Timor est piccoli imprenditori crescono


Un piccolo paese, indipendente dal 2002, con appena 1,2 milioni di abitanti, in maggioranza cattolici, cerca di uscire dalla povertà e dall’isolamento. Vi raccontiamo le storie di alcuni giovani imprenditori locali.

«Adoro cucinare all’aria aperta. Mi piace che le persone possano vedermi mentre preparo i miei piatti. Questo crea un rapporto più diretto tra me e loro». A bordo di un pick up di seconda mano Cesar Gaio passa le sue giornate lungo le ventose strade che costeggiano il mare di Dili, fermandosi nelle zone più affollate per vendere deliziosi wrap. Una piccola cucina a gas montata sul retro del furgone gli basta per preparare questi sandwich fatti con morbido pane basso arrotolato intorno a un ripieno di patate dolci viola e pesce fresco. La scritta «Dilicious Timor» che si legge sulla fiancata del camioncino è la stessa che si trova sull’insegna del piccolo ristorante che ha aperto alcuni mesi fa, sempre vicino alla costa, nella capitale di Timor Est. E anche nel suo locale vengono serviti esclusivamente piatti preparati con prodotti freschi del luogo.

Cesar Gaio ha 32 anni, le idee chiare e la voglia di costruire qualcosa di stabile per sé e per il suo paese. È uno dei sempre più numerosi giovani imprenditori che, tra mille difficoltà, hanno deciso di scommettere sulle risorse e la popolazione locale per avviare attività che possano trascinare l’isola in cui è nato e cresciuto fuori dal baratro del sottosviluppo e della povertà in cui secoli di dominazione portoghese e 25 anni di occupazione indonesiana l’hanno sprofondata. La sua storia, raccontata dal sito latestnews24, dimostra che gli abitanti di Timor sono chiamati ad affrontare quotidianamente problemi di ogni sorta ma non hanno perso la speranza nel futuro.

Un caffè da Gally

L’anno scorso Gally Soares Araujo ha lasciato il suo ben retribuito lavoro da impiegato statale e, con i soldi messi da parte, ha aperto Kaffe Out, un piccolo bar costruito con mattoni rossi che offre diversi tipi di pregiati caffè, accompagnati da torte di carota e altri dolci, nel centro di Dili. A 29 anni Gally ha sentito il «bisogno di iniziare a fare qualcosa di mio». E siccome a Timor Est l’industria del caffè ha un enorme potenziale ancora poco sfruttato ha deciso di investire in questo settore. Nel suo locale, arredato in modo essenziale e colorato, particolarmente richiesta è la miscela prodotta nella zona del Monte Rameleau, che con i suoi 2.962 metri è la montagna più alta di tutta l’isola (curiosità: in passato è stata la vetta più alta di tutto l’Impero portoghese). Nella lingua locale, il tetum, il rilievo è chiamato Tata Mailau, che significa letteralmente «Il nonno di tutti». «Il particolare microclima della zona consente di coltivare un eccellente caffè, che ha un aroma molto particolare», ha spiegato Gally alla Bbc. «Penso che si possa veramente dare un contributo al cambiamento di cui il paese ha bisogno. Quando le Nazioni Unite hanno concluso la loro missione di pace nel 2012 abbiamo capito che avremmo dovuto iniziare da soli a ricostruire. Ed è quello che stiamo facendo».

Invasione straniera

Non tutti gli imprenditori hanno scommesso sul settore del cibo e della ristorazione. Rui Carvalho ha utilizzato i suoi risparmi e ha venduto alcuni terreni di famiglia per aprire nel 2009 Rui Collections, una boutique di moda made-to-order. L’azienda produce principalmente tais, un panno di cotone tradizionale che viene utilizzato per confezionare abiti, scarpe e borse. «Quando vedo le donne che vivono nelle zone rurali, che non sanno leggere, non sanno contare e non hanno neppure gli strumenti per produrre il tais mi accorgo di quanto sia difficile la strada che abbiamo davanti», ha sottolineato Rui nel corso di un’intervista a latestnews24. «Ma sono molto orgoglioso di quello che sono riuscito a realizzare fino ad ora con tanti sacrifici». L’imprenditore ha 42 anni e da quando ha avviato la sua attività ha potuto assumere più di una dozzina di dipendenti, in maggioranza vedove, giovani che avevano abbandonato la scuola e persone in difficoltà.

Quella di Carvalho è stata una scelta particolarmente coraggiosa in un paese in cui l’80% degli 1,2 milioni di abitanti vive di agricoltura, quasi sempre di sussistenza, e meno di 200mila persone hanno un impiego effettivo. Ma anche gli altri «colleghi» devono dimostrarsi molto determinati, essendo chiamati a fronteggiare difficoltà enormi collegate alla povertà diffusa, alla carenza di infrastrutture e alla mancanza di istruzione. Ostacoli cui si è aggiunto nell’ultimo periodo quello della concorrenza proveniente dall’estero.

La catena statunitense Burger King, ad esempio, ha deciso di raddoppiare entro i prossimi cinque anni i punti vendita presenti sull’isola, portandoli a otto. Beard Papa, franchising giapponese specializzato in bignè alla crema, ha appena aperto un negozio a Dili e ne avvierà altri quattro a breve. L’australiana Gloria Jean’s Coffee ha in programma di espandere la sua per ora modesta presenza e anche l’olandese Heineken ha iniziato le procedure per costruire una fabbrica di birra in loco. La speranza degli imprenditori stranieri è quella di attrarre non solo i turisti ma anche gli abitanti più giovani, inevitabilmente influenzati dallo stile di vita e di consumo occidentali.

Basta paura e rassegnazione

Filipe Alfaiate gestisce Empreza Diak, un’organizzazione che ha trascorso gli ultimi cinque anni cercando di incoraggiare l’imprenditorialità locale come una forma di cambiamento sociale. Secondo lui il popolo di Timor Est ha davanti a sé una sfida epocale, quella di riuscire a creare un’economia di mercato in grado di reggersi sulla domanda intea. Impresa di per sé non facile per un paese così piccolo, e resa ancora più complicata da decenni di sfruttamento da parte di potenze straniere che hanno contribuito a rendere le persone rassegnate e avverse a ogni tipo di rischio.

«Dopo tutto quello che hanno passato, gli abitanti di Timor preferiscono aggrapparsi a quello che già hanno. Questo li porta nella maggior parte dei casi a scegliere la sicurezza di una paga mensile, per quanto misera, piuttosto che assumersi il rischio legato all’avvio di una nuova attività», ha sostenuto Alfaiate alla Bbc.

Negli ultimi tempi però la situazione ha iniziato a cambiare. «I giovani hanno cominciato a capire che non ci sono abbastanza posti di lavoro per tutti. La metà della popolazione dell’isola ha meno di trent’anni e quindi una mentalità più aperta rispetto alle precedenti generazioni. Sempre più persone si stanno orientando verso scelte imprenditoriali, assumendosi dei rischi per avviare nuove attività che possano portare a un cambiamento e a uno sviluppo».

Per Alfaiate il primo scoglio da superare è proprio di tipo culturale. «Serve un grande cambiamento nel modo di pensare. Per secoli gli abitanti di Timor sono stati abituati a coltivare i campi, producendo cibo appena necessario al proprio sostentamento». Il piccolo sviluppo dell’economia avvenuto di recente è stato legato quasi esclusivamente al turismo e alla presenza del personale delle Nazioni Unite. «Si importano cose e si vendono. Quello che è necessario sono invece persone pronte a scommettere sulle risorse e sui lavoratori del luogo. Per essere un imprenditore nella nostra isola serve un mix di grande talento, accesso al credito e sostegno a livello locale. Ci vorrà del tempo ma le cose si stanno muovendo nella direzione giusta. Ci sono possibilità di crescita concrete, anche se ancora limitate».

L’ottimismo di Alfaiate è confortato dai numeri. Florencio Sanches, il capo dell’ufficio governativo incaricato di registrare nuove imprese ha dichiarato, sempre alla Bbc, che i giovani imprenditori negli ultimi anni sono andati aumentando, anche grazie allo snellimento delle procedure burocratiche, che ha reso più facile per gli abitanti avviare un’attività. Dal 2013 sono state costituite 11mila nuove imprese, in grandissima parte proprietà di persone sotto i trent’anni, mentre nel lustro precedente le registrazioni erano state in tutto 5mila.

La vera svolta, però, secondo Sanches si vedrà solo se si riuscirà a garantire alla popolazione un più ampio accesso al credito. «Il governo dovrebbe impegnarsi a sviluppare politiche che incoraggino banche e istituti a prestare denaro alle persone». Servono tassi e condizioni agevolate per l’ottenimento di finanziamenti, «senza i quali a Timor non potrà mai svilupparsi un tessuto imprenditoriale abbastanza robusto per consentire la nascita di un’economia locale solida». Anche volendo però, l’esecutivo non potrà fare tutto da solo. «Abbiamo bisogno della partecipazione del settore privato. Devono essere studiate in breve tempo delle soluzioni, perché solo risolvendo questo problema potremo dare alla nostra isola la speranza di un futuro migliore».

Paolo Tosatti*


Cronologia essenziale

Dai portoghesi agli indonesiani

XVI-XX Secolo – Timor Est è sotto il dominio del Portogallo, che sfrutta l’isola a fini commerciali.

1975 – Il 28 novembre fazioni filo-comuniste presenti nel paese dichiarano l’indipendenza da Lisbona. A dicembre il timore di vedere un governo comunista indipendente all’interno dell’arcipelago indonesiano porta il governo di Jakarta a invadere Timor Est su vasta scala, con il supporto dei governi occidentali.

1976 – Il 17 luglio l’Indonesia dichiara Timor Est come la propria 27esima provincia con il nome di Timor Timur. Inizia un lungo periodo segnato da scontri tra l’esercito clandestino degli indipendentisti, le forze regolari indonesiane e le milizie civili anti-indipendentiste. Nei combattimenti vengono spesso coinvolti anche i civili.

1996 – José Ramos-Horta, rappresentante del Fretilin, il partito che conduce la lotta clandestina contro l’occupazione, si vede assegnare, insieme a monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, il premio Nobel per la pace per il proprio impegno in favore dell’indipendenza del suo paese.

1999 – Dopo oltre 20 anni di occupazione il 30 agosto gli abitanti dell’isola votano in favore dell’indipendenza in un referendum organizzato dalle Nazioni Unite. Timor diventa così la prima nazione a raggiungere l’indipendenza nel XXI secolo. Nel paese si scatena un’ondata di violenze che si interrompe solo a seguito dell’intervento della forza di peacekeeping Interfet («Inteational Force for East Timor») formata da 10mila uomini di 17 paesi, Italia compresa. Successivamente subentrano le Nazioni Unite con Untaet prima e Unmiset poi.

2002 – Il 20 maggio Timor Est diviene indipendente. Xanana Gusmão, leader del movimento di guerriglia indipendentista Falintil, viene eletto presidente.

2006 – Nel mese di marzo metà delle forze armate si ribella al primo ministro Mari Alkatiri, che le aveva forzatamente congedate. I soldati ribelli si rivolgono a Gusmão che, sconfessando l’operato del premier, assume il comando dell’esercito. Il paese precipita nella guerra civile. L’intervento di 2000 soldati australiani, 500 malesi e di alcune unità neozelandesi e portoghesi limita i danni nei confronti della popolazione.

2007 – Il Nobel Ramos-Horta viene eletto capo di stato. Xanana Gusmão diventa primo ministro.

2008 – L’11 febbraio un gruppo di militari ribelli tenta un golpe, attaccando Ramos-Horta, che resta gravemente ferito, e Gusmão, che esce invece illeso dall’attentato. Il colpo di stato non ha comunque successo.

2012 – Taur Matan Ruak, ex leader della guerriglia antindonesiana, viene eletto presidente.

2015 – Il 2 febbraio Xanana Gusmão rassegna le dimissioni dalla carica di primo ministro. Gli subentra Rui Maria De Araujo.

2016 – A fine marzo prende possesso della diocesi di Dili il nuovo vescovo Virgilio Do Carmo Da Silva.

Pa.To.




Brasile: l’aquila sul tetto


Padre Pietro Parcelli ha lasciato il Brasile nel 2014 dopo lunghi anni di servizio missionario. Per gli amici la parola «lasciato» è un eufemismo, perché di fatto il suo cuore è ancora là, più precisamente a Salvador, capitale dello stato di Bahia, dove, nella zona di Novos Alagados, anni fa ha aiutato a nascere il progetto «Kilombo do kioiô». Qui condivide alcuni ricordi di un viaggio compiuto nell’agosto 2015.

Quella mattina del 5 agosto, appena entrato a Kilombo, sono rimasto colpito da un uccello grande e robusto che dal tetto osservava ogni cosa con occhio sicuro e senza timore. Ho subito pensato che fosse un uccello rapace proveniente dal bosco vicino, parte del parco di San Bartolomeo, uno dei pochi resti della famosa «Mata Atlantica» (la foresta atlantica di cui si parla su MC 4/2016, pag. 22, ndr). Denys, la direttrice del Kilombo, che mi stava vicina, ha detto: «Vedi, è un’aquila». «Un’aquila? Da dove viene? – ho domandato io – È rara un’aquila da queste parti». «Sì, è un’aquila che viene dalla Mata Atlantica».

Dopo diversi mesi, l’immagine dell’aquila mi torna alla mente come una specie di simbolo che rappresenta in modo particolare gli ultimi 15 anni della mia vita.

Il cammino del Kilombo

È stato nel 1999 che sono sbarcato nella favela di Novos Alagados, nel territorio della parrocchia di São Brás, come un «estranho no ninho», un «uccello fuori dal nido». Accompagnato da un gruppo di giovani parrocchiani visitavo le famiglie. In mezzo alle palafitte, ponti di legno, viuzze, ho visto la fame. Nello sguardo timido delle matriarche, molte abbandonate dai mariti, scorgevo il pianto nascosto suscitato dalla notte che veniva senza aver niente da dare da mangiare ai bambini.

La povertà, la mancanza di strutture sanitarie e la fame mi hanno fatto alzare in volo, come l’aquila della Mata Atlantica, in cerca di soluzioni. E nel piccolo salone in fondo alla chiesa di Aparecida, in riva al mare, abbiamo cominciato a riunire il primo gruppo di mamme. Potevamo fare poco, ma quel poco doveva essere immediato e concreto: consegnavamo mensilmente una consistente cesta di alimenti e, allo stesso tempo, alimentavamo la fede delle famiglie invitandole alla celebrazione domenicale e a una riunione settimanale. È stato così che la Consolata ci ha mostrato che potevamo fare la differenza nella vita di quelle persone, con l’aiuto di amici e benefattori. Col sostegno a distanza di molte generose famiglie italiane abbiamo cominciato ad aiutare uno, due, anche fino a cinque dei figli di quelle mamme che non avevano mezzi per saziare le loro creature.

Siamo andati avanti così con entusiasmo. Ma il problema era enorme e il 2000 fu particolarmente duro. C’era il dubbio di non avere le ali adatte per un volo così alto.

Spiccare il volo

Il 2001 ha invece portato nuova energia. Il progetto cominciava a spiccare il volo: nasceva in un piccolo spazio il «Kilombo do kioiô».

I kilombos erano le comunità in cui si rifugiavano gli schiavi africani che fuggivano dai loro padroni quando il Brasile era dominio portoghese. Il kioiô è una pianta tipica della regione, usata nella medicina e nella cucina locale. In fondo al giardino della casa che avevano comprato per il progetto, c’era proprio una pianta di kioiô. Ecco battezzato il rifugio dove realizzare la nostra missione: offrire un destino differente a chi vive schiavo della fame, dell’abbandono, dell’ignoranza e della mancanza di prospettive.

La cesta di alimenti che offrivamo a molte famiglie era per loro una consolazione, e questo l’abbiamo potuto constatare in diversi momenti. Una mattina ero in macchina con due giovani, dopo aver consegnato la cesta a una mamma ammalata. A un certo punto, quattro giovani armati di pistola ci hanno fermati gridando di scendere dalla macchina. Sentivo le urla delle persone: «È il padre missionario, lasciatelo stare, è il missionario». I giovani che erano con me, pieni di spavento, mi hanno detto di uscire dall’auto e di buttare la borsa a terra. «Che c’è là dentro?», mi ha urlato uno degli assalitori. «Ci sono le cose per la Messa», ho risposto. Dopo aver dato un calcio alla borsa si sono dileguati.

Insegnare a volare

Quando il governo brasiliano ha iniziato il progetto «Fame zero», abbiamo capito che era arrivato il tempo di cambiare: non più distribuire cibo, ma insegnare a procurarsene. È nato così il gruppo di alimentazione che oggi conta quarantacinque mamme. Esse vengono nel Kilombo per imparare a cucinare e a fare pane, a confezionare torte dolci e salate. Il ricavato della vendita dei prodotti aiuta a mantenere le attività del Kilombo. È un’iniziativa che insegna un mestiere queste donne che guadagnano anche un po’ di soldini per mantenere la famiglia. Le spese delle materie prime e del centro sono in parte coperte da un contributo delle mamme, che ogni mese versano parte dei loro guadagni, e dalla generosità di benefattori e istituzioni che ci aiutano a portare avanti il lento cammino di formazione umana e professionale che coniuga rendimento e dignità.

Sotto le ali

Quasi tutte le donne con cui lavoriamo abitano in zone dominate dal traffico della droga. Da loro è venuta la richiesta di fare qualcosa per togliere i figli dalla strada. È così che nel 2011 abbiamo spiccato un altro volo, senza poter prevedere dove saremmo arrivati. È nato il doposcuola del Kilombo. Rispetto alla scuola statale, qui ogni attività è preceduta dalla preghiera e si svolge in un clima più dinamico e alternativo, stimolando la creatività. La preghiera è sempre rivolta alla patrona del Kilombo: Nossa Senhora Consolata.

La missione del doposcuola è di migliorare le conoscenze acquisite dai ragazzi nella scuola statale, perché il livello educativo nella zona è molto basso. È facile incontrare bambini che a dieci anni non sanno leggere né scrivere. E per evitare che la fame fosse un ostacolo alla resa nell’aula scolastica, abbiamo cominciato a offrire una merenda abbondante.

Il Kilombo segue direttamente 66 bambini divisi in cinque classi. Al mattino sono 32 ragazzi dagli otto ai tredici anni, divisi in due classi. Al pomeriggio sono 34 dai sette ai quattordici anni, distribuiti in tre classi. Ogni classe è accompagnata da un’insegnante e una vice. Le attività sono molto diversificate: mensilmente i bambini hanno lezioni di salute dentaria; sono visitati regolarmente da narratori di fiabe e storielle, importanti per i bambini; ricevono formazione su alimentazione, igiene e salute; sono addestrati al primo soccorso da volontari dell’Università Federale della Bahia; mentre gli insegnanti partecipano a corsi di aggioamento finanziati dalla Fondazione Roberto Marinho, sostenuta della Rede Globo, il più grande gruppo di radio e televisione del Brasile.

La capoeira

La capoeira è praticata con entusiasmo nel Kilombo. È un’arte marziale con un sistema di attacco e difesa di carattere individuale, molto simile a una danza. Bambini, adolescenti e giovani sono aiutati dalla pratica di questo sport a sfuggire alla droga e alla criminalità.

Durante la mia visita dello scorso agosto, guidato dal suono del berimbau, strumento a corda che è utilizzato per segnare il ritmo della danza, ho camminato con i ragazzi fino al parco S. Bartolomeo, un’area ricca di ricordi della cultura afrobrasiliana, localizzata a 500 metri dal Kilombo. Siamo arrivati alla cascata di Oxum (Oxum è un orixa, cioè una delle divinità del Candomblé, religione afro brasiliana), e là è iniziata la ruota della capoeira. Il canto degli uccelli si è sintonizzato con le battute dei tamburi, mentre i movimenti acceleravano in una sincronia perfetta. Per loro il cielo non sembra avere limiti.

Anche le nonne volano

Nel 2014 è arrivata una nuova ispirazione: coinvolgere nelle attività del Kilombo anche le nonne della comunità. Si è cominciato con una settimana di attività nel mese di luglio, mese dedicato alle nonne qui in Brasile. Il risultato è stato così entusiasmante che, nonostante la difficile situazione economica, abbiamo deciso di aprire le porte alle donne anziane. Sono quindici signore con più di 50 anni di età, che sono invitate a partecipare al progetto di alimentazione del Kilombo. È un tempo di terapia e socializzazione, attività molto importanti nella situazione di abbandono in cui vivono. Così abbiamo spiccato un altro volo.

Durante la mia visita della scorsa estate, in una casetta vicino al Kilombo, ho conosciuto Luzia, una giovane di 22 anni, cieca, con deficienza mentale e un solo polmone. Sua madre, donna Val, aveva preso la varicella quando era incinta della bambina. Nonostante il consiglio medico di abortire, ella aveva voluto aprire le ali e accogliere Luzia. Lo sforzo di accudire la figlia è immenso, ma l’amore vince ogni barriera. Val prepara la merenda per i bambini del Kilombo. A volte arriva un po’ in ritardo, ma nulla le toglie il sorriso e la sua volontà di vincere.

In un’altra visita sono andato a casa di Marta, una delle mamme del Kilombo. Il figlio Jomarley di dieci anni, con paralisi celebrale, è stato abbandonato dal padre. Marta si fa in quattro per dar da mangiare a Jomarley e Taiana di dodici anni.

I rapaci

Tutte queste attività, prima di realizzarle, sembravano un sogno davanti alla realtà in cui si trovava il Kilombo. E ancora di più oggi, davanti alla crisi del Brasile di questi ultimi mesi. Una nonna del progetto mi ha detto: «Prima con un real (moneta brasiliana) compravi sei panini, ora due». Ma nonostante i rapaci della crisi e dell’inflazione, vogliamo continuare a sognare nuovi voli.

Padre Pietro Parcelli, missionario della Consolata,
in collaborazione con Diniz Vieira, giornalista,
e Adenilza Cruz,  direttrice e cofondatrice del  Kilombo do kioiô.




Marocco: oltre l’Atlante


Da Marrakech alle montagne lussureggianti di vegetazione, alla valle delle rose, alle dune del deserto. Attraversando la catena montuosa del Grande Atlante. Un racconto di viaggio e di incontri, con una piccola lezione di tolleranza religiosa.

Hamed vive solo, su una duna del deserto dopo Touroug (villaggio berbero nella zona di Merzouga, regione di Meknès-Tafilalet, ndr), alle falde del Jebel Gougnant. I monti, intorno, del colore della sabbia, sono ricchi di fossili. Lui raccoglie le rocce e le spezza, liberando i preziosi reperti che dimostrano come queste zone un tempo fossero immerse nel mare. Oltre a lui, molti altri si dedicano alla stessa attività. Il commercio dei fossili è una delle risorse più importanti del luogo. Hamed, tuttavia, non li vende alle ditte che li portano nei redditizi mercati delle città. Attende i turisti che passano di qua e contratta con loro. Ha quindici anni. Di giorno lavora, la sera si ritira nella sua tenda che, bassa sulla sabbia, si intravede più in là, quasi al limite della duna. Anche noi, dopo aver trattato un po’, compriamo qualcosa.

Solidarietà berbera

Riprendiamo quindi il viaggio, a bordo del fuoristrada di Hassan, sul quale stiamo visitando questi luoghi, all’inizio del Sahara. Alla guida, tuttavia, oggi non c’è Hassan. Per impegni di famiglia, ha momentaneamente affidato noi e il suo prezioso mezzo al fratello più giovane, Abdullah.

Ci siamo accorti che, prima di lasciare Hamed, il ragazzo venditore di fossili, Abdullah ha confabulato un po’ con lui e si è preso una banconota. Gli chiediamo cosa si siano detti. «Hamed ha bisogno di pane – ci risponde Abdullah -, è rimasto senza. Mi ha chiesto di portargliene diverse pagnotte, e mi ha dato i soldi per pagarle. Ma sono molti di più di quelli che servono». «Quindi toerai da lui, più tardi», gli rispondiamo. Ma la guida ci fa osservare, ridendo, che è impegnata con noi e non può farlo. Senza che gli chiediamo altre spiegazioni aggiunge che ha promesso di portare l’ordine e il denaro ad alcuni suoi amici che compreranno il pane e lo porteranno ad Hamed con i soldi avanzati. «Dunque conosci bene Hamed», gli chiediamo. «No, non l’avevo mai visto prima». Nel deserto, spiega, tra i berberi, ci si comporta così. Chiunque, quando ha bisogno di qualcosa, sa di poter contare sull’aiuto degli altri. Non c’è neppure l’ombra del sospetto che uno possa approfittae, mancando di parola o abbandonando l’altro nel bisogno. «Io oggi lo aiuto perché lui ha bisogno di me, e so che, anche se non ci conoscevamo prima, quando ci incontreremo di nuovo, pure tra dieci anni, e fossi io ad avere bisogno di lui, Hamed si ricorderà di me e mi aiuterà».

«Io amo la vita»

Abdullah è un ragazzone espansivo e gioviale. Ogni volta che incrociamo un altro fuori strada che porta i turisti lungo queste piste, si scatena: strombazza, si sbraccia, lancia giorniose grida di saluto, rivolte agli autisti, che sono tutti suoi amici. Quando ne incontra qualcuno che lo è più degli altri, si ferma, incurante di noi. Lo stesso fa l’altro e i due si corrono incontro, si abbracciano, ridono e parlano rumorosamente tra loro. Del resto, non si vedono ogni giorno e i turisti possono ben pazientare.

Abdullah si lancia in spericolate manovre sul dorso delle dune. Sale, scende, compie giravolte degne di un campione. E ride tutto contento. «Io amo la vita», ci grida. Così anche noi ci lasciamo influenzare. Gli chiediamo i nomi dei radi alberi e delle splendide piante fiorite che incrociamo. Sulle prime gli diamo retta, ma poi capiamo che se li sta inventando: a ogni risposta, aggiunge squillanti risate.

Acqua nel deserto

In questo deserto sabbioso incontriamo tende davanti alle quali nonne magre, col volto asciutto e rugoso su cui sono ancora visibili i segni di una fiera bellezza, sorvegliano bimbi dagli occhi nerissimi e luminosi. Attendono le mamme, che si sono recate in un’oasi piuttosto lontana a lavare i panni.

Ogni tanto sono visibili le tracce di altri nomadi. Hanno lasciato qua e là, sotto piccole tettornie molto rustiche, dei vestiti, del cibo per gli animali, della legna accanto a bassi foi di mattoni essiccati al sole, sicuri che quando toeranno, troveranno tutto in ordine, conservato per la sosta. Non lontano da questi segni antichi si scorgono le condutture di un moderno acquedotto. Il Marocco sta cercando di portare l’acqua anche nel deserto. Con incentivi allettanti incoraggia i giovani a coltivare i terreni resi fertili. Nelle tappe precedenti del nostro viaggio abbiamo infatti visto ampie macchie verdi, in cui crescono cereali, viti, olivi, interrompere le zone aride.

«Il vero Marocco»

La giornata in giro con Abdullah è la quinta dal nostro arrivo in Marocco. Il viaggio è iniziato a Marrakech, dove siamo stati accolti da Hassan, l’esatto contrario dell’estroverso fratello. È serio, preciso, di poche parole. Da molti anni ha la responsabilità della famiglia, perché è il primogenito, e il padre, un beduino arabo, è morto che lui era ancora piccolo. Per mantenere la madre, che è berbera, e due fratelli, ha organizzato una propria agenzia di guide, che accompagnano i turisti desiderosi di conoscere il Marocco al di là della catena montuosa del Grande Atlante, abitato dai berberi: «Il vero Marocco», continua a ripeterci.

Questa è davvero una terra affascinante, dove si può conoscere un popolo antichissimo. I berberi sono considerati «autoctoni». Si sono adattati agli arabi, dopo che questi avevano conquistato le loro terre attorno al 683 d.C., e ne hanno assunto la religione, ma non la lingua e la scrittura, che ancora oggi difendono con orgoglio. Da alcuni anni hanno vinto la loro battaglia perché il berbero fosse riconosciuto come lingua ufficiale dello stato, accanto all’arabo, e insegnato nelle scuole. Di queste ne vedi in ogni centro urbano. Sono quasi sempre di recente costruzione, prova di un investimento notevole del governo che, negli ultimi anni, ha puntato sulla cultura e sui giovani per conquistarsi un futuro. L’istruzione in Marocco è obbligatoria per tutti. Le scuole sono aperte a maschi e femmine e le classi sono miste. Ma quando escono, al termine delle lezioni, i giovani si dividono secondo la tradizione, sui due marciapiedi opposti della strada.

Nella Medina di Marrakech

A Marrakech abbiamo alloggiato nella Medina (il quartiere antico, ndr), in un riad, abitazioni tradizionali urbane che un tempo ospitavano grandi famiglie. Parecchi riad, come il nostro, sono stati trasformati in piccoli alberghi molto suggestivi, curati, con un’ottima cucina. La Medina di Marrakech è bellissima, come tutti i centri storici delle grandi città marocchine. Vi spicca la moschea Koutoubia, il cui minareto segna la massima altezza cui possono giungere gli edifici modei.

La città è sorta nell’XI secolo in un’oasi in mezzo al deserto. Sullo sfondo spicca la catena montuosa del Grande Atlante e, intorno, il verde lussureggiante dei palmeti. La parte modea ha un aspetto molto ordinato, con grandi viali divisi da aiuole fiorite e contornati da case tutte della medesima altezza e dello stesso colore marrone: colore della terra, come abbiamo imparato nei giorni successivi. Tutte le costruzioni della regione berbera, realizzate con mattoni di terra cotti al sole.

Marrakech è la città residenziale e dei grandi alberghi dove si trovano le abitazioni dei molti europei che qui fanno affari o semplicemente vogliono godere di un ottimo clima. Yves Saint-Laurent (famoso stilista francese morto nel 2008, ndr) era uno di loro. Abitava in un palazzo che porta ancora il suo nome, il cui giardino, il Majorelle Garden, aperto al pubblico, è uno splendido «orto botanico» ricco d’acque, con piante rare provenienti da tutto il mondo.

La Medina, invece, racchiusa da possenti mura color ocra, si sviluppa attorno alla piazza Jamaa el Fna, centro vitale della città. Qualcuno, poco benevolmente, l’ha definita una scenografia cinematografica. In realtà, a parte i venditori di acqua, gli incantatori di serpenti, i giocolieri – improbabili figure tradizionali a beneficio dei turisti -, non c’è nulla di artificioso in questa spettacolare, enorme piazza contornata di caratteristici palazzi e animata da un’attività frenetica.

Lavoratrici di argan

Il giorno dopo, con Hassan, abbiamo attraversato il Grande Atlante. Il paesaggio ricordava quello delle nostre montagne: foreste di pini e lecci, prati fioriti, mucche e greggi al pascolo, centri abitati addossati alla costa. Non pareva di essere in Africa. Dopo il passo di Tizi-n-Tichka, che raggiunge i 2260 metri, abbiamo attraversato diversi paesi dove abbiamo incontrato cornoperative di donne che si dedicano alla lavorazione artigianale dell’argan. Vi si potevano trovare tutti i prodotti ricavati da questi semi, da quelli alimentari ai cosmetici ai medicamenti. La pianta di Argania spinosa è molto diffusa nel Sud del Marocco, in un’area che nel 1998 l’Unesco ha dichiarato «riserva della biosfera».

Acqua di rose

Al termine dei lunghi tornanti, abbiamo raggiunto la pianura. Era già deserto, pietroso e rosso, punteggiato di cespugli verdi e contornato, in lontananza, da alture. I centri abitati si confondono col paesaggio di cui ripetono i colori, ai quali si aggiunge il verde degli alberi, soprattutto acacie e ulivi, che vi crescono intorno. Superata Ouarzazate, a Sud Est di Marrakech, ci siamo diretti a Skoura lungo la valle del Dades che, dopo Kelaat Mgouna, immette nella sorprendente «valle delle rose». L’acqua del fiume permette di coltivare questo fiore che non eravamo preparati a incontrare in pieno deserto. Lo annunciavano ghirlande di petali, intrecciate a forma di cuore e appese agli alberi lungo la strada. Il paesaggio si faceva bellissimo, verde per la presenza delle migliaia di piante di rosa in mezzo alle quali crescono le più consone palme e le solite acacie. La rosa è la materia prima dell’economia locale. Si potevano visitare le piccole aziende artigianali che la lavorano, per produrre l’«acqua di rose»: bevanda, cosmetico e profumo.

Il nome di Dio

Abbiamo ripreso il viaggio e, verso sera, saliti sull’altopiano desertico che domina la città di Boumalne, siamo arrivati all’albergo in cui peottare. Mentre si faceva buio, dalla terrazza oata di rose rosse, la vista spaziava sulle case ocra della città, immerse nel crepuscolo dorato e, più in là, sulla vallata verde cupo circondata da montagne sassose. Era magnifica.

Il mattino ci siamo avviati a Tinerhir, che sorge in una grande oasi attraversata dal fiume Todra. Qui abbiamo conosciuto Rashid. Volevamo tentare l’acquisto di qualche prodotto artigianale. Così Hassan ci ha portati nel suo negozio. Ci ha accolti sorridente sulla porta d’ingresso, vestito dell’abito tradizionale berbero: una tunica blu, con una grande fascia bianca che scendeva dal turbante, anch’esso bianco, e si avvolgeva attorno al collo scendendo poi sulle spalle. Abbiamo ingaggiato con lui un’estenuante trattativa per un piccolo tappeto tuareg. Ci piaceva, oltre che per i colori, perché costruito con tre tecniche diverse di tessitura. La prova era dura e pareva non risolversi finché Rashid, stranamente, ha cambiato discorso, chiedendoci da dove venisse il berretto che tenevamo in testa. Ci siamo convinti che avesse abbandonato l’idea di concludere l’affare, visto che non cedevamo sul prezzo. Invece, sorprendendoci, ci ha detto che gli piaceva molto il berretto e che ci avrebbe venduto il tappeto accettando la nostra offerta se vi avessimo aggiunto anche quello. Si è messo a ridere. Abbiamo accettato la proposta e siamo diventati amici. Ci siamo poi abbandonati a discorsi impegnativi. Rashid, oltre che un uomo allegro e gioviale, si è rivelato molto colto. Abbiamo parlato di fedi e di religione, e ci ha dato una piccola e preziosa lezione. A un certo punto, infatti, alzando la mano destra, unendo l’indice e il pollice e tenendo diritte le altre tre dita, ci ha detto: «Vedi, in questo modo la mano indica il nome di Allah in arabo. Ma se la giro verso il basso, senza mutare la posizione delle dita, il nome di Dio diventa scritto in ebraico. Non c’è troppa distanza tra noi». Siamo rimasti affascinati e contenti. Rashid ha ripetuto un’idea che in Marocco, e nella regione dei berberi, si trova ben radicata: la tolleranza tra le religioni. Nella medina di Marrakech c’è ancora il quartiere ebraico, come anche in altre grandi città del paese. Si trovano pure chiese cristiane, soprattutto al Nord e nei centri della costa. Hassan non perdeva occasione, durante il viaggio, di dirci che lo stato riconosce libertà di culto a tutti, che è «laico» e tollerante, che non c’è, tra la sua gente, il «fondamentalismo religioso», come ci esprimiamo noi europei.

Paolo Bertezzolo
(fine prima parte)




Storia del Giubileo 8. Il giubileo snaturato

Messaggio giubilare per oggi

È chiaro che il Giubileo, com’è descritto nella Bibbia, non ha più senso se preso alla lettera, ma diventa un eccezionale strumento di fede e di vita se si cala nella condizione del tempo di oggi, sia nella dimensione dello spazio (terra) sia in quella del tempo (relazioni). Esso, infatti, non è l’occasione per una conversione morale intimistica, basata sull’accumulo di qualche «chilogrammo d’indulgenze» da riscuotere alla cassa della fine-vita, ma il «kairòs – occasione propizia» per prendere coscienza definitiva della responsabilità che abbiamo sia sul versante della distruzione annunciata della terra sia sul versante delle relazioni umane con l’estensione della povertà a livello planetario per colpa di processi economici e sociali perversi, cioè senza Dio, perciò disumani.

Non è un caso che a ridosso del Giubileo della Misericordia, papa Francesco abbia voluto pubblicare l’enciclica «Laudato si’» sull’urgenza di salvare la Madre Terra, la «casa comune», mai come adesso in pericolo per le scelte scellerate di progresso aggressivo e omicida che il capitalismo di mercato o di stato ha sviluppato perseguendo solo il profitto di pochi a danno del benessere di molti.

Il Giubileo esige in primo luogo un esame di coscienza profondo e radicale, poi una conoscenza di tutte le responsabilità individuali e collettive degli stili di vita che generano morte o distruzione, infine il proposito di convertirsi con azioni operative di segno opposto. Non basta recitare qualche preghiera per tranquillizzarsi la coscienza, è necessario sentire e scegliere di stare dalla parte di Dio che, per conto suo, sta sempre dalla parte di chi è più fragile ed emarginato.

Oggi sarebbe più che mai opportuno che almeno la Chiesa proponesse il condono dei debiti dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi che continuano a dilapidare ciò che non producono, ciò che non hanno. Occorrerebbe dichiarare forte la necessità di restituire la libertà a tutti i prigionieri per idee, religione, politica. Nessuno dovrebbe essere imprigionato per le proprie idee. Entrare dalla porta della Misericordia comporta un cammino da un modo di essere a un altro, passare da uno stato di autosufficienza (peccato di Àdam ed Eva) e di potere, a una volontà di scegliere «il bene comune» come orizzonte per le scelte in economia, in politica, nel sociale, nella vita di tutti i giorni, nelle piccole scelte come fare la spesa, usare l’automobile, evadere le tasse che sono condivisione della vita della comunità civile e così via.

Celebrare il Giubileo è la ripresa dell’invito di Gesù alla «conversione», in Mc 1,15 espresso con il verbo «metanoèite» che ha il significato profondo di «metànoia – cambiamento-di-pensiero». Graficamente si raffigura come un’inversione a U. Chi accetta di lasciarsi «convertire» mette in discussione il proprio «modo di pensare», cioè il nucleo più intimo di sé che presiede la coscienza e il comportamento. La conversione, infatti, non riguarda gli atteggiamenti o i comportamenti esteriori, ma il centro vitale e decisionale della persona, che la Bibbia chiama cuore, e noi coscienza: il fulcro da cui nascono le scelte di vita e i comportamenti

Convertirsi vuol dire modificare i criteri del pensiero per mettere in movimento un processo di relazione, descritto, sempre in Mc 1,15, con il termine: «pistèuete en t? euanghelì? – credete nel vangelo», dove «Vangelo» è sinonimo della persona di Cristo Gesù (cf Mc 1,1). Convertirsi e credere sono i due momenti dello stesso dono che sperimentiamo nella vita: entrare in comunione con Dio insieme a tutti i fratelli e le sorelle. Sia la conversione sia la fede non provengono dalla carne e dal sangue (cf Gv 1,13), ma dallo Spirito Santo che suscita in noi il desiderio di Dio e il modo di arrivarci. In questo senso, il Giubileo è non più il ristabilimento della proprietà della terra, ma del «principio» fondatore del nostro essere figli di Dio, sua immagine e somiglianza; ritornare al progetto iniziale di Dio che ha come mèta il suo regno, cioè un nuovo modo di relazionarsi lungo la storia per rigenerare una nuova umanità di uguali che viva in armonia con tutti e con Dio, specialmente con i poveri che sono i «beati» della nuova storia.

8. Il Giubileo snaturato

La prova di forza di Bonifacio VIII

Dedichiamo le terzultima e penultima puntata ad alcune pennellate sulla storia dei Giubilei «cristiani-cattolici» che non hanno niente in comune con l’idea del Giubileo biblico. Riserveremo l’ultima all’attualità cui ci richiama papa Francesco che ha indetto un anno straordinario nella cifra della «Misericordia» per celebrare i cinquant’anni della chiusura del concilio ecumenico Vaticano II. In questo modo il papa ha modificato la natura stessa del Giubileo, ma pochi se ne sono accorti.

Dalle crociate

Con l’avvento del Cristianesimo, cala il sipario sul Giubileo, non solo come cadenza periodica, ma anche come ideale. Dalla diaspora degli Ebrei dalla Palestina verso il mondo e dalla dispersione dei Cristiani nel mondo allora conosciuto, fino a Roma, divenuta il nuovo centro della nuova religione, bisogna aspettare il 1300 per sentire di nuovo la parola «Giubileo». Dodici secoli di silenzio non sono innocui e, infatti, quando Bonifacio VIII (Papa Benedetto Caetani) indice il primo Giubileo del II millennio cristiano, non c’è più alcun rapporto né con la Bibbia né con la tradizione giudaica.

Prima del giubileo del 1300 che apre la serie degli «Anni Santi», vi erano state alcune premesse significative, che accenniamo in poche battute. Nell’anno 1033, primo millennio della redenzione, si diffuse nel mondo cristiano la convinzione che, una volta completata la ricostruzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, verso cui si indirizzavano sempre più folle di pellegrini certe che la vicinanza al luogo supremo della cristianità avrebbe accordato la salvezza eterna, ci sarebbe stata la fine del mondo.

Papa Urbano II, da Avignone, nel 1095 bandì il primo pellegrinaggio armato, la «crociata», sia per proteggere i pellegrini verso Gerusalemme, sia per la riconquista del Sepolcro di Cristo, da circa venti anni caduto nelle mani dei Musulmani. La prima crociata, detta anche «dei Pezzenti» (1096), fu un totale fallimento. Già da quarant’anni (1054) si era consumato lo scisma d’Oriente con la scomunica di Papa Gregorio VII contro l’imperatore Bizantino Niceforo III e il Patriarca di Costantinopoli, Cerulario.

Il viaggio in «terra santa» diventò il pellegrinaggio per antonomasia per cui si misero per strada orde di delinquenti, assassini, ladri e falliti con il miraggio del «perdono totale», una volta giunti a toccare il Santo Sepolcro. Tutti furono invitati a partecipare «spontaneamente» alle crociate, liberando per un verso l’occidente della loro presenza, ma ponendo le premesse della violenza, del saccheggio, degli stupri e di ogni malefatta di cui le crociate furono portatrici. Il riformatore del monachesimo occidentale, Beardo di Chiaravalle (1090-1153), riteneva tranquillamente che la seconda crociata (1147-1149) fosse un «annus remissionis» e addirittura «annus vere jubilaeus», espressioni che lo stesso Papa Onorio III avrebbe poi fatte sue per la V e la VI crociata che sarebbero restate solo un pio desiderio.

… alla «Perdonanza»

Nel 1216 Papa Onorio III concesse un’indulgenza plenaria a Francesco di Assisi per tutti i fedeli che si fossero recati alla Porziuncola di Assisi il 2 agosto, equiparandola così a un pellegrinaggio capace di «lucrare» lo stesso beneficio (indulgenza plenaria) di chi partiva per la crociata, quasi a identificare la Porziuncola come una nuova Gerusalemme: «ad instar Sancti Sepulchri – a somiglianza del Santo Sepolcro». Lo stesso Onorio III nel 1220, nel cinquantesimo anniversario del martirio di Tommaso Becket (+ 29 dicembre 1170 a Canterbury), concesse l’indulgenza plenaria a quanti si recavano alla tomba del santo.

Circa settant’anni più tardi, Papa Celestino V (Pietro da Morrone), uomo spirituale e non avvezzo alle trame di palazzo e al mercato delle cose religiose, aveva avuto l’intuizione della «Perdonanza» con cui accordava la remissione dei peccati a tutti coloro che tra la sera del 28 e quella del 29 agosto di ogni anno (anniversario della sua elezione a papa) fossero entrati nella basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila, dove il Papa era stato incoronato e dove aveva fissato la propria residenza per essere lontano dalla curia di Roma, che egli giudicava luogo di perdizione.

Celestino, eletto nel 1294 dai cardinali che non riuscivano a trovare un compromesso tra le varie fazioni del patriziato romano, dopo appena quattro mesi, rassegnò le dimissioni, fuggendo verso Napoli e la Grecia, ma fu intercettato e fatto prigioniero dal suo successore (Caetani – Bonifacio VIII) che ne temeva i contraccolpi. Nel 1296 fu trovato morto nella sua cella, con grande sollievo di papa Caetani che così si liberò di una presenza ingombrante.

La novità della «Perdonanza» celestina consisteva nel fatto che fu concessa a tutti senza alcuna distinzione, purché fossero «veramente pentiti e confessati». In un tempo in cui spesso anche il perdono dei peccati e i riti religiosi erano oggetto di mercimonio e di tassazione in denaro, il gesto di Celestino fu rivoluzionario sul piano spirituale e il popolo, che comprese immediatamente, rispose. La «Perdonanza» celestina, ancora oggi, si pone al di fuori dei Giubilei «storici» sia per metodo che per contenuto, ma non può essere taciuta perché forse tra tutti, fino al Giubileo di Papa Paolo VI del 1975 (dopo ben sette secoli), fu l’unica che si pose un obiettivo esclusivamente spirituale e religioso senza altri fini di qualsiasi natura, specialmente di lucro.

Trenta Giubilei

Nella storia della Chiesa, dal 1300, giubileo di Papa Bonifacio VIII, fino al 2016, «Anno Santo della Misericordia» di Papa Francesco, si sono svolti trenta Giubilei, divisi in ordinari e straordinari. Papa Bonifacio VIII stabilì che il Giubileo fosse celebrato ogni 100 anni. Poi ci si accorse che un secolo era troppo e lo si portò a 50 anni, infine lo si ridusse a 25. Ecccone l’elenco cronologico come presentato da Alberto Melloni, Il Giubileo, una storia,
Editori Laterza, Roma-Bari 2015, 137-138.

1300  Bonifacio VIII (Benedetto Caetani)

1350  Clemente VI (Pierre Roger)

1390  indetto da Urbano VI (Bartolomeo Prignano),

aperto da Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1400  Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1423  Martino V (Oddone Colonna)

1450  Niccolò Quinto (Tommaso Parentucelli)

1475  indetto da Paolo II (Pietro Barbo), e aperto da Sisto IV (Francesco della Rovere)

1500  Alessandro VI (Rodrigo Borgia)

1525  Clemente VII (Giulio de’ Medici)

1550  indetto da Paolo III (Alessandro Faese, e aperto da Giulio III (Giovanni M. Ciocchi Dal Monte)

1575  Gregorio XIII (Ugo Boncompagni)

1600  Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini)

1625  Urbano VIII (Maffeo Barberini)

1650  Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili)

1675  Clemente X (Emilio Altieri)

1700  aperto da Innocenzo XII (Antonio Pignatelli), e concluso da Clemente XI (Giovanni F. Albani)

1725  Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini)

1750  Benedetto XIV (Prospero Lambertini)

1775  indetto da Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli), e aperto da Pio VI (Giovanni Angelo Braschi)

1825  Leone XII (Annibale Clemente Sermattei della Genga)

1875  Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti)

1900  Leone XIII (Gioacchino Pecci)

1925  Pio XI (Achille Ratti)

1933  Pio XI (Achille Ratti): anno santo della redenzione

1950  Pio XII (Eugenio Pacelli)

1966  Paolo VI (Giovanni Battista Montini): anno santo per la chiusura del concilio

1975  Paolo VI (Giovanni Battista Montini)

1983  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a): anno santo della redenzione

2000  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a)

2015-16 Francesco (Jorge Mario Bergoglio): anno santo della misericordia nel 50° del concilio.

L’invenzione del giubileo

Il vero inventore del Giubileo nella storia della Chiesa fu Bonifacio VIII, anche se in un primo momento fu riluttante fino al punto di tentare di abolire le concessioni date dai predecessori Onorio a Francesco e Celestino V alla cattedrale di Collemaggio (L’Aquila), ma senza riuscirci. Egli si dovette rassegnare all’uso ormai invalso e, da fine politico, lo trasformò in strumento prezioso per affermare il suo potere sia sul piano interno della Chiesa, sia su quello prettamente politico internazionale.

Eletto il 24 dicembre 1294 e insediatosi il 23 gennaio del 1295 emanò subito una bolla pontificia con cui concesse l’indulgenza plenaria ai crociati che partivano, ai francescani che andavano in missione presso i Tartari, e a chiunque si fosse armato per combattere i Siciliani di Carlo d’Angiò e la famiglia dei Colonna che osavano mettere in discussione la legittimità della sua elezione. In cambio, si poteva commutare l’indulgenza con 300 libbre di toesi (moneta d’argento, ufficiale nella Francia di Filippo IV il Bello e nella Sicilia dei d’Angiò).

Con la pubblicazione della bolla «Unam Sanctam», il papa affermò in modo solenne la superiorità del suo potere su quello di qualsiasi principe e imperatore in base al principio che lo spirituale è superiore al materiale. Uno degli strumenti usati a questo scopo, fu appunto il giubileo del 1300.

Avendo visto che il popolo romano, al compimento del secolo, spontaneamente si ammassava in san Pietro e nelle altre basiliche perché convinto che nell’anno «centesimo» (il 1300) vi fosse automaticamente la remissione dei peccati, Bonifacio VIII il 16 febbraio 1300 (quasi due mesi dopo l’inizio del nuovo secolo) indisse un giubileo con valore retroattivo, a partire dal 25 dicembre del 1299 ed esteso fino alla Pasqua successiva. La remissione fu concessa a tutti coloro che, pur avendone avuta l’intenzione, non erano potuti arrivare a Roma o erano morti lungo il viaggio. Per dare più importanza al documento, fece modificare la data d’indizione, portandola al 22 febbraio, ricorrenza della memoria della «Cattedra di san Pietro», sottolineando così l’autorità papale assoluta e indiscussa.

Per l’occasione il papa fece organizzare una processione che attraversò Roma con una fila interminabile di preti, vescovi e cardinali che lo precedevano. Il papa, assiso su un cavallo bianco, le cui briglie erano tenute da due chierici. Davanti a loro, due palafrenieri portavano su cuscino rosso, una spada e una tiara bipartita, simboli dell’unione del potere temporale e di quello spirituale. In questo modo il papa intendeva dire al mondo e specialmente a Filippo IV di Francia chi era il capo indiscusso. Il successo del Giubileo fu così grande che lo stesso Bonifacio VIII stabilì che ogni cento anni se ne celebrasse uno.

La questione delle indulgenze fu affrontata dal punto di vista teologico, attraverso una ricerca storica, arrivando alla conclusione che esse sono fondate sui meriti di Gesù Cristo, morto e risorto; questo tesoro prezioso, affidato all’amministrazione della Chiesa, è concesso dal papa, la massima autorità in terra. Vedremo nell’ultima puntata come papa Francesco ribalta questa concezione, non solo non parlando mai d’indulgenze nel senso tradizionale del termine, ma sempre di «indulgenza di Dio», mai di «Giubileo», ma di «Anno della Misericordia», concetti apparentemente simili, ma profondamente differenti dal punto di vista teologico.

Se Bonifacio VIII, quando, spinto dalla pietà popolare, si rese conto della forza del Giubileo, se ne servi come strumento politico nella geografia mondiale del potere del suo tempo, papa Francesco oggi afferma solo il primato di Dio e la sua natura di «Padre a perdere» che non si dà pace finché anche uno solo dei suoi figli resta fuori dal suo affetto e dal suo amore. Non si tratta di riscuotere «buoni» per la salvezza a buon mercato, ma favorire l’incontro con Dio attraverso l’unica via possibile che è la persona fisica di Gesù, venuto non solo a «fare l’esegeta del Padre» (Gv 1,18), ma anche a «cercare ciò che era perduto» (Lc 19,10) perché «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).

 Paolo Farinella, prete,
(8, continua)




Siccità quest’anno diverso


Etiopia, Swaziland, Brasile, solo per citare i paesi nei quali sono presenti i nostri
missionari. Ma ce ne sono molti altri colpiti dall’ondata di siccità che si è verificata fra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 e che ancora fa sentire i suoi devastanti effetti sulle vite di milioni di persone e sulle economie di molte nazioni.

Il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, o almeno del periodo del quale disponiamo di rilevazioni costanti, cioè a partire più o meno da metà Ottocento. L’anno scorso l’aumento delle temperature è stato di 0,76 gradi centigradi sopra la media che si era registrata fra il 1961 e il 1990 e di un grado pieno rispetto all’epoca preindustriale, cioè antecedente al 1865. A questo si è aggiunto El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che ha origine nella fascia tropicale del Pacifico ma che può interessare anche altre parti del globo: nel 2015 si è manifestato in modo particolarmente forte.

Quali siano le relazioni fra El Niño e l’innalzamento della temperatura, se e come possano influenzarsi l’un l’altro e che cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro è qualcosa che la comunità scientifica sta studiando senza approdare, per il momento, a conclusioni definitive. Quel che è certo è che un’ondata di siccità particolarmente impetuosa ha colpito diversi paesi in America Latina e in Africa. Cominciamo dall’Etiopia, che dallo scorso dicembre è l’oggetto di ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie proprio per la quantità di persone che la siccità ha esposto al rischio di carestia.

Etiopia, la peggiore siccità

«Qui siamo benedetti», scrive dall’Etiopia fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata e direttore dell’Ospedale di Gambo, in Oromia. «La siccità ci ha risparmiati. I casi di malnutrizione non sono aumentati». Riporta poi Aljazeera che a Jijiga (o Giggiga, in italiano), nella regione Nordorientale del Somali, lo scorso aprile le piogge sono arrivate addirittura in anticipo e sono state particolarmente impetuose, al punto da provocare inondazioni in cui hanno perso la vita ventotto persone.

Ma già a pochi chilometri dall’ospedale di Gambo, o nei dintorni di Jijiga la situazione è ben diversa. Insieme all’Afar, la regione Somali e l’Oromia sono le regioni più interessate dall’ondata di siccità, e di acqua non se ne vede quasi più.

Secondo i dati della «Direzione generale Europea per l’aiuto umanitario e la protezione civile» (Echo), diffusi lo scorso aprile, «l’Etiopia sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi cinquant’anni in seguito al mancato manifestarsi di due stagioni delle piogge». Più di dieci milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria immediata; nelle zone più colpite fra il cinquanta e il novanta per cento dei raccolti sono andati perduti e centinaia di migliaia di capi di bestiame sono morti. Gli sfollati interni hanno superato il mezzo milione in un paese che ospita anche 732 mila rifugiati eritrei, somali, sudanesi e sud sudanesi. Decine di migliaia di bambini hanno smesso di andare la scuola.

Cristina Coletto, volontaria in Etiopia dell’Ong Lvia, sul sito della suo organizzazione pubblica aggioamenti sulla situazione in Afar; racconta di livelli dei fiumi sempre più bassi, pascoli scomparsi, animali morti e pessime condizioni del bestiame ancora in vita. «I prezzi di alimenti base, come la farina», continua l’operatrice umanitaria, «sono aumentati a causa della scarsa disponibilità nei mercati locali», ai quali la gente è ora costretta a ricorrere non potendo più contare su risorse proprie. «Quasi 10.000 famiglie, cioè il 3% della popolazione dell’Afar, sono già migrate verso le vicine regioni Amhara, Oromia e Tigray, in cerca d’acqua e pascolo».

«In questa situazione», riferisce il superiore della Visitatoria salesiana dell’Etiopia, padre Estifanos Gebremeskel, al portale di informazione sui temi umanitari

Reliefweb, «aumenta il rischio per molte persone di cadere vittima di trafficanti di esseri umani, di essere sfruttate e schiavizzate».

Molti ricorderanno ancora la carestia etiope del 1984, quella la cui eco internazionale portò a una mobilitazione che ebbe la sua massima risonanza nel Live Aid, il concerto di sensibilizzazione e raccolta fondi organizzato da Bob Geldof a Londra nel luglio del 1985. L’Etiopia oggi non è lo stesso paese; il suo governo, insieme alle agenzie inteazionali, ha fissato a 1,4 i miliardi di dollari necessari per far fronte all’emergenza e si è impegnato a investie 380 milioni. A questi si sono aggiunti, ad aprile, i 120 promessi dalla Commissione europea, mentre la Fao, che aveva stimato in cinquanta milioni i fondi necessari per assistere circa due milioni di persone, ne aveva raccolti poco più di otto. Usaid, l’agenzia governativa americana per lo sviluppo internazionale, ha stanziato 267 milioni di dollari per il 2016 e, ad aprile, riportava che il totale dei fondi destinati dal governo etiope e dalle agenzie umanitarie ammontava a 758 milioni, circa metà del miliardo e quattro richiesto.

Swaziland, prezzi alle stelle

Anche quattromila chilometri più a Sud, nello Swaziland, la situazione non è rosea. A febbraio di quest’anno il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza a causa della siccità. La produzione di mais era già diminuita del trentuno per cento nel 2015 e l’inizio del 2016 ha segnato un peggioramento ulteriore. «I prezzi di cereali, legumi e arachidi», scriveva lo scorso marzo l’amministratore della diocesi di Manzini, padre Peter Sakhile Ndwandwe, «fluttuano normalmente seguendo un andamento stagionale. In genere i prezzi di questi alimenti si impennano poco prima del momento del raccolto. Ma quest’anno è diverso: i prezzi sono altissimi perché per il 95 per cento dei contadini che praticano agricoltura di sussistenza nel paese non è previsto alcun raccolto. Dieci chili di cereali costavano un mese fa 81 Lilangeni (valuta locale, un euro vale 17 lilangeni, ndr). Oggi gli stessi dieci chili costano 120 e continuiamo a registrare aumenti di settimana in settimana. Nel 2013 il prezzo per la stessa quantità di cereali era di 41 emalangeni».

Secondo le stime delle agenzie interazionali raccolte da Reliefweb, ad aprile trecentomila persone – pari a un quarto della popolazione dello Swaziland – aveva urgente bisogno di cibo e acqua, quasi novemila bambini soffrivano di malnutrizione da moderata a grave e sessantaquattromila capi di bestiame erano morti. Le persone in condizioni di insicurezza alimentare rischiano di raddoppiare; la semina, che di solito interessa i mesi di ottobre e novembre, è avvenuta in ritardo di due mesi, cioè molto più a ridosso dell’inverno australe (che corrisponde grossomodo alla nostra estate). Il rischio è che fino alla prossima stagione delle piogge, a ottobre 2016, le condizioni della popolazione swazi non migliorino.

Brasile, El Niño Godzilla

El Niño Godzilla – così lo hanno ribattezzato alcuni media – ha fatto danni anche nell’Amazzoni brasiliana: «Siamo molto preoccupati per la siccità terribile che sta causando la morte del bestiame nella savana e della selvaggina che è bruciata negli incendi forestali», ha scritto ai suoi amici nella lettera di Pasqua 2016 fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da Bõa Vista. «Molti ruscelli si sono completamente prosciugati e i villaggi devono spostarsi per poter avere accesso all’acqua. Molti pozzi sono secchi e le piantagioni sono ridotte quasi a zero».

Amazônia Real, agenzia di stampa indipendente brasiliana, riporta le testimonianze di diversi abitanti delle terre indigene Yanomami e Raposa Serra do Sol. «Nei fiumi principali – Uraricoera, Demini e Catrimani – c’è ancora acqua, ma gli affluenti sono secchi, morti», ha detto all’agenzia Dário Kopenawa, cornordinatore delle politiche pubbliche dell’associazione yanomani Hutukara e figlio dello storico leader indigeno Davi Kopenawa Yanomami. Gli incendi sono frequenti e il fumo che invade le aldeias, i villaggi, causa problemi respiratori specialmente ai bambini. Secondo Dário Kopenawa, gli effetti di El Niño si sommano a quelli della distruzione sistematica delle risorse naturali e dei danni ambientali provocati dai cercatori d’oro.

Anche a Raposa Serra do Sol, cinquecento chilometri più a Nord, gli abitanti raccontano di siccità e difficoltà inedite: secondo Geiza Duarte, indigena macuxi, per procurarsi l’acqua necessaria per cucinare e per l’igiene personale, le famiglie camminano per undici chilometri fino alla comunità vicina, dove ancora si trova acqua. Fortunatamente, almeno per Roraima, i nostri missionari ci confermano il ritorno di piogge abbondanti, anche con allagamenti, da aprile.

Rischio rifugiati ambientali?

Anche l’Asia è in difficoltà. In Indonesia, ad esempio, in sedici province su trentaquattro la siccità ha ridotto la disponibilità di acqua e danneggiato la produzione agricola, la pesca e le attività economiche legate alla foresta. Dal novembre 2015 l’Indonesia, terzo paese produttore di riso al mondo, ha iniziato a importare riso per garantire le scorte alla sua popolazione. La siccità, inoltre, ha indirettamente aggravato la piaga degli incendi che hanno distrutto finora due milioni di ettari di foresta, provocando infezioni respiratorie causate dal fumo a oltre mezzo milione di persone. Gli esperti indonesiani calcolano che lo smog generato da questi incendi provocherà perdite economiche per 14 miliardi di dollari fra produzione agricola e foreste danneggiate, danni alla salute, ai trasporti e all’industria turistica.

Davanti agli effetti di questa ondata di siccità, pensando anche agli altri fenomeni climatici che periodicamente infliggono gravi perdite umane ed economiche al pianeta, in molti si chiedono quali saranno in un futuro tutt’altro che lontano le conseguenze in termini di migrazioni umane.

Non esiste una categoria giuridicamente riconosciuta per i rifugiati, o profughi, ambientali. E sul fenomeno della migrazione causata da condizioni ambientali non ci sono statistiche univoche. Tuttavia, a detta dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) il fenomeno sta assumendo una rilevanza che sarà impossibile non tenere in considerazione. Le previsioni future, si legge sul sito dell’Oim, variano dai venticinque milioni al miliardo di migranti ambientali entro il 2050 che si sposteranno sia all’interno del proprio paese che oltre confine, in modo temporaneo o permanente. La cifra più frequentemente citata nelle previsioni è duecento milioni, numero che eguaglia la stima attuale dei migranti inteazionali nel mondo».

Chiara Giovetti




Perdenti 15: Sacco e Vanzetti


Il 23 agosto 1927, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Usa, subirono l’esecuzione capitale tramite la sedia elettrica. Erano accusati di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e l’assoluta mancanza di testimoni non valsero a nulla. Nel penitenziario di Charlestown in Massachusetts, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e «giustiziati». Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di Goveatore del Massachusetts, riabilitò la memoria dei due italoamericani ammettendo che nel giudicarli erano stati commessi macroscopici errori e ingiustizie sia da parte della polizia che della magistratura americana.

Voi siete conosciuti in Italia e in America con i vostri cognomi, Sacco e Vanzetti, e considerando la provenienza geografica, si può dire che nel dramma che vi è toccato vivere, avete rappresentato con molta dignità l’Italia del Sud e del Nord, strettamente unita nella dura realtà dell’emigrazione.

Sacco: io sono pugliese, sono nato a Torremaggiore in provincia di Foggia.

Vanzetti: io, invece, sono piemontese e vengo da Villafalletto in provincia di Cuneo. Siamo emigrati negli Stati Uniti quasi contemporaneamente. Io arrivai a New York nel 1908, Sacco invece sbarcò a Boston nel 1909. Approdammo nel Massachusetts facendo diversi lavori, come del resto era consuetudine in quegli anni per i migranti che arrivavano in America.

Sacco: alla fine io trovai lavoro in una ditta che produceva scarpe e divenni un calzolaio provetto, mi sposai ed ebbi un figlio e una figlia, mentre il mio amico Bartolomeo, dopo molti sacrifici e aver cambiato tanti lavori, riuscì, nel 1919, ad aprire un piccolo negozio dove vendeva pesce.

Vi siete conosciuti in America?

Si, frequentavamo dei circoli anarchici e socialisti presenti in terra americana (pochi in verità), partecipando a scioperi e manifestazioni, che ci fecero avere problemi con la polizia. Nel 1916 ci conoscemmo e in poco tempo diventammo amici. Le nostre idee collimavano nel ricercare una giustizia sociale che fosse equa e rispettosa per tutti gli immigrati, inoltre eravamo due convinti pacifisti, tant’è vero che quando gli Stati Uniti intervennero nella Grande Guerra del ‘15-’18, ci rifugiammo in Messico con tutto il collettivo anarchico per non essere arruolati.

Finita la guerra tornaste negli Stati Uniti?

Si, riprendemmo il nostro lavoro nella società americana cercando di convincere altri immigrati a frequentare i nostri circoli e ad aderire alle nostre idee. Per la nostra fuga in Messico e per le nostre attività, eravamo però inclusi in una lista di sorvegliati speciali e segretamente controllati dalla polizia.

Come erano visti gli italiani negli Stati Uniti in quegli anni?

Molto male. Innanzitutto per il fatto di provenire da un paese cattolico e di trovarci in una cultura come quella degli Usa permeata dall’ideologia wasp (lett. vespa, ma in questo caso acronimo per White Anglo Saxon Protestant), eravamo considerati la feccia della società. Se a ciò si unisce il fatto che avevamo problemi con la lingua inglese in quanto non la parlavamo correttamente e che per sopravvivere eravamo disposti ad accettare i lavori più degradanti, eravamo visti come «paria» che occupano l’ultimo gradino della società.

Gli emigranti provenienti in genere dall’Europa e in particolare dall’Italia, portavano anche le idee socialiste e anarchiche che in quegli anni stavano sviluppandosi nel vecchio continente.

Quasi tutti noi eravamo contro la guerra, quindi abbastanza restii ad appoggiare le azioni belliche da qualunque parte venissero proposte. Molti immigrati si rifiutavano di iscriversi ai registri di leva e di lavorare nelle industrie che fabbricavano armi ed erano proprio i lavoratori europei, specialmente gli italiani, che animavano queste iniziative e organizzavano scioperi.

Anche la risonanza che arrivava dalla Rivoluzione Russa alimentava un’ostilità crescente non solo verso i migranti, ma proprio verso tutti coloro che si dichiaravano anarchici e socialisti?

Proprio così. Oltre tutto in quegli anni prese piede la così detta «red scare» (la paura dei rossi), con la quale il governo federale cercò di prevenire – con metodi al limite della legalità – il diffondersi di una ideologia ritenuta sovversiva e radicale. Per rispondere ai nostri sporadici, e tutto sommato abbastanza innocui, gesti di ribellione e per bloccare ogni nostra iniziativa, venne creato un apparato poliziesco imponente.

Va da sé che in un clima di così alta tensione e pieno di sospetto verso chi non era «wasp», ogni volta che succedeva un fatto criminale, gli immigrati venivano subito additati come colpevoli.

Il 15 aprile 1920, a South Braintree (Massachusetts), il cassiere del calzaturificio «Slater and Morril», Frederick Parmenter, e la guardia Alessandro Berardelli, stavano portando a piedi le paghe della settimana, 15.776 dollari, in due cassette di legno. Vennero assaliti con le pistole in pugno da due persone che spararono a bruciapelo e si allontanarono su un’auto che li stava aspettando. Immediatamente vennero sospettati degli italiani come gli autori del gesto. Noi due fummo arrestati perché trovati con una pistola e degli appunti per un comizio che stavamo organizzando. Ci trattennero in prigione senza nessuna assistenza legale.

Non vi chiedevate il perché di un arresto così anomalo?

Parlando tra di noi credevamo che ci avessero arrestati per motivi politici, al massimo per illegale possesso di armi. Per questo avevamo paura di essere espulsi, ma a nostro favore giocavano parecchie testimonianze giurate che dicevano che noi non eravamo nel luogo dove era avvenuto il gesto criminale, in quanto impegnati altrove. Ma il numero dei testimoni contro di noi, che la polizia andava raccogliendo qua e là, aumentava ogni giorno e, tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni di loro dissero esplicitamente che noi eravamo i colpevoli. Venne quindi fatta un’incriminazione formale a nostro nome.

Raccogliendo delle testimonianze abbastanza deboli, ma avendo fretta di concludere l’istruttoria, tutto venne deciso per portare a termine il processo nel più breve tempo possibile.

Non solo, alcuni testimoni ritrattarono perché, a distanza di mesi, non erano più così sicuri delle loro dichiarazioni. Un portoghese di nome Celestino Madeiros, un comune criminale condannato in precedenza per rapina e omicidio, confessò la sua partecipazione al furto e al conseguente assassinio della guardia giurata, scagionandoci completamente dalle accuse a noi rivolte.

Ma tutto fu inutile in quanto la giustizia americana era alla ricerca di un capro espiatorio e voi incarnavate proprio quello che a loro serviva da presentare all’opinione pubblica, non è andata così?

Peggio, il pubblico ministero riuscì a eccitare i sentimenti patriottici e i pregiudizi della Corte, illustrando quelle che a suo avviso erano le idee sovversive del Movimento Anarchico del quale noi facevamo parte. La nostra renitenza alla leva e le nostre critiche al sistema capitalistico americano, vennero duramente attaccate dall’accusa, così facendo si processavano le nostre idee e non i fatti! Al momento della requisitoria il procuratore lanciò parole durissime contro gli stranieri e le idee che professavano. Anche il riepilogo del giudice fu pervaso da nazionalismo e pregiudizio; egli, anziché ricapitolare gli elementi di prova che la giuria avrebbe dovuto prendere in considerazione, espresse giudizi pesanti sugli stranieri presenti negli Stati Uniti. Paradossalmente non portò nessuna prova che inchiodasse noi al delitto di cui eravamo accusati. Nonostante ciò e nonostante gli elementi d’incertezza e i vistosi vizi procedurali che emersero durante il dibattimento, il 14 luglio 1921 la giuria pronunciò la sentenza di condanna a morte tramite sedia elettrica per tutti e due.

La condanna a morte di Sacco e Vanzetti provocò proteste in tutto il mondo, il governo italiano si fece sentire attraverso tutti i canali diplomatici, fior di intellettuali e personaggi di spicco di diverse nazioni scrissero al presidente degli Stati Uniti di concedere loro la grazia, in Italia ci fu un’ondata di antiamericanismo tale che bisognerà aspettare la guerra del Vietnam per vedee una uguale. In tutti i paesi culla di emigrazione verso gli Stati Uniti, ci furono manifestazioni di sostegno per i due italiani, anche negli Usa l’opinione pubblica si divise. Se per la destra veniva finalmente applicata una punizione esemplare a dei delinquenti comuni, altri cittadini, coscienti che veniva attuata un’ingiustizia macroscopica nei confronti di due italiani innocenti, non volendo che il loro paese apparisse come persecutore degli immigrati che proprio in quegli anni approdavano a migliaia negli Usa, manifestarono a loro favore.

Furono sette anni di inutili ricorsi, perché di fatto quello era ormai diventato un processo politico.

Il giudice Webster Thayer, l’uomo che aveva emesso la condanna a morte per Sacco e Vanzetti, disse a un amico: «Hai visto cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici italiani, l’altro giorno?».

Vanzetti in una delle ultime sedute del processo prima dell’esecuzione, il 19 aprile 1927 fece un breve discorso in cui tra l’altro disse: «Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati, noi siamo condannati non per dei crimini che abbiamo commesso, ma perché siamo italiani e perché siamo anarchici, ma siamo così convinti di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarci due volte rivivremmo per fare esattamente le stesse cose che abbiamo fatto. E questo omicidio di stato non riuscirà a estinguere il nostro limpido e inalienabile diritto di esistere e di pensare secondo la nostra coscienza». Poi rivolgendosi al giudice che lo aveva condannato disse: «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della terra ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».

Furono giustiziati – se questa è l’espressione giusta – sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, a pochi minuti l’uno dall’altro. Le loro ceneri riposano ora a Torremaggiore.

Mario Bandera, missio Novara

 




Gabo: realismo magico, un premio nobel


Una delle volte che Gabriel García Márquez, detto Gabo, (1927-2014) stuzzicò la mia ambizione di giornalista fu al Festival di Cannes del 1982. Lui era già lo scrittore di Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca e di Cronaca di una morte annunciata: il Nobel per la letteratura lo avrebbe vinto pochi mesi dopo.

Lavoravo per Blitz, la diretta Rai della domenica pomeriggio. Registrai l’intervista durante un intermezzo sportivo. García Márquez fu, come sempre, diretto e critico: «Il mondo latinoamericano – mi disse – è un mondo socialmente conflittuale e il cinema occidentale, che da tempo ha lasciato da parte l’impegno politico, vede l’America Latina in modo convenzionale, secondo schemi europei».

Fu disponibile, anche se confessò che non amava essere una figura pubblica mentre, come presidente della giuria del Festival, aveva già in agenda 35-40 interviste. Ma l’amore per il cinema, che aveva appreso in gioventù in Italia – al «Centro Sperimentale di cinematografia» -, come allievo di Cesare Zavattini, e la grande amicizia con l’allora ministro francese della cultura Jack Lang, glielo imponevano.

Anni dopo mi avrebbe rivelato che al cinema non sapeva proprio negarsi perché era stato il neorealismo di Miracolo a Milano (film di De Sica del 1951, ndr) a ispirare il suo modo di far letteratura, di dar vita al realismo magico o fantastico, che avrebbe reso mitico il suo mondo – da Macondo (il paese in cui è ambientato Cent’anni di solitudine, ndr) alla Incredibile e triste storia della candida Eréndira – e caratterizzato la sua scrittura e quella di un’intera generazione.

C’eravamo conosciuti in Messico, paese che, insieme a Cuba, è stato la sua seconda patria, tutte le volte che lui ha dovuto lasciare la nativa Colombia, martoriata dai narcotrafficanti.

La Rai – era il marzo del 1981 – mi aveva mandato a seguire un viaggio di stato in Messico del presidente Sandro Pertini che poi era previsto proseguisse proprio per la Colombia. García Márquez, nuovamente minacciato nel suo paese, si era rifugiato ancora una volta nella rivoluzionaria terra di Zapata.

In molti lo cercavamo. Il mio amico Pedro Armendariz, grande attore, aveva promesso di farmi chiamare e una notte il futuro premio Nobel lo fece: «Sono Gabo, mi ha detto Pedro che mi stai cercando, cosa vuoi?», mi disse con un tono che non prometteva condiscendenze.

Spiegai che, come tanti giornalisti, lo volevo intervistare. Invece di rifiutare subito, mi propose: «Facciamo un affare: io ti concedo l’intervista ma tu mi fai incontrare il tuo presidente, perché io gli possa spiegare tante cose e lui non vada nella mia patria senza conoscere a fondo la situazione».

Per una richiesta così esplicita chiesi aiuto a Enzo Biagi, decano del nostro giornalismo, anche lui, in quell’occasione, inviato al seguito di Pertini. Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale a cui Enzo scelse di sottoporre il problema, per evitare complicazioni diplomatiche, decise di incontrare insieme a noi García Márquez e poi di riferire a Pertini. Il racconto di Gabo fu chiaro e inquietante, tanto che Pertini decise di aggiustare il tono dei discorsi preparati per la visita in Colombia.

Biagi, che avrebbe avuto in esclusiva il reportage, decise di aspettare che il filmato da me montato arrivasse, due giorni dopo, in aereo in Italia e potesse essere mandato in onda in anteprima. Il suo articolo uscì l’indomani. Una correttezza che, nel mondo dell’informazione d’oggi, non usa più.

L’amicizia con Gabo è cresciuta nel tempo e in tanti incontri in Messico e a Cuba. L’autore de L’amore ai tempi del colera o Il generale nel suo labirinto ha nutrito, infatti, sempre una tenerezza verso l’isola della Rivoluzione. Gabo non ha mai fatto dichiarazioni ideologiche, ma non si è tirato indietro quando si è trattato, per esempio, di dar corpo, nel 1986, a San Antonio de Los Baños, alla Escuela Inteacional de Cine y Tv, la scuola di cinema più importante del continente latinoamericano. Il premio Nobel non ha avuto dubbi ad esporsi nemmeno quando, alla fine degli anni ’90, Fidel Castro, preoccupato per la proliferazione degli attentati terroristici organizzati in Florida e messi in atto a Cuba, gli chiese, conoscendo l’ammirazione che il presidente Clinton aveva per lui, di portare un messaggio privato alla Casa Bianca. Il leader cubano cercava di segnalare quanto fosse pericoloso la condiscendenza del governo Usa nei riguardi di molti organizzatori di attentati. Quella volta, però, lo scrittore non riuscì a vedere il presidente e dovette accontentarsi di consegnare il messaggio allo staff della Casa Bianca.

García Márquez amava l’asciuttezza e i toni bassi. Ricordo con vera nostalgia la sera in cui finii a cena a Trastevere con una formazione irripetibile: Gabo, Sergio Leone, Robert De Niro e Cassius Clay-Muhammad Alì (cfr. MC maggio). Pendevamo tutti dalle parole del campione, ma chi apprezzava di più il sussurro del suo racconto, roco e a mezza voce, era proprio Márquez. «Parece un cura» (sembra un prete) commentava ammirato.

Quando accettò di scrivere il prologo al libro tratto dalla mia intervista di sedici ore con Fidel Castro (era il 1987), ci mise qualche mese per farlo e alle mie telefonate una volta sbottò: «Ma ti rendi conto che tutti soppeseranno ogni parola, ogni lettera, che scrivo su Fidel? E tu mi metti fretta?». Dopo tre giorni Mercedes, sua moglie, mi annunciava l’invio del saggio che era caustico ed esplicito, secondo la sua abitudine.

Nel 1992 pubblicò I dodici racconti raminghi. E lui mi propose un altro baratto. In cambio della solita chiacchierata, dovevo realizzargli un’intervista filmata con Maradona per una Tv colombiana nella quale insegnava ad alcuni ragazzi a fare giornalismo d’inchiesta. Quel giorno, alle mie domande, però, rispondeva in modo quasi scocciato: «Ma l’hai letto il libro? Questo c’è nel libro, non c’è bisogno di ripeterlo nell’intervista. Ma l’hai letto?». Chiaramente, giocava. Si infervorò solamente ricordando che in un salotto buono del nuovo cinema romano, quando si era vantato: «Io sono stato allievo di Zavattini», aveva ricevuto per risposta un inquietante: «Zavattini chi?». Quell’intervista faticosa si trasformò in una affascinante pagina per il Corriere della Sera.

Gianni Minà

 




Italia moschee negate


In Italia la questione dei luoghi di culto musulmani è all’ordine del giorno. Diverse regioni e città vi si confrontano. È impossibile passare sotto silenzio l’ormai stabile radicamento di circa due milioni di fedeli musulmani. E questo porta con sé la necessità di affrontare anche la questione della loro libertà religiosa. Partendo da una delle esigenze più essenziali: la disponibilità di luoghi in cui svolgere e celebrare in forma collettiva la preghiera, le festività e le altre attività e pratiche essenziali per la loro vita comunitaria.

L’apertura di un luogo di culto è sempre materia simbolica e, non di rado, delicata. Simbolica perché il luogo di culto rende evidente nello spazio pubblico l’esistenza di una comunità che si riunisce intorno a principi e valori non necessariamente condivisi da tutti. Delicata perché interpella le altre componenti sociali: dalla società civile alle istituzioni pubbliche alle altre comunità religiose, a partire, nel contesto italiano, dalla chiesa cattolica.

Non «se», ma «quali» luoghi di culto

A seconda delle vicende che accompagnano la sua apertura, il luogo di culto (in questo caso musulmano) può divenire strumento di integrazione culturale, sociale e civile, oppure di ghettizzazione, di chiusura, emarginazione e isolamento. In Italia i luoghi di culto musulmani rischiano di vivere più la seconda esperienza negativa che la prima positiva. Questo perché alla quantità dei luoghi musulmani presenti sul territorio, non ne corrisponde una uguale qualità. Infatti, dei circa 800 censiti, soltanto sei (Segrate, Brescia, Colle Val d’Elsa, Roma, Ravenna e Catania), o poco più, possono essere identificati come vere e proprie moschee. Gli altri sono semplici «sale di preghiera» collocate in capannoni, garage, seminterrati, magazzini e palestre. Luoghi riadattati e, non di rado, in condizioni poco dignitose e disagiate.

La questione, dunque, non è se aprire luoghi di culto musulmano in Italia (perché ci sono già), ma quali luoghi di culto musulmani vuole avere l’Italia: per l’esclusione o per l’integrazione?

Il carattere laico dello stato

La Costituzione, nell’interpretazione costante e sempre più approfondita della Corte Costituzionale, impone una scelta precisa: il luogo di culto è espressione del diritto di libertà religiosa. Lo stato centrale (dettando le norme fondamentali), e le regioni (predisponendo la legislazione di dettaglio), hanno il dovere di garantire a tutti i gruppi religiosi questo diritto, mostrando non indifferenza, ma adoperandosi per rendee concrete le possibilità di esercizio. In altre parole, l’apertura dei luoghi di culto è espressione non solo dello specifico diritto di libertà religiosa, ma, più in generale, del carattere laico (pluralista e non indifferente) della Repubblica italiana chiamata a valorizzare e integrare, su un piano di uguale libertà, tutte le formazioni sociali, anche quelle religiosamente connotate.

Le regioni fanno il bello e il cattivo tempo

Lo stato è intervenuto in materia facendo rientrare gli edifici di culto tra le opere di urbanizzazione secondaria, e dunque tra gli spazi pubblici di interesse comune. Le municipalità dovranno quindi pianificare i propri territori prevedendo la presenza di luoghi di culto, e disponendo per essi anche la possibilità di appositi finanziamenti pubblici.

Fissata questa regola essenziale, lo stato centrale non ha emanato alcuna disciplina organica di settore, lasciando l’attuazione del dettato costituzionale ai diversi legislatori regionali. Ed è qui che si sono incontrate le prime difficoltà. Infatti le varie leggi regionali in materia di edilizia di culto, in alcuni casi hanno portato a un’esplicita discriminazione contraria alla costituzione. Larga parte della legislazione regionale in materia mostra in particolare tre caratteristiche:

  1. la grande discrezionalità lasciata alle pubbliche amministrazioni nella valutazione delle istanze avanzate dai diversi gruppi religiosi;
  2. la ricorrente differenza di trattamento riservato alla chiesa cattolica rispetto agli altri gruppi;
  3. la tendenza a considerare come interlocutori soltanto le comunità religiose istituzionalmente organizzate e numerose, riservando minore attenzione ai gruppi più fluidi (non solo i musulmani, ma anche, ad esempio, gli evangelici), meno numerosi e, di fatto, più distanti dal «sentire» della maggioranza.

Da queste tre tendenze, alcune regioni (l’Abruzzo e, soprattutto, per ben due volte, la Lombardia) hanno fatto derivare l’esclusione delle confessioni religiose prive di Intesa con lo stato1 dai contributi pubblici per l’edilizia di culto (Abruzzo), o dalle ordinarie procedure per l’assegnazione degli spazi, sostituite da altre più onerose (Lombardia).

La Corte costituzionale ha reagito contro questa tendenza dichiarando incostituzionali le leggi in materia edilizia della regione Abruzzo (1993) e Lombardia (2002 e 2016). Tali leggi non riconoscevano che il diritto a disporre di un luogo di culto discende direttamente dall’art. 19 della Costituzione e, dunque, costituisce un elemento essenziale del diritto di libertà religiosa indipendentemente dalla stipulazione di un’Intesa con lo stato.

Nonostante il loro peso, gli interventi della Corte costituzionale tuttavia non sembrano diventati un patrimonio comune dei legislatori regionali e delle amministrazioni comunali che si trovano a governare collettività multiculturali e religiosamente differenziate.

La «questione musulmana»

All’interno di questo quadro, la «questione musulmana» ha costituito la cartina di tornasole per verificare la capacità del ceto politico-istituzionale italiano di dare corpo alla libertà religiosa e alla laicità dello stato. L’islam, infatti, porta con sé tutti gli ingredienti capaci di mettere in crisi una gestione statica degli spazi pubblici.

Non solo i musulmani ben si prestano a rappresentare lo stereotipo dell’incolmabile alterità, ma essi sono pure frammentati, privi di rappresentanza unitaria, etnicamente e culturalmente differenziati, diversificati anche per scuole e tradizioni religiose, nonché per i legami con i paesi di provenienza che perdurano, spesso con scorno delle nuove generazioni, anche molti anni dopo l’insediamento in Italia.

L’11 settembre e le altre tragiche date che ne sono seguite, fino agli ultimi attentati di Bruxelles, hanno favorito l’inquadramento dei musulmani sub specie securitatis, incentivando paure e logiche differenzialiste – ispirate all’eccezionalismo – anche nel godimento del diritto di libertà religiosa e di culto. Di fatto, il legittimo godimento di luoghi di culto per i musulmani è divenuto, oggi, assai problematico.

Si spiegano così le 800 «sale di preghiera» allestite in luoghi inadatti e disagiati, e le pochissime «moschee» presenti nel nostro paese.

Un circolo vizioso da rompere

Peraltro, ad aggravare la situazione concorre la circostanza che nessuno dei loro luoghi di culto è formalmente classificato e, dunque, trattato come tale. Qualche lacuna del diritto e l’indisponibilità politica producono da troppo tempo un circolo vizioso che deve essere interrotto. Nei confronti dei gruppi religiosi ancora privi di intesa con lo stato italiano, infatti, il nostro paese non dispone di una legge generale sulla libertà religiosa e si serve ancora della legislazione sui «culti ammessi» del 1929-1930. Questa normativa lascia grandi spazi alla discrezionalità politica, e le comunità musulmane, per loro ignoranza o sfiducia, o per rifiuti e ostilità subiti, non sono ancora riuscite a ottenere il riconoscimento quali «enti di culto». L’unico ente musulmano capace di ottenere tale riconoscimento è stata la Moschea di Roma nel lontano 1974. La data è importante: si era in piena crisi petrolifera ed era obiettivo della politica estera dei tempi avere buoni rapporti con il mondo arabo incarnato, appunto, da una moschea che non rappresentava tanto i «musulmani italiani», quanto gli stati a maggioranza musulmana. Nel suo consiglio di amministrazione siedono, infatti, gli ambasciatori dei «paesi musulmani» accreditati presso la Repubblica e la Santa Sede.

Per gli altri gruppi, fino a ora, la via di questo riconoscimento è stata interdetta. Come pure è stata interdetta (molto discutibilmente) dal Consiglio di Stato la possibilità di ottenere una personalità giuridica di diritto privato ricorrendo al codice civile: per il giudice amministrativo, infatti, quando la finalità religiosa è prevalente l’unica via per il riconoscimento della personalità giuridica è quella prevista dalla legislazione del 1929-1930.

Ma così si torna al punto di partenza. I musulmani sono stati indotti allora a optare per il mimetismo, organizzandosi attraverso associazioni no profit, onlus, associazioni di promozione sociale. Tutte forme idonee per l’esercizio di molte delle attività non cultuali delle comunità religiose, ma inidonee per lo svolgimento delle attività con fine di religione e di culto. Per questo le comunità vengono poi a scontrarsi con i dinieghi comunali – e regionali – nel momento in cui vogliano, attraverso dette associazioni, aprire e gestire un luogo di culto.

Due percorsi da intraprendere

È evidente che i percorsi per superare questa impasse sono fondamentalmente due:

  1. varare una nuova legge sulla libertà religiosa che superi definitivamente la legislazione dell’epoca fascista dettando nuove norme sull’associazionismo religioso nonché i principi fondamentali in materia di edilizia di culto;
  2. in attesa di tale intervento, favorire l’organizzazione delle comunità musulmane secondo un modello duale già sperimentato con successo in altri paesi: da una parte, l’associazione di culto (allo stato attuale, una semplice associazione privata non riconosciuta) quale rappresentante degli interessi religiosi dei fedeli musulmani residenti in un determinato territorio; dall’altra, tutte le forme associative previste dall’ordinamento italiano per l’esercizio delle attività non cultuali.

In questo modo, attraverso un dialogo aperto e trasparente, le amministrazioni comunali ben potrebbero rapportarsi con le «associazioni religiose» in vista dell’assegnazione di aree o edifici per il culto, anche con l’accompagnamento di specifiche convenzioni in cui fissare rispettivi oneri, obblighi e contributi pubblici di sostegno.

Leggi ostili generano esclusione e insicurezza

Purtroppo, il percorso più seguito è più spesso un altro: quello dell’interdizione e della chiusura.

Ne è stato un recente esempio la legge regionale lombarda n. 62 del 27 gennaio 2015. In base a questa normativa l’apertura di un luogo di culto da parte dei gruppi religiosi privi di intesa (leggi: i musulmani) finiva per essere condizionata da controlli e oneri particolarmente pesanti e totalmente discrezionali. Si evocava poi il ricorso a invasive misure di sorveglianza che esorbitavano dalle competenze regionali.

Il 24 marzo scorso è stata resa nota la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionali parti importanti della legge lombarda. Ma l’azione dei giudici non è sufficiente.

Le nuove misure approvate il 5 aprile scorso dal Consiglio regionale del Veneto si collocano, pur se con maggior prudenza, sulla stessa direttrice tracciata dal legislatore lombardo. Il luogo di culto come eccezione da definire e circoscrivere (anche spazialmente) più che come diritto fondamentale da regolare. Si evoca, ma a fini apparentemente descrittivi, evitando le conseguenze costituzionalmente illegittime, la distinzione tra chiesa cattolica, confessioni con intesa e confessioni senza intesa; si evoca il referendum e si introduce la possibilità di richiedere l’utilizzo della lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una norma che esorbita dalle competenze in materia urbanistica proprie del legislatore regionale e potenzialmente suscettibile di essere discrezionalmente strumentalizzata dai comuni, in occasione della stipula – e dell’esecuzione – delle convenzioni, contro l’apertura dei luoghi di culto delle comunità composte per la maggior parte da stranieri.

L’ostilità nei confronti dei luoghi di culto musulmani trascura la realtà (essi esistono già e vanno, piuttosto, ben regolati); offende la Costituzione; produce esclusione e insicurezza e, non da ultimo, contribuisce a erodere la comprensione del diritto di libertà religiosa che rischia di essere meno tutelato, per tutti.

Alessandro Ferrari*

* Alessandro Ferrari insegna diritto ecclesiastico e diritto canonico presso l’Università degli Studi dell’Insubria (Como-Varese). Autore di numerose pubblicazioni è membro del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano istituito presso il ministero dell’Inteo.

Note:

1- Per approfondire il tema delle intese e della legge generale sulla libertà religiosa in Italia, si vedano gli articoli di questa rubrica in Mc 1-2/2015 (pp. 78-82), 3/2015 (pp. 66-69), 4/2015 (pp. 72-75) e 5/2015 (pp. 69-72).




La consolata: madonna missionaria


«La Consolata è madre nostra tenerissima e ci ama come la pupilla degli occhi suoi», disse l’Allamano ai suoi missionari nel giugno del 1915. «Lei ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente, qui e in Africa, ed è sempre pronta a tutti i nostri bisogni. Non v’è dubbio che tutto quello che si è fatto qui, tutto è opera della Consolata. Ha fatto per questo Istituto miracoli quotidiani… Nei momenti dolorosi intervenne in modo straordinario».

Un sacerdote torinese disse dell’Allamano: «È un santo che porta la Consolata in saccoccia», in tasca, con sé. Così i suoi missionari: ovunque vanno portano la loro Madonna.

Il 20 giugno si celebra con grande solennità la Consolata nel suo santuario di Torino e in varie parti del mondo dove si trovano i suoi missionari e le missionarie che portano lo stesso titolo mariano. L’Allamano che ha dato all’Istituto il nome della Consolata non si è mai sentito il suo vero fondatore. Ripeteva sempre che «Fondatrice è la Consolata». Ribadiva pure che la Madonna desidera più di tutto che il suo Figlio sia conosciuto e amato, perché è la salvezza dell’umanità. E aggiungeva, come conseguenza: «Per questo ha fondato il nostro Istituto», per la missione evangelizzatrice. A questo scopo l’Allamano ha fatto camminare la Consolata, madre di tutti, per il mondo. Così ha globalizzato l’attività più tipica della festa della Consolata: la grande processione nella città di Torino. L’8 maggio 1902, festa dell’Ascensione in cui si ricordavano le parole di Gesù agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15), l’Allamano inviò in Kenya i primi quattro missionari. E da allora la processione è proseguita, ha raggiunto altri paesi e continua ancora. Così non vi è più un solo santuario della Consolata a Torino, ma molti in tante parti del mondo, ovunque ci sono missionari e missionarie della Consolata. Questo cammino è iniziato appena Maria fu consolata dall’annuncio dell’Angelo che le disse: «Rallegrati. Il Signore è con te». Ricevuto Gesù nel suo seno, non lo tenne per sé. Andò, «corse in fretta», dice il Vangelo, dalla cugina Elisabetta, per parlare con lei delle grandi cose avvenute, magnificare il Signore, aiutare e «consolare» a sua volta. Infatti, quell’incontro provocò un’esplosione di gioia in Elisabetta, Zaccaria e Giovanni Battista che ancora nel seno della madre sentì la presenza di Gesù in Maria. Il beato Allamano raccomandava alle missionarie in partenza per la missione: «Lasciate il sapore dell’amore per Dio e per il prossimo dovunque andate»; e ai missionari: di essere «missionari della bontà». Maria è ispiratrice di una missione consolatrice, che ha di mira l’annuncio del Vangelo, il benessere e la felicità delle persone tramite l’istruzione, la cura della salute, la promozione della giustizia e della pace.

Gottardo Pasqualetti




Le lettere

«Vendi tutto…»

Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.

Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.

Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.

Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…

R. S. – 12/04/2016

Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).

• Immobili religiosi.

È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.

Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.

• Smaltire i tesori.

Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.

Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.

• Distribuire è facile.

Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.

• Dar l’esempio.

È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.

• Giustizia.

La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.

 

Europa

Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini – 18/04/2016

Di Afrikaneer e di Cristeros

Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.

1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.

2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.

Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».

Claudio Bellavista – 02/04/2016

Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.

La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.

C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.

Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.

Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.

Copie non recapitate

Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.

M. C. – 23/04/2016

Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.

Gianni Minà

Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.

Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016

I primi in Mozambico

Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.

Fratel Torta Francesco –  Cavi di Lavagna (GE)

Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.

Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.