana e non, e da figure politiche dotate della determinazione necessaria per modificare il regime razzista edificato con tanta tenacia dalla minoranza afrikaner (vedi glossario).

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Luci e ombre della nazione arcobaleno

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Abbiamo deciso di compiere un viaggio nel paese che ha un territorio quattro volte più esteso dell’Italia, allo scopo di conoscere qualcosa del Sudafrica di oggi.

Incominciamo da Johannesburg, detta Jozi o anche Jo’burg, città in cui il divario tra zone residenziali e quartieri poveri è impressionante. Basta guardare alle disuguaglianze tra il quartiere di Sandton e la township di Alexandra. A Sandton risiedono sudafricani benestanti, che abitano in grandi case o appartenenti lussuosi o ville con piscina e con sistemi di allarme sofisticati. Vi sono modei centri commerciali,  banche e centri finanziari. Sembra che molti bianchi che vivono a Sandton nutrano ancora forti sentimenti razzisti e di superiorità nei confronti dei neri.

A pochi chilometri sorge la township di Alexandra, fra i luoghi più poveri del Sudafrica post apartheid, la cui storia risale ai primi anni del ‘900. Nonostante l’avvio dell’Alexandra Renewal Project con cui si intende migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti, c’è ancora molto da fare per risolvere i problemi basilari della gente che vi abita.

Johannesburg rimane uno specchio che riflette le contraddizioni del Sudafrica. La città venne fondata nel 1886 a seguito della scoperta di ingenti giacimenti auriferi nella zona: era il periodo della corsa all’oro che richiamò migliaia di persone.

Nel quartiere di Sandton è stata creata una piazza intitolata a Nelson Mandela, dove si erge la statua sorridente del «padre della patria».

Da Sandton ci muoviamo verso il distretto culturale di Newtown, dove, al numero 121 di Bree Street, troviamo l’ingresso del Museum Africa.

Lo spazio espositivo racconta, attraverso fotografie, reperti, fumetti e disegni, la storia del paese e le diverse culture che lo popolano.

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

C’è una sala dedicata all’arte rupestre del popolo San, e poi, grazie a una sezione dedicata alla geologia, si ha l’opportunità di attraversare le epoche della pietra e del ferro, si osservano fossili e testimonianze di quei giacimenti d’oro e di diamanti che attirarono in Sudafrica migliaia di coloni europei. Furono proprio quelle incredibili ricchezze a cambiare il volto del paese.

Nel Museum Africa gli appassionati di musica possono trovare tante testimonianze, immagini, copertine di dischi, vecchi articoli di giornali, circa la nascita del jazz sudafricano avvenuto nelle township.

Un’altra sezione racconta il passaggio di Gandhi in questa terra: dalla creazione della Tolstoy farm allo sviluppo della filosofia del Satyagraha (basata sulla resistenza pacifica, ma attiva, contro le ingiustizie politiche), sino alla creazione del suo ufficio che richiamava attivisti sia indiani, sia cinesi. Gandhi rimase in Sudafrica per ben 21 anni (dal 1893 al 1914), lasciandovi un’impronta filosofico-politica importante.

Usciti dal museo visitiamo l’area di Newtown, che è stata protagonista di un ambizioso progetto di ristrutturazione urbana. Gli edifici industriali e i vecchi magazzini sono stati riqualificati in eleganti loft e centri culturali, tra cui music club e teatri, anche se in alcune vie è facile che lo sguardo incontri ancora angoli di miseria e di emarginazione sociale.

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

La rivolta di Soweto

Dal centro di Johannesburg ci spostiamo nella sua città satellite, Soweto, acronimo di South West Township. Qui ci si immerge nella storia dell’apartheid e delle sue conseguenze, ancora ben visibili. Una delle sue vie più famose è Vilakazi street, in cui hanno abitato due prestigiosi sudafricani, entrambi premi Nobel per la Pace, l’arcivescovo Desmond Tutu e Nelson Mandela, la cui casa è stata trasformata in un museo che descrive i suoi anni di lotta e di clandestinità.

(© Silvia C. Turrin)
(© Silvia C. Turrin)

Non distante dalla casa museo di Mandela, tra Kumalo street e Moema street, è stato edificato il memoriale dedicato a Hector Pieterson, tredicenne nero ucciso il 16 giugno 1976. Per protestare contro l’introduzione dell’afrikaans come lingua veicolare di formazione scolastica venne indetta una manifestazione, presso l’Orlando Stadium di Soweto: migliaia di studenti (circa 20mila) sfilarono pacificamente per le vie della township, cantando inni di libertà e diffondendo slogan contro quella che definivano la lingua dell’oppressore. Quando i manifestanti si trovarono presso Vilakazi Street, ubicata vicino alla scuola di Orlando West, un contingente di polizia incominciò a lanciare gas lacrimogeni per dissuadere i giovani dal proseguire. Questi, anziché arrestarsi, risposero lanciando pietre. La polizia, senza esitare, reagì sparando sulla folla disarmata, uccidendo Zolile Hector Pieterson. Altri ragazzi morirono a seguito degli scontri e numerosi vennero feriti: la rivolta di Soweto, proseguita nelle settimane successive con il sostegno dei genitori degli studenti e dei lavoratori, si trasformò in un’ecatombe. Presso l’Hector Pieterson Museum si ripercorrono quegli eventi drammatici attraverso contributi multimediali e audiovisivi.

Sui passi di Gandhi

Lasciamo Johannesburg e la Provincia del Gauteng per spostarci verso Durban, la città più indiana del Sudafrica. Qui si incontra infatti una numerosa comunità di genti originarie dell’Asia. Un afflusso voluto in epoca coloniale dai britannici, per avere in loco manodopera destinata a vari lavori: dal settore agricolo (specialmente nelle piantagioni di zucchero) a quello dei trasporti (per la ferrovia Natal-Transvaal). Gli inglesi, che allora controllavano la zona chiamata del Natal (oggi KwaZulu-Natal), avevano anche bisogno di cuochi e domestici. Tra il 1860 e il 1911, agevolarono quindi l’arrivo di numerosi lavoratori provenienti dalle attuali regioni del Tamil Nadu, Andhra Pradesh, Uttar Pradesh e Bihar. Sì verificò poi un’ulteriore ondata di immigrazione proveniente dal Gujarat, formata da gruppi dediti al commercio.

A Durban e nell’area circostante la presenza indiana, col tempo, si è consolidata e accresciuta. Fu qui che Gandhi abitò. La sua casa, chiamata Sarvodaya, che significa «benessere per tutti», si trova a 25 chilometri dalla città, nell’area denominata Phoenix Settlement. Essa venne costruita nel 1904, e poi distrutta a causa dei tumulti del 1985. Ricostruita e inaugurata nel 2000, la casa è stata trasformata in museo, in cui sono raccontate, attraverso immagini e descrizioni, le sue battaglie pacifiche in Sudafrica. All’esterno troviamo altri pannelli sulla vita di Gandhi, mentre sotto un piccolo pergolato di paglia c’è un busto scolpito che lo ritrae.

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

L’eredità di Biko

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

Ci trasferiamo verso Ovest e raggiungiamo l’Easte Cape, direzione prima East London, poi King William’s Town. Questa cittadina era stata fondata come missione nel 1834 dal reverendo scozzese John Brownlee della Società dei missionari di Londra. King William’s Town non attrae molti turisti, quei pochi generalmente sono desiderosi di conoscere il luogo in cui nacque Stephen (Steve per gli amici) Biko, attivista anti-apartheid e «mente» del Movimento della Consapevolezza Nera. Biko, la cui storia è stata tratteggiata nel film Cry Freddom (Grido di libertà) del compianto Sir Richard Attembourough, era nato e cresciuto in una zona povera, Ginsberg, township di King William’s Town. Ancora oggi, chi visita questo sobborgo vede qua e là abitazioni fatiscenti, polli e ovini che scorrazzano nei giardini, e gente che compie chilometri a piedi.

Al numero 698 di Leightonville a Gisnsburg, si trova la casa dove Steve Biko visse e dove scontò la sanzione della messa al bando. Oggi trasformata in museo, inaugurato nel 1997, dall’allora presidente della Repubblica, Nelson Mandela. Al suo interno troviamo libri, documenti, teche e fotografie che tratteggiano non solo la vita di Biko, ma anche la nascita del Black Consciousness Movement (Bcm) e l’amicizia – raccontata nel film citato – tra lo stesso Biko e il giornalista Donald Woods. A Ginsberg sorge una sezione della Steve Biko Foundation (la sede centrale si trova a Johannesburg), i cui membri lavorano sia per diffondere valori quali il rispetto per la dignità umana e le diversità, sia per implementare progetti di carattere educativo e socio economico, al fine di contrastare la disoccupazione, molto alta nell’area di East London.

Nel 2012 è stato inaugurato un altro spazio dedicato a Biko, in cui vi sono un museo, un centro congressi moderno, una biblioteca e altre sale di ritrovo. Sempre a Ginsberg, alla periferia, merita un passaggio lo Steve Biko Garden of Remembrance, dove riposano le spoglie dell’attivista anti apartheid. È un luogo avvolto da silenzio. Qui, se si ascolta bene, si percepiscono gli echi di tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per la libertà che oggi il Sudafrica conosce.

Silvia C. Turrin




Myanmar storia millenaria porti e caserme


Enormi complessi militari. Vaste zone disboscate per le piantagioni di caucciù. Pagode disseminate ovunque e molto frequentate. Turisti e lavoratori stranieri in cerca di spiritualità, storia e opportunità economiche. Il Myanmar si ricollega al mondo anche attraverso mega progetti di sviluppo (poco sostenibile). Mentre la gente locale si ingegna per uscire dalla miseria. Terza e ultima tappa del viaggio di Claudia in Birmania.

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Moulmein, Mon State. In due ore di navigazione sul fiume, da Hpa An raggiungo l’antica Moulmein, prima capitale della colonia britannica. Mi fermerò alcuni giorni, la città è piacevole, ricca di pagode e moschee. Qui la foce del fiume si confonde col mare, che rimane nascosto da un’isola molto grande, visitabile solo con una guida. Nei numerosi villaggi si mantengono vive attività di artigianato molto antico.

Il padrone della guest house di Moulmein, una volta lavorava in miniera, come geologo. Quando ha perso il lavoro è entrato in depressione, come i suoi colleghi che ho incontrato a Loikaw. Si è quindi rivolto alla pratica buddhista della meditazione, e, nel momento in cui ha ristrutturato la bella casa di famiglia sul lungomare, costruita da un commerciante inglese nei primi anni dello scorso secolo, ha creato al primo piano una piccola cappella.

A pochi chilometri dalla città, vi è un centro di meditazione che attira gente da tutto il mondo. Dedico una mezza giornata alla visita di questo complesso di padiglioni, sale con colonnati, ville per gli ospiti. Tutto è immerso in un grande parco. La strada per arrivarci costeggia grandi complessi dell’esercito, delimitati da mura e immersi nel verde. Caserme, scuole speciali, ospedale militare.

Sul viale alberato che conduce alla sala di meditazione femminile, incontro Vivien, califoiana, che mi dà i primi ragguagli: «Qui bisogna restare almeno dieci giorni. La vita è dura, sveglia alle 4,30, colazione alle sei, pranzo alle 10,30, poi nulla fino al mattino successivo. Sei sessioni di meditazione al giorno, si dorme e si mangia gratis, il luogo è finanziato dalle donazioni. Immagino siano cospicue, vista la cura con cui è mantenuto l’elegante complesso».

Ritoo in città e passo in cattedrale per salutare il vescovo Raymond Ray Po, che avevo conosciuto 20 anni fa. Anche lui ha i capelli grigi come me, ma il sorriso sul suo largo viso di Karen è sempre dolcissimo. Giustamente è stato coinvolto nelle trattative di pace con le tribù ribelli, che hanno portato al cessate il fuoco.

La cittadina di Ye

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti, anche il vescovo, mi avevano detto di evitare la cittadina di Ye, troppo calda e poco interessante. Però io devo sostarvi per interrompere il lungo viaggio verso Dawei (conosciuta anche come Tavoy). Lascio Moulmein attraverso un territorio completamente disboscato per fare spazio a vaste piantagioni di alberi di caucciù. Certo deve essere un privilegio appartenere alla casta che comanda e possiede queste proprietà, nonostante pare siano in crisi per il crollo dei prezzi.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Al mio arrivo scopro che Ye è una città vivace, con un bel lago, tante pagode dorate e alberi maestosi. Trovo alloggio da David, un americano della Florida, arrivato due anni fa dalla Thailandia dove viveva con Winnie, originaria di questa provincia, e la figlia di sei anni, Emma. Non desidera ritornare in patria. Ha comprato una casa con vista sul lago e la sta trasformando in guest house. Mi trovo bene, con la bambina che gioca e la moglie che cuce a macchina davanti alla mia stanza. Arrivano altri ospiti: Laura è una giovane americana che sta viaggiando da mesi in Oriente alla ricerca di luoghi di meditazione. Due settimane fa il padre l’ha raggiunta a Bangkok da una cittadina dello stato di Washington. Si fermeranno solo un giorno perché l’anziano padre ha problemi di salute ed è costretto a ritornare a Bangkok.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Mentre David taglia piastrelle per finire il bagno, scendo in paese e trovo piacevole anche il tessuto urbano, fatto di case di legno curate, botteghe, pagode e monasteri. Verso sera mi fermo sul marciapiede davanti al monastero delle monache dove una donna scodella mohinga (la zuppa tradizionale a base di pesce, cipolle e legumi) in ciotole e sacchetti per una fila di clienti che la porteranno a casa. Mi siedo al tavolo con altre dame e comunichiamo a gesti. Quando mi alzo per pagare, scopro che la mia vicina lo ha già fatto per me ed è sparita.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Hpa An e Ye sono due nomi insoliti di due città che ricorderò legate a momenti magici, con gente laboriosa e ospitale.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti sono al lavoro, nei cantieri stradali, nei campi, nelle piantagioni, e vedo un certo benessere, dovuto a queste attività.

La sera David insegna inglese ai giovani che ne hanno bisogno. Ha a disposizione un’aula del liceo, dove sono presenti anche due insegnanti locali, desiderosi di collaborare. Coinvolgono anche me, Laura e il padre, professore di inglese in un college. Siamo felici perché sentiamo interesse da parte di questa gente, da tanti anni chiusa al mondo.

I bambini ci stanno a guardare dalle porte aperte sulla via e alla fine della lezione ci travolgono con il loro entusiasmo.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Fisheries

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Stamattina, andando in stazione, ho incontrato Soe Soe, un farmacista molto gentile. Mi invita a casa sua, e conosco la moglie cinese e i tre ragazzi. Soe Soe ha studiato a Yangon e si è laureato nel 1988. Oggi è sabato e, non avendo impegni, mi propone di andare alle fisheries (le pescherie). Usciamo da Ye in moto e attraversiamo le risaie oramai secche, e file di palme da zucchero, con le scale di bambù che consentono agli uomini di arrampicarsi per raccogliere il succo. Ci avviciniamo alla costa dove vengono fatti seccare i gamberetti su grandi teli azzurri. Le donne li lavorano con un rastrello. I ragazzi riempiono sacchi e li caricano.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Entriamo nel villaggio dove Soe Soe è molto conosciuto perché lo rifornisce di paracetamolo. C’è un forte odore di pesce secco. In un capanno le donne fanno la prima selezione di gamberetti. Passiamo alla sala macchine dove si separa la polpa dal guscio, che viene poi tritato per fae mangime o concime. In un altro capanno buio rimbomba un suono di martelli. Le ragazze battono i filetti di pesce secco. Qui si usa far seccare anche le meduse, utili per una certa zuppa.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Quando mi vedono, le ragazze si aprono al sorriso, scompare l’aria mesta che avevano prima, ma continuano il lavoro.

Nel porto canale si sta lavorando per riparare le barche dei pescatori che trascorrono la stagione della pesca al largo, su grandi zattere di bambù, molto rudimentali. Come unico riparo, una piccola tenda. I pescatori vengono rifoiti di acqua e cibo dalle barche di appoggio.

A Dawei (© Claudia Caramanti)
A Dawei (© Claudia Caramanti)

Pasqua a Dawei

Lascio Ye la mattina di Pasqua (2015, ndr), insieme a Laura e Maury. La strada è in rifacimento. La stanno allargando, e il lavoro è intenso. Dobbiamo guadare i numerosi fiumi in secca perché i ponti in cemento devono essere ultimati. Per la prima volta vedo anche pale meccaniche al lavoro: fin’ora, per la costruzione di strade, avevo visto solo ragazzine che portano ceste di pietre.

A Dawei si dovrebbe realizzare il progetto di un porto profondo che consentirebbe alle navi container di evitare lo stretto di Malacca e Singapore. Una zona industriale sarà collegata alla Thailandia da un’autostrada, già in costruzione: Bangkok è molto vicina. La regione del Thanintharyi, in cui mi trovo, è strategica, molto ricca di risorse naturali, e la sua gente è attiva e laboriosa.

Aprile è uno dei mesi più caldi, e Dawei si prepara per il «water festival» (la festa delle acque), che tra una settimana avrà qui la sua celebrazione più festosa.

Prima di lasciare questa città giardino dalle belle case coloniali, in cui palazzi e alberghi ne stanno già cambiando l’aspetto, vorrei trovare la chiesa cattolica, e non è facile. Seguendo musica e canti, trovo il tempio indù dove è in corso una processione. Alcuni carri decorati sono trascinati da uomini che hanno uncini agganciati al dorso e alle guance. Non vedo segni di ferite, ma è impressionante. Proseguo verso la moschea, incontro musulmani biancovestiti e chiedo loro indicazioni. Loro sanno dove si trova la chiesa di Nostra Signora del Soccorso, dietro il mercato coperto, nascosta da alberi frondosi.

Padre Matthew sta preparando nel cortile la cena di Pasqua per i donatori che sostengono il convitto per 120 studenti provenienti da villaggi remoti, abitati da Karen che, anche qui, hanno sofferto le violenze dell’esercito governativo. Ho chiesto se fosse possibile trovare una bici in affitto, e una donna mi ha ceduto la sua per mezza giornata. Non ha voluto denaro, poi ho saputo che ha il marito malato in casa, lavora di giorno, e la sera apre una cucina sul marciapiede accanto alla sua abitazione. Ho cenato da lei: un piatto di noodles per pochi centesimi.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Maung Ma Kan

Impossibile costeggiare il mar delle Andamane: gli estuari dei fiumi lo impediscono. Con un moto taxi dobbiamo superare le colline per arrivare a Maung Ma Kan, il villaggio di pescatori dove trovo alloggio da Julien e sua moglie Zema, una giovane, intraprendente signora di Dawei. Julien è francese di stirpe contadina, nato in un villaggio del dipartimento della Lot. Sin da piccolo il nonno lo aveva portato a pescare nei torrenti. Il mare era lontano, allora, ma la tecnica appresa e la passione per la natura gli sono serviti quando ha deciso di trasferirsi in Thailandia.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Appena è stato possibile, la coppia ha lasciato Phuket, dove si erano conosciuti, e da otto mesi hanno aperto un piccolo ristorante con qualche capanno ombreggiato da palme e circondato da uno spazio verde vicino al mare. La lunga spiaggia grigia è bordata da una fila di casuarine (piante tipiche della zona, ndr) e tettornie di bambù per le merende delle famiglie.

Mare basso, acqua calda, riesco a fare nuotare le due bambine che vivono con Zema e Julien. Hanno perso la mamma, forse è andata in Thailandia a lavorare, non ho capito. Chiamano Zema zia, e me nonna. Pyiu Pyiu ha dieci anni, Elisa ne ha appena compiuti tre.

Il villaggio di Maung Ma Kan ha un grande mercato dove la mattina robuste dame preparano cibi squisiti per la colazione. Il settore del pesce è interessante, con grossi molluschi che fuoriescono dalle conchiglie, le nere aquile di mare, i barracuda, i pesci seccati. Tutto è esposto per terra.

Da noi arrivano alcuni giovani francesi e due ragazze di Monaco, gente simpatica con cui parlare la sera. Si fermano pochi giorni e con le moto vanno a cercare le spiagge remote, di sabbia bianca con le rocce. Vanno verso Sud e anche verso Nord dove, a dieci km da qui, dovrebbero iniziare i lavori per il porto di Dawei.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Julien dubita che sia possibile realizzare un porto profondo in questo mare sottile.

Sono arrivati i russi. La sera li vedo scaricare grosse sacche nere da un pullmino, poi cenano al tavolo sotto la pergola, separati da noi. Due di loro mi sembrano guardie del corpo, sono giganteschi, muscolari. Uno ha uno sfregio sul viso: inquietante. Gli altri due sono normali ma ben solidi, tipo Putin. Rimangono qui quattro giorni per la pesca d’altura, fatta col fucile in apnea. Julien li porta alle isole in barca e ritorna la sera sfinito, con le prede e il filmato. L’ultima sera riesco a parlare con loro: lo sfregiato non è quasi mai uscito dal bungalow. Vengono da Irkutzk, in Siberia, abitano in Cambogia, sono stanchi di Sihanouk-ville, e stanno cercando un mare ricco e un posto tranquillo.

Ingenuamente, parlando di Siberia, cito un libro di Dostoevskij che sto leggendo, non ne sanno nulla e neppure conoscono Tolstoj.

Claudia Caramanti
(terza puntata – fine)

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)




Guatemala misericordia e new media


Dopo gli anni dell’orrore e dei massacri, padre Rigoberto si impegna nel recupero della memoria storica. Per una pace effettiva. Aperto sul fronte della comunicazione, utilizza la radio e i social media. Fino a essere chiamato a capo del dipartimento di comunicazione delle conferenze episcopali latinoamericane.

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Ordinato 22 anni fa, padre Rigoberto Pérez Garrido, guatemalteco, ha lavorato a lungo nella diocesi del Quiché, nel Nord Ovest del suo paese. Una delle regioni più martoriate dal conflitto armato durato 36 anni (1960-’96). La guerra civile guatemalteca ha visto il confronto tra diversi governi militari e la guerriglia. È stata particolarmente sanguinosa per la popolazione civile, causando 200.000 morti e almeno 450.000 rifugiati in Messico.

Parroco di piccole comunità, come quella di Nebaj, padre Rigoberto si è integrato nella pastorale dei diritti umani, partecipando al progetto di Recupero della memoria storica cornordinato da monsignor Juan Gerardi.

«La diocesi del Quiché fu militarizzata, e soffrì tutti i problemi tipici di una guerra. Restò senza guida, perché il vescovo, monsignor Juan Gerardi dovette andare in esilio in Costarica, e pure diversi missionari dovettero partire a causa della repressione crudele che la Chiesa stava vivendo negli anni ’80. Le chiese parrocchiali e le cappelle furono chiuse o distrutte da squadristi e militari.

Nel 1987 fu nominato vescovo monsignor Julio Cabrera Valle. Questi iniziò un lavoro di recupero della Chiesa e lo fece a partire dalla ricostruzione umana e sociale delle comunità. Invitò esperti di pastorale, sacerdoti, religiose e religiosi da diversi paesi del mondo, che si integrarono nella missione. In questo modo fu possibile essere presenti, nei diversi luoghi della diocesi.

Durante il periodo più duro, era rimasto solo un sacerdote guatemalteco, originario del Quiché, che sopravvisse perché protetto dalle comunità. La guerra si intensificò, con costi sociali molto alti e pesanti limitazioni ai diritti umani della gente.

Il processo di costruzione della pace iniziò nel 1986 con il primo “governo civile”, e la creazione della Costituzione della Repubblica, che voleva superare la dittatura iniziata negli anni ’40».

E qui la Chiesa assunse un ruolo molto importante.

«La Chiesa fece mediazione tra le parti, per assistenza, appoggio al processo di pace, che stava nascendo. Monsignor Juan Gerardi toò nel paese. Era partito perché aveva subito tre attentati e le squadre della morte dello stato lo avevano sequestrato. Si inserì nella diocesi di Città del Guatemala e creò l’ufficio dei Diritti umani dell’arcivescovato. Lavorò con mons. Pròspero Penado del Barrio e fu parte della commissione di vescovi, con il cardinal Rodolfo Quezada Toruño, come delegati della Conferenza episcopale al processo di pace».

E arrivò la pace

Monsignor
Padre Rigoberto Pérez Garrido durante l’intervista con Paolo Moiola.

Quindi nello specifico si trattava di aiutare le vittime della guerra. Ma non solo.

«Fin dal 1994 si intensificò una pastorale di difesa dei diritti umani – prosegue padre Rigoberto -. Nel 1996 furono firmati gli accordi di pace. Monsignor Gerardi guidava questo settore in quanto era un conoscitore speciale, diretto, delle preoccupazioni di tutta la gente che aveva vissuto la repressione.

Il lavoro consisteva nell’accompagnamento di rifugiati, sfollati interni, ritornati, nel contatto con rifugiati all’estero, soprattutto in Centro America. Facendo tutto questo dal punto di vista dell’impegno della Chiesa per il Vangelo, come attività pastorale.

Alla fine del 1994 si propose che la Chiesa creasse la Commissione per il chiarimento storico, con mons. Gerardi alla testa, iniziò così il Progetto del recupero della memoria storica (Remhi, Recuperaciòn de la memoria històrica). Voleva essere uno studio, un’analisi, sulla situazione reale che il paese aveva vissuto per valutare quale potesse essere la via per la pace, e per aprire il cammino al processo di riconciliazione, che era necessario.

Dal ‘95 al ‘98, si aggiunse anche il lavoro della commissione ufficiale di chiarimento storico delle Nazioni unite che riprendeva il lavoro di quella di Gerardi. Il 24 aprile 1998 fu pubblicato il risultato della ricerca Guatemala nuca mas (Guatemala mai più). Cinque tomi su impatto, meccanismo dell’orrore, storia, nomi delle vittime. Furono il prodotto del lavoro realizzato da 700 animatori della riconciliazione, che raccolsero testimonianze e interviste. Monsignor Gerardi fu assassinato il 26 aprile, appena due giorni dopo».

Un sacrificio importante, che fa di questo vescovo un martire.

«Mons. Gerardi, alla presentazione del lavoro aveva detto: “Conoscere la verità fa male ma senza dubbio è un’azione salutare e liberatrice”. Lui conosceva i pericoli e i rischi, ma tutti ne vedevamo la necessità. I vescovi impegnati in questo lavoro continuarono a essere convinti che non era stato un cammino sbagliato, e neanche un sacrificio senza senso. Quel lavoro apriva un percorso per le nuove generazioni in Guatemala. Fu un lavoro profondamente evangelico.

Da lì continuammo con altri impegni, come il processo di recupero di resti dei morti durante la guerra. E ancora si incrociavano testimonianze arrivate da diversi luoghi del paese e dall’estero. Potemmo accedere agli archivi Usa. Si fecero anche altri studi, sulla militarizzazione, sui cimiteri clandestini. Fu una cosa che realizzai io con una squadra. I risultati furono impressionanti. Monsignor Cabrera disse che il Guatemala, e il Quiché in particolare, sono un unico enorme cimitero clandestino. Vivevamo su un territorio pieno di fosse comuni e resti di vittime del conflitto armato».

Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)
Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)

Un lavoro difficile ma necessario

«Creammo squadre tecniche di esumazione, per restituire i resti alle famiglie e favorire una riconciliazione che portasse a una pace reale. Era la richiesta della popolazione ed era l’aspetto centrale della nostra azione pastorale. Difficile da soddisfare, perché richiedeva strumenti tecnici e legali.

Le squadre erano composte da membri della società civile. Le prime esumazioni furono paradigmatiche perché mostrarono la dimensione delle violazioni dei diritti umani. Volontari giunti da Europa, Usa, Messico e Centro America, furono parte di queste équipe, insieme a gente indigena delle comunità. Io stesso andavo con loro scavando nelle fosse, recuperando i resti, le ossa. Ma avevamo molta paura di fare questo lavoro, perché si lavorava su braci ancora accese.

Infatti, nel 2002, a Nebaj, mi incendiarono la casa parrocchiale e, nello stesso periodo, monsignor Cabrera fu trasferito. Lui era quello che aveva sposato maggiormente la teologia indigena. Tutto questo ci indebolì. Ma cercammo di reagire in modo positivo. Realizzammo una marcia e una consultazione a livello delle comunità, per valutare se avevamo fatto male qualcosa e cambiare. La popolazione ci confermò il cammino che stavamo facendo».

Cotzal - memoriale (© JuanjoSagiPhoto)
Cotzal – memoriale (© JuanjoSagiPhoto)

La potenza della comunicazione

E da lì nacque in padre Rigoberto l’idea di utilizzare i mezzi di comunicazione per promuovere la pacificazione.

«Con l’appoggio di un gesuita esperto nei media realizzammo una prima radio comunitaria, allo scopo di parlare di riconciliazione, costruzione della pace, evangelizzazione e accompagnamento.

Iniziammo la ricostruzione della casa parrocchiale, che fu molto più grande, con uffici di servizio, e una biblioteca. E pure la costruzione di cappelle, che erano state bruciate durante la guerra per castigare le comunità cristiane e mettere in crisi la loro fede. Costruimmo circa 70 cappelle.

Nel 2008 il nuovo vescovo mi chiese di tornare a Santa Cruz (capoluogo del Quiché), in una piccola parrocchia, e mi incaricò della radio diocesana.

In seguito abbiamo creato la rete di radio cattoliche del Quiché, con l’idea dell’unificazione per avere più forza. Iniziai a dare un appoggio alla comunicazione a livello nazionale. Poi mi incaricarono dell’ufficio comunicazione sociale della Conferenza episcopale guatemalteca. Ero parroco a San Antonio Ilotenango. Cominciai a partecipare agli incontri centro americani sui media, dove insistevo sulla questione dell’integrazione o “comunione” delle piattaforme delle diverse conferenze episcopali, per avere direttrici chiare di comunicazione che aiutassero alla costruzione della vita, come aveva fatto monsignor Romero».

Così nell’estate del 2015 lo hanno chiamato come segretario esecutivo del dipartimento di comunicazione e stampa del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), e si è trasferito a Bogotá.

«Il Celam è un organismo di comunione delle Chiese latinoamericane attraverso le conferenze episcopali. Ci occupiamo di comunicazione intea, divulgazione di quello che il Celam fa. Comunicazione istituzionale, ma anche su quello che la Chiesa vive in ogni paese, al servizio del popolo».

Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)
Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)

L’importanza dei new media

A livello di America Latina c’è una grande diffusione dei nuovi media. Le nuove tecnologie, gli smarthphone, i social network, sono entrati nell’uso comune della gente. Il loro ruolo si affianca a quello dei media tradizionali, come la radio, molto seguita in queste latitudini.

«Le nuove tecnologie facilitano molto, rendono un poco “pazza” la vita perché fanno aumentare il numero di cose da fare, però permettono di lavorare superando gli spazi.

Questi sono strumenti di comunicazione, ma l’importante è cosa e come le persone comunicano. Non si può dimenticare che è tutto un processo di sviluppo.

È importante che i media “tradizionali” abbiano uno spazio in quelli nuovi, come radio, tv e giornali sono presenti in internet.

Ci dobbiamo chiedere: come i media possono servire al mondo, alle società, ai paesi? Quale efficacia hanno nella costruzione o distruzione della vita? Per scatenare guerre o costruire la pace, per promuovere uno sviluppo degno o per rafforzare il sistema di disuguaglianza che produce sofferenza?

Quelli della comunicazione sono gli strumenti privilegiati con i quali possiamo costruire un mondo migliore, la società sognata da tutti noi che abbiamo un cuore umanitario.

Sulle nuove tecnologie, che rendono possibile la comunicazione immediata, dobbiamo contare e dobbiamo imparare a utilizzarle al meglio, nel tentativo di costruire i migliori contenuti, necessari per ogni ambito umano.

Per l’America Latina, questi media sono importanti. Producono un risveglio enorme. C’è una riflessione profonda che sta accompagnando lo sviluppo dei new media. Perché essi possono prendere direzioni che invece di aiutare, attaccano la vita. Per questo è importante analizzare il loro sviluppo e prendere coscienza che stiamo comunicando, ma anche come questi media devono intervenire in politica, società, economia. È una realtà da valutare costantemente.

Facebook e Twitter e altri social network sono potenti in America Latina. Si può dire che la rivoluzione tecnologica sta generando una democratizzazione dei media. Arrivano a un numero sempre maggiore di persone e inoltre generano una comunicazione a doppia via. Le reti sociali, danno spazio a ogni persona, che può uscire dall’anonimato. È evidente che i media non devono considerare la popolazione solo come consumatori, per questo parliamo di umanizzazione dei media».

Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)
Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)

L’attenzione del Papa

«I media possono creare comunione. La Chiesa cerca di andare al loro ritmo, affinché il Vangelo sia annunciato anche attraverso di essi.

Il messaggio per la giornata mondiale della comunicazione, intitolato quest’anno “Comunicazione e misericordia”, affronta un tema centrale e attuale rispetto alla situazione mondiale.

Il Papa parla dell’importanza dei media digitali, che si stanno sviluppando sempre di più, e ha invitato ad abitare la strada digitale, il mondo digitale, che è ormai un nuovo mondo di interrelazioni e comunicazione, anche molto complesso. Sono già milioni i bambini, giovani e adulti che sono costantemente connessi tra loro senza conoscersi, magari solo attraverso un’immagine. Sono nuove realtà, che ci sfidano. Dobbiamo entrare nelle questioni, tenendo conto del fatto che possono trasformarsi in incontri pericolosi, ma anche in spazi in cui il Vangelo può essere la notizia che ci umanizza, ci permette di relazionarci con i valori di comunione, frateità, solidarietà e dignità umana».

Anche in Guatemala, il mondo digitale è «abitato».

«Sì, sempre di più. Abbiamo molti vescovi che usano Facebook. Per ora in modo spontaneo e per fare esperienza. Inizialmente abbiamo paura di tutto quanto è nuovo, che ci costringe a relazionarci in una maniera distinta rispetto a prima. Pian piano però impariamo questo nuovo modo di vita.

In Guatemala i bambini e i giovani comunicano con questi mezzi.

A Nebaj, fino a pochi anni fa, non c’erano neppure i telefoni fissi: solo poche case lo avevano. Poi iniziarono i telefoni pubblici. I bambini che scendevano dai villaggi della montagna, non avevano mai vito un apparecchio, e quando scorgevano qualcuno parlare in un telefono pubblico ridevano, perché sembrava che parlasse con un pezzo di ferro. Poi apparirono i cellulari e le comunicazioni si moltiplicarono.

In seguito abbiamo aperto uno spazio internet, e da quel momento la comunicazione è diventata sorprendente. Per la gente questo spazio è stato importante. Ad esempio pensando alla questione delle migrazioni, esso ha ravvicinato coloro che sono andati a lavorare negli Usa con chi è rimasto. La gente piangeva quando, tramite Skype, facevamo vedere loro i parenti lontani. Tenendo conto che queste persone stanno via anni senza poter ritornare. Ecco come questi sistemi hanno una valenza umana».

Guatemalan new President Jimmy Morales (L) waves next to his wife Hilda Marroquin during his inauguration ceremony in Guatemala City, on January 14, 2016. Morales, a former TV comic elected Guatemala's new president on a wave of public revulsion against widespread graft, took office in a ceremony attended by leaders from the Americas. AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA / AFP / LUIS ECHEVERRIA
Guatemalan il nuovo presidente Jimmy Morales (L) con sua moglia Hilda Marroquin durante la cerimonia di inaugurazione in Guatemala City, il 14/01/2016. / AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA

Guatemala il presidente attore

Il Guatemala vive un periodo politico particolare. Il presidente Otto Perez Molina è stato arrestato con gravi accuse di frodi. E questo anche in seguito a grandi manifestazioni pacifiche dei movimenti sociali guatemaltechi.

Si sono poi tenute le elezioni a settembre 2015 e, a sorpresa, è stato eletto l’attore comico Jimmy Morales, che si è insediato il 14 gennaio scorso.

«A inizio 2015 ci si rese conto che il presidente e la sua vice erano a capo di una struttura, chiamata “la linea”, che frodava tra il 50 e il 60% delle entrate tributarie della nazione e lo ripartivano tra di loro, creando un forte impatto negativo sul paese. Grazie al valore del direttore della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig) dell’Onu e di un pubblico ministero colombiano si sono potuti smascherare.

Il processo fu appoggiato dalla cittadinanza, che iniziò a scendere in piazza, ad aprile, in modo pacifico e costante. Fino a ottenere un fatto unico nella storia del Guatemala, ovvero il cambio di queste figure e il processo giudiziario. Le manifestazioni sono state convocate dai giovani, attraverso le reti sociali e appoggiate dalle università, diversi settori civili e dalla Chiesa.

La cittadinanza che manifestava stabilì criteri chiari, e si applicarono meccanismi per assicurare manifestazioni pacifiche e attive, nel senso gandhiano, per non dare pretesti alla violenza e quindi alla repressione. C’era un servizio d’ordine di persone che giravano in bicicletta per vedere se tutto era a posto.

All’inizio la partecipazione fu timida, ma poi fu crescente. Fu utilizzata musica, arte, poesia, creatività.

Furono convocate le elezioni e la cittadinanza, cercava un cittadino retto, corretto e onesto, che occupasse temporaneamente la carica di presidente, affinché ci fosse tempo per costruire strutture politiche. Ma il rischio era rompere lo stato di diritto. La gente non sapeva chi eleggere e Jimmy Morales, attore senza alcuna esperienza nel settore, è il risultato di un contesto di delusione profonda della gente per la politica.

C’è una coscienza della popolazione, che è cresciuta, ha superato la paura e sta cercando nuovi percorsi per la ricostruzione del sistema nazionale. Ma c’è ancora molto da camminare».

Marco Bello

 

MC e il Guatemala:

gennaio 2013, Simona Rovelli;
maggio 2011, Paolo Moiola;
luglio 2009, Ermina Martini;
– marzo 2004, Paolo Moiola (un precedente incontro con padre Rigoberto).




Ecuador. Microfoni appassionanti

 


Diritti, cittadinanza, dignità, diversità, sviluppo sostenibile sono le principali parole d’ordine di «Radialistas Apasionadas y Apasionados». I «Radialistas» non sono un’emittente, ma un centro di produzione di programmi radiofonici a contenuto sociale ed educativo, distribuiti – gratuitamente – in tutta l’America Latina. Siamo andati a trovarli nella loro sede di Quito.

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Quito. La prima cosa che si nota all’apertura della porta è una folta barba sale e pepe. Appartiene a José Ignacio López Vigil, cubano dalle molte esistenze. Siamo nella sede di Radialistas, un’associazione senza scopo di lucro nata nel 2001 per produrre e distribuire programmi radiofonici su tematiche sociali ed educative.

«Radialistas, sì – ci fa subito notare il padrone di casa -, ma anche Apasionadas y Apasionados». «Quando presentammo il nome ci dissero che era troppo lungo. Noi rispondemmo che era lungo come la nostra passione e i nostri obiettivi». Una passione che per José Ignacio nasce e cresce negli anni successivi all’abbandono di Cuba da parte della sua famiglia.

Restituire la parola

«Al terzo anno della rivoluzione castrista – racconta -, le cose iniziarono ad avvelenarsi. Venivano dette nefandezze di ogni tipo sul futuro della gente e del paese. Mio padre, che era giornalista, come tanti altri cattolici entrò in panico e ci portò tutti in Spagna».

Qui José decide di entrare nella Compagnia di Gesù. Va in Repubblica Dominicana, in Venezuela, in Ecuador. Nel 1973 diviene sacerdote gesuita. A Santo Domingo chiede e ottiene di lavorare in una radio, che da tempo è divenuta una sua passione.

«Un giorno alcuni contadini vennero a domandarmi di essere intervistati perché un latifondista aveva rubato loro la terra. Lo feci e il giorno seguente mandai in onda il servizio, che mi costò l’immediata cacciata dall’emittente. Quell’esperienza costituì per me il punto di svolta. Mi accorsi del potere della parola popolare quando si fa forte. Restituire la parola alla gente comune è senza dubbio la missione più importante di qualsiasi radio che si definisca comunitaria».

José Ignacio si sente stretto nelle vesti di sacerdote. Esce dalla congregazione e torna a casa in Spagna. «Lì, assieme a mia sorella Maria, anche lei uscita dal proprio ordine religioso (e oggi caporedattore a Envío, la rivista dell’Università Centroamericana di Managua), scrivemmo Un tal Jesús, uno sceneggiato radiofonico sulla vita di Gesù di Nazaret nell’ottica della teologia della liberazione». La radionovela, scritta nel 1979 e registrata nel 1980, è una bomba. Una bomba di critiche e di successi.

«La mandammo in onda – racconta José Ignacio – per la prima volta nel 1981, in Costa Rica. Ben presto il presidente della conferenza episcopale latinoamericana, Alfonso López Trujillo, inviò un prete domenicano per investigarla. Venne stroncata. A quel punto, tutte le conferenze episcopali, dal Messico in giù, condannarono l’opera, senza averla ascoltata né letta. Eravamo accusati di aver fatto un danno alla fede e soprattutto alla gioventù latinoamericana».

L’ostracismo dei vertici ecclesiastici non ferma però la diffusione della radionovela. Tanto che, ancora oggi, a distanza di 35 anni, Un tal Jesús viene trasmessa da emittenti di molti paesi. O viene scaricata (con audio e testi) dai siti di Radialistas.

La «passione» costa

José Ignacio lavora in vari paesi latinoamericani, sempre al seguito della sua passione per la radio. Nel 2001, assieme ad altre tre persone, fonda Radialistas Apasionadas y Apasionados, divenendone il cornordinatore.

«Produciamo micros – noti anche come radio clips – di 4-5-6 minuti. Alcuni più drammatici, altri più umoristici. Poi, attraverso internet, li inviamo a emittenti dell’America Latina e del Caribe. In pratica, siamo un centro di produzione che alimenta la programmazione di moltissime radio».

I temi trattati vanno dai diritti di cittadinanza alle relazioni di genere, dallo sviluppo sostenibile alle tecniche di abilitazione radiofonica. Scorrendo il vasto archivio di Radialistas, si scoprono lavori di altissima valenza educativa. Ad esempio, i 10 capitoli sul tema degli abusi sessuali ai danni dei minori (No al abuso sexual infantil). Oppure i 5 di Sueños rotos (Sogni infranti), sceneggiato radiofonico dedicato al problema della gravidanza delle bambine. La vicenda di Jessica e Roni – drammatica, ma molto comune in tutti i paesi latinoamericani – viene raccontata con delicatezza e partecipazione emotiva.

Né viene dimenticata la storia latinoamericana. Come i 20 capitoli di 500 años, basati su «Le vene aperte dell’America Latina», il capolavoro di Eduardo Galeano.

Se affrontare queste tematiche è difficile, ancora più complicato è trovare i soldi per portare avanti i progetti. «Sì, i costi sono alti – conferma José Ignacio -. Per fortuna, quasi la metà del nostro bilancio è coperto dai finanziamenti di Cafod, un’organizzazione cattolica inglese, che fa parte di Caritas Inteational e che mai ha cercato di condizionare il nostro lavoro. Il resto lo dobbiamo trovare noi attraverso la vendita di alcuni servizi: seminari di formazione, corsi online, pubblicazione di guide, sempre con riferimento alla comunicazione radiofonica».

Tra le guide sul «fare radio» e sull’«insegnare a fare radio» ci sono quelle firmate da José Ignacio, come Manual urgente para radialistas apasionados e Pasión por la radio. Libri posti in vendita per l’autofinanziamento, ma al tempo stesso scaricabili gratuitamente da internet.

Lavorando per molti paesi, lo sforzo di Radialistas non poteva limitarsi alla lingua spagnola. E così la maggior parte dei testi sono tradotti anche in portoghese. «E?poi – precisa José Ignacio -, nella nostra piattaforma internet chiamata “Radioteca”, nata nel 2006, si trovano gli audio di moltissime produzioni, che sono quindi ascoltabili in vari idiomi, dal portoghese all’inglese, fino ad alcune lingue indigene, come quechua, aymara, guarani, mazteco e altre ancora».

Da donne a protagoniste

La produzione più recente di Radialistas riguarda la trasformazione in radionovela di «Laudato si’», l’enciclica di papa Francesco dedicata al dissesto ecologico del pianeta. Una realizzazione che ha coinvolto molte persone: soltanto gli interpreti che hanno dato la loro voce ai protagonisti (uomini, animali, piante, elementi naturali) sono stati una trentina. A dirigere il tutto è stata Tachi Arriola, una peruviana di Iquitos, tutta verve e sorrisi, che lavora a Radialistas fin dalla fondazione, occupandosi principalmente di diritti della donna.

«Io credo – ci spiega con un ampio sorriso – che la comunicazione, per essere democratica, non soltanto debba comprendere le donne, ma anche il loro protagonismo. Le donne, cioè, sia come fonti d’informazione che come attrici. Dato che la comunicazione è potere, noi cerchiamo di utilizzare questo potere per diffondere i diritti». Anche quelli più controversi e dibattuti come i diritti sessuali e riproduttivi.

Sul tema, Tachi ha da poco terminato Comunicación de colores, una guida multimediale, con testi e video, sul come trattare, dal punto di vista giornalistico, le diversità sessuali. Una scelta molto coraggiosa in paesi dove il sentimento machista è ancora una solida realtà e l’omofobia assume spesso connotati violenti. Il primo capitolo inizia così: «Siamo diversi, valiamo allo stesso modo» (Somos diferentes, valemos igual).

«Io credo – commenta Tachi – che se le donne sono escluse e violentate, lo sono ancora di più le persone omosessuali e transessuali».

Liberare la cultura

José Ignacio ci accompagna a vedere lo studio di registrazione, che sta nello stesso appartamento: è una sala insonorizzata con alcuni microfoni, un computer e un mixer. «Ecco, in questa piccola stanza facciamo le registrazioni.  Tutte le nostre produzioni le mettiamo poi in internet con derechos compartidos. Perché noi non crediamo nel copyright, brutta invenzione del capitalismo. La cultura non deve essere confinata, ma liberamente distribuita».

È, questa, una delle tante sfide che ogni giorno Radialistas si trova ad affrontare. Con molta fatica, ma sempre con un’enorme passione.

 

Paolo Moiola
(fine 6.a puntata – continua)




Iran donne ai tempi del mehrieh

 


«E date alle vostre spose la loro dote», recita il versetto 4 della Sura IV. Questa dote si chiama «mehrieh» e sta causando qualche problema. Diario (sorprendente) dalla quotidianità iraniana.

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Teheran. Sono passati trentasette anni da quel gennaio del 1979 in cui lo scià abbandonò il paese. Trentasette anni di potere teocratico, in cui la Guida spirituale e il clero hanno avuto a disposizione ogni possibile mezzo per educare generazioni di iraniani secondo i migliori dettami della religione islamica: il pieno controllo su scuole, università, mezzi d’informazione, manifestazioni pubbliche, leggi. E un capillare apparato di propaganda. Trentasette anni sono un periodo sufficiente per trarre un bilancio. Chissà quali benefici risultati hanno avuto sulle giovani generazioni l’azione congiunta di tutte queste forze, nonché l’esempio personale e la parola di migliaia di religiosi presenti in tutte le istituzioni.

Sul vagone delle donne

Un mio giovane conoscente mi ha confidato: «Quando incontro una ragazza spesso mi trovo in imbarazzo, non riesco a capire se ci siamo già visti prima. Per me sono tutte uguali, non distinguo le facce: stesso trucco, stesso naso». Siamo a Teheran, la capitale, ma il discorso può valere anche per le altre città del paese.

Lavorando lontano da casa, ho la necessità di utilizzare spesso il metrò per lunghi viaggi da un capo all’altro della città, e salgo regolarmente sui vagoni riservati alle donne, all’inizio o alla fine di ogni treno. Mi sfilano davanti decine di volti, soprattutto di ragazze. Gli iraniani sono una nazione giovane e il popolo del metrò conferma questa tendenza: le persone di una certa età sono una netta minoranza, di anziani se ne vedono pochi. Con i miei cinquantasei anni mi trovo nella fascia alta, tra le passeggere che dovrebbero essere oggetto di una certa attenzione; i capelli brizzolati che spuntano dal foulard, le rughe e le borse sotto gli occhi non lasciano alcun dubbio.

Sulla banchina, in genere parecchio affollata, le persone in attesa tentano di disporsi in corrispondenza dei punti in cui si apriranno le porte del treno. Quando mi capita di trovarmi davanti alla porta, prima di salire tento sempre di fare uscire le passeggere, ma mi tocca sopportare una notevole pressione da dietro e sui fianchi, e mi succede anche di sentire irate esortazioni da parte di chi vorrebbe, invece, entrare subito per accaparrarsi un posto. C’è sempre qualcuna che scappa in avanti e, a forza di spintoni, si fa largo tra il flusso contrario. Mi è capitato spesso, scendendo, di trovarmi ad affrontare un simile arrembaggio. Una volta, mentre cercavo di sfondare il muro di passeggere in entrata per guadagnare l’uscita, ho infilato il piede nell’intercapedine fra vagone e banchina, e sono caduta indietro lunga distesa. Ho temuto seriamente di venire travolta. Fortunatamente non è stato così e ne ho riportato solo un grosso livido alla gamba.

L’accaparramento dei posti è frenetico, la turba delle donne si riversa dentro e, in un attimo, ogni posto è occupato, anche quelli non previsti, perché qualcuna, ancora in piedi, chiede a quelle sedute di stringersi e da sei posti se ne ricavano sette. Le vedo ora lì sedute, studentesse di scuola o universitarie per lo più, trentenni, quarantenni, qualche cinquantenne; indossano stretti spolverini, o ampi chador neri, larghe sciarpe appoggiate appena a metà testa, o severi maghnaè (sorta di foulard-passamontagna, stretti sotto il mento), labbra rosse, fondotinta, occhi cerchiati di matita nera, mascara a badilate, sopracciglia curatissime e ripassate col colore. I nasi sono quasi tutti piccoli e regolari, qualcuno è coperto da una spessa garza. Credo che non ci sia posto al mondo in cui ci si sottoponga con più frequenza a operazioni di chirurgia estetica per rifarsi il naso: le donne, come gli uomini. Ma la mia attenzione di solito cade sulle unghie dagli smalti sgargianti, quadrate, rotonde, a punta, a volte di una lunghezza inquietante. Come si fa a vivere, a lavorare, con unghie così? Come deve essere limitata la sfera delle attività consentite e quanto tempo ci deve volere per mantenerle così perfette! Chi se lo può permettere? Nella casa dei genitori è forse possibile condurre un’esistenza a misura di simili unghie, ma poi? Così, in previsione di lasciare il nido paterno, le ragazze si mettono alla ricerca di un buon partito.

Per evitare la polizia religiosa

Le questioni di cuore ormai sono diventate questioni di soldi. Ci si cerca e sceglie secondo parametri ben precisi: si guarda con che macchina vai in giro, che cellulare hai in mano, come sei vestito. Nelle strade alla moda dei quartieri residenziali a Nord di Teheran, dove si concentrano i milionari locali, il giovedì sera (il nostro sabato sera) si fanno le «vasche» con le automobili. Funziona così. Se sei ricco/ricca prendi la macchina del papà, altrimenti te ne fai prestare una da un amico/amica benestante. Così, al volante dell’ultimo modello di Mercedes, Bmw, Land Cruiser, ti metti a girare in cerca di qualcun altro/altra al volante di un’auto altrettanto prestigiosa. Quando lo/la trovi tiri giù il finestrino e avviene lo scambio dei numeri di telefono. Questo sistema ti evita di essere fermato per strada dalla polizia religiosa, che vigila affinché non avvengano contatti tra coppie non sposate, e ti assicura che la persona con cui ti incontrerai poi in un luogo privato disponga di una buona base economica.

Naturalmente, qui siamo ai punti più alti della scala sociale; non tutti sono in condizione di fare le «vasche» con la Mercedes, ma il principio della ricerca di una buona sistemazione attraverso il matrimonio è prioritario per tutte le classi sociali.

L’origine del mehrieh

La legge islamica prevede che il contratto di matrimonio contenga obbligatoriamente l’indicazione di un regalo, mehrieh, che il marito s’impegna a fare alla moglie. Mehrieh può essere una somma in denaro, una proprietà, o altri beni, come oro, giornielli, ma anche oggetti di uso quotidiano. Sono l’uomo e la donna con le relative famiglie a stabilie l’entità e la natura. L’impegno può essere assolto dal marito all’atto del matrimonio, o rimandato a un momento successivo, di comune accordo. In ogni caso, la moglie in ogni momento della sua vita matrimoniale può chiedere di avere il suo mehrieh. Quando è nata, questa istituzione, che trae origine dal Corano («E date alle vostre spose la loro dote», recita per esempio il versetto 4 della Sura IV), aveva lo scopo di garantire alla moglie un aiuto in caso di divorzio o di morte del marito. Ciò era giustificato dalla tradizionale subordinazione all’uomo della donna, dalla sua esclusione dalle fonti di reddito, dalla sua penalizzazione nella divisione dell’eredità di famiglia, dalla sua inferiorità rispetto alla legge, che rende il divorzio più facile per il sesso maschile. Il mehrieh, soprattutto se di valore consistente, è ancora visto come un mezzo per scoraggiare i mariti dal divorziare, perché in quel caso devono versare alla moglie quanto pattuito: l’obbligo è categorico e chi non lo assolve finisce in prigione. A parte che non pare una buona idea legare a un ricatto la tenuta di una relazione, e compensare con il denaro le anacronistiche sperequazioni stabilite dalla legge islamica nei confronti delle donne, vediamo quali risvolti ha assunto oggi questa istituzione.

Il peso delle monete (d’oro)

Fino alla generazione dei miei genitori, in Iran i divorzi erano una rarità, ma ciò non vuol dire che i mehrieh fossero ingenti. Al contrario. Al tempo la cosa era vista più come una formalità piuttosto che come il procacciamento di una rendita da parte della moglie. Tanto è vero che le donne non pensavano di fae richiesta e il suo valore era spesso puramente simbolico. Lo stesso vale, più o meno, per la generazione seguente, vale a dire le famiglie formatesi a cavallo della rivoluzione e negli anni immediatamente successivi. Dagli anni Novanta il numero di divorzi ha preso gradualmente a salire, mentre cresceva l’entità del mehrieh. Si è anche stabilita la consuetudine di definirli in termini di monete d’oro. Il numero delle monete d’oro che la futura moglie chiedeva di indicare nel contratto matrimoniale ha cominciato a lievitare: cento, duecento, trecento, mille! È partita una gara al rialzo, la consistenza del regalo promesso dal marito è diventata oggetto di vanto e segno di eccellenza. Una figlia non doveva avere meno dell’altra, l’amica meno dell’amica. Semmai di più. È addirittura diventato di moda chiedere un numero di monete d’oro corrispondente all’anno di nascita della donna. Quest’anno il calendario islamico segna 1394: se si segue questo criterio, il conto diventa molto salato. Le carceri si sono riempite di uomini impossibilitati a pagare. Altri hanno tentato la fuga all’estero. La fuga, tuttavia, non mette al riparo la famiglia del marito, che deve rispondere, per quanto può, in vece del congiunto. Tanto che il governo è dovuto intervenire con una legge che ha portato a 110 il numero massimo di monete esigibili dalla moglie, se il marito non è in grado di dare di più. Al prezzo attuale dell’oro, si tratta di circa 27.500 euro, in un paese dove lo stipendio medio è intorno ai 350 euro. È stato anche cancellato il rischio del carcere per il marito che dimostri di non poter pagare in un’unica rata il debito. Lo pagherà con modalità decise dal tribunale. Ciononostante, il numero dei divorzi è cresciuto in modo impressionante, soprattutto negli ultimi dieci anni. Le statistiche ufficiali dicono che l’anno scorso a Teheran ogni 100 matrimoni si sono registrati 70 divorzi. Questo indica che i soldi non tengono insieme una coppia, al contrario possono diventare proprio il motivo della sua separazione. Sono molte le donne che, dopo le nozze, si rivolgono al tribunale per avere un mehrieh che il marito non è in grado di pagare. Inutile dire che questo tipo di richieste hanno come esito il divorzio. Di storie simili se ne sentono spesso. Un mio conoscente, chiamiamolo Abbas, ha recentemente celebrato le nozze del figlio. Qualche tempo fa lo incontro. Non è più lui, sembra invecchiato di dieci anni. Decide di sfogarsi. Dopo quattro mesi di matrimonio la giovane nuora ha citato in giudizio il marito per avere il mehrieh. Quando Abbas ha tentato di far ragionare la ragazza è stato investito da una serie di oscenità. «Non ha avuto nessun rispetto dei miei capelli bianchi, mai sentito niente del genere». Abbas fa il tassista, la sua non è una famiglia benestante. Si può ben capire che una simile richiesta li abbia messi in crisi.

È chiaro che questa visione commerciale del matrimonio non porta buoni frutti. Un altro mio conoscente, chiamiamolo questa volta Jafar, e la moglie Mahnaz erano sposati da una decina d’anni, anche se il ménage era pesante. Non c’erano problemi economici, lui guadagnava bene: una macchina a testa, cellulari, vestiti quanti se ne volevano, viaggi anche all’estero, ma, finito il primo periodo di attrazione, i due avevano scoperto di avere poco da dirsi e solo l’abitudine li teneva insieme. Ognuno godeva della propria indipendenza. Lui si ricavava lo spazio per passare tempo con gli amici e corteggiare altre donne. Lei aveva le amiche, civettava con altri uomini, andava a trovare la sorella all’altro capo del paese, aiutava la madre che aveva un negozio di abbigliamento. Da tempo entrambi pensavano al divorzio, Mahnaz si comportava in modo da indurre Jafar a prendere l’iniziativa, così avrebbe avuto l’intero mehrieh e in più gli alimenti che l’uomo deve continuare a pagare alla moglie se è lui a voler divorziare. Jafar, invece, faceva di tutto per spingere la moglie a liberarsi di lui chiedendo il consenso al divorzio, così si sarebbe negoziato sul mehrieh, come poi è avvenuto. Adesso Jafar versa all’ormai ex moglie, a titolo di mehrieh, l’equivalente di una moneta d’oro al mese (ne avrà per cento mesi), convive con un’altra donna e non ci pensa proprio a risposarsi. Mahnaz abita con la madre, anche lei divorziata, ed è in cerca di un marito ricco. Questa volta dovrà accontentarsi di un vedovo, o di un divorziato, magari con figli. Nessun altro se la prenderà.

Sempre più donne scoprono che il mehrieh può diventare un buon business. Ci si sposa e poi lo si esige dal marito, oppure si chiede il divorzio. In questo caso, la donna deve rinunciare a una parte di mehrieh. Mentre, se il matrimonio non è ancora stato consumato, il suo valore è ridotto del 50%. Certo, il marito deve acconsentire, ma si può trovare il modo per indurre l’uomo ad accettare. Ogni tanto le cronache riportano storie di donne che sposano diversi uomini in poco tempo, solo per accumulare mehrieh.

È anche per questo che la durata media dei matrimoni è scesa precipitosamente: il 30% dei divorzi avviene entro un anno dalle nozze. Chi è reduce da un divorzio, poi, ci pensa bene prima di risposarsi e le convivenze aumentano.

Maria Chiara Parenzo*
(fine prima parte – continua)

* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia, vive e lavora in Iran.

Archivio MC:
Angela Lano, L’Ayatollah e il presidente, dossier, in MC agosto-settembre 2013;
Maria Chiara Parenzo, Ogni giorno è Ashura, in MC marzo 2014.