Gli spazi bianchi della Bibbia


Il progetto è molto semplice, dare carta bianca a uno scrittore dicendogli: «Scegliti un brano o un personaggio, un episodio della Scrittura, e lo riscrivi in 40 o 60 mila battute». Ne sono nati 12 volumi che mostrano la forza e attualità della Bibbia, e il volto dialogante di una Chiesa in uscita.

«In un angolo del bosco, a mezza riva, con sopra l’orizzonte del cielo, sipario azzurro e nuvole, vicino a un libocedro monumentale, che lei confondendosi chiama librocedo […]; in questo angolo di bosco impervio, più terra grassa che verde, terra umida e muschio, Benedetta siede con la merenda in mano». Benedetta è una ragazzina che vive a Rueglio, in Val Chiusella, a 50 km da Torino, e ha un appuntamento: ogni giorno, per sette giorni, una voce esce da una cavea per raccontarle la Creazione, e per «ricreare», in qualche modo, Benedetta stessa.

Quella di Benedetta non è una storia vera, nel senso che non è un fatto realmente accaduto. È una storia contenuta in un piccolo libro a firma di Gian Luca Favetto, scrittore di Torino, ed è parte di un progetto denominato «Scrittori di Scrittura», che da tre anni ha coinvolto 12 autori pubblicandone i rispettivi testi con la casa editrice Effatà. La Creazione, la Resurrezione, la storia di Saul, quella di Isacco o di Giobbe, le nozze di Cana, l’episodio del giovane ricco, sono alcuni tra i passi biblici presi in considerazione e riscritti da autori come Margherita Oggero, Bruno Gambarotta, Davide Longo, Elena Loewenthal.

Suggestioni bibliche

«Ogni scrittore è partito da una suggestione, e le ha dato corpo», ci spiega l’ideatore del progetto, don Gian Luca Carrega, direttore dell’ufficio di pastorale della cultura della diocesi di Torino, oltre che insegnante di Sacra Scrittura alla facoltà di teologia e incaricato diocesano per la pastorale con le persone omosessuali credenti. «Alcuni anni fa, la Diocesi aveva regalato ai preti giovani un anno di formazione con la scuola Holden (la scuola di scrittura creativa fondata da Alessandro Baricco, nda). Venne fuori un tentativo di ri-narrazione di testi biblici che il regista Leo Muscato, responsabile del corso, aveva apprezzato. Lui mi spronò a proseguire, e nel 2007 uscì un libretto intitolato Un tempo per ogni cosa che metteva insieme 40 riscritture di brani dei Vangeli sinottici. Poi accantonai la cosa». Don Gian Luca oggi ha 44 anni ed è prete per la diocesi di Torino dal 2000: «Quando mi fu affidata la pastorale della cultura tre anni fa, mi toò in mente l’esperienza di quel libretto, e pensai: “Se questo tentativo di riscrittura lo affidassimo a dei professionisti?”».

Una Parola che provoca

A ciascuno degli scrittori coinvolti è stato chiesto di scegliere un brano della Bibbia e di riscriverlo secondo la propria sensibilità e stile, con la massima libertà. Ciascun volume è autonomo, unito agli altri solo dal cappello «Scrittori di Scrittura», dalla grafica e dalla struttura che prevede tre parti: il brano biblico scelto dall’autore, un commento al brano, scritto da un biblista, e la riscrittura d’autore.

Leggendo i volumetti si nota una grande diversità di approccio: qualche scrittore ha usato una modalità più tradizionale, simile ai midrashim (un’antica forma, spesso narrativa, di esegesi ebraica della Scrittura), producendo racconti i cui personaggi sono quelli biblici, ma narrando fatti, situazioni, psicologie che nel testo originale non sono presenti. «È il caso, ad esempio, di Silvana De Mari che ha riscritto l’annunciazione vista dagli occhi di Giuseppe, o di Elena Loewenthal che ha affrontato l’annunciazione a Sara, moglie di Abramo».

Altri hanno trasfigurato i personaggi biblici in personaggi contemporanei: «Ad esempio Elena Varvello racconta la storia di un Giobbe contemporaneo, un uomo tartassato dagli eventi che cerca un motivo di ripartenza, mentre Bruno Gambarotta rilegge il personaggio di Saul in chiave umoristica, di un umorismo drammatico». Altri ancora, come Gianluigi Ricuperati, hanno affrontato un tema attualizzandolo in una situazione odiea: «Lui ha scelto il tema della ricchezza raccontando di un prete che ha una comunità di recupero per persone dipendenti dall’uso del denaro».

«Il testo biblico si mostra un testo attuale, pieno di suggestioni interessanti anche per persone di oggi e per non credenti. Ad esempio Margherita Oggero si è sempre apertamente dichiarata agnostica, ma non ha avuto nessun problema a lavorare sulla Bibbia. Di Margherita non mi ha stupito la leggerezza di scrittura che ha avuto nel ripensare il personaggio di Isacco che è immaginato anziano, vicino alla morte, mentre ripensa a tutta la sua vita, mi ha colpito invece la sua competenza sulla Scrittura».

«Elena Loewenthal ci ha regalato anche una bella definizione della nostra iniziativa: infilarsi negli spazi bianchi della narrativa biblica. Partire da un testo sapendo che è volutamente lacunoso perché tu possa interagire con esso. Tutti i volumi sono un tentativo di risposta alla Parola che provoca».

La vita è una Bibbia apocrifa

Don Gian Luca crede nel senso ecclesiale e missionario di questa iniziativa culturale: «C’è un arricchimento spirituale in questi testi. I volumi di Scrittori di Scrittura sono utili per il credente perché lo aiutano ad avere un approccio differente alla Bibbia. I suoi protagonisti smettono di essere personaggi-tipo, e assumono una loro tridimensionalità. Prendiamo ad esempio il Giuseppe di Silvana De Mari: non è il classico Giuseppe vecchietto e un po’ passivo, ma un giovane passionale, innamorato della sua ragazza e anche geloso. Con una lettura di questo tipo sentiamo che la storia sacra è una storia vera. Quando siamo lettori passivi, diventiamo pigri e ronziamo attorno ai soliti concetti e idee. Quando invece proviamo a raffigurarci le scene, scatta un processo d’immedesimazione. La Scrittura ci parla anche attraverso questo. La storia sacra ci dice che anche la nostra storia è sacra, che noi viviamo un’esperienza in continuità con la Scrittura. Scherzando, abbiamo chiamato il nostro progetto una “Bibbia apocrifa”, e lo è, come di fatto lo è anche la vita stessa delle persone. Anche le nostre vite fanno parte di un progetto che non si è concluso con l’ultimo libro della Bibbia. Noi continuiamo a vivere vicende che sono guidate dallo stesso Spirito che ha animato la Scrittura. Le nostre esperienze sono un bacino per lavorare su ciò che il Signore ci ha detto tramite la Parola».

Una Chiesa in uscita

Chiediamo a don Carrega come, secondo lui, questo progetto si inserisca nel cammino della Chiesa: «Scrittori di Scrittura è il tentativo di metterci in ascolto gli uni degli altri: la Chiesa in ascolto dei “laici”, e viceversa. Ad alcuni è sembrato che volessimo svendere il patrimonio della Scrittura trattandolo come un libro qualunque. Il nostro punto di vista invece è accettare un confronto su dei testi che, siamo convinti, dicono qualcosa a tutti. La Scrittura può essere quel ponte su cui ci incontriamo grazie al suo valore narrativo. Io, da credente, farò vedere come essa aiuti la mia vita di credente. In quella parola c’è la Parola di Dio rivolta alla mia vita. Per il non credente è diverso. Da questo punto di vista penso che davvero il progetto svolga un servizio ecclesiale. Nel portarlo avanti siamo sereni, perché siamo consapevoli della forza della Scrittura. Non temiamo che possa essere “profanata”, anzi, in questo modo può trovare nuove vie che non avrebbe trovato se l’avessimo custodita troppo gelosamente».

È molto difficile dire quale sia la risposta dei lettori, don Carrega ipotizza che il pubblico di Scrittori di Scrittura sia composto prevalentemente da «curiosi»: «Nell’ottica della Chiesa in uscita, direi che è normale andare più verso chi è ai margini o fuori dalla Chiesa. Sono molte le persone curiose di sentire che cosa ha da dire la Chiesa, e che rimangono favorevolmente impressionate da questo atteggiamento di dare carta bianca agli scrittori senza condizionarli, da una Chiesa che non vuole dettare norme ma si mette in dialogo».

Favorire la diffusione culturale della Scrittura

Il fenomeno della riscrittura della Bibbia non nasce certamente con Scrittori di Scrittura: basterebbe prendere il catalogo di qualsiasi casa editrice per verificarlo, o semplicemente leggere la Bibbia stessa per accorgersi che numerosi brani sono riscritture di altri brani. «In generale mi sembra che il fenomeno della riscrittura sia esteso, soprattutto all’estero. In Italia si fa un po’ di fatica in più, secondo me perché non c’è una cultura della Scrittura. Un piccolo contributo in questo senso il nostro progetto lo dà: quando uno legge il libro di Gambarotta sul Saul, magari è spinto a leggere il testo originale nel Primo libro di Samuele».

Oltre alla funzione di invito alla lettura della Bibbia, però, il fenomeno della riscrittura ha, più profondamente, lo scopo di arricchire la lettura di fede della Parola. L’approccio narrativo alla Bibbia ha la sua specificità che lo affianca ad altri approcci come quello storico critico o teologico, quello psicologico o femminista. «Il metodo narrativo è un metodo tra molti, buono sia a livello tecnico per gli esegeti, che catechistico. Tra i suoi pregi vedo l’empatia suscitata nei lettori, utile per l’interiorizzazione della Parola. Questo infatti è un passo su cui, credo, tutti facciamo difficoltà: come arrivare a fare una lettura esistenziale della Bibbia? Come passare dal “cosa dice il brano” al “cosa mi dice il brano”? Scrittori di Scrittura, oltre a dirci quello che il brano ha suggerito allo scrittore, mostra che ognuno di noi può riscrivere il testo biblico applicandolo alla propria vita».

Luca Lorusso

 Il progetto prevede altri futuri volumi. Intanto è consultabile il sito www.scrittoridiscrittura.it nel quale è possibile seguire un blog con riflessioni e approfondimenti sulle tecniche narrative dei Vangeli, sul rapporto che la Scrittura ha con arte, letteratura e cinema. Nel sito sono presenti anche i video delle presentazioni dei singoli volumi con gli autori.


Tre scrittori rispondono

Margherita Oggero

Come ha accolto la proposta di riscrivere un brano biblico?

Da non credente inquieta e riluttante, ho accolto con perplessità la proposta e ho spiegato le mie difficoltà nei confronti della fede. Mi è stato risposto che gradivano anche voci dissonanti e quindi ho accettato.

Perché ha scelto il personaggio di Isacco?

La figura di Isacco è in stretta relazione con quella di Gesù Cristo. È una vittima (mancata) delle imperscutabili scelte di Dio. Una figura tragica che vive un dramma più grande delle sue capacità di comprensione. Ho scelto di raccontare un uomo stanco sul limitare della morte, un uomo che non ha certezze granitiche, che è stato offeso dalla vita e tradito dai suoi cari, che chiede a Dio di concedergli la morte e che si rivolge a Lui con franchezza e coraggio, come i grandi personaggi del Vecchio Testamento.

Com’è la sua relazione con la Bibbia?

Amo molto la Bibbia, che è una delle mie letture ricorrenti. La amo perché è uno dei testi fondativi della nostra civiltà e perché è, letterariamente, uno dei più grandi.

Davide Longo

Come ha accolto la proposta di riscrivere un brano biblico?

L’ho accolta con curiosità e interesse, senza pregiudizi. Del resto, pur non essendo io credente, ho molte volte lavorato sui Vangeli per analizzae o spiegae, durante il mio lavoro di docente alla Scuola Holden, le strutture narrative.

Perché ha scelto il brano delle nozze di Cana?

Perché narrativamente è un momento potentissimo, dove l’autore lascia molti spazi bianchi che chiede al lettore di riempire. È una scena minimale, eppure cruciale. Assomiglia molto a certo cinema d’autore fatto di vuoti e silenzi.

Come ha scelto la sua modalità di riscrittura?

Ho stemperato la solennità e drammaticità del momento del primo miracolo pensando a un ribaltamento infantile. I miei ricordi di catechismo sono di una noia e di una retorica mostruosi. Ho sempre pensato che la Chiesa, potendo disporre di materiale narrativo così forte e riuscito, lo sprecasse nella maggior parte dei casi, proponendo ai ragazzi delle letture patetiche, smorte, incolore o di un moralismo avvilente, per nulla all’altezza dei ritmi e degli snodi narrativi della Bibbia o dei Vangeli. Così ho scritto per i bambini, divertendomi e per divertirli.

Com’è la sua relazione con la Bibbia?

Dal punto di vista delle tecniche stiamo parlando di materiali narrativi che sono all’origine del nostro modo di raccontare storie, di leggerle, di empatizzare con la parola scritta. È una miniera infinita, ogni scavo porta alla luce qualcosa di bello, che ci parla e ci spiega la nostra relazione con le storie.

Tiziano Fratus

Come ha accolto la proposta di riscrivere un brano biblico?

Inizialmente ero scettico, poi ho pensato che si trattava di una sfida come un’altra. Così ho ripreso in mano l’Antico Testamento e ho iniziato a rileggere alcuni profeti. Per anni ho lavorato ad un libro che partiva da Giona, e alla fine ho individuato la figura di Geremia.

Perché proprio Geremia?

Perché segue il suo Dio fino alle estreme conseguenze. Chi oggi abbraccia la poesia e la scrittura come scelta di vita compie una scelta molto complessa, che la nostra società non tende affatto a premiare. Quindi ero interessato a indagare le eventuali motivazioni che spingevano questo profeta a pagare fino in fondo per credere in una causa.

Come ha scelto la sua modalità di riscrittura?

Il frammento è parte della mia scrittura, sia in prosa sia in poesia. Ho inteso il racconto come una scelta di sette diverse rotazioni, o atti, dell’esistenza di questo personaggio, che è molto distante dalla fonte biblica anticotestamentaria. Non mi sono preoccupato di seguire una linea per così dire religiosa, ho soltanto cercato di dare ascolto al personaggio e di scrivere al mio meglio.

Com’è la sua relazione con la Bibbia?

In questi anni ho spesso navigato opere spirituali e religiose: i testi sacri indiani, i testi fondamentali del taoismo e di parte del buddismo, testi orfici, così come diari e opere di carattere metafisico e mistico. La rilettura di alcuni libri della Bibbia rientrava in questo percorso, il progetto di Effatà mi ha spinto a farlo entro certi tempi e per un motivo pratico che supera la mera conoscenza.

L.L.




Tibet rischio di non sentirsi nessuno


Dall’occupazione cinese del 1950, il Tibet sta subendo un modello di sviluppo degradante e impoverente. L’industria estrattiva, energetica, delle comunicazioni e, ultimamente, quella turistica, procurano danni gravi. Non solo ambientali, ma anche culturali, religiosi, sociali ed etnici. Al punto che gli abitanti della regione a volte non si sentono né cinesi, né tibetani.

«Martedì 20 novembre 2012 un ragazzo tibetano […] ha preso un sentirnero su per la collina fino all’ingresso della miniera d’oro a Gyagar Thang, si è versato kerosene su tutto il corpo e si è dato fuoco». Secondo il Tibetan Centre for Human Rights, il venticinquenne ha voluto denunciare il disagio delle comunità locali colpite dalle operazioni minerarie delle aziende cinesi nella zona.

«Il numero di tibetani che si sono autornimmolati negli ultimi anni sta aumentando a un ritmo allarmante», afferma un articolo firmato nel 2013 dal Tavolo ambiente e sviluppo del Goveo tibetano in esilio a Dharamsala, in India, e prosegue: «Oltre ai fattori politici, sociali, religiosi ed economici, una delle cause principali di tale disperazione sono le attività di estrazione e di inquinamento in Tibet». Il dolore causato dal deterioramento degli equilibri ecologici locali e dei modi di vita tradizionali porta alcuni ad atti estremi di dissenso. L’occupazione cinese del Tibet nel 1950 ha aperto la porta allo sfruttamento sistematico dei minerali di cui è ricco (rame, oro, cromite, alluminio, ferro, boro, piombo, zinco, litio), ma anche del petrolio greggio, del potassio, amianto, gas naturale e carbone. L’inquinamento dell’acqua e l’impatto delle centrali idroelettriche per fornire energia alle miniere e, non ultimo, l’aumento del turismo cinese, facilitato dall’apertura di ferrovie e strade, aggravano le condizioni di vita delle popolazioni locali. In più, per facilitare l’estrazione delle risorse naturali, le autorità costringono i nomadi a stabilirsi in villaggi costruiti ad hoc dove perdono le loro pratiche tradizionali e quindi i loro riferimenti culturali.

A Dharamsala abbiamo parlato di questi problemi con Tempa Gyaltsen Zamlha, ricercatore del Tavolo dell’Ambiente del Tibet Policy Institute (presso il governo tibetano in esilio).

Ci può spiegare il suo lavoro al Tavolo ambiente e sviluppo e i suoi principali obiettivi?

«Il Tavolo è stato istituito nell’ambito del Policy Institute tibetano a Dharamsala: da qui monitoriamo la situazione ambientale in Tibet. Cerchiamo anche di informare la comunità internazionale sull’importanza ecologica dell’altipiano del Tibet a livello mondiale. Ci rivolgiamo particolarmente al governo e alla popolazione cinese. Il nostro obiettivo è quello di proteggere l’altipiano più alto e più esteso del mondo, che ospita la più grande concentrazione di ghiacciai dopo i due poli, e anche la sorgente dei fiumi più importanti dell’Asia. Lavoriamo anche perché la civiltà tibetana, che ha prosperato per migliaia di anni, possa continuare a vivere una vita sana e felice, e anche perché le nazioni a valle continuino a godere dei fiumi da cui le loro civiltà dipendono.

Per i tibetani, la missione ambientale è uno dei compiti più urgenti. Sua Santità (il Dalai Lama) ha detto una volta che la questione politica può attendere, ma non l’ambiente».

Quali sono le principali sfide ambientali di oggi per il Tibet?

«Le principali minacce sono i cambiamenti climatici, ma anche l’impatto umano, in particolare l’eccessiva attività mineraria.

Come tibetani, abbiamo un rapporto molto intimo con la natura, perché crediamo che Dio sia presente in tutto, nelle montagne come nei fiumi.

Le cose sono radicalmente cambiate dall’occupazione cinese del Tibet nel 1950. Ad esempio sono state costruite strade e linee ferroviarie che rendono l’estrazione molto più facile, economica e redditizia. Inoltre, la Cina ha costruito molte centrali idroelettriche, indispensabili per l’industria».

«I tibetani non sono contro l’estrazione di per sé, ma contro l’estrazione nei pressi di villaggi, di corpi idrici, di montagne sacre o di praterie usate dai nomadi. Per le attività minerarie nella vasta pianura del Nord dove c’è meno popolazione, non c’è quasi nessuna protesta.

Le montagne sacre hanno un forte legame storico, culturale, politico e spirituale con la vita del popolo tibetano. Non lontano da Lhasa (capitale del Tibet cinese), ad esempio, si trova il Monte Yarlha Shampo. Esso era la residenza di un dio della religione tradizionale Bon. Il primo dei sette ministri nobili nella storia del Tibet che nel 7° secolo d.C. hanno contribuito alla ricostituzione del regno, era considerato figlio di Yarlha Shampo. Ci sono molte montagne sacre simili in Tibet, che sono rispettate e protette dalla gente».

Che legame c’è fra la sacralità di un monte e la resistenza ambientale delle comunità?

«La credenza nella sacralità di un luogo svolge un ruolo importante nella sua conservazione e protezione. La biodiversità in queste aree è infatti più elevata: la gente cerca di non tagliare alberi o cacciare animali. Non tutte le montagne sono considerate sacre, ma se studiamo la posizione dei siti sacri saremo sorpresi di notare che corrispondono alle zone più importanti dell’ecosistema locale, alla montagna con più ghiacciai, al lago che è fonte di molti fiumi, a una zona umida che sostiene la vegetazione nella regione. La credenza nella sacralità di una montagna è un fenomeno antico e anche molto intelligente: è grazie a questo che i tibetani hanno preservato gli ecosistemi per migliaia di anni, nonostante le dure condizioni climatiche, a una quota tanto estrema».

Ma ora le cose stanno cambiando. E rapidamente.

«Le compagnie minerarie cinesi stanno entrando in questi territori. I nomadi tibetani sono stati sfollati e reinsediati altrove dal governo cinese. Ogni volta che le comunità locali resistono, vengono prima di tutto invitate ad andarsene, poi le aziende cercano di convincerle dell’importanza del progetto per il loro sviluppo. Se l’opposizione persiste, cercano di dividere i membri della comunità offrendo denaro o altro, infine passano al dispiego delle forze di polizia.

È molto importante per noi rendere note queste informazioni al mondo esterno e al governo cinese. Il mondo ha la responsabilità di reagire.

Negli ultimi anni ci sono stati molti progetti di estrazione su larga scala, ma solo pochi tibetani vi lavorano. La maggior parte dei lavoratori vengono dalle province cinesi. Sono i governi locali, oltre alle società, che beneficiano dell’estrazione mineraria in aree tibetane, non la comunità».

Miniere e costruzione di grandi infrastrutture sono la causa di un gran disagio sociale in tutto il mondo, anche a causa degli sfollamenti su larga scala. È questo il caso anche del Tibet?

«Sì, lo spostamento di intere comunità avviene regolarmente in Tibet. I nomadi, che normalmente si trasferiscono in un sito di pascolo diverso ogni tre mesi, al fine di non esaurire le risorse, si ritrovano costantemente a confrontarsi con le compagnie che invadono la loro terra con l’appoggio del governo. Per accelerare questo processo, la Cina ha introdotto politiche di reinsediamento in villaggi construiti appositamente, con case addossate le une alle altre e servizi mal funzionanti, e con specifiche restrizioni sull’uso della terra. Si tratta di uno sfollamento non solo da un luogo, ma da uno stile di vita.

Il governo cinese sostiene poi che i nomadi devono essere modeizzati, i bambini educati, e che ciò è più facile quando la popolazione vive concentrata in un villaggio. Ma abbiamo le prove che la vita in questi villaggi si è deteriorata. Le persone diventano dipendenti dai sussidi del governo e perdono le loro fonti di indipendenza economica (bestiame, praterie, ecc.), cosa che fa aumentare l’alcolismo e la prostituzione.

Quello che il governo cinese ha fatto è spingere i nomadi nella povertà assoluta».

Ha citato anche il turismo come problema ambientale urgente. Da dove vengono questi turisti e cosa cercano?

«Il problema del turismo in Tibet sta nella sua concentrazione in alcune zone e nella brevissima stagione estiva, con dei numeri enormi di visitatori. Recentemente la Cina ha attivato percorsi per visitare laghi sacri e altri importanti siti ambientali, cosa che ha avuto un impatto grave per le persone e la terra.

Il turismo crea poca ricchezza e lavoro per i tibetani locali. La maggior parte dei turisti in Tibet sono cinesi che viaggiano con pacchetti giornalieri prenotati attraverso agenzie di viaggio cinesi che prenotano alberghi cinesi, autisti cinesi e guide cinesi e mangiano in ristoranti cinesi. Così la maggior parte del denaro speso dai turisti cinesi che viaggiano in Tibet torna in Cina».

Il suo lavoro nel documentare resistenze socio ambientali in Tibet è abbastanza unico. Ci racconta un caso?

«Il più noto è probabilmente quello della miniera Gyama Copper Gold Polymetallic Mine in una zona ricca di rame, zinco, piombo, litio, vicino a Lhasa, la capitale. Il governo l’ha dichiarata miniera modello nonostante le vicine comunità abbiano protestato per più di cinque anni denunciando i disagi creati alla vita nomade e l’inquinamento delle acque del vicino fiume. Nel 2013 un’enorme frana ha ucciso più di 80 lavoratori nei pressi della miniera. Anche se il governo sostiene che la frana sia stata causata da fattori naturali, noi abbiamo le prove che la causa primaria è stata una cattiva gestione della miniera».

Esiste una rete di persone che si batte per l’ambiente in Tibet? Le Ong ambientaliste in Cina e in Tibet possono allearsi per la giustizia ambientale e sociale?

«Ci sono buone Ong ambientali in Tibet, ma la maggior parte di esse sono state costrette a chiudere dopo le proteste del 2008. Ci sono anche alcune buone Ong ambientali cinesi che lavorano in Tibet. Il problema è che quando una Ong sta facendo un grande lavoro sociale e ambientale, il governo locale cerca in diversi modi di farla chiudere etichettandola come separatista. Qualsiasi collaborazione sarà quindi abbastanza problematica».

In Europa e altrove si dibatte su decrescita o visioni alternative di sviluppo. Qual è il tuo pensiero in merito?

«Questo è qualcosa su cui qui discutiamo molto. Ci chiediamo “qual è lo sviluppo per tutti? Non è semplicemente essere felici? Cosa succede quando a qualcuno non va bene il tuo modo di intendere lo sviluppo, come ad esempio ai nomadi?”. Sviluppo, per me, dovrebbe essere il livello di soddisfazione di te come persona. Per i tibetani, i nomadi sono persone felici perché hanno le loro risorse e la libertà. Diciamo anche che non dovremmo cercare di imporre un’unica definizione di felicità su tutti. Lasciate che ognuno trovi la sua strada, e rispettate la vita. Naturalmente, non tutto ciò che è antico è buono di per sé, ma cerchiamo la parte buona di questo passato e preserviamola. A volte i tibetani non si sentono abbastanza cinesi per fare le cose cinesi, e non abbastanza tibetani per vivere come vivevano i loro antenati. Tra i due, il rischio è di non sentirsi più nessuno.

Daniela Del Bene
Co-editrice di Ejatlas


Per approfondire

Environmental and Development Desk, http://tibet-edd.blogspot.com.es/.
Documentario Shielding the Mountains, regia di Kunga Lama. Prodotto da Emily Yeh.
Tibet Centre for Human Rights and Democracy, Imposing Modeity with Chinese Characteristics, Dharamsala 2011.
Jampel Dell’Angelo, The sedentarization of Tibetan nomads: conservation or coercion?, p. 309-332 in H. Healy et al, Ecological Economics from the Ground Up, Routledge, London, 2012.
We are here to stay, documentario prodotto dal progetto Lamca-Ejolt.

Archivio MC:

Interviste con il Dalai Lama, ott.-nov. 2001 e giu. 2013;
Lhasa, nella morsa di Pechino, mar. 2010;
Contro Pechino a costo della vita, dic. 2012.

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il quarto articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas). Nei prossimi numeri verranno pubblicate altre storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.


Sotto il giogo cinese

Il Tibet è una regione dell’Asia centrale, grande quattro volte e mezzo l’Italia, con un’elevazione media di 4.500 metri sul livello del mare, appartenente per la gran parte alla Cina, in piccola parte all’India. La parte cinese, che nel 2005 contava 2.740.000 abitanti, chiamata ufficialmente Xizang, fu occupata dalla Repubblica Popolare Cinese nell’ottobre 1950 e dichiarata regione autonoma nel 1965. La sua capitale Lhasa (3.650 metri sul livello del mare) conta circa 200mila abitanti.

Dal 1951 è iniziata l’immigrazione dalle altre regioni cinesi. Tanto che oggi i non autoctoni, prevalentemente militari e coloni agricoli e tecnici delle attività industriali, costituiscono circa il 20% della popolazione. All’aumento dell’immigrazione corrisponde una notevole emigrazione di tibetani verso altri paesi: sono circa 2 milioni i tibetani che vivono fuori dal Tibet.

Tra la popolazione autoctona sono ancora presenti gruppi di nomadi che vivono di pastorizia. Prima dell’annessione alla Cina nel 1951, la classe monacale buddista, che contava circa un ottavo della popolazione complessiva, era molto potente, tanto da conferire allo stato tibetano un carattere teocratico, con a capo il massimo esponente spirituale, il Dalai Lama. Dall’anno dell’annessione, la Cina, ignorando le istanze indipendentiste dei tibetani, iniziò un programma di sviluppo che venne osteggiato dalla popolazione locale fino alla rivolta di Lhasa del 1959 che venne repressa dal regime cinese costringendo alla fuga il 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, in India, a Dharamsala, dove costituì il governo tibetano in esilio.

Nei decenni successivi la Cina ha continuato a intensificare l’attività di sviluppo e integrazione del Tibet allo scopo di omologare sempre più (anche sul piano culturale ed etnico) la regione al resto della Repubblica popolare. Un ultimo tentativo di rivolta nella regione è stato quello del 2008, represso con la violenza dal governo comunista.

L’attuale posizione del Dalai Lama, che nel 2011 ha rinunciato al potere politico, affidando la guida del governo in esilio a Lobsang Sangay, riguardo alla questione tibetana è quella da lui stesso denominata «la via di mezzo», per un Tibet con un alto grado di autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese: «Sono finiti i giorni in cui si assisteva alla vittoria di una parte e alla totale sconfitta dell’altra – ha ribadito il 13 settembre scorso in una conferenza a Parigi -. È necessaria una riconciliazione, altrimenti la nostra lotta non avrà successo».

La religione prevalente del Tibet è il buddismo tibetano, introdotto nella regione nell’8° secolo d.C. Accanto al lamaismo sono presenti la religione autoctona, il Bon, ed elementi di sciamanismo.

Luca Lorusso

 




Storia del giubileo 12: dal mercato delle indulgenze

Nel 1510, appena dieci anni dopo il giubileo del ‘500, un monaco tedesco di nome Martin Luther, un uomo religioso senza alcuna velleità rivoluzionaria, fece un pellegrinaggio a Roma, desideroso di arrivare per la prima volta nella città santa, il cuore della cristianità, la sede del successore di Pietro. Entrando in città, non fu particolarmente scandalizzato dall’immoralità del clero romano, né dalla vitalità espressa da una città trasformata in un immenso cantiere. Al contrario rimase colpito dallo splendore e dall’arte, lo stesso stupore che coglie, anche oggi, chiunque ammiri la bellezza di Roma, di San Pietro e delle grandi basiliche, costruite nei secoli con grande magnificenza e dovizia, anche se, quasi nessuno si ferma a considerae i costi umani in corruzione, versamento di sangue dei poveri, sfruttamento.

Luther in quei giorni celebrò la messa in San Pietro e non poté fare a meno di riflettere sul fatto che, mentre lui celebrava la sua, nella cappella accanto non meno di dieci preti si erano avvicendati per altrettante messe, unicamente perché ogni celebrazione veniva «retribuita».

Ritornando in Germania, si dedicò all’insegnamento, maturando sul piano teologico la sua coscienza di cristianesimo. Ridurre Luther a esempi esteriori o motivare la sua predicazione con fatti episodici, significherebbe sminuie la portata. La questione delle indulgenze è occasionale, ma la sua teologia va ben oltre il mercato che pure ci fu e fu indegno, corrotto, simoniaco e peccaminoso.

Le indulgenze

Il sistema delle indulgenze si era consolidato nel corso degli otto giubilei celebrati fino al 1500 e costituiva una fonte economica di grande portata perché il popolo vi ricorreva con l’ansia e il desiderio di commutare le pene post mortem per sé e per i propri defunti. L’amministrazione vaticana e anche locale se ne serviva come uno scrigno sempre aperto per finanziare opere pubbliche, guerre e interessi privati. Giulio II (1503-1513) nel 1507 e Leone X (1513-1521) nel 1514 avevano concesso l’indulgenza plenaria a chi, confessato e comunicato, avesse donato una somma di denaro per la costruzione della nuova basilica di San Pietro. In Germania, il commissario papale, Alberto di Brandeburgo, usò la metà del denaro raccolto con le indulgenze per sanare un debito personale con i banchieri Fugger di Augusta. Gli aneddoti potrebbero moltiplicarsi all’infinito, ma resterebbero comunque solo una piccola parte delle conseguenze che si potrebbero elencare dell’idea di salvezza presente nella teologia del tempo. Le indulgenze non possono trasformarsi in una trattativa a buon mercato per «comprare» la gratuità con cui Dio dona se stesso all’umanità. Con la «scoperta» del nuovo mondo, non può non nascere anche una «nuova Chiesa» che transita dal Medio Evo monolitico alla modeità pluralista.

Le famose tesi di Wittemberg (31 ottobre 1517) formulate da Luther altro non sono che la formalizzazione di questi interrogativi. Se Roma avesse avuto papi che, invece di dedicarsi alla caccia al cinghiale, avessero ascoltato il grido di dolore che saliva da tutta la Chiesa per una purificazione e riforma generali, lo scisma d’Occidente, forse, non si sarebbe consumato. Lo prova la stessa convocazione del concilio di Trento da parte di papa Paolo III (1534-1549) nel 1545. Il concilio, proprio con la condanna di Luther, di fatto gli dà ragione, perché risponde con la riforma della dottrina delle indulgenze e, sul piano strettamente teologico, s’interroga sulla «giustificazione», contrapponendosi a Luther più per motivi circostanziali ed estei che per contenuto dottrinale, come dimostreranno gli eventi di quattro secoli dopo, quando, rasserenati gli spiriti e fatto discernimento con intelligenza e sapienza storica, il 31 ottobre 1999 ad Augsburg in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica romana sarà firmata una «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione1».

Dal concilio di Trento una lenta ripresa

Cinque anni dopo l’inizio del concilio di Trento, che durò diciotto anni fra altee vicende, nel 1550 ci fu il decimo giubileo della storia della Chiesa indetto da Paolo III. Papa rinascimentale, padre di molti figli naturali e nepotista non meno osceno di Alessandro VI, egli aveva capito la necessità di una riforma della Chiesa, ormai slabbrata da ogni parte, e a questo scopo nel 1542 aveva riorganizzato l’Inquisizione a difesa della purezza della fede che invece sarebbe riuscita solo a macchiarla ancora di più con le sue nefandezze e i suoi soprusi. Contemporaneamente aveva sostenuto i nuovi ordini religiosi: Teatini, Cappuccini, Baabiti, Somaschi, Orsoline e approvato l’ordine di Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù, che avrebbe assunto il compito non facile di traghettare la religiosità dal livello della devozione emotiva a quello dell’intelligenza e del «discernimento spirituale». Durante questo giubileo, Filippo Neri inaugurò a Roma l’Ospizio di Trinità dei pellegrini. Intanto in Spagna, Teresa d’Avila fondava monasteri di clausura, femminili e maschili per riformare il monachesimo, ormai moralmente degenerato. Lei e Giovanni della Croce sarebbero stati vittime dell’Inquisizione che non avrebbe più distinto il grano dal loglio perché, accecata dall’ossessione dell’eresia e dal fatto di essere diventata strumento di epurazione nelle mani del potere politico di re e regine, vedeva fantasmi ed eretici in ogni dove.

Il fiammifero acceso da Luther dilagò in incendio in tutta Europa, dalla Germania, alla Svizzera, all’Inghilterra, ai paesi Scandinavi e fino al cuore del Regno pontificio, in città come Lucca, Viterbo, Modena e Ferrara, dove i libri dei «Riformati» circolavano ampiamente, nonostante l’ordine papale di consegnarli pena la morte. Nell’anno del giubileo del 1550, il 3 giugno, Roma visse per la prima volta il rogo di opere considerate eretiche. Se si arriva a bruciare un libro, pensando di eliminare un’idea o estirpare un sentimento, si può arrivare senza problemi di coscienza a bruciare le persone che quelle idee e quei sentimenti custodiscono nel loro cuore. Fece così l’Inquisizione. Faranno allo stesso modo tutti i totalitarismi seguenti fino al comunismo, al nazismo e al fascismo recenti. In questo giubileo, il papa Giulio III (1550-1555) si diede anche a manifestazioni goderecce, che amava particolarmente, come combattimenti di tori, carnevale sguaiato, banchetti, giochi, compreso quello d’azzardo. Nel mese di novembre del 1550, quasi alla chiusura del giubileo, il papa volle assistere a Castel Sant’Angelo alla rappresentazione di «Cassaria» di Ludovico Ariosto. Michelangelo Buonarroti, ormai ultrasettantenne, partecipò al giubileo, insieme al Vasari, con un’intensa spiritualità, visitando le basiliche prescritte con grande raccoglimento e devozione.

Gregorio XIII: il nuovo calendario

Il primo giubileo che possiamo definire, in qualche modo, «moderno», fu quello del 1575, aperto e chiuso dal papa bolognese e riformatore Gregorio XIII (1572-1585), il papa che introdusse il calendario «gregoriano» in sostituzione di quello «giuliano» in uso fino ad allora. A questo giubileo prese parte anche Carlo Borromeo, vescovo di Milano, forse il più grande fautore ed esecutore della riforma del concilio di Trento. Papa Gregorio diede una svolta al giubileo e alla vita della curia. Fu esempio non solo di austerità, ma specialmente di coerenza, cornordinando di persona il giubileo che volle «spirituale», senza distrazioni: proibì carnevale, feste e giochi pagani, volle che anche cardinali e preti fossero modello di vita per i fedeli, si curò dell’accoglienza dei pellegrini, preoccupandosi che avessero cibo e alloggio, vietando speculazione e aumento di prezzi.

La fine del concilio di Trento dodici anni prima (1563) e la nascita del Protestantesimo costrinsero la gerarchia cattolica più avveduta a mettere in atto una profonda riforma, ormai non più dilazionabile, che portasse i cuori e le strutture dal paganesimo cristianeggiante alla spiritualità evangelica. Avvenimenti come quelli accaduti nella notte tra il 23 e 24 agosto del 1572 – passata alla storia come la notte o il macello di San Bartolomeo -, quando a Parigi i cattolici, in nome di Dio e a sua gloria, macellarono gli Ugonotti protestanti, non sarebbero dovuti mai più accadere. Dal macello si salvò solo chi aveva al collo o sulla berretta una piccola croce d’argento, usata in passato dai pellegrini romei. Ciò dimostra come i simboli giubilari fossero diventati di uso comune nella vita quotidiana.

Se iniziava la riforma, questa non poteva che essere restaurazione sistematica del cattolicesimo latino che in quel momento storico si contrapponeva al Protestantesimo. Si misero in atto i decreti e la volontà del concilio di Trento, con strumenti pratici ed efficaci come l’obbligo del Breviario e del Messale per il clero, il Catechismo come testo di catechesi per sacerdoti diffusamente impreparati e incolti, l’istituzione dei seminari per la formazione dei futuri preti. Nel 1600 Clemente VIII (1592-1605), protagonista della pace di Versailles fra il re di Spagna, Filippo II, ed Enrico IV, re di Francia, indisse il giubileo senza arretrare minimamente nell’azione repressiva di cui fu prova la condanna di Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600, quasi una inaugurazione dell’apertura della porta santa. Con il sec. XVII si entrò in una visione e cultura nuove, segnate dallo spirito del barocco con il senso del solenne, del maestoso e delle manifestazioni pompose come processioni e rappresentazioni teatrali tratte da esperienze di vita. Contro il Protestantesimo «comunitario», Roma diventò il centro sempre più «accentrato» della cristianità, esaltando la figura del papa fino a una sorta di culto della personalità. Se nel secolo dell’umanesimo, il XV, il papa era stato prevalentemente l’«Uomo Nuovo», attorniato da cortigiani e cortigiane di ogni specie, nel secolo della modeità egli diventò il successore di Pietro, il Vicario di Cristo, il «fondamento» dell’unità della Chiesa cattolica. S’intensificarono le «opere» anche per contrastare il «quietismo» che si era diffuso specialmente in Spagna come disposizione passiva dell’anima davanti a Dio, disposta a lasciarsi possedere dallo Spirito; s’incentivò la preghiera vocale per la «conquista» della grazia, e si contrastò l’orazione mentale e la mistica per paura di non poterle controllare. Miguel Molinos, esponente di una spiritualità in cui la grazia è vista come dono gratuito, dopo essere stato messo all’indice, sarebbe morto nelle carceri dell’Inquisizione nel 1696.

Una lenta e ordinaria decadenza

I successivi otto giubilei, dal 1625 (Urbano VIII, 1623-1644) al 1825 (Leone XII, 1823-1829), rientrarono in una routine ormai consolidata che vide l’affinarsi dell’aspetto spirituale e la diminuzione di quello politico, anche perché il papato entrò in una fase di lunga transizione che si sarebbe perfezionato con la perdita del potere temporale pontificio nel 1870, regnante Pio IX (1846-1878). La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 segnò la data ideale e ufficiale di annessione di Roma al Regno di Sardegna e di Piemonte, realizzando il sogno dell’unità d’Italia del Risorgimento. L’ultimo giubileo regolamentare fu quello del 1775 convocato da Clemente XIV (1769-1774) ma celebrato da Pio VI (1775-1799) con grande spreco di giochi pirotecnici e «macchine abbruciate davanti immenso pubblico», un carnevale più che un anno santo. Nel 1800, in pieno impero napoleonico, il giubileo non fu celebrato, a causa della sede vacante: il conclave riunito a Venezia, infatti, fu lungo e faticoso. Una volta eletto, Pio VII (1800-1823) rientrò in una Roma deserta di prelati e, per il 1801, concesse l’indulgenza giubilare senza l’obbligo di recarsi a Roma. Il 9 aprile del 1802 la concesse ai Francesi per commemorare il concordato tra Francia e Santa Sede, siglato dall’imperatore Bonaparte e dal cardinale Consalvi.

Leone XII (1823-1829) convocò il giubileo del 1825, iniziando una lotta impari contro «l’indifferentismo» religioso e le nuove idee, socialiste e liberali, che si assestavano in tutta Europa e ponevano il papa tra gli ultimi epigoni reazionari della storia, incapaci di leggere i «segni dei tempi» e di interpretarli alla luce del Vangelo. Nel corso dell’anno furono giustiziati Angelo Targhini e Leonida Montanari accusati di «carboneria». Di fronte al volgere della storia che travolgeva qualsiasi resistenza, i papi furono in grado solo di frenare il cammino della Chiesa per paura di perdere autorità e controllo sulle masse. Pio IX proseguì l’opera miope e oscurantista del suo predecessore, Gregorio XVI (1831-1846), che nell’enciclica Mirari Vos del 15 agosto 1832 aveva scritto:

«Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentirnero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione».

Povero papa, come poteva immaginare che appena 133 dopo, addirittura un concilio, il Vaticano II, lo avrebbe solennemente smentito, elogiando la libertà di coscienza dichiarata «incoercibile» da parte di qualsiasi potere? Il Vaticano II, con le firme dell’episcopato di tutto il mondo insieme al Papa, Paolo VI (1963-1976), il 7 dicembre 1965, con 2308 voti favorevoli e 70 contrari, approvando il decreto Dignitatis Humanae, solennemente avrebbe proclamato:

«Il Concilio Vaticano II dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà comporta che tutti gli uomini devono essere immuni da ogni costrizione da parte di individui, o gruppi sociali o di qualsiasi altro potere umano, di modo che nessuno sia costretto ad agire contro la propria coscienza» (Dignitatis Humanae, 2).

Pio IX, l’ultimo papa re

Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere dal giorno che vide anche Pio IX fuggire da Roma verso Gaeta, nel 1850, anno in cui avrebbe dovuto indire il giubileo regolare. Il Papa aveva altro cui pensare e ripiegò concedendo l’indulgenza all’Italia e alla cattolicità, rinnovate in vari modi e tempi fino al 1869, quando con una solenne celebrazione, corredata da indulgenza plenaria, avrebbe voluto concludere il concilio Vaticano I che, su sua imposizione, doveva dichiarare il dogma dell’infallibilità pontificia. La scelta di non celebrare un giubileo specifico fu motivata dal fatto che Roma era occupata e non voleva ratificare, attraverso l’afflusso di eventuali pellegrini, l’atto di «usurpazione» da parte di Vittorio Emanuele e Cavour che egli scomunicò.

Nel 1875, Pio IX indisse il giubileo alla scadenza dei 25 anni, ma non aprì la porta santa in segno di lutto per la presa di Roma. Si limitò a concedere indulgenze e concessioni varie, espressioni più del terrore di sentirsi prigioniero in Vaticano che dell’evento giubilare. Impotente, dovette assistere alla demolizione della cappella del Colosseo da parte degli anticlericali risorgimentali. Se papa Lambertini (Benedetto XIV, 1740-1758) aveva incluso il Colosseo nel circuito giubilare come luogo dei martiri, ora lo stesso luogo era diventato il simbolo dell’insignificanza del papato che aveva intorno a sé solo nemici. Sarebbe stato un papa non italiano, il polacco Giovanni Paolo II (1978-2005), che nell’anno giubilare millenario del 2000, avrebbe preso di nuovo possesso del Colosseo, per fae il luogo della richiesta di perdono da parte della Chiesa davanti alla Storia per tutte le ingiustizie che nel corso dei secoli ella, per mezzo dei suoi figli e figlie, aveva compiuto. Questo però è un altro millennio e un’altra storia.

Paolo Farinella, prete
12, continua.

Note:

1- Per una informativa esauriente, cf. A. Maffeis, Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolicoluterana, commento e dibattito teologico, Queriniana, Brescia 2000; A. Birmelé, Uniti sulla giustificazione, in Regno–Documenti 45 [2000] 127-136.




Libertà religiosa: molte critiche e poche azioni


Nel 74% dei paesi del mondo avvengono violazioni del diritto di libertà religiosa. Sono note le vicende del Medio Oriente, un po’ meno forse quelle di altri paesi come l’India e la Cina. L’Unione europea e gli Usa alzano la voce perché nel mondo venga garantita la libertà di culto, ma alle analisi e dichiarazioni seguono azioni poco efficaci. In più non sempre Usa e Ue sono coerenti al loro interno con ciò che chiedono agli altri.

Non è difficile, soprattutto nel corso degli ultimi anni, imbattersi in notizie che raccontano di continue violazioni dei diritti delle minoranze religiose in diversi paesi del globo. Se si prendesse un mappamondo, lo si facesse girare in uno dei due sensi, lo si fermasse e si puntasse il dito a caso, si avrebbe il 74% di possibilità di indicare un territorio, uno stato, nel quale avvengono serie violazioni del diritto di libertà religiosa. Secondo i dati del Pew Research Centre on Religion & Public Life è questa la percentuale di paesi nei quali si registrano restrizioni particolarmente significative sulla religione.

Fino al genocidio

Tali limitazioni al dispiegamento dell’attività religiosa nella sfera pubblica possono essere determinate da molteplici fattori. Per i ricercatori del Pew Research Centre, sono due quelli principali: le norme che disciplinano le attività dei gruppi di fedeli delle diverse religioni e, in secondo luogo, le ostilità dovute a elementi culturali in una data società nei confronti dei membri dei vari credo. Appartengono alla prima categoria, ad esempio, tutti quei paesi che hanno emanato leggi particolarmente severe nei confronti delle attività dei missionari e delle conversioni. Le ostilità sociali si riscontrano soprattutto in quei paesi nei quali il tasso di applicazione della legge e la tutela dei diritti civili sono molto bassi e nei quali quindi è difficile sanzionare e disincentivare comportamenti discriminatori.

Vi sono poi alcuni casi gravissimi per i quali si può addirittura parlare di vero e proprio genocidio. È quanto ha ad esempio affermato nel giungo 2016 la United Nations Independent Inteational Commission a riguardo delle violenze commesse in Siria e Iraq dai militanti dello Stato islamico nei confronti delle minoranze yazide e cristiane costrette ad abbandonare le loro case, a trovare rifugi di fortuna o a fuggire all’estero. La commissione ha formalmente riconosciuto il genocidio perpetrato ai loro danni chiedendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di «riportare con urgenza la situazione in Siria di fronte alla Corte penale internazionale o di stabilire un tribunale ad hoc con un’ampia giurisdizione geografica e temporale».

Il rapporto usa parole particolarmente forti per descrivere le azioni poste in essere dai militanti islamisti: «L’Isis ha cercato di cancellare gli yazidi attraverso gli omicidi, la schiavitù sessuale, la schiavitù, la tortura e i trattamenti inumani e degradanti e i trasferimenti forzati, causando seri danni fisici e mentali; sono state inflitte condizioni di vita che conducono a una morte lenta; l’imposizione di misure per prevenire la nascita dei bambini yazidi, anche tramite le conversioni forzate degli adulti, la separazione degli uomini yazidi dalle loro donne e i traumi mentali arrecati; i bambini yazidi trasferiti dalle loro famiglie per essere affiancati ai combattenti dell’Isis, separandoli dalle loro credenze e dalla loro comunità religiosa».

L’estremismo islamista non è il solo

Sono stati numerosi i leader religiosi che hanno espresso preoccupazione per le sempre più frequenti violenze nei confronti delle minoranze religiose. Papa Francesco ha ripetutamente sottolineato quanto la situazione che numerose comunità cristiane si trovano ad affrontare sia una delle più tragiche e difficili nell’intera storia del cristianesimo. Di recente è stato il patriarca russo Kirill a esprimere forte preoccupazione per le persecuzioni nei confronti delle minoranze cristiane, soprattutto in Medio Oriente: «Siamo molto preoccupati per la situazione dei cristiani, semplicemente spazzati via dagli islamisti radicali, sono nostri fratelli e viviamo la loro tragedia come nostra».

Ma non sono solo i paesi nei quali si diffonde l’estremismo islamista l’oggetto della preoccupazione di molti. Ad esempio nel 2008 nello stato indiano dell’Orissa si sono perpetrati dei veri e propri massacri anticristiani: oltre cento morti, case e chiese distrutte e migliaia di sfollati. Secondo il rapporto pubblicato dal Catholic Secular Forum, un’organizzazione della società civile indiana, molte delle violenze verificatesi negli ultimi anni ai danni dei cristiani e delle altre minoranze religiose sarebbero da attribuirsi alla crescente influenza dell’ideologia Hindutva («induità») che non tollera la presenza di altre religioni in India. Questa ideologia sarebbe quindi il propellente per la diffusione di campagne d’odio, diffamazione e violenza ai danni delle minoranze.

Riguardo allo scottante dossier relativo alla Cina e ai suoi rapporti con i gruppi religiosi, basti ricordare che la leadership del partito comunista cinese si è ormai resa conto di come il tasso di conversioni (soprattutto al cristianesimo) abbia già ora la capacità di incidere in maniera sostanziale sul futuro politico (e religioso) del paese. Per questo, oltre a cercare a volte il dialogo con esponenti dei vari gruppi, la Cina mette in atto delle politiche centralizzatrici per porre in mano alla burocrazia ministeriale il controllo delle leadership religiose. Controllo che è ovviamente rigettato dalle comunità che vedono nella loro autonomia un principio da proteggere al fine di evitare eccessivi interventismi statali vissuti come veri e propri tentativi di strumentalizzazione della fede per fini politici.

L’Unione europea che fa?

I casi fin qui elencati sono soltanto alcuni: le violazioni gravi del diritto di libertà religiosa si susseguono giorno dopo giorno e il numero di vite mutilate a causa della fede aumenta. I rapporti delle organizzazioni inteazionali e di quelle non governative sono ormai molto specializzati e un’analisi attenta di questi testi permette di scoprire uno scenario che, purtroppo, è a tinte molto fosche.

Ci si potrebbe chiedere se vi siano stati dei tentativi di reazione utili a prevenire lo sviluppo di tali azioni da parte di stati o movimenti politici che ledono profondamente quello che dovrebbe essere un diritto garantito e riconosciuto a livello universale.

La protezione internazionale del diritto di libertà religiosa ha una lunga storia politica e istituzionale. Di recente anche le istituzioni europee hanno cominciato a interessarsi al tema, sia mediante l’azione del servizio europeo per le relazioni estee che fa capo all’Alto Commissario per la politica estera Federica Mogherini, sia tramite la creazione di un intergruppo parlamentare denominato European Parliament Intergroup on Freedom of Religion or Belief and Religious Tolerance.

Nel giugno 2016 l’intergruppo parlamentare ha reso pubblico un rapporto annuale sullo stato della libertà religiosa nel mondo che offre significativi spunti di riflessione al fine di ricostruire la posizione europea sul tema. Si lamenta innanzitutto l’assenza di coerenza tra i numerosi proclami delle istituzioni europee e le politiche e le azioni effettivamente intraprese, e inoltre l’ancora scarsa consapevolezza, da parte dei funzionari che si occupano della politica estera dell’Unione europea, della priorità che il tema della libertà religiosa dovrebbe avere nel contesto delle sue azioni.

Le critiche rivolte alle istituzioni di Bruxelles non devono sorprendere. Spesso infatti ci si limita alla pubblicazione di generici proclami di condanna delle violenze perpetrate ai danni delle minoranze religiose senza intraprendere delle vere e proprie azioni politiche (come ad esempio delle sanzioni commerciali) che possano segnalare concretamente il valore attribuito alla tutela del diritto di libertà religiosa.

La scelta è ovviamente discutibile: da una parte si vorrebbe che le sanzioni potessero scattare immediatamente per creare degli incentivi per quei paesi che utilizzano sistematicamente politiche discriminatorie ai danni delle minoranze religiose. Dall’altro un’azione diplomatica incisiva richiede spesso più tempo e un’azione che non sia necessariamente pubblica ed esplicitamente critica. È tuttavia da registrare, appena un mese prima la pubblicazione del report, la nomina di Jan Figel, ex primo ministro slovacco, a inviato speciale per la promozione della libertà religiosa e di coscienza. Figel ha già promesso iniziative concrete sul tema e sarà quindi da valutare nei prossimi mesi quali saranno i risultati che la sua azione raggiungerà.

E gli Usa che fanno?

A questi sviluppi europei deve associarsi quanto avviene negli Stati Uniti avvolti in un clima da campagna elettorale permanente che ha visto proprio il tema della libertà religiosa occupare una centralità nel dibattito per le elezioni presidenziali che non si registrava da anni. La proposta di Donald Trump, relativa al divieto di ingresso temporaneo negli Stati Uniti per i fedeli di religione musulmana, ha infatti generato molteplici reazioni e commenti particolarmente critici. Vi è innanzitutto da sottolineare il fatto che un paese come gli Stati Uniti che ha nella sua narrazione storica una posizione privilegiata per il diritto di libertà religiosa ha particolari difficoltà a recepire una proposta come quella avanzata da Trump. Tanto è vero che anche elettori tradizionalmente leali al partito Repubblicano, come i fedeli della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Gioi (i mormoni), hanno criticato con veemenza tale proposta, memori delle persecuzioni subite nel corso della loro storia proprio a causa della loro affiliazione religiosa. Tale proposta andrebbe poi ad aggiungere ulteriori elementi di incoerenza alla politica statunitense di promozione del diritto di libertà religiosa perseguita da Washington da molti anni.

Anna Su, in un recente volume pubblicato per Harvard University Press (Exporting Freedom. Religious Liberty and American Power), ha ricordato come il governo statunitense abbia sempre posto una particolare attenzione alla tutela di tale diritto, soprattutto nella prospettiva della tutela dei missionari cristiani. Ma come sarebbe possibile giustificare, quantomeno retoricamente, l’ergersi a paladini del diritto di libertà religiosa nel mondo, quando i propri leader politici, allo stesso tempo, propongono il divieto di ingresso nel proprio paese per i fedeli musulmani?

Le incoerenze non aiutano

Altre incoerenze restano comunque presenti nella politica degli Stati Uniti d’America. Tra queste è doveroso segnalare l’ambigua politica nei confronti del governo dell’Arabia Saudita resosi protagonista, anche di recente, di episodi di discriminazioni e violenze ai danni di alcune minoranze e che attua, da sempre, una politica profondamente discriminatoria nei confronti delle donne e della condizione femminile in generale. Anche nei paesi in cui non si riscontrano gravi violazioni, o vere e proprie persecuzioni religiose, permangono oggettive difficoltà rispetto a una piena tutela del diritto di libertà religiosa. Queste possono concretizzarsi in ostacoli all’apertura dei luoghi di culto o all’ottenimento della registrazione governativa al fine di regolarizzare la propria posizione o alla possibilità di fare propaganda del proprio culto.

Se tali difficoltà riguardanti le minoranze religiose si riscontrano all’interno dei paesi che intendono farsi paladini della tutela del diritto di libertà religiosa anche in altre parti del mondo (come avviene per l’Europa e gli Stati Uniti) nasce un problema di credibilità. Certo le difficoltà poste da un paese come, ad esempio, l’Italia, all’apertura di un luogo di culto non sono lontanamente paragonabili alla pianificazione dell’eliminazione sistematica di una minoranza. Ma cosa si sentiranno rispondere i governi occidentali quando andranno a chiedere più diritti per le minoranze religiose in paesi fortemente egemonizzati da una sola religione, sia essa l’induismo o l’islam?

Saremo noi europei, noi occidentali, in grado di dimostrare che la libertà religiosa è davvero un diritto di tutti e per tutti? La domanda che ci assilla, e alla quale saremo chiamati a dare un risposta anche in un futuro abbastanza vicino, è: «Crediamo davvero nella libertà religiosa?».

Dalla risposta concreta a questa domanda dipenderà il futuro di molti fedeli.

Pasquale Annicchino*

* Pasquale Annicchino, Adjunct Professor  of Law St. John’s Law School, New York, Research Fellow European University Institute, San Domenico di Fiesole. Autore del volume Esportare la Libertà Religiosa. Il Modello Americano nell’Arena Globale, Il Mulino, Bologna, 2015.




Accoglienza piccoli numeri grande efficacia


Nello scorso numero abbiamo raccontato dei migranti del Cas di Alpignano (Torino),  dell’appartamento di Porta Palazzo, in centro città, che ospita ragazzi afghani e del rifugio diffuso, cioè presso le famiglie. Continuiamo il racconto, cercando di fare un po’ di chiarezza sull’accoglienza ordinaria e sui famosi 35 euro al giorno per migrante, sui tipi di protezione internazionale e sui professionisti che lavorano in questo settore.

Cominciamo con una fotografia della situazione al 20 settembre 2016: secondo i dati del ministero dell’Inteo, i migranti sbarcati sul territorio italiano nel 2016 sono stati oltre 130 mila, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso ma meno rispetto al 2014. Nei centri di accoglienza si trovano 158 mila persone, di cui 740 negli hotspot, 13.700 nei centri governativi di prima accoglienza (Cara, Cpsa, Cda), 22.192 nei 430 centri governativi di seconda accoglienza (Sprar) e 120 mila negli oltre tremila centri temporanei come i Cas (Centri di accoglienza straordinaria), gestiti attraverso bandi dalle prefetture e collocati in spazi che vanno dall’appartamento alla struttura alberghiera.

Gli esempi di mala gestione che guadagnano le prime pagine dei giornali riguardano soprattutto i Cas, centri temporanei nati dalle ceneri dell’Emergenza Nord Africa del 2011: nonostante questi ospitino oltre tre quarti dei richiedenti asilo, si legge nel «rapporto InCAStrati» pubblicato nel febbraio 2016 dalle associazioni Cittadinanzattiva, Libera e LasciateCIEntrare, «non esiste una mappa pubblica dei Cas e non sono a disposizione informazioni chiare e accessibili sui gestori, convenzioni, gestione economica e, soprattutto, rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto». È questa opacità che rende possibile mascherare di accoglienza quello che è semplice business: dall’albergo che, come struttura turistica, non guadagna più e che si ricicla in veste di Cas foendo posti letto ma non i servizi ai richiedenti asilo, fino alle strutture fatiscenti, sovraffollate e prive di servizi igienici i cui gestori si intascano i 35 euro abbandonando i migranti a se stessi.

Da dove vengono e dove vanno i 35 euro?

A proposito dei 35 euro, il rapporto «La buona accoglienza» della Fondazione Leone Moressa di Mestre, del gennaio 2016, dettaglia i costi coperti con questa cifra analizzando i preventivi dei progetti Sprar presentati dai comuni al ministero: su 34,67 euro di costo pro capite giornaliero, 13,16 vanno in costi del personale, 4,30 in oneri relativi all’adeguamento e gestione delle strutture, 8,24 in spese generali per l’assistenza, 2,15 in spese relative ai servizi di integrazione, 1,31 in consulenze (ad esempio quelle legali), 0,30 in costi indiretti e 5,21 in altre spese. Volendo essere più precisi, si può confrontare queste voci di spesa con il modello di preventivo, facilmente reperibile sul sito Sprar, che gli enti devono presentare per ottenere l’affidamento dell’incarico: il pocket money dato ai richiedenti asilo, pari a circa due euro e mezzo al giorno, fa parte delle spese generali per l’assistenza, insieme a vitto, salute, trasporti, scolarizzazione e alfabetizzazione. Le spese per l’integrazione comprendono, fra le altre voci, i corsi di formazione, le borse lavoro e i tirocini. I costi indiretti sono il carburante, la cancelleria e l’allestimento degli uffici, mentre le generiche «altre spese» sono i costi di formazione, trasporto, assicurazione del personale, fideiussioni, spese per pratiche burocratiche come il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, le tessere telefoniche per gli accolti. Questo modello di preventivo nasce per l’accoglienza ordinaria nei centri governativi; il costo di 30-35 euro, a cui si giunge attraverso gli standard Sprar, si estende poi all’accoglienza straordinaria.

Le ricadute sul territorio dell’accoglienza fatta bene

«Quando gli enti gestori foiscono veramente i servizi previsti, il vantaggio non è solo per i richiedenti asilo: si crea anche un effetto di restituzione al territorio». A parlare è Davide Bertello, responsabile della cornoperativa Pietra Alta Servizi che gestisce diversi progetti fra cui quello al Cas di Alpignano (vedi puntata precedente). A Lemie, paesino a cinquanta chilometri da Torino, la cornoperativa gestisce un altro centro d’accoglienza all’interno di una struttura di proprietà del Cottolengo. «Lì abbiamo assunto sei operatori, tutte persone della zona», spiega Bertello, «ci serviamo nei negozi di alimentari locali, ricorriamo a elettricisti e idraulici del posto».

Nel 2015 la spesa prevista dal Viminale per l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano è stata di un miliardo e 164 milioni di euro, pari a circa lo 0,14 per cento della spesa pubblica. Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia e delle Finanze, ha riferito al «Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione» la cifra complessiva, che considera anche le operazioni di salvataggio in mare, le spese sanitarie e quelle per l’istruzione dei migranti, costi sostenuti da enti diversi dal ministero dell’Inteo. La spesa totale, nei dati del Mef, è pari a 3,3 miliardi per il 2015 e altrettanti (stimati) per il 2016, di cui i costi per l’accoglienza rappresenterebbero la metà, cioè circa un miliardo e seicento milioni. Se tutti gli enti gestori fossero «virtuosi», questa cifra toerebbe per la maggior parte sul territorio sotto forma di stipendi, affitti, acquisti di beni e servizi.

Ulteriore ricaduta è quella legata ai tirocini formativi per i migranti: ad esempio al Cas di Alpignano, riferisce Fabrizio, operatore del centro, ne sono partiti undici, sostenuti dalla cornoperativa Pietra Alta con trecento euro al mese per venti ore settimanali, mentre l’azienda paga i costi assicurativi e i versamenti Inail. Ad oggi, due dei richiedenti asilo lavorano nella manutenzione delle scuole, cinque in alcuni ristoranti di Torino come aiuto cuoco, due in aziende agricole, uno in un vivaio e uno in un negozio di conserve e olio.

Gli ostacoli all’accoglienza fatta bene

Il punto è che, data la poca chiarezza sugli enti gestori lamentata nel rapporto InCAStrati, è difficile quantificare l’accoglienza fatta bene. Il sistema governativo, o Sprar, è riconosciuto come il più efficiente perché ha meccanismi di affidamento e rendicontazione più rigorosi. Nelle parole, riportate da Vita.it, del prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, «i Cas vanno eliminati, trasformandoli man mano in Sprar, progetti dove i capofila non sono privati ma i Comuni». Ma la partecipazione dei comuni è del tutto volontaria e, nell’ultimo bando, due su cinque dei posti Sprar disponibili sono rimasti vuoti. Segno che i comuni faticano ad aderire.

Il risultato, paradossale, è che magari in quei comuni i richiedenti asilo arrivano lo stesso, proprio nei Cas gestiti da privati e enti vari. «E così la comunità locale si trova una specie di astronave che atterra sul suo territorio», racconta Davide Bertello: decine, a volte centinaia di persone che vengono letteralmente catapultate in un quartiere, in un paese, senza essere state preparate a entrare in relazione con gli abitanti del posto e senza che questi siano pronti a riceverle, perché nessuno ha fatto un lavoro di mediazione.

La mediazione è fondamentale

Jacqueline è originaria dell’Africa Occidentale, fa la mediatrice interculturale e collabora con diversi enti che si occupano di accoglienza. «Che cosa risponderei a chi pensa che questo lavoro lo facciamo solo per i soldi?», dice con un sorriso un po’ amaro. «Credimi, se lo facessimo per quello non reggeremmo a lungo le dieci, quindici ore al giorno che ti capita di lavorare e la responsabilità umana che hai quando una persona che assisti ti chiama di notte in lacrime». Il ruolo del mediatore interculturale, continua Jacqueline, è quello di permettere agli italiani e ai migranti di conoscersi e magari di capirsi. Inoltre segue i migranti assistiti nelle procedure sanitarie e legali e garantisce un accompagnamento – anche se non di tipo psicologico – alle persone che hanno subito traumi dovuti alle violenze nel paese d’origine e durante il viaggio verso l’Italia.

Traumi come quelli patiti da Peter (nome di fantasia), che stava dormendo quando i terroristi di Boko Haram, una notte del gennaio 2014, sono arrivati nel suo villaggio nel Nord Est della Nigeria e hanno iniziato a sparare, distruggere e incendiare. Hanno preso lui per mostrare agli altri abitanti del villaggio che cosa sarebbe successo a chi si rifiutava di farsi reclutare, gli hanno colpito la mano con una pietra da mortaio fino a rompergli le ossa. Si è risvegliato nell’ospedale di una cittadina vicina, dove ha trovato due dei suoi figli, mentre della moglie e della figlia più piccola non ha avuto notizie. Durante tutto il suo racconto, che va dalla notte dell’attacco all’arrivo in Italia passando per la Libia, resta calmo e lucido; cede soltanto al ricordo dell’umiliazione subita in Libia quando, cercando lavoro per poter sopravvivere insieme ai due bambini che ha portato con sé, si è sentito rispondere: «Come fai a lavorare, tu? Sei solo uno storpio senza una mano». Arrivato in Italia nel giugno del 2015, ora ha ottenuto il ricongiungimento familiare con la moglie e la figlia, che – come ha saputo solo mesi dopo l’attacco al villaggio – erano riuscite a mettersi in salvo ed erano poi state trasferite, insieme ad altri del villaggio, in un campo rifugiati in Niger.

La preparazione per l’audizione in Commissione

«Un altro degli impegni a cui cerchiamo di fare fronte è proprio quello di mettere persone come Peter in condizioni di fare una descrizione chiara alla Commissione territoriale, che valuta la loro richiesta d’asilo», spiega ancora Jacqueline. Di questa descrizione chiara fanno parte, oltre che un racconto comprensibile e circostanziato, le prove da presentare alla Commissione, ad esempio le verifiche sanitarie che dimostrano le violenze subite.

«Questo è un lavoro fondamentale», insiste Davide Bertello. «È assurdo che una persona rischi di avere un diniego perché non è riuscita, magari a causa dell’emotività, a spiegare bene quello che le è successo». «E no – risponde Davide a domanda diretta – non facciamo da suggeritori. Anche in questo un ente gestore serio fa la differenza: aiuta i richiedenti asilo a capire che l’unica cosa che davvero conviene è dire la verità. Noi ascoltiamo le loro storie e li sproniamo a spiegarci meglio le parti lacunose e non credibili. E non ci chiediamo se hanno o meno diritto a una forma di protezione: questo non spetta a noi deciderlo, ma alla Commissione territoriale». Anche perché stabilire «chi ha diritto e chi no» non è per niente semplice e richiede una valutazione attenta delle singole situazioni. Le equazioni «persona in fuga dalla guerra uguale rifugiato che può rimanere in Italia, persona che non viene da zone di guerra uguale migrante economico che deve tornarsene al suo paese» sono semplicistiche. Vi sono infatti due tipi di protezione internazionale: la prima prevede il riconoscimento dello status di rifugiato a chi rischia di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, mentre la seconda riconosce il diritto alla protezione cosiddetta sussidiaria, di cui può beneficiare chi non rischia una persecuzione ma corre comunque il rischio effettivo di subire un grave danno se rientra nel proprio paese. Vi è poi la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Qualche storia per capire

Per farsi un’idea, è utile leggere alcune decisioni delle Commissioni territoriali e ordinanze dei tribunali ordinari nei casi di impugnazione. Se ne trovano raccolte dal sito meltingpot.org. Solo per citae alcune: la Commissione ha riconosciuto lo status di rifugiata a una cittadina nigeriana di Lagos vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale perché c’era un effettivo rischio di persecuzione per la donna, mentre il Tribunale di Bari ha accolto il ricorso contro il diniego della Commissione presentato da un cittadino pachistano, riconoscendolo come rifugiato perché omosessuale e cittadino di un paese dove l’omosessualità è reato. Ancora, il tribunale di Genova ha accordato la protezione sussidiaria a un cittadino del Gambia, perché il giovane è figlio di un oppositore torturato e ucciso in prigione e lui stesso era stato arrestato, riuscendo poi a fuggire dal carcere; il rientro in patria lo esporrebbe, secondo il giudice, al rischio di subire un danno grave. Un suo connazionale, un tecnico informatico arrestato per aver consultato un sito web vietato perché critico nei confronti del governo, si è visto invece riconoscere lo status di rifugiato dal Tribunale di Lecce. Infine, due cittadini del Bangladesh hanno ottenuto dal Tribunale di Trieste la protezione umanitaria: il giudice nella decisione ha tenuto conto di una serie di elementi, fra cui la situazione di «violenza indiscriminata nel paese d’origine, la giovane età e la peculiarità della vicenda».

Aumentano dinieghi e ricorsi

Ad agosto 2016 le venti Commissioni territoriali, più le sezioni, avevano respinto oltre il sessanta per cento delle richieste. I ricorsi, che danno diritto ai richiedenti asilo a restare sul territorio italiano in attesa delle sentenze, sono aumentati di altrettanto, intasando i tribunali ordinari a cui spetta l’esame. A detta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, i ricorsi accolti sono stati pochissimi ma altre fonti, secondo le quali le Commissioni territoriali giudicano in modo troppo superficiale, parlano invece di un alto numero di ricorsi accolti dai Tribunali proprio a riprova del cattivo operato delle Commissioni.

Quel che è certo è che i tempi si allungano: ad agosto la durata media di un procedimento di primo grado era di 167 giorni ma, rispetto ai quindicimila ricorsi presentati, le sentenze erano meno di mille. E qualcuno avanza anche dubbi sull’effettiva preparazione dei giudicanti sulle realtà di provenienza dei richiedenti asilo. Vie Di Fuga, l’osservatorio permanente sui rifugiati legato all’Ufficio Pastorale Migranti di Torino, riportava nel 2105 uno studio di Ecre – European Council on Refugees and Exiles in cui si discutevano, fra l’altro, le fonti di informazione sui paesi d’origine dei richiedenti asilo utilizzate dai vari enti europei che valutano le domande. Per quanto riguarda l’Italia, i risultati lasciano perplessi: le Commissioni territoriali raramente menzionano queste fonti, mentre i tribunali – che invece le indicano più spesso – citano anche siti come Viaggiaresicuri del ministero degli Esteri, che però è pensato per gli italiani, turisti o lavoratori, che devono intraprendere un viaggio all’estero e contiene informazioni di «dubbia pertinenza con l’ambito della protezione internazionale».

Chiara Giovetti




Perdenti 19: Jan Palach


FO00101939Il 16 gennaio 1969 Jan Palach, giovane studente della facoltà di filosofia dell’Università di Praga, si diede fuoco nella centralissima Piazza San Venceslao per protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia che pose fine alla Primavera di Praga di Alexander Dub?ek, ovvero al tentativo di rendere più umano il socialismo imposto dai sovietici dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un mese dopo, un altro studente, Jan Zajíc, seguì il suo esempio, anche lui in Piazza San Venceslao. Nel mese di aprile a darsi fuoco fu Evel Plocek, nella cittadina di Jihlava. In quei mesi almeno una decina di giovani cecoslovacchi fecero altrettanto. La ferrea censura comunista impedì alla stampa internazionale di accedere ai luoghi ove erano avvenuti i loro sacrifici. Ricordarli significa onorare la memoria di giovani martiri che offrirono la vita per la libertà del loro paese.

Jan, sono in difficoltà con questa intervista perché tu e i tuoi compagni rappresentate un esempio di amore, non solo per la patria, ma per la libertà. Un amore che vi ha spinti a sacrificare la vita per la vostra terra e il vostro popolo.

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 entrarono i carri armati sovietici nella capitale del mio paese mettendo fine alla cosiddetta «Primavera di Praga», ovvero al tentativo di Alexander Dub?ek, capo del governo, di avviare una timida, ma innovativa, transizione dal socialismo reale a una forma più partecipativa della gestione pubblica. L’Unione Sovietica, come aveva fatto in precedenza in Ungheria (1956), intervenne a troncare l’esperimento per paura che contagiasse altri paesi satelliti.

Ci puoi spiegare perché hai scelto di sacrificarti in quel modo?

Volevo scuotere la coscienza del mio popolo per spezzare il clima di rassegnazione che imprigionava la gente in una resistenza puramente morale, intima, con il tempo destinata ad assuefarsi e a riassorbirsi nella routine quotidiana e nei suoi compromessi inevitabili.

Il tuo gesto estremo, quindi, è stato dettato dalla situazione stagnante che rischiava di addormentare la coscienza collettiva di un’intera comunità. Il tuo non era un suicidio per disperazione, non era una resa alla dittatura, era piuttosto un’eclatante azione offensiva, non è forse così?

Certamente è così. La gente della Boemia, della Moravia, della Slovacchia, col passare del tempo non sperava più che qualcuno venisse dal di fuori a liberarli dal giogo sovietico, in una certa misura maturava a livello collettivo la presa di coscienza che, per riacquistare la libertà perduta, ci si dovesse in qualche modo ribellare.

Nessuno cercò di dissuaderti?

Un tranviere fu il testimone diretto della mia immolazione: egli mi guardava mentre inzuppavo gli abiti di benzina. Appena accesi il fiammifero e il fuoco divampò verso il cielo, egli si tolse il cappotto e me lo gettò addosso nel tentativo di spegnere le fiamme.

Il tuo può essere considerato il gesto estremo di un soldato che si sacrifica per gli altri esortandoli a battersi fino alle estreme conseguenze, come del resto riconobbe lo stesso presidente Ludvík Svoboda.

L’opinione pubblica, sia quella nazionale che quella internazionale, non vide nel mio gesto un atto disperato, anzi molti lessero quello che io avevo fatto come il tentativo di riportare la mia terra nell’alveo dei paesi democratici. L’aver combattuto contro l’occupazione nazista e l’aver riconquistato e riassaporato la libertà non poteva avere un epilogo così triste come quello di entrare a far parte dei paesi satelliti dell’Urss.

Non fu neppure una rinuncia a quel dono immenso di Dio che è la vita, come riconobbe anche il Vaticano con un articolo apparso sull’Osservatore Romano.

Del resto le piccole nazioni, come sempre avviene, devono sottostare alla logica della real politik delle grandi potenze.

Verissimo! La storia si ripete senza fantasia, nel 1938 le super potenze dell’Occidente avevano abbandonato la Cecoslovacchia alla Germania nazista e, dopo aver lottato contro l’occupazione tedesca, accogliendo con sincera gratitudine l’Armata Rossa che era entrata nella mia terra per liberarla dal giogo nazista, si trovava catapultata dalla padella alla brace.

Eppure la Cecoslovacchia faceva parte di quel mondo culturale mitteleuropeo che aveva saputo dare nei secoli un’impronta originale alla storia del nostro continente.

Con gli accordi di Yalta, nella spartizione del mondo, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale collocarono la Cecoslovacchia tra i paesi gravitanti nell’orbita dell’Urss. La cortina di ferro, da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, divideva in due l’Europa.

All’ospedale, mentre ti prestavano le prime cure riservate ai grandi ustionati, trovarono una lettera tutta bruciacchiata, ma abbastanza leggibile, ove erano evidenziati i motivi del tuo gesto, cosa avevi scritto?

Su dei fogli di un quaderno a righe avevo scritto: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari pronti a immolarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni un’altra torcia si infiammerà».

In quel periodo anche parecchi monaci buddisti si erano dati fuoco per protestare contro l’interminabile guerra del Vietnam. Il loro esempio ti ha ispirato?

Sì, è vero, all’interno dell’Università Carlo IV di Praga parecchi miei coetanei non erano rimasti insensibili al loro martirio. Se i monaci buddisti si sacrificavano dandosi fuoco per richiamare l’attenzione del mondo sulla tragedia che il loro paese stava vivendo, in un certo qual modo bisognava che pure qualcuno in Europa si sacrificasse per richiamare l’attenzione su quello che la dittatura sovietica stava facendo al mio paese.

Il tuo sacrificio molti lo accostano al suicidio di Jan Masaryk, figlio del fondatore della Repubblica, trovato morto ai piedi della finestra da cui si era gettato (o era stato scaraventato?).

Purtroppo la storia del mio paese è ricca di tragedie simili, dalle defenestrazioni di Praga contro gli hussiti, a quella del 1618 che scatenò la Guerra dei Trent’anni, a quella dell’epoca modea, messa in atto contro Jan Masaryk nel 1948, alla vigilia del colpo di stato attuato dai comunisti per impadronirsi del potere.

Come te, altri giovani si immolarono per la libertà, ma l’implacabile macchina di occupazione sovietica non si fermò di fronte a queste tragedie.

I sovietici furono molto abili nel presentarsi come normalizzatori dello status quo ricordando al mondo intero che le decisioni prese dai grandi alla conferenza di Yalta non potevano essere messe in discussione. Doveva prevalere la dottrina delle due superpotenze che controllavano le loro rispettive aree mondiali di influenza.

 

I funerali di Jan Palach, nonostante gli impedimenti messi in atto dal regime cecoslovacco e dalle truppe sovietiche, furono una grande manifestazione di dolore per tutto il paese. La salma del giovane studente di Praga fu esposta all’Università Carlo IV, dove per due giorni ininterrottamente convenne una folla sterminata proveniente da tutte le province. La bara fu portata al cimitero, lì il decano della facoltà di filosofia pronunciò un fermo discorso davanti al feretro: «La Cecoslovacchia sarà un paese democratico soltanto quando il sacrificio di un suo figlio non sarà più necessario». Sulla facciata di un teatro, ove passò il corteo funebre, venne scritta a grandi lettere la famosissima frase di Bertold Brecht: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi». Al funerale partecipò una folla immensa di persone, studenti, operai, il corpo accademico universitario al completo, gente umile e semplice giunta nella capitale per vivere da protagonista – nel ricordo del sacrificio di Jan Palach – una giornata memorabile della storia del loro paese.

Don Mario Bandera




Mennea freccia bianca libera e testarda


Dopo le polemiche sulle mancate Olimpiadi a Roma, ricordiamo Pietro Mennea, un mito dell’atletica mondiale, ma anche un grande uomo, troppe volte incompreso.

«Non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere e vogliamo concorrere per organizzare le prossime Olimpiadi del 2020», mi disse una volta Pietro Mennea (1952-2013) non tanto tempo prima di andarsene da questo mondo. Allora c’era il governo Monti (che, nel febbraio 2012, disse no ai giochi olimpici, ndr) e i businessmen dello sport non ebbero nemmeno il coraggio di «buttarla in politica» come oggi con la sindaca Virginia Raggi, anche se vecchi «attrezzi» del settore come l’ex presidente del Coni e presidente del comitato organizzatore di Roma 2020, Mario Pescante, non seppero trattenersi dal farlo, dimenticandosi che Mennea, dopo la miracolosa e commovente rimonta fatta a Mosca nell’80, le Olimpiadi le amava come nessun altro, perché erano diventate l’esempio della sua capacità di non darsi mai per vinto.

Il fatto è che i giochi, chi li ha disputati e li ha vinti, li rispetta, mentre chi dello sport si è occupato solo a parole li vede esclusivamente come una possibilità di speculazione, spesso spudorata (basti pensare al recente fallimento economico della Grecia di cui l’Olimpiade del 2004 è stata una delle cause scatenanti).

Pietro, quella volta, dopo aver espresso con coraggio la sua opinione, come sempre, lasciò cadere la polemica. Non ne valeva la pena. L’uomo era fatto così.

Era testardo, rigoroso e dalla memoria lunga. Per questo non era simpatico a molti critici e giornalisti, ma certamente è stato uno dei più grandi campioni sportivi di cui l’Italia abbia potuto vantarsi, per la coerenza e per l’esempio di sacrificio che ha scelto di perseguire in tutta la sua carriera.

Mennea era un figlio del Sud, un campione di corsa che spesso non aveva neanche una pista per allenarsi e che, però, ha saputo smentire, nella sua attività di velocista, tutti i luoghi comuni su di lui (antipatia, diffidenza, struttura fisica inadeguata) anche quelli espressi dai più esperti.

Gianni Brera, uno dei più competenti fra noi giornalisti, scrisse di lui: «Un fiore prodigioso sbocciato nella confusa giungla del nostro ethnos depauperato in troppi secoli di stenti e di umiliazioni».

Il tempo si è incaricato di spiegarci che il grande Giuan si sbagliava sui limiti fisici concessi dalla natura a noi italiani, specie quelli del Sud. Ma il primo a smentirlo fu quel ragazzo di Barletta un po’ «stortignaccolo» che puntava tutto sulla sua caparbietà e sulla predisposizione al sacrificio negli allenamenti imposti dal suo mentore, il professor Carlo Vittori. Mennea soffriva per quell’incomprensione dei giornalisti e anche, talvolta, per la sua timidezza dialettica che non gli permetteva, sempre, di rispondere per le rime a tanti presuntuosi. Rimediava comunque sempre con i risultati fin da quando, a vent’anni, nelle tragiche Olimpiadi del ’72 (segnate dal sangue del terrorismo) aveva vinto la medaglia di bronzo dietro il fuoriclasse russo Valery Borzov e al nordamericano Larry Black.

Il suo orgoglio gli avrebbe permesso di prendersi la rivincita sullo zar russo agli Europei di Roma ’74 e successivamente di trionfare a Praga ’78.

Eppure, solo due anni prima, alle Olimpiadi di Montreal, dove Mennea era arrivato «solo quarto», anche il grande Giovanni Arpino su La Stampa, non era riuscito a evitarsi questo commento: «Mennea passeggia scheletrico, le orbite troppo grandi nel verde rasato e fortificato del villaggio».

Per fortuna, si erano poi incaricati definitivamente di dare a Mennea quello che era di Mennea prima il suo record del mondo sui 200 metri (un fantastico 19’ 72”) alle Universiadi di Città del Messico (il 12 settembre del 1979) e poi la prodigiosa rimonta sull’inglese Allan Wells nell’Olimpiade di Mosca ’80 che gli valse la medaglia d’oro.

Basterebbero questi ricordi per rendere indiscutibile il fatto che Pietro Mennea è stato il più prestigioso atleta dello sport italiano. Ma la sua puntigliosa abitudine di non allinearsi con l’apparato, non gli permise mai di godere della gratitudine che aveva ampiamente meritato, né del riconoscimento della sua eccellenza intellettuale. Questo avvocato laureato anche in scienze politiche, lettere e scienze dell’educazione motoria, non fu mai preso in considerazione, per esempio, per un qualunque incarico nell’ambito dello sport italiano. Anzi, una volta fu pure squalificato per tre mesi (anche se in inverno, quando in Occidente non ci sono gare) dalla Fidal, la Federazione italiana di atletica leggera, perché, ormai stanco per un’annata lunga e snervante, si era negato, d’accordo con il professor Vittori, a una touée elettorale voluta a fine stagione dal presidente Primo Nebiolo, il creatore dell’atletica-spettacolo che reputava quel viaggio fondamentale per la sua rielezione a presidente della Federazione mondiale.

L’anno successivo, il prodigioso 1979, dovette intervenire Luca di Montezemolo, presidente della Sisport, società presso la quale Pietro era tesserato, per evitare a Mennea, che aveva già programmato il suo tentativo di record alle Universiadi, di doversi spremere anche per la solita touée. Un uomo cocciuto, conscio dei suoi diritti, dai quali non voleva derogare: «A distanza di tempo, con il senno di poi, posso serenamente dire – mi ha spiegato una volta Pietro – che quel contrasto nasceva da una questione antica: il confine nella vita di un atleta fra appartenenza a una nazionale e l’appartenenza a se stessi. Tema delicato, complesso». Così ora so che quel giorno allo stadio universitario di Città del Messico ho assistito a un evento storico per davvero. Non è un caso che io fossi al seguito di Mennea quel giorno memorabile, quel giorno in cui mia figlia Marianna, che ora è una manager affermata proprio in Messico, si fece scappare i lacrimoni (aveva cinque anni) e non volle salire sul podio con Pietro, come aveva fatto invece nei giorni precedenti alla premiazione delle staffette.

Dopo Muhammad Ali (il suo ritratto su MC di maggio 2016, ndr) seguivo sistematicamente Mennea perché, a suo modo anche lui era fuori dagli schemi, da come i giornalisti vorrebbero che i campioni del nostro tempo fossero, obbedienti, conformisti anche quando si tocca la loro libertà personale e al servizio, sempre, delle esigenze dei mezzi di comunicazione. Muhammad Ali e Mennea furono salvati dai risultati, altrimenti sarebbero stati masticati e sputati via come Maradona, quando non è stato più in grado di vincere e quindi di essere utile al mercato dell’informazione.

Per capire la sua caparbietà, ricorderò un’esperienza personale. Una volta, per un reportage commissionatomi dalla Rai, riunii su una spiaggia della Califoia, Mennea con il leggendario Tommie Smith (quello della protesta, con il pugno nero guantato, alle Olimpiadi di Messico ’68) e Steve Williams, sprinter dotatissimo, ma amante della bella vita. Ad un certo punto, Tommie e Steve, uno per parte, alzarono Pietro da terra per far vedere quanto era più piccolo di loro: la differenza era di una spanna, una spanna più che compensata dalla sua caparbietà. Eppure, molti tentarono più volte di sbiadire il suo valore: «Il record di 19’ e 72” – pontificavano costoro – lo ha stabilito correndo in altura». Non tenevano in conto che lo stesso Smith recordman prima di Pietro (19’ e 83”) aveva corso la distanza nello stesso stadio universitario di Città del Messico. Il record di Pietro fu poi battuto da Johnson ad Atlanta nel ’96. Aveva resistito per 17 anni.

Mennea era un uomo schivo e perbene che scriveva libri di giurisprudenza sportiva e, specie quando fu eletto al Parlamento europeo, lavorò molto per lo sport e il bene comune. Era un uomo curioso e, al contrario di quello che pensano molti, spiritoso e ironico. Una volta mi raggiunse a Las Vegas, dalla Califoia, insieme a Steve Williams, Ray Sugar Robinson e Nino Benvenuti per conoscere Cassius Clay-Muhammad Ali. Un mito vero che quella sera, sulla via del tramonto nel penultimo match della sua vita, aveva perso contro Larry Holmes, il suo ex sparring partner. «Questa è la vita» aveva commentato Pietro ad Ali che si era stupito vedendolo bianco e apparentemente fragile. «Sono bianco, ma nero dentro, nel cuore», aveva ribadito Mennea.

Gianni Minà

 




Allamano santi missionari

Il mese di novembre si apre con la solennità di “Tutti i Santi”, e prosegue con altre celebrazioni rivolte alla santità. Il padre fondatore beato Giuseppe Allamano ripeteva ai suoi missionari e missionarie: «Ricordatevi che l’opera della missione esige grande santità. Non basta una santità mediocre, perché è la continuazione della missione di Nostro Signore Gesù Cristo, degli apostoli e dei santi missionari. Questa vocazione vi eleva sopra i cristiani, i religiosi, gli stessi sacerdoti dei nostri paesi, ai quali non è dato far conoscere e amare Dio da tanti che mai l’avrebbero potuto conoscere e amare». All’eccellenza di questo apostolato deve corrispondere una santità maggiore a quella dei consacrati e religiosi con altre attività pastorali.

Questa raccomandazione della santità ai missionari è stata richiamata anche dai papi del nostro tempo. Per Giovanni Paolo II: «Vero missionario è il santo». Perciò, «ogni missionario è autenticamente tale se si impegna nella via della santità» (Redemptoris Missio 90-91). Paolo VI ribadisce che soltanto così si può annunciare Cristo in modo credibile. Infatti, l’evangelizzazione scaturisce dall’esperienza di Dio conosciuto e familiare. Ogni missionario deve poter dire: «Ciò che abbiamo visto, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi» (EN 76). Per questo «occorre suscitare un nuovo “ardore di santità” nei missionari e nei più stretti loro collaboratori». E ribadisce: «La rinnovata spinta verso la Missione esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e cornordinare meglio le forze ecclesiali. Occorre suscitare un nuovo “ardore di santità” nei missionari». Ciò rafforza l’insistenza del beato Allamano sulla necessità della santità per scegliere la vocazione missionaria e per «salvare il maggior numero di anime». Egli non si limita a raccomandare, ma insiste sulla qualità della santità: «Ricordatevi che l’opera della missione esige una grande santità. Non basta una santità mediocre, ci vuole gran santità. L’opera dell’apostolato è opera divina perché è la stessa missione di Nostro Signore Gesù Cristo, degli apostoli e dei santi missionari».

  1. Gottardo Pasqualetti